(Da A. Del Noce, Riforma cattolica e filosofia moderna, vol. I, Cartesio, Bologna, Il Mulino, 1965, pp. 28-29, 31-37).

Augusto DEL NOCE (1910-1989)

La polemica di Arnauld e di Malebranche nel suo aspetto teologico

Alcune premesse sono necessarie prima di accennare alle tesi di Malebranche sulla Predestinazione e la Grazia, che saranno poi meglio illustrate più volte nella loro necessità intrasistematica. Furono esse la ragione del crollo del suo sistema davanti alle critiche di Arnauld, di Bossuet e di Fénelon, obiettanti così in nome della tradizione, come, in particolare Fénelon, dell'effettiva esperienza religiosa - e ciò per la veramente eccezionale coerenza unitaria di questo autore, tale che non si può mettere da parte una tesi, senza che l'insieme crolli; è perciò un momento essenziale di quella crisi della teodicea che è la preparazione dell'Illuminismo.

Tanto infatti Malebranche è significativo dai punto di vista della teoria della conoscenza, della fondazione dell'occasionalismo, della teoria della libertà, della storia dell'idealismo, ecc., altrettanto è urtante, alla prima lettura, come scrittore propriamente religioso: al modo di rappresentare veramente il punto limite dell'insopportabilità della teodicea giustificativa e consolatoria, l'esemplificazione dell'ostacolo che tale teodicea oppone alla coscienza religiosa; non è possibile negare che la sua lettura ci faccia venire in mente Feuerbach, e intendere il suo relativo significato di verità; e ci riporti alla lettura del Bayle di Feuerbach. Per cercare di superare questa prima impressione, dobbiamo intendere come fossero per lui posizioni obbligate quelle che a noi sembrano tesi così lontane dall'esperienza religiosa vissuta, e che sembrarono tali anche ai suoi contemporanei.

Vi è, alla base, un aspetto che unisce Malebranche ai giansenisti, il pessimismo sociale, di cui si dirà più oltre; ma di cui già si può rilevare l'immancabile segno nella tesi del minimo numero degli eletti.

Vi è d'altra parte, in lui come in Leibniz, un vero terrore della predestinazione gratuita o dell'accezione delle persone che significherebbe una negazione in Dio della giustizia, della bontà, della saggezza, a favore della pura potenza. [...] Come dunque la volontà di Dio di salvare tutti gli uomini si concilia con l'esistenza di una massa dannata? È perché c'è, in certa guisa, un limite morale all'onnipotenza di Dio. Il che importa una certa subordinazione in Dio a un ordine di perfezioni; dunque un'almeno relativa, di fatto però pensata come reale, distinzione in lui di saggezza e di volontà. Da ciò l'ambizione del Trattato della Natura e della Grazia di intendere per vie razionali la natura del motivo della limitazione.

Questo principio generale è l'estensione al campo soprannaturale del principio della semplicità e della generalità delle vie divine. […]

Il principio della semplicità delle vie trova giustificazione per il mondo naturale nell'esistenza di leggi generali. Che esso sia valido anche per il mondo soprannaturale, si giustifica a priori, non potendo mai Dio smentire i suoi attributi, e a posteriori, per il fatto che la più grande parte dell'umanità è dannata nonostante l'infinita bontà divina.

Ora, ogni legge ha bisogno di una causa occasionale. La legge della distribuzione della grazia non può trovarsi nei corpi, non negli uomini, per quel che si è già detto, e neppure negli angeli a cui Dio ha dato di condurre il popolo ebreo, ma a cui non ha sottomesso la Chiesa. Non può quindi trovarsi che nel solo Gesù Cristo, come causa meritoria della Grazia (questa tesi ha riferimento a quella dell'Incarnazione come unico, necessario fine che giustifica la Creazione).

Cristo in quanto architetto del tempio eterno e capo della Chiesa “fornisce le occasioni” che determinano la Causa vera di tutti i beni a spandere nei cuori “questa celeste pioggia”. Ora, in quanto Gesù è uomo, “la sua anima non ha una capacità infinita” e “si ha ragione di pensare che vi sia in quest'anima santa una sequenza continua di pensieri e di desideri per rapporto al corpo mistico che essa forma incessantemente”, “e siccome i suoi desideri sono cause occasionali, le sue preghiere sono sempre esaudite: il Padre non gli rifiuta nulla, come c'insegna la Scrittura. Tuttavia occorre che preghi e che desideri per ottenere.

Per ciò che le cause occasionali, fisiche e naturali, non hanno per se stesse la potenza di far nulla, e che tutte le creature, e Gesù Cristo stesso considerato come uomo, non sono per se stesse che debolezze e che impotenza”.

La spiegazione, insomma, della scelta degli eletti nella filosofia di Malebranche deve essere riferita alla sua dottrina della necessità dell'Incarnazione e alla doppia natura divina e umana del Cristo. La scienza del Cristo come uomo ha dei limiti. Quali? In fondo il parere di Malebranche è che la conoscenza che Gesù Cristo ha come uomo non debba, per relazione alla teoria dell'Ordine, oltrepassare i limiti della conoscenza umana. E l'uomo non ha, dell'anima, che coscienza e non conoscenza.

Solo Dio è scrutatore dei cuori. Senza dubbio Gesù Cristo potrebbe avere conoscenza delle inclinazioni delle volontà umane se lo chiedesse al Padre. Ma ciò gli è vietato dall'Ordine: “io agisco come devo agire”, dice il Figlio nelle Méditations Chrétiennes, “consultando il Verbo in quanto Verbo, in quanto Ragione, in quanto Saggezza eterna, consultando l'Ordine di cui tu non hai che una conoscenza molto imperfetta. Se io regolassi i miei doni unicamente sulla conoscenza degli avvenimenti liberi, l'ordine della Grazia non sarebbe più degno della Saggezza infinita di Dio [...].

La mia condotta nella costruzione della mia Opera deve portare il carattere di una causa occasionale e di uno spirito finito, che per il diritto della sua Natura non penetra affatto i cuori, e non pensa attualmente a tutti gli eventi che dipendono dalle cause libere, al fine che Dio solo abbia tutta la gloria della mia Opera e che si ammiri eternamente la Saggezza infinita di colui che fa tutto attraverso i mezzi più semplici”. Tutte le apparenti ingiustizie che sembra si possano rilevare nella distribuzione della Grazia, dipendono quindi da ciò che Gesù non è e non può voler essere scrutatore dei cuori. Sembra uno strano romanzo teologico: queste singolari affermazioni si riescono a intendere soltanto a partire dalla tesi malebranchiana per cui la creazione non è manifestazione della bontà divina, ma ha invece riferimento a un fine: nel creare Dio cerca la sua Gloria. La filosofia cartesiana permette cioè il passaggio dall'antropocentrismo della bontà al teocentrismo della gloria; passaggio che rende possibile, esso solo, la giustificazione del male nel mondo.

Che cosa si deve ora pensare di questa singolarissima teologia?

La prima considerazione non può certo che riguardare la sua totale assenza di significato apologetico se l'apologista deve rendere, secondo la parola di Pascal, la religione “aimable”. Trova la sua antitesi radicale nelle religioni dell'umanità ottocentesche e per questo riguardo la critica di Sainte-Beuve ha un significato documentario estremamente notevole. Già vista come “chimerica” dagli illuministi, e il termine merita di essere ben definito, non ha poi resistito affatto alla sensibilità ottocentesca, ed è quasi totalmente scomparsa dalla considerazione degli storici.

Consideriamo ora le critiche che furono mosse da Arnauld. Non si può a suo giudizio parlare a rigore di predestinazione nella nuova teologia di Malebranche. Perché la predestinazione indica sempre un'accezione di persone, una preferenza particolare da parte di Dio, un suo atto eterno, in favore di certe persone per una buona volontà che egli ha avuto nei loro riguardi, con preferenza rispetto ad altre. Ciò avviene perché il principio della semplicità delle vie diventa in Malebranche una specie di fine assoluto cui Dio deve subordinarsi. Si potrebbe dire, anche se questa frase non si trova testualmente in Arnauld, che ritorni quell'asservimento di Dio allo Stige e ai Destini contro cui si era appuntata la critica di Cartesio.

Per questo unico fine di conformarsi dovunque e sempre alle leggi generali da lui stabilite, il Dio malebranchiano non vuole positivamente e direttamente nessuno degli effetti particolari che produce; vuole soltanto la volontà indeterminata di fare in ogni occasione ciò a cui lo determinerà la causa occasionale. Parlare altrimenti sarebbe parlare di Dio in modo indegno di lui, così che Malebranche si trova costretto a ridurre ad “antropologie” i passi della Scrittura in cui si parla di volontà particolari di Dio, cioè in pratica tutta la Scrittura. La sua tesi è che Dio non ha volontà particolare di salvare un certo eletto piuttosto che un altro e che se qualcuno si salva è che si è trovato preso in un insieme favorevole di cause e di effetti. Passiamo cioè da una concezione religiosa a una concezione in qualche modo razionalista e laica della predestinazione. L'eletto è tale perché è stato predestinato piuttosto che Dio l'abbia predestinato.

Tutto l'artificio del sistema consiste nel riferire a Gesù Cristo come uomo tutte le difficoltà che si trovano nella distribuzione della Grazia. Ora, anche a parte il fatto che Malebranche si fa di Gesù Cristo come uomo un'idea che misconosce l'unione ipostatica e il suo zelo per il genere umano, il suo carattere di Salvatore venendo infatti subordinato a quello di architetto del tempio spirituale, egli non trae da ciò alcun vantaggio perché le difficoltà che ha rilevato nel riguardo di Dio valgono identicamente nel riguardo del Cristo. Di più, la figura di Cristo viene sfigurata perché risulta sacrificata la sua carità.

Gesù potrebbe infatti salvare tutti gli uomini se volesse essere scrutatore dei cuori, ma ha preferito le maniere di agire che meglio possono far risaltare la sua abilità; intendendo salvare gli uomini attraverso i mezzi più semplici, al modo del pittore che ha creduto di dare prova sufficiente della sua abilità nel tracciare un cerchio senza compasso. Se approfittasse della conoscenza del segreto dei cuori la soluzione del problema sarebbe troppo facile; al mondo del Padre, anch'egli ama più le sue vie che le sue opere. Più ancora, il rifiuto dell'accezione delle persone finisce col mettere all'origine della separazione tra gli eletti e i dannati il principio più opposto a ogni volontà e a ogni ragione, cioè il caso.

Nel senso di un evento che non risponde a un disegno di una volontà intelligente, e che non è stato incluso a titolo di conseguenza necessaria in qualcosa di concertato. Si tratta qui di un tentativo curioso, da parte di Arnauld, di far passare la filosofia di Malebranche come un'inconsapevole ripresa dell'epicureismo; preoccupata di non rendere umana la Provvidenza divina, la nuova teologia sottomette l'essere sovrano alla necessità di leggi da cui risultano inevitabili irregolarità. Diretta alla distruzione della pagana idea di natura, di fatto assoggetta Dio a una fatalità che per quel che riguarda l'uomo si manifesta come caso.

Il tratto più significativo della critica di Arnauld è lo stupore contro un nuovo e imprevisto avversario: nelle bizzarre affermazioni di Malebranche si delinea una nuova linea di pensiero, di cui è vano cercare gli antecedenti: la sostituzione della “filosofia cristiana” alla teologia. Si delinea indipendentemente dalle intenzioni di Malebranche: perché queste stanno in una critica, che vorrebbe essere radicale, dell'arbitrarismo teologico, visto come l'asserzione che trasforma Dio in una volontà bizzarra, capricciosa e imperiosa e conferisce, tra i suoi attributi, il primato alla potenza rispetto alla saggezza; arbitrarismo che viene riferito, insieme, al protestantesimo, a Cartesio e al giansenismo, e che si manifesterebbe nel collegamento tra la predestinazione degli eletti e quella che da Malebranche e da Leibniz veniva detta, attraverso il richiamo a un passo dell'Epistola ai Romani, “l'accezione delle persone”; l'idea che Cartesio si fa della natura di Dio e il giansenismo, essendo repliche del protestantesimo entro il pensiero cattolico.

Le risposte di Arnauld hanno quindi un significato che è indipendente dalla specifica critica di Malebranche o più in generale dalla stessa teologia portorealista. Egli ha perfettamente visto che, tolta l'accezione delle persone nel suo senso giusto, tolta insomma quella scelta unica per cui Dio ha scelto di creare me e non semplicemente “un uomo di più”, tolto insomma quell'amore personale che fa scrivere a Pascal “io pensavo a te nella mia agonia, io ho versato queste gocce di sangue per te”, viene in realtà distrutto il rapporto religioso. Questa scelta personale e unica pone la differenza tra quel che sarà poi detto il Dio religioso nel riguardo del Dio filosofico; e ha connessione necessaria con quel tema della creazione per bontà, che è il fondamento dell'amicizia tra Dio e l'uomo (e difatti Malebranche, come si chiarirà meglio più oltre, è costretto a sostituire al tema del Dio che si glorifica nel creare per bontà, quello di Dio che cerca nella creazione la sua gloria).

Il gran torto di Malebranche è stato di non aver meditato il passo agostiniano “Quaeris tu rationem, ego expavesco altitudinem. Tu ratiocinare, ego miror. Tu disputa, ego credam. Altitudinem video, ad profundum non pervenio”, cercando delle ragioni ove Paolo ed Agostino non ne hanno trovate e ove anzi hanno motivato il loro rifiuto di cercarne. Egli ha rotto con tutta la tradizione nella misura in cui essa è concorde (S. Paolo, S.Agostino, S. Tommaso, ecc.) nell'affermare che i giudizi di Dio nella scelta degli eletti sono impenetrabili; ossia, se vogliamo usare il linguaggio di oggi, nell'affermare che non si può sostituire a proposito del male il mistero col problema, senza cadere in una posizione razionalistica in cui il cristianesimo va perduto.

Ha accusato i sostenitori della predestinazione gratuita di aver rappresentato Dio come volontà arbitraria, al modo di un grande della terra, da cui la potenza è preferita alla saggezza; e che perciò non può essere oggetto di amore. Ma la critica all'arbitrarismo può valere per Lutero e per Calvino, a giudizio dei quali, almeno secondo Arnauld, la volontà di Dio è la sorgente della giustizia e della bontà. Non ha senso nel riguardo del pensiero dei Padri che non distinguono in Dio, come fa Malebranche, tra l'intelligenza e la volontà. Nell'idea dell'essere infinitamente perfetto la volontà e la saggezza non differiscono. La dottrina dei Padri è che la volontà di Dio non è al di sopra della ragione e della giustizia, ma che essa è impregnata di ragione e di giustizia. La predestinazione, per essere gratuita, non è cieca.

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La distinzione quindi tra Malebranche e la tradizione sta in ciò che egli anziché passare, come pretende, al teocentrismo, sulla linea del Cardinale di Bérulle, ha “umanizzato Dio e lo ha misurato sulla mente umana; ed è stato di conseguenza costretto a servirsi delle Scritture come fossero un commento a una teologia razionale costruita a priori, e a usare con troppa facilità quella via esegetica che ne considera il linguaggio pieno di antropologie. Cercando, e qui è l'essenza di tutto il suo sistema, una ragione della predestinazione degli eletti che sia differente dalla volontà di Dio, egli parte già dal presupposto che in Dio, come negli uomini, volontà, saggezza e ragione possano differire.

Ma in simili errori non si può cadere senza un errore metafisico primo: quale? Esso si fa definitivamente chiaro ad Arnauld nei suoi scritti, tra l'agosto e il dicembre 1693. Malebranche è passato infatti dall'asserzione giustissima che i giudizi di Dio, per essere impenetrabili, non cessano di essere conformi alla ragione sovrana che è Dio stesso, all'altra del tutto diversa che essi non sono talmente impenetrabili che gli uomini, se li cercano in maniera conveniente, cioè facendo tacere i loro sensi e le loro passioni, non ne possano conoscere la ragione. Da un primo senso indubitabile e fondabile sull'autorità di S. Agostino è passato a un secondo che è del tutto inconciliabile con la Scrittura e con i Padri. Questo, Arnauld, l'aveva già scritto nelle Réflexions philosophiques et théologiques del 1685-86.

Ma è soprattutto negli ultimissimi scritti che egli intende la vera ragione per cui Malebranche si è trovato obbligato ai princìpi del Trattato della Natura e della Grazia. Per Malebranche non c'è che una sola Ragione, per partecipazione alla quale tutti gli uomini sono ragionevoli, mentre S. Tommaso ha perfettamente dimostrato come Dio ci illumini causaliter, in quanto causa efficiente che muove il nostro intelletto a conoscere la verità, ma non in quello che noi scopriamo la sua saggezza tamquam in objecto cognito come in uno specchio; la nostra ragione è per sua natura essenzialmente distinta dalla Ragione Divina. Non è egli l'autore di quello stupefacente libro che sono le Méditations Chrétiennes in cui il Verbo è introdotto a parlare il linguaggio della saggezza umana?

Ma di fatto non si può avere questa pretesa di partecipare al consiglio divino senza umanizzare l'intelletto di Dio stesso, senza confondere la nostra conoscenza con la sua; senza di fatto “commettre ses attributs”; senza cioè pensare i rapporti fra saggezza e volontà divina sul modello di quello tra conoscenza e volontà dell'uomo; senza supporre insomma che l'ordine ideale si imponga alla mente divina al modo stesso che alla mente umana? O insomma la critica definitiva che si può porre a Malebranche è quella di aver dimenticato la critica così tomista come cartesiana dell'univocità; egli ripete costantemente che il finito comparato all'infinito è nulla, ne fa anzi il principio della sua teodicea, ma non ne trae la conseguenza decisiva che nessuna qualificazione, neppure quella dell'essere, può venire attribuita univoce al creatore e alla creatura; e la conseguenza che ne discende è che il modo in cui Dio conosce vuole e si determina deve differire toto coelo dal nostro; e che si può in qualche modo intendere questa differenza, per riguardo all'unità assoluta che c'è tra tutte le operazioni e tutti gli attributi divini e che tutti li riduce a un solo atto semplicissimo che è l'essere stesso di Dio.

Ma se è così, la critica della teologia di Malebranche è insieme quella di ogni teologia speculativa, in quanto vuole sostituire la parola umana alla parola di Dio; e la radice delle bizzarrie teologiche di Malebranche non va cercata nel suo occasionalismo, né nella sua difesa della libertà umana (perché per quel che riguarda la libertà umana considerata in se stessa, c'è pieno consenso tra lui e Arnauld) ma in quella teoria della conoscenza che in Malebranche è immediata conoscenza della sua critica della teoria della libertà divina cartesiana.