'Io sono con voi fino alla fine del mondo'. Così ci disse Gesù in quella mattinata limpidissima, appena prima di salire al cielo.

Cristo è attualissimo, ha scelto di legarsi alle vicende di noi uomini, è nostro contemporaneo sempre!

Ecco perché in questa sezione ti offro, caro navigatore, materiale per i dibattiti più scottanti in atto.

 

l fondatore di Emmaus affronta i temi più scottanti dell' attualità: ‘Attentati come quello di Madrid possono avvenire ovunque. Ma dobbiamo tenere aperti entrambi gli occhi: uno per vedere il male, l'altro per ammirare la bellezza’

Abbé Pierre: guerre, veli e terrorismo

di Giovanni Anversa

 

Abbé Pierre, che significato ha la memoria per lei? Penso alle tragedie del '900...

È importante ricordare, e non ricordare soltanto il male. Io sono una di quelle persone che nel secolo scorso hanno vissuto la realtà delle due guerre: da bambino ho conosciuto parenti che durante la Prima guerra mondiale hanno subito mutilazioni e altre famiglie in cui il padre era disperso; durante la Seconda guerra mondiale, con tutti i disastri che ha portato con sé ho assistito alle deportazioni, ho visto persone che oltre ad essere deportate venivano costrette a lavorare per il nemico. Tutto ciò non va dimenticato, ma bisogna essere consapevoli che il passato non ci protegge per il futuro. Chi avrebbe mai pensato, alla fine del secolo appena trascorso, quando tutti erano pieni di speranze di pace, che qualcuno avrebbe tratto ancora orribile ispirazione da quei conflitti? Chi avrebbe mai immaginato che il nuovo secolo sarebbe stato segnato da un terrorismo peggiore della guerra? Perché in un conflitto lo sforzo è quello di avere forze pari a quelle del nemico, nella nuova situazione in cui si trova il mondo il nemico non è ben definito. È inafferrabile. Non ci sono mezzi logici per combatterlo. In qualsiasi momento quello che è accaduto a Madrid può succedere in altri Paesi, è un fatto imprevedibile; ma pur ricordando queste sciagure e in previsione degli attacchi di oggi non dobbiamo dimenticare che abbiamo due occhi. Se un occhio deve essere aperto coraggiosamente per vedere il male e per combatterlo, bisogna tenere aperto

l'altro per vedere la bellezza, i fiori che sbocciano di nuovo in primavera, il sorriso dei bambini. Vedere tutto quello che è bello: le stelle in una notte limpida e fredda in cui si può vedere lo splendore del cielo. Bisogna incoraggiare le persone a tenere gli occhi aperti e a guardare le bellezze meravigliose che ci possono appagare, ma nello stesso tempo avere anche il coraggio di guardare in faccia il male. A questo si devono preparare i giovani per essere in grado di capire qual è il loro ruolo.

Lei ha vissuto anche una stagione di impegno politico. Perché la politica oggi è sempre più lontana dalle persone?

Lei crede che gli uomini politici di oggi siano più lontani di una volta dalla gente? lo penso di no. Sono stato in Parlamento, è stato il periodo meno utile della mia vita perché non ero preparato e perché per rivestire una carica politica - compilo ingrato, contrariamente a quanto si pensa - bisogna avere il gusto del potere, di esercitare il potere, ma io non l'avevo. Ho conosciuto uomini ambiziosi che forse in fondo non pensavano che alla carriera, ma posso dire che la grande maggioranza dei miei colleghi dei vari partiti erano persone oneste, degne di stima, che cercavano davvero di fare del bene...

Chi è oggi un cristiano?

È colui che può avere il coraggio di dire "Padre nostro", con tutte le conseguenze che ciò comporta, con la certezza che noi siamo chiamati a essere figli dell'Eterno con le sue meraviglie, ma nello stesso tempo dicendo ‘Padre nostro’ riconosciamo di ave re il dovere nella vita di essere fratelli di tutti. Nei giorni scorsi è arrivata una lettera da lontano, dal Madagascar. Un amico di laggiù ci diceva: "Ho incontrato una ragazza che portava un bambino sulle spalle. Le ho detto: È un fardello molto pesante, e lei mi ha risposto: non è un fardello, è mio fratello. Tocca a noi ricordare sempre che quelli che frequentiamo e quelli che conosciamo devono essere trattati come fratelli. Essere cristiani è soprattutto questo. Ed è poi sapere che Dio è unico ma non è solo; Dio è amore, e perciò si esprime... la parola viene dall'amore tra il Padre... la parola nasce dal soffio dello Spirito.

Questo mistero della Trinità è un’affermazione dell’assoluta unicità di un Dio che è unico e nello stesso tempo non è solo e noi siamo chiamati a far parte della sua famiglia.

Come dovremmo vivere all’interno delle nostre società? È d'accordo con la legge che in Francia vieta il velo nelle scuole?

È un argomento molto difficile. Posso testimoniare che quando è stata presa quella decisione l'opinione pubblica era divisa praticamente in parti uguali tra quelli favorevoli a una decisione per vietare questo segno e quelli invece contrari. E’ stata una scelta complessa. Credo che ora ci voglia un po' di tempo per intessere un dialogo amichevole per quanto possibile con i fratelli musulmani, per far capire loro che quello che viene messo in discussione non è il velo. Se non si afferma che a scuola, il luogo dove si forgia l'avvenire, non ci devono essere segni, rischiamo un domani di veder arrivare 50 sette con il loro emblema, e così per i partiti politici e i sindacati. Come uscire da questa situazione? Dobbiamo dire ai nostri fratelli musulmani con il dialogo e con un minimo di conoscenza del Corano: "Ma avete studiato bene da cosa deriva questa abitudine di portare il velo nel nostro Paese?". In realtà, con uno studioso musulmano mio amico ho cercato di rintracciare nel Corano dove viene prescritto questo segno. In verità esiste soltanto un vago cenno che non dice assolutamente di che cosa si tratta, ma suggerisce alle mogli e alle donne di stringere il velo che portano per essere protette e rispettate. Il Corano è stato commentato nei secoli successivi alla sua apparizione, e sono gli hadid, interpretazioni che hanno imposto una quantità di usanze di cui non si parla affatto nel Corano. Solo attraverso il dialogo riusciremo a far capire che non è una discriminazione nei confronti dei musulmani, ma che se non si ponesse un freno alla pubblicità di simboli di qualsiasi tipo un domani la scuola diventerebbe invivibile.

Cosa stanno provocando le ingiustizie che ci sono nel mondo?

Come sa, siamo in mezzo a due aspetti contrapposti: da un lato la tendenza che si manifesta, quando si detiene un po' di forza, è quella di garantirsi il meglio, il posto migliore, la fetta più grossa della torta. Questo comportamento da parte dei più forti è d'altra parte una delle tentazioni costanti dell'uomo. Dall'altro lato c'è un altro fenomeno che si sta imponendo, e cioè l'indignazione di fronte all'uso della forza a spese dei più deboli. È una spinta a mettersi al loro servizio con lo stesso atteggiamento con cui guardiamo ai più piccoli proprio come in quella cellula primordiale della società rappresentata dalla famiglia.

Ma lei ci crede che questo mondo possa cambiare, nonostante quello che stiamo raccontando?

Questa forma di maledizione, questo odierno manifestarsi del male come predominio dei forti non ha impedito di agire a persone come Madre Teresa e a tanti esseri umani che non saranno mai famosi, non saranno mai canonizzati anche se a loro modo potrebbero essere definiti sufficientemente consapevoli che tutti i giorni, tutte le mattine, ci sono milioni, centinaia di milioni di mamme e di papà che svegliandosi pensano soltanto a quello che devono fare per mettersi al servizio della propria famiglia, della propria comunità. Costoro in realtà, anche se non sanno nulla della Rivelazione, sono dei santi perché fanno la volontà di Dio, assumendosi le proprie responsabilità. Queste energie esistono, non le percepiamo, perché non fanno chiasso, non sono prese in considerazione dalle canonizzazioni. Sono la moltitudine poco visibile che in realtà rappresenta il lievito che aiuta la comunità a sopravvivere.

INTERVISTA con il professor Angelo Vescovi di Daniela Minerva

L'espresso, n.34 - 26 agosto 2004 - Estratti

 

DA LAICO VI DICO [della fecondazione medicalmente assistita]: È UNA BARBARIE

Il maggiore esperto di staminali del San Raffaele condanna la scelta inglese [ndr: di clonare l'uomo a scopi scientifici]: inumana, ma soprattutto inutile, dice. Perché si può fare ricerca senza embrioni.

Ecco: ho davanti Dio: così Angelo Vescovi definisce una straordinaria coltura di cellule staminali a cui sta lavorando:"Possono generare tutto". Lui è uno degli studiosi di cellule staminali più importanti del mondo, dirige l'Istituto messo in piedi al San Raffaele di Milano per queste ricerche e sta per partire con una sperimentazione sull'uomo di una terapia per due patologie degenerative del sistema nervoso. È uno scienziato duro, puro e patentato, e si definisce agnostico, taoista. Eppure....

[…] un embrione di sette giorni è un essere umano?

"Per la biologia, sì. La vita nasce all'atto della formazione dellozigote, ovvero con la fecondazione. Da quel momento in poi c'è unessere .umano. Ora, qui diciamo che é del tutto lecito creare esseriumani per poi distruggerli al fine di ricavare cellule staminali che,chissà se e quando, hanno utilità terapeutica. […]

La ragione è stata sconfitta?

"Angelo Vescovi, San Raffaele: garantisco che è una pura coincidenza. Io mi chiamo così, ma sono del tutto agnostico. E la mia analisi non si basa su una logica religiosa. Eppure a me,scienziato illuminista, la ragione dice due cose: che gli embrioni sono esseri umani e che crearli per poi distruggerli é una sconfitta. Così é dal punto di vista di uno che non vuole farsi contaminare nel giudizio né dall'una né dall'altra ideologia: né dai dogmi cattolici né da quelli laici".

Eppure il dilemma della liceità di procedere con la clonazione terapeutica e il lavoro sulle staminali sembra proprio per gli scienziati laici un nervo scoperto. Ogni volta che la politica e le confessioni pongono il veto, la scienza grida all'oscurantismo. E la vicenda inglese pare l'ennesima dimostrazione che i paesi anglosassoni hanno una sensibilità maggiore in questo senso.

"Obietto: la scienza è assoggettabile agli stessi limiti che si pone la società in cui essa vive. Altrimenti è barbarie". [...] le terapie a base di cellule staminali tratte dal sangue sono nella pratica medica corrente, ovviamente di altissimo livello, che salva un paio di migliaia di pazienti l'anno. Poi, il trapianto di cornea: non si fa con le staminali embrionali, ma con le cellule staminali dell'epidermide con cui si costruiscono cornee artificiali da trapiantare. Ancora, sempre con le staminali dell'epidermide si fanno i trapianti di pelle salvavita per i grandi ustionati. Stiamo parlando di terapie in pratica clinica, non di fantascienza.

D'accordo, ma chi pensa alla donazione terapeutica pensa al diabete, come gli inglesi the hanno avuto il via libera e, soprattutto, alle malattie neurodegenerative: Parkinson, Alzheimer, Amiotrofica.

"Le neurodegenerative sono il cavallo di battaglia di chi propugna la clonazione: certo sono malattie terribili e senza cura, ma proprio per questo spaccano il cuore dell'opinione pubblica e la spingono a giustificare tutto. Bisogna però, da scienziati illuministi, chiedersi: quanto siamo vicini a una terapia per questi malanni se percorriamo la via della donazione terapeutica? Non stiamo, invece, scartando vie più promettenti per aderire al dogma che clonare è segno di libertà scientifica? [...] "Ci potremmo arrivare, minimo tra dieci anni se va tutto bene".

Una buona speranza.

"No. Perché c'è un'alternativa più vicina. Si possono utilizzare cellule staminali cerebrali per trapiantarle nel cervello dei malati e far ricrescere il tessuto intaccato dalla malattia. E queste sono cellule disponibili dal 1999. Sono quelle che utilizzeremo noi in una sperimentazione sull'uomo che inizierà entro il prossimo anno".

Da dove vengono queste cellule?

"Da feti abortiti che non pongono problemi etici (ndr: feti abortiti spontaneamente). Con la tecnica da noi sviluppata, ma che anche un gruppo americano ha in mano, con il cervello di un singolo feto si ottengono cellule sufficienti a trapiantare alcune decine di migliaia di pazienti. E lo si può fare da domani. [...]

 

Per La Rivista del Clero Italiano, Maggio 2005

Per il portale www.jesuschrist.it

Lattuada Antonio, teologo moralista IN MARGINE AL REFERENDUM SULLA FECONDAZIONE ASSISTITA - RESPONSABILITA' MORALI

In qualsiasi modo si concluda il prossimo referendum parzialmente abrogativo della legge circa la procreazione medicalmente assistita , non avrà certamente termine la discussione a proposito delle pratiche attualmente regolate da questa legge. Il pubblico dibattito continuerà ad essere alimentato se non altro dalla divergenza delle disposizioni regolatorie a livello internazionale , e soprattutto dal progresso scientifico e tecnologico: molto probabilmente esso apporterà ulteriori conoscenze empiriche in materia e arricchirà il repertorio delle pratiche possibili. Risulta quindi plausibile il proposito espresso in questa occasione dai vescovi italiani. Dopo avere proposto le indicazioni circa la partecipazione al referendum, essi infatti confermano "il forte e capillare impegno per una vasta opera di formazione delle coscienze riguardo alla dignità della vita umana fin dal suo inizio, alla tutela della famiglia e al diritto dei figli di conoscere i propri genitori". Certo non deve essere trascurata l'importanza o perfino la necessità dell'intervento legislativo. Sarebbe tuttavia ingenuo fare affidamento principalmente su tale strumento al fine di dare forma effettivamente giusta ai rapporti sociali, e tanto più alla vita personale. Un ordinamento giuridico che non fosse sostenuto da un adeguato consenso dei cittadini, mancherebbe proporzionalmente di efficacia, ed anzi sarebbe causa di effetti controproducenti.

È vero d'altra parte che la formazione del consenso appare impresa ardua specialmente nella nostra epoca. Molteplici e gravi sono le difficoltà che tale impresa deve affrontare: anzitutto i meccanismi distorcenti del dibattito pubblico quando esso è sottoposto all'egemonia dei mezzi di comunicazione a distanza come la televisione. Le difficoltà non sono imputabili però solo agli strumenti di comunicazione. E' frequente un artificio retorico grossomodo di questo tipo: "i criteri etici invocati dai diversi attori e le corrispondenti valutazioni non solo sono di fatto controverse, ma soprattutto e in linea di principio non sono passibili di trattamento 'scientifico'. Esse fanno capo a libere opzioni etiche o religiose, ossia ad atti di fede che in quanto tali sono insindacabili. Ognuno ha certamente il diritto dare loro credito e di farli valere nelle sua vita privata; non sono però materia passibile di discussione razionale e quindi pubblica; tanto meno, di conseguenza, possono essere fatte valere a livello di ordinamento della vita politica mediante leggi che pretendessero di imporle anche a chi non vi consente liberamente".

Contro simile assunto pregiudiziale occorre invece affermare la possibilità di giudizio critico, ossia di discernimento ragionevole anche a proposito di tutte le questioni morali che interpellano immediatamente la libertà individuale ed eventualmente con le opportune mediazioni la responsabilità collettiva. Tale possibilità deve essere affermata in linea di principio, ma soprattutto dimostrata in actu exercito, ossia svolgendo effettivamente tale discernimento a proposito delle questioni che si presentano di fatto nell'esperienza individuale e sociale. La proposta di argomenti convincenti, ossia capaci di dare una risposta criticamente fondata alle possibili obiezioni, domande e dubbi, è certo una strada lunga al fine di acquisire il consenso, ma è anche ineludibile per rendere il consenso stesso sicuro ed efficace.

Le questioni di cui si occupa anche il prossimo referendum sono una occasione rilevante ed offrono materia privilegiata per l'esercizio di simile discernimento. Su di esse il magistero ecclesiale si è pronunciato con interventi di speciale autorevolezza come l'Istruzione su il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione ("Donum vitae") (1987) della Congregazione per la dottrina della fede, successivamente e parzialmente ripresa dall'enciclica Evangelium vitae (1995) di Giovanni Paolo II oltre che dal Catechismo della Chiesa Cattolica (1997).

Le questioni riproposte anche dal referendum sono riconducibili a due cespiti principali, concernenti rispettivamente le pratiche di procreazione medicalmente assistita e il trattamento dell'embrione umano.

Essi sono tra di loro connessi non solo cronologicamente nel senso che le pratiche di procreazione assistita hanno costituito di fatto le condizioni tecniche perché fossero successivamente possibili interventi sull'embrione umano. I due cespiti sono connessi anche da un punto di vista "logico", nel senso che obbiettivamente o intrinsecamente l'uno rimanda all'altro anche per quanto attiene il discernimento morale. È quanto qui ci proponiamo di mostrare.

Originariamente i diversi metodi di procreazione medicalmente assistita sono stati escogitati per realizzare il desiderio di generare un figlio in coppie afflitte da forme di sterilità, infertilità, o infecondità non altrimenti superabili. Il desiderio del figlio è appunto l'esperienza originaria a partire dalla quale è possibile con un opportuno processo di interpretazione ricavare anche i pertinenti criteri per formulare valutazioni morali sia circa il desiderio stesso, sia a proposito dei comportamenti che possono essere messi in atto per realizzarlo. Simile processo di interpretazione del desiderio è stato di fatto sempre svolto nelle epoche passate o nelle civiltà premoderne utilizzando le risorse del linguaggio narrativo, poetico o mitico, avvalendosi principalmente dei riti collettivi per oggettivare e trasmettere i significati e valori acquisiti. Nella nostra epoca invece questo processo tradizionale di interpretazione, elaborazione e trasmissione del senso della generazione incontra speciali difficoltà per molteplici ragioni, principalmente a motivo della crisi del "costume" e della conseguente "privatizzazione" della coscienza. Di tale crisi e della conseguente privatizzazione della coscienza è nello stesso tempo causa ed effetto la cosiddetta "medicalizzazione" della vita umana in tutti i suoi più significativi momenti. Tipica espressione di tale medicalizzazione è quella che concerne la generazione .

Il desiderio del figlio è l'esperienza originaria a partire dalla quale si rivela il senso compiuto del matrimonio, e più fondamentalmente il senso del rapporto stesso fra l'uomo e la donna o della sessualità. Esso insegna che il figlio nel matrimonio non è un accessorio facoltativo, ma ciò che esprime e porta a piena maturazione il significato stesso dell'amore coniugale. Il desiderio del figlio è un sentimento che obiettivamente spinge i coniugi a trascendersi, ossia a cercare qualcuno cui poter fare dono di se stessi. In tal modo essi danno compiuta realizzazione alla segreta promessa iscritta nel loro rapporto di amore e trovano una causa per la quale merita di dare la vita. L'assenza del desiderio di un figlio (e di un figlio "proprio", anche dal punto di vista biologico) deve essere considerata quindi come elemento anomalo e "patologico" non solo dal punto di vista psicologico, ma anche da quello propriamente etico .

Occorre tuttavia subito aggiungere che il desiderio o il sentimento spontaneo, pur avendo la natura intenzionale e quindi la valenza etica di cui si è detto, non è mai perfettamente innocente e completamente trasparente quanto al suo significato. Come ogni desiderio anche quello del figlio è connotato da un indice di ambiguità più o meno alto. Ciò che è avvertito o dichiarato non corrisponde sempre alla realtà più profonda del vissuto. Anzitutto poiché dietro l'oggetto nominato - il desiderio del "figlio" - possono in realtà agire più o meno consapevolmente altri desideri di differente qualità etica: non tanto il desiderio di dedicare disinteressatamente se stessi, di fare dono di sé a un altro di cui viene appunto riconosciuta l'alterità, ma piuttosto l'inclinazione a strumentalizzare l'altro a propri bisogni e interessi. Possono infatti celarsi dietro tale desiderio semplicemente le attese o le pressioni dell'ambiente familiare, il bisogno di riconoscimento sociale, la ricerca di evasione da conflitti irrisolti, il bisogno di tenerezza ecc.

Ebbene, una prima caratteristica dell'autenticità morale di ogni desiderio e soprattutto del desiderio di un figlio, ossia di un altro, come è anche il figlio è la disposizione a riconoscere limiti alla propria realizzabilità. Un desiderio dispotico, che intenda cioè compiersi a qualsiasi costo senza altro riguardo che al proprio soddisfacimento, dimostrerebbe per ciò stesso di essere radicalmente viziato da una intenzione moralmente negativa, egocentrica od egoistica .

Segno evidente della giusta disposizione soggettiva è quindi la disponibilità a chiedersi se oltre al desiderio immediato, non siano in causa, di fatto, altri aspetti moralmente rilevanti: tipicamente altri desideri o bisogni o doveri; oppure desideri, bisogni o diritti di altri; la disponibilità quindi a considerare se i comportamenti messi in atto per realizzare il desiderio non risultino a breve e a lungo termine controproducenti, o procurino rilevanti effetti collaterali negativi.

Gli aspetti rilevanti principali e quindi meritevoli di speciale considerazione possono essere schematicamente raccolti sotto due titoli fondamentali: primo lo "status" dell'embrione umano, e secondo il modo della sua generazione.

1. Lo "status" dell'embrione umano

La questione circa il momento in cui inizia l'esistenza di un essere umano, dotato quindi di una propria e specifica dignità, è stato da sempre discusso, soprattutto in relazione alla necessità di valutare specifiche pratiche concernenti il feto o l'embrione. È certo una questione difficile da risolvere per molteplici ragioni, come dimostra anche l'attuale divergenza di opinioni. Tuttavia essa non può essere semplicemente elusa o scorporata nei giudizi etici circa le pratiche che interferiscono nei processi di formazione della vita umana. Neppure la questione può essere decisa arbitrariamente; né le differenti soluzioni proposte hanno tutte il medesimo grado di attendibilità.

La questione è del tutto analoga a quella speculare e simmetrica concernente il termine dell'esistenza di un essere umano. Anch'essa si è riproposta in epoca recente a motivo di nuove pratiche rese possibili dal progresso tecnico in ambito medico, quali gli interventi di rianimazione e di cure intensive da un lato, e del trapianto di organi vitali dall'altro. Come noto tali pratiche hanno indotto a considerare insufficienti ed obsoleti i criteri tradizionalmente impiegati per accertare la morte di un essere umano. Un consenso quasi generale tra gli esperti e nell'opinione pubblica si è prodotto per sostituire gli antichi criteri cardio-respiratori con quelli cerebrali. Conviene fermare l'attenzione sulla "logica" che ha indotto a tale cambiamento. È infatti legittimo attendersi che essa venga accettata altrettanto universalmente per affrontare e risolvere problemi analoghi come, appunto, quello dell'inizio della vita umana. È infatti norma etica oltre che regola logica quella secondo cui i casi simili devono essere giudicati e trattati in modo simile.

Quali sono dunque le ragioni che hanno indotto a riconoscere la morte cerebrale come criterio necessario e sufficiente per accertare la morte di un essere umano, ovvero il passaggio dalla sua condizione di vivente (dotato quindi di una specifica dignità) a condizione di cadavere (privo della medesima dignità)? Il motivo non è costituito dal fatto che il cervello è l'organo necessario all'esercizio di una vita cosciente quale caratteristica specifica della condizione umana, per cui quando fosse irreversibilmente compromessa tale capacità l'individuo decadrebbe a una condizione infraumana qualificata come "stato vegetativo" (per tale esito sarebbe sufficiente la distruzione solo di una parte dell'encefalo, la corteccia). Contro simile tesi militano ragioni di ordine pragmatico relative alla impossibilità da parte di un osservatore esterno di accertare l'assenza di vita cosciente in un altro soggetto, e soprattutto di stabilirne e misurarne il livello minimo "accettabile" in termini di intensità e di qualità.

Militano anche ragioni di principio: affermare la possibilità di permanenza in vita di un individuo a livello biologico mentre contemporaneamente sarebbe completamente venuta meno la sua vita psicologica, spirituale o "personale", suppone una interpretazione "dualista" della realtà umana francamente insostenibile. Nell'uomo corpo e spirito, soma e psyche non sono due "cose" o parti separabili, come se l'una (il corpo) potesse continuare ad esistere mentre l'altra (lo spirito) scompare. Corpo e spirito invece devono essere intese come due dimensioni che costituiscono inscindibilmente il soggetto umano, come due facce esterna l'una, interna l'altra di un'unica medaglia.

Il privilegio accordato alla dimensione somatica in ordine all'accertamento dell'esistenza in vita di un soggetto umano non comporta l'assegnazione di una speciale valenza assiologica all'elemento biologico, quasi una "sacralizzazione" di tale aspetto. Significa semplicemente riconoscere alla dimensione somatica la valenza di "prova", "documento" o "indizio" necessario e sufficiente! in ordine all'identificazione di un essere quale soggetto umano vivente.

La discussione a suo tempo svolta a proposito dell'accertamento della morte ha permesso di distinguere in tale questione almeno tre ulteriori problemi tra di loro connessi e concernenti rispettivamente: 1) il concetto di morte (e corrispondentemente di vita); 2) il criterio che permette di accertare in concreto la realizzazione del concetto (nel caso specifico si tratta della distruzione dell'intero encefalo); 3) i test idonei a verificare nel singolo caso la realizzazione del criterio (per esempio l'assenza per un congruo periodo di tempo dei riflessi del tronco del cervello, l'assenza dell'attività elettrica nell'encefalo ecc.) . Gli ultimi due problemi fanno capo a considerazioni esclusivamente empiriche: si tratta cioè semplicemente di accertare dati di fatto e correlazioni fra di essi (in particolare il fatto che la distruzione dell'encefalo compromette irreversibilmente l'integrazione e il coordinamento delle funzioni vitali dell'organismo). Il primo e fondamentale problema presenta invece uno specifico statuto epistemologico. La questione della definizione del "concetto" di morte non si risolve infatti semplicemente mediante l'osservazione e la descrizione di "fatti" sia pure svolta in modo scientifico; neppure però si risolve in un giudizio di valore e quindi in una opzione filosofica o religiosa circa il senso complessivo della vita. Essa invece fa capo ad una "deduzione teorica" a partire dai fatti empirici, o almeno ad una loro interpretazione coerente con le evidenze offerte dall'esperienza comune. In tal modo è stato acquisito il concetto secondo cui la morte è il venir meno dell'organismo, ossia la fine dell'integrazione di parti biologiche e funzioni fisiologiche in una unità capace di autoregolarsi nel proprio sviluppo e nei rapporti con l'ambiente. L'integrazione biologica in un organismo è condizione necessaria e sufficiente per riconoscere l'esistenza di un individuo che se appartenente alla specie umana è individuo umano vivente e quindi portatore della specifica dignità che conviene ad ogni individuo che appartiene a tale specie. Solo l'irreversibile venir meno dell'integrazione fra parti e funzioni dell'organismo costituisce il venir meno dell'individuo o del soggetto umano e quindi la sua morte. Quale sia la causa che produce tale mutamento di condizione e come accertare tale fenomeno, è questione di natura empirica: i dati disponibili dimostrano con sufficiente certezza (ma a livello empirico la certezza è sempre di natura probabilistica!) che in un individuo in cui si è già formato l'encefalo, la completa distruzione di questo organo compromette irreversibilmente l'integrazione tipica di un organismo e quindi la sua individualità.

L'argomentazione svolta per risolvere in modo ragionevole i problemi pratici connessi al momento della fine dell'esistenza umana dovrebbe valere a pari anche per risolvere i problemi connessi al momento dell'inizio della medesima esistenza. La conclusione dovrebbe quindi essere che inizia ad esistere un individuo umano portatore di una corrispondente dignità, quando inizia ad esistere a livello biologico un individuo, ossia un "tutto integrato" capace di autoregolare le funzioni che presiedono al proprio sviluppo verso la condizione di adulto umano e i propri rapporti con l'ambiente.
A partire da tale concetto e analogamente a quanto è stato fatto a proposito della questione della morte, potrà essere determinato l'eventuale criterio per accertare l'effettiva realizzazione del concetto stesso, e potranno essere individuati i test pertinenti al fine di accertare l'effettiva realizzazione del criterio nel caso concreto. Queste ultime determinazioni
a differenza dell'elaborazione del concetto rimandano esclusivamente a conoscenze di natura empirica. Conoscenze di questo tipo sono indispensabili per formulare giudizi circa i casi concreti. Tali giudizi quindi non potranno pretendere un grado di certezza superiore a quello che caratterizza il sapere empirico. Anche nelle catene di natura "logica", come è ovvio, la forza dell'intera catena non è superiore a quella dell'anello più debole!

A partire da simili premesse e sulla base delle conoscenze empiriche disponibili si deve concludere che già inizia ad esistere un essere umano, nel senso proprio del termine, normalmente a partire dal momento dell'incontro di due gameti umani, ovvero dal momento della fecondazione di dell'ovulo da parte dello spermatozoo. Normalmente: perché in realtà la produzione di un "tutto integrato" umano può avvenire anche in altro modo. In natura, per esempio, mediante la divisione di un embrione originario (è il caso dei gemelli monozigoti); artificialmente, con gli interventi tecnici via via inventati, per esempio mediante la clonazione, ossia il trasferimento in ovulo del nucleo di cellula somatica, o in prospettiva, mediante l'"attivazione" del nucleo nella cellula somatica stessa.

In qualsiasi modo il nuovo organismo quale "tutto integrato" venga prodotto, esso è già un individuo che appartiene al genere umano: certo nella primissima fase della sua esistenza, che non ha ancora espresso tutti i tratti fenotipici di un adulto umano, che non ha ancora acquisito le capacità d'agire tipiche di un adulto sano, ma che ha tutti i requisiti fondamentali per esigere di essere riconosciuto come un membro della comunità umana (analogamente all'adulto malato, in coma irreversibile, in stato terminale, che ha quindi definitivamente perduto molte capacità del soggetto sano, ma che essendo ancora vivo deve essere riconosciuto come individuo che continua ad appartenere alla società umana).

A partire dalle considerazioni esposte risultano insostenibili molte tesi che vengono proposte circa la determinazione dell'inizio della vita umana e rispettivamente dello status morale e quindi giuridico dell'embrione o del feto. Per esempio quelle che assegnano rilievo discriminante alla perdita del carattere "totipotente" delle cellule dell'embrione stesso, al suo annidamento nell'utero materno, alla prima differenziazione e specializzazione delle cellule cerebrali, alla acquisizione della capacità di avere sensazioni di dolore, e via di seguito. Ovviamente anche il processo di fecondazione e gli altri modi di produzione di un embrione non sono propriamente "istantanei". Per quanto possano apparire molto brevi , essi sono comunque fenomeni che si distendono nel tempo. Non è escluso che tale distensione possa avere importanza anche pratica con riferimento alla questione dell'inizio di una vita umana. Se si possano distinguere in tali processi fasi o stadi precedenti alla costituzione di un "tutto integrato" è anch'essa questione di natura empirica e quindi da risolversi mediante una attenta considerazione dei fatti. Per esempio e alla luce "concetto" formulato, rilevante in ordine alla determinazione della necessaria "individualità" biologica non è tanto il fatto che si costituisca un nuovo genoma diploide risultante dalla fusione di quello dei gameti originari aploidi, ma che si costituisca un "tutto integrato" in cui, cioè, le parti costituenti (per esempio i pronuclei dei gameti originari) abbiano un rapporto di relazione reciproca e quindi di integrazione in qualche modo coordinata nel proprio sviluppo. In tal senso al cosiddetto "ootide" non potrebbe essere negata la qualifica di individuo vivente già appartenente alla specie umana .

Quanto acquisito permette di valutare più accuratamente il rilievo etico delle pratiche che coinvolgono l'embrione in molti modi e con differenti scopi. Se queste pratiche comportano la distruzione diretta dell'embrione, sono moralmente ingiustificabili, anche se compiute a scopo scientifico oppure per finalità terapeutiche di cui però non sia immediato beneficiario l'embrione stesso.

Dovrebbe permettere anche di istruire correttamente un'altra questione di rilievo pratico, quella cioè concernente la morte dell'embrione. Attualmente il rilievo pratico riguarda soprattutto i cosiddetti embrioni "soprannumerari" prodotti e poi conservati mediante congelamento nel contesto di alcune tecniche assistenza medica alla procreazione. La destinazione di tali embrioni che per qualsiasi motivo non possono essere impiantati in utero, costituisce una aporia dal punto di vista etico. Le cellule che compongono l'embrione nelle prime fasi di esistenza hanno qualità che sembrano promettenti per la ricerca scientifica di base e a fini terapeutici. Tuttavia il trattamento "strumentale" di tali embrioni, ossia in funzione di scopi che non siano per loro stessi di vantaggio proporzionato ai danni o ai rischi cui sono sottoposti, non è giustificabile: ovviamente fino a quando conservano la condizione di individui viventi. Quando tale condizione venisse a cessare essi verrebbero a trovarsi in una condizione per la quale valgono i criteri etici che regolano il trattamento del cadavere umano e che autorizzano, per esempio l'espianto e l'utilizzazione di materiale biologico a fini terapeutici o di ricerca. Occorre però elaborare criteri e test sufficientemente precisi ed attendibili per accertare la morte dell'embrione .

2. Il modo della generazione.

Profili moralmente rilevanti presenta anche il modo stesso mediante il quale viene prodotto un embrione ed è quindi generato un essere umano. Anche tale questione è da tempo oggetto di discussione. Il magistero pontificio ha iniziato ad occuparsene ufficialmente già dal 1897, ovviamente in relazione alle tecniche allora disponibili, ossia quelle di fecondazione in vivo o inseminazione artificiale . Da allora i pronunciamenti del magistero ecclesiale si sono andati moltiplicando proporzionalmente alle innovazioni nelle procedure disponibili, e alla frequenza del ricorso ad esse. Il giudizio proposto in concreto è articolato a partire da alcune premesse costituite da esigenze di carattere etico più fondamentale, e precisamente: primo, il legame della procreazione con la sessualità; secondo, il legame della sessualità col matrimonio come comunione di vita stabile ed esclusiva fra una uomo e una donna; terzo, e conseguentemente, il legame della procreazione col matrimonio.

Il legame richiesto fra procreazione e matrimonio implica una valutazione negativa della procreazione medicalmente assistita quando essa avvenga in una coppia non sposata, in una coppia di omosessuali, oppure da parte di una donna nubile o vedova. Il punto di vista che induce cogliere il rilievo morale di questa circostanza è anzitutto quello del bambino che nascerà e che verrebbe a trovarsi in condizioni pregiudizievoli al proprio sviluppo psichico e spirituale se non potesse fare affidamento su una coppia stabile in cui sia presente sia la figura paterna che quella materna. Il desiderio del figlio trova quindi un criterio morale nel rispetto dei limiti imposti dai diritti del bambino che nascerà.

Il medesimo legame con il matrimonio implica una valutazione negativa anche della fecondazione eterologa, ossia delle tecniche di generazione assistita che comportino il ricorso a donatori o a donatrici di gameti. Due sono gli ordini di ragioni che inducono a formulare tale valutazione: primo, sarebbe compromesso il modello di matrimonio "esclusivo" e quindi i valori etici ad esso connessi ; secondo, il bene del bambino: egli non potrà fare affidamento sull'identità tra genitore biologico e genitore legale o di educazione. Si pensi in particolare al problema dell'informazione circa la sua condizione, e agli inconvenienti prodotti sia che si intenda mantenere il bambino all'oscuro della sua origine, sia che egli come appare doveroso venga informato .

Giudizio negativo è espresso ultimamente circa l'"artificiosità" stessa della fecondazione, ossia a motivo della sua separazione dal rapporto sessuale. Tale artificiosità si realizza per altro in molteplici varianti: attualmente più frequente è la FIVET (Fecondazione in vitro con embryo transfer), ma sono anche possibili diverse micromanipolazioni genetiche, quali l'iniezione dello spermatozoo nell'ovulo, o il ricorso a ovulo di donatrice, ma con sostituzione del nucleo, quando ci fosse il rischio di malattie genetiche dovute a difetti nel mitocondrio (materiale genetico esterno al nucleo). Il giudizio negativo da parte dell'attuale magistero ecclesiale riguarda quindi non solo la fecondazione eterologa, ma anche quella omologa, attuata quindi all'interno di un rapporto matrimoniale e utilizzando i gameti dei coniugi, ma "separata" dal rapporto sessuale (il cosiddetto "caso semplice") .

Il giudizio relativo al "caso semplice" è certamente quello che è stato più controverso anche nella discussione teologica al riguardo. Le ragioni che lo legittimano si possono meglio comprendere e ponderare se si presta adeguata considerazione alla dimensione espressiva e simbolica che caratterizza in generale ogni comportamento umano e in modo assolutamente speciale i comportamenti che presiedono alla generazione di un essere umano. Espressivo o simbolico è un comportamento a motivo della sua attitudine non tanto a "produrre effetti" in ordine a scopi ulteriori rispetto all'azione stessa (ciò caratterizza l'agire propriamente tecnico), bensì ad esprimere intenzioni o disposizioni interiori e libere prese di posizione . Figura tipica dell'agire simbolico è il dono e più in generale il comportamento che ha carattere rituale (il "culto" dei defunti, per esempio). La dimensione tecnica e la dimensione simbolica connotano sempre anche se in proporzione variabile ogni comportamento umano, prevalendo ora l'una ora l'altra. Nel contesto di una cultura che privilegia unilateralmente la prospettiva tecnico scientifica, facile è il rischio di trascurare la dimensione simbolica e quindi anche il suo speciale rilievo dal punto di vista morale.

Il riferimento al linguaggio mette in luce anche l'essenziale dimensione sociale e culturale dell'esperienza morale. Il linguaggio della nostra civiltà è sempre di più linguaggio tecnico, che non offre risorse per interpretare il senso dell'agire. Le tecniche di procreazione medicalmente assistita rischiano di dare un ulteriore e grave contributo alla medicalizzazione della vita umana. E quindi rendono ulteriormente difficile all'individuo articolare ed elaborare il senso delle esperienze più fondamentali .

Conclusione
Il desiderio di avere un figlio
nel matrimonio è certamente buono e giusto. Sarebbe "patologica" la condizione in cui questo desiderio non fosse avvertito. L'incapacità di generare è quindi da considerare come una malattia e ciò che pone rimedio ad essa merita un positivo apprezzamento. Ovviamente non in modo indiscriminato o a qualsiasi condizione: un fine buono non giustifica qualsiasi mezzo. Attualmente il giudizio del magistero ecclesiastico è negativo nei confronti di qualsiasi forma di fecondazione artificiale in quanto rimedio non proporzionato al fine . Per altro la sproporzione e quindi il giudizio di illiceità, può essere più o meno grave: si va da un massimo, quando è compromesso il diritto alla vita del concepito, ad un minimo, quando semplicemente si separa il rapporto coniugale dalla procreazione, passando attraverso livelli intermedi, in particolare quello in cui si compromette il diritto del bambino ad avere due e solo due genitori (non di più e non di meno). Il differente grado di negatività morale non è evidentemente irrilevante in ordine alle scelte morali personali nelle diverse situazioni esistenziali, e soprattutto non è irrilevante in ordine alle scelte di natura politica, in particolare quelle intese a produrre leggi che proibiscano o rispettivamente impongano determinati comportamenti all'intera collettività.

In quanto "coattivo", specialmente se sanzionato penalmente, l'intervento legislativo dovrebbe essere considerato come l'extrema ratio a cui ricorrere . In ogni caso esige di essere sostenuto dal più ampio consenso possibile. Il compito "formativo" in ordine a tale consenso, oltre ad essere quello più congeniale alla missione ecclesiale, è anche il più promettente per il raggiungimento degli scopi che ci si prefigge, purché esso sia svolto in modo appropriato, ossia alimentando il dibattito pubblico e prima ancora disponendo le condizioni perché esso possa svolgersi correttamente. Qualora come sembra tali condizioni siano assai difettose, il primo e più urgente compito nell'agenda politica dovrebbe essere di rimediare a tale difetto.

NOTE

I Parlamento italiano, Norme in materia di procreazione medicalmente assistita (legge 40 del 19.2.2004).

II In data 8 marzo 2005 l'assemblea generale dell'ONU ha approvato una dichiarazione che chiede ai Paesi membri di adottare leggi nazionali che proibiscano tutte le forme di clonazione umana, compresa quella cosiddetta "terapeutica" per la ricerca sulle cellule staminali, in quanto incompatibili con la dignità umana e la protezione della vita umana. Si tratta però di una disposizione non vincolante.

III Comunicato finale della sessione primaverile del Consiglio episcopale permanente, svoltasi a Roma presso la sede della Conferenza episcopale italiana dal 7 al 9 marzo 2005.

IV Sul tema e su quanto segue si veda più estesamente G. Angelini, Il figlio. Una benedizione, un compito, Vita e Pensiero, Milano 1991.

V Anche se, evidentemente, l'impossibilità a procreare non impedisce comunque di dare un senso al matrimonio (sia pure un senso in qualche modo diminuito o rimediato) in particolare mediante forme alternative di "fecondità" quali l'adozione, l'impegno sociale, ecc.

VI Gli psicanalisti dedicano speciale attenzione, per esempio, alle cause di infecondità femminile. Talvolta infatti tale l'infecondità è solo un sintomo di conflitti o di disturbi psichici più profondi. Il desiderio del figlio si sovrappone e nasconde tali conflitti. Il ricorso alla tecnica per rimediare alla infecondità toglie il sintomo, ma non cura il malessere profondo. Tale situazione psichica può essere di grave pregiudizio anche per l'educazione del figli. Cfr. M. Fiumanò, A ognuno il suo bambino. La domanda di maternità tra psicoanalisi e medicina della procreazione, Pratiche Ed., Milano 2000.

VII In tal senso è stata suggerita da alcuni l'idea di "accanimento procreativo". Così Verspieren, citato da J.L Brugues., Fecondazione artificiale: una scelta etica?, SEI, Torino 1991, p.125.

VIII D. Lamb, Death, Brain Death and Ethics, Croom Helm, London - Sidney 1985. Dello stesso autore si veda anche in traduzione italiana: Etica e trapianto d'organi, Il Mulino, Bologna 1995.

IX La "brevità" del tempo come anche dello spazio è qualità del tutto relativa al punto di vista dell'osservatore: "Ai tuoi occhi dice la Bibbia con riferimento a Dio mille anni sono come un giorno" (Sal 90, 4).

X Mi sembra quindi assai discutibile la tesi proposta dagli autori del documento di cui riferisce la seguente nota dell'ANSA del 28 settembre 2004: "Questi i passaggi fondamentali del testo, oggi in discussione in occasione di un convegno che ha riunito a Roma specialisti della materia provenienti da tutta Italia: - LA CRUCIALE TRANSIZIONE DALL'OVOCITA ALL'EMBRIONE 'La transizione ovocita-embrione - si legge nella bozza di documento - risulta da una successione di eventi che si susseguono nel tempo... In tale transizione un evento peculiare sul quale basare la criticità del passaggio generazionale, e quindi l'inizio di un nuovo essere umano, è rappresentato dalla costituzione del nuovo assetto cromosomico diploide (con 46 cromosomi), proprio della specie umana e dal successivo inizio della segmentazione'. La fecondazione, proseguono gli esperti, 'non e' un evento 'istantaneo' ed anche a volerlo considerare solo dal punto di vista cellulare più restrittivo, consiste di un processo che: E' innescato da interazioni a breve distanza e di varia natura tra lo spermatozoo e i rivestimenti cellulari dell'uovo; prosegue con la fusione dei due gameti ciascuno proveniente da due genitori di sesso diverso, la donna che fornisce l'oocita e l'uomo che fornisce lo spermatozoo; termina, molte ore dopo tale fusione, con la formazione dello zigote'. Nella dinamica del processo si osserva quindi 'una successione di eventi fra loro interagenti che, a partire dall'oocita, portano via via alla comparsa di diverse entità biologiche, tutte caratterizzabili sul piano morfologico, metabolico e genomico. Fra queste entità emerge l'oocita a due pronuclei, detto anche ootide'. Diversamente da come avviene in altre specie animali, spiegano gli esperti nel documento, 'i pronuclei dell'ootide non si fondono, ma procedono in parallelo nelle loro funzioni ed in particolare a duplicare il loro DNA ed a dissolvere successivamente i loro involucri per mettere in comune sulla medesima piastra metafasica i loro assetti cromosomici: E' questa cellula che possiamo considerare zigote'. - LO ZIGOTE INIZIO DEL NUOVO ESSERE UMANO Soltanto in questa fase dello zigote, prosegue la bozza del documento degli embriologi e genetisti, 'gli assetti cromosomici aploidi (con 23 cromosomi) paterni e materni si sono congiunti e, sommandosi, hanno ristabilito l'assetto cromosomico diploide, proprio della specie umana. A questa fase segue la divisione (di segmentazione) della cellula con comparsa di un'entità bi-cellulare, che è la prima del nuovo essere umano in sviluppo'. La 'costituzione del nuovo genoma diploide rappresenta quindi l'evento conclusivo del processo di fecondazione. Esso precede di pochissimo - precisano gli esperti - l'inizio dello sviluppo che segna l'avvenuto passaggio generazionale'. Va rilevato infine, concludono gli specialisti nel documento, che 'questo inizio non attiva la «personalità molecolare» del nuovo essere, e per molte ore ancora lo sviluppo prosegue infatti utilizzando un programma basato su molecole espressione del genoma dei due genitori'". Fonte: http://www.benessere.com /salute/news /notizie_1.htm?ric_notizia =20040928.005 (ultimo accesso 29.3.2005).

XI Il concetto di "non-vitalità" dell'embrione, talvolta proposto a tale riguardo, non equivale evidentemente a quello di morte dell'embrione stesso. La condizione di embrione "non-vitale" è piuttosto equiparabile a quella del malato terminale o addirittura in stato di agonia. La situazione di tale soggetto è disperata, ma non è ancora quella di cadavere.

XII Si tratta di una risposta della Congregazione del S. Ufficio del 17 marzo 1897. Il testo in Denziger Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum, Friburgo 196533, 3323.

XIII L'esclusività del rapporto matrimoniale è conseguenza dell'esigenza di reciproca fedeltà che a sua volta scaturisce dal rapporto di amore matrimoniale fra l'uomo e la donna ed è condizione della sua esistenza. Riflessi negativi del ricorso alla fecondazione eterologa sul rapporto matrimoniale sono documentabili a livello psicologico a motivo della condizione non simmetrica dei due coniugi nei confronti del figlio. Esso sembra essere anche un ulteriore contributo alla marginalizzazione del padre nella società contemporanea e agli inconvenienti che ne derivano specialmente dal punto di vista dell'educazione dei minori.

XIV Improponibile è la pretesa di giustificare la fecondazione eterologa equiparando la condizione del genitore non-biologico a quella di colui che adotta un bambino da lui non generato. La differenza sta nel fatto che l'adozione intende essere un rimedio (male minore) ad un male che se fosse stato possibile si sarebbe dovuto evitare (la condizione di orfano del bambino); invece mediante la fecondazione eterologa viene procurato intenzionalmente quel male al bambino per poi cercare di rimediarvi. La differenza è evidente e sostanziale dal punto di vista etico.

XV Ciò che viene avvertito come moralmente negativo non è solo il fatto che la fecondazione avvenga fuori dal corpo materno (se mai questo aggrava l'artificiosità dell'intervento, e per le ragioni cui si allude più avanti aggrava certo anche il rilievo morale negativo), ma il semplice fatto che avvenga separata dal rapporto sessuale. Il giudizio negativo, quindi, comprende oltre che l'inseminazione artificiale o fecondazione in vivo, anche tecniche come il GIFT (trasferimento dei gameti nella tuba di Fallopio) o simili. In tal modo si attuerebbe infatti una separazione tra i beni e i significati del matrimonio analoga a quella procurata dalla contraccezione: "() la fecondazione è voluta lecitamente quando è il termine di un 'atto coniugale per sé idoneo alla generazione della prole, al quale il matrimonio è ordinato per sua natura e per il quale i coniugi divengono una sola carne' [C.I.C, can. 1061]. Ma la procreazione è privata dal punto di vista morale della sua perfezione propria quando non è voluta come il frutto dell'atto coniugale, e cioè del gesto specifico dell'unione degli sposi", Congregazione per la dottrina della fede, Istruzione su il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione (22.2.1987), II, 4. Nei confronti del "caso semplice" solitamente viene sollevata un'ulteriore obiezione: a motivo della bassa percentuale di embrioni prodotti ed impiantati con tale tecnica che sopravvivono fino alla nascita, il ricorso ad essa implicherebbe il "sacrificio", ossia la strumentalizzazione della vita di molti embrioni al fine di realizzare il desiderio del figlio. Certo, la probabilità di successo delle tecniche di fecondazione artificiale e quindi anche il numero di embrioni che vanno perduti non è irrilevante dal punto di vista etico. Ma come determinare la percentuale di perdite proporzionata ed accettabile? Quanto avviene in natura può essere un valido parametro; si sa infatti che anche nel processo di fecondazione naturale la percentuale di embrioni che sopravvivono fino alla nascita è molto bassa. Del resto, là dove la mortalità infantile, per le più diverse ragioni, è molto alta e quindi la percentuale dei bambini che sopravvivono molto bassa, si può forse affermare che i genitori che in simili condizioni intendono generare figli siano necessariamente irresponsabili perché "sacrificano" al loro desiderio la vita dei bambini che andranno perduti?

XVI La distinzione corrisponde grossomodo a quella che la lingua greca operava tra poiesis e praxis, e la lingua latina fra facere e agere.

XVII Ulteriori aspetti di carattere etico sociale dovrebbero essere tenuti in conto per valutare il ricorso alle pratiche offerte dal progresso tecnico in ambito medico. Essi riguardano le linee di tendenza complessiva della medicina contemporanea, per esempio la distribuzione a livello mondiale delle risorse disponibili; l'impegno dedicato alla cura delle malattie più che alla loro prevenzione; gli effetti perversi di una medicina che suscita o addirittura crea la "domanda" di interventi medici ("medicina del desiderio") ecc. In sintesi, il rischio che il sistema "biomedico" sia egemonizzato da logiche economico mercantili, o si sviluppi in modo autoreferenziale, ossia per fini e interessi non controllabili e tanto meno governabili da parte della collettività.

 

XVIII La fecondazione artificiale viene invece distinta dall'intervento che "si configuri come una facilitazione e un aiuto affinché‚ esso [l'atto coniugale] raggiunga il suo scopo naturale". Quest'ultimo è giudicato moralmente accettabile. Congregazione per la dottrina della fede, o.c.. II, 6.

XIX È evidente che l'agire politico non si riduce all'intervento legislativo che mira a regolare direttamente determinati comportamenti. Effetti regolativi talvolta più efficaci possono essere prodotti indirettamente con altri interventi politici, per esempio con misure più generali anche di natura amministrativa o fiscale.

 

 

Bill Gates e i nuovi giovani filantropi

Bill Gates e la moglie Melissa assitono alla visita di un bambino malato di malaria in Africa

L'addio del fondatore della Microsoft e e il cambio generazionale di quelli che si dedicano alla beneficenza: non più tycoon in età avanzata, ma uomini della net economy.

NEW YORK - Perfino siti e blog tecnologici specializzati nel tiro al bersaglio contro Bill Gates - da slashdot.org a jas.com, ma, per i più arrabbiati, c'è anche billgatesisdead.com - sono sconcertati.

Con chi se la prenderanno ora che l' «odiato monopolista» della Rete lascia la guida di Microsoft? E come si fa a continuare ad attaccare un uomo che fa sapere di voler dedicare il resto della sua vita alla filantropia, alla battaglia contro le malattie che devastano l'Africa? Anche il mondo degli affari è scosso, ma si pone domande più pragmatiche: questo «passo indietro» galvanizzerà Larry Page e Sergey Brin, i due giovani ‘leoni'  di Google che un anno fa avevano già lanciato il guanto della sfida a Microsoft?

La società di Redmond, ovviamente, sostiene che l'impatto della decisione annunciata giovedì sarà minimo: Gates aveva lasciato dal 2000 la gestione operativa della società all'amministratore delegato Steve Ballmer. Ora lascia a Ray Ozzie anche il ruolo di capo delle strategie e di supervisore delle tecnologie, ma rimane pur sempre il presidente e il maggiore azionista.

È vero che i mercati avevano già messo nel conto un progressivo disimpegno di Gates e che la sua uscita sarà graduale. Ma il fatto che un innovatore geniale, fortemente motivato alla competizione, che negli ultimi 30 anni ha inciso profondamente sulla cultura imprenditoriale di qualunque grande impresa, abbia deciso di dedicarsi «a tempo pieno» alle sue attività di beneficenza, segna di per sé un cambio di epoca. Questo vale per un'azienda abituata a nutrirsi della tenacia di Bill Gates, della sua capacità di motivare tutti i dipendenti, ma anche per il «nemico storico» Steve Jobs - fondatore di Apple e Macintosh - e per gli avversari di Google e Yahoo!: anche se resterà dietro le quinte, Bill Gates esce di scena in un momento molto difficile per la società, i cui principali prodotti (Windows e Office) sono piuttosto «maturi», mentre il lancio del nuovo sistema operativo Vista continua a essere rinviato. Microsoft, oltretutto, ha (per ora) lasciato ai suoi concorrenti diretti la leadership nel business della distribuzione dei servizi di software attraverso la Rete: il settore più promettente, già in rapida espansione.

Ma, anche se il disimpegno di Gates avrà un grande significato per il mondo degli affari, le domande più interessanti sono quelle che riguardano il suo nuovo ruolo di benefattore «a tempo pieno». In America la filantropia è molto più di un'appendice della mondanità o del passatempo che riempie le giornate di miliardari in pensione. In un Paese che destina un volume limitato di risorse pubbliche alle attività sociali ed educative, un contratto sociale non scritto affida ai privati - soprattutto le fondazioni delle ricche corporation -lo sviluppo di strutture culturali e attività di assistenza ai bisognosi.

Negli ultimi anni, questo impegno dei privati si è enormemente dilatato: nel 2004 le risorse destinate alla beneficenza hanno raggiunto i 250 miliardi di dollari (poco meno di 200 miliardi di euro). Ma, soprattutto, con l'esplosione della «net economy» degli Anni '90, è cambiata la natura di queste attività. Per decenni la beneficenza era stato l'affare dei grandi tycoon dell'acciaio, del petrolio, del credito e dell'auto che, giunti in età avanzata, cercavano di farsi perdonare gli eccessi di un capitalismo a volte brutale e di lasciare un segno. Nascono così le biblioteche, i musei, i teatri, le iniziative culturali delle fondazioni e in debito nei confronti della società: entrano subito nella filantropia e donano cifre enormi. Alcuni mettono la filantropia al centro delle loro attività quando sono ancora trentenni: è il caso di Pierre Omidyar e di Jeff Skoll, fondatori di eBay.

Il fuoriclasse assoluto, però, ancora una volta è proprio Gates: non solo perché, conferendo un patrimonio di oltre 30 miliardi di dollari alla fondazione che porta il suo nome e quello della moglie Melinda, è diventato il maggiore benefattore della storia dell'umanità, ma anche perché si è spinto verso Paesi lontani, ha finalizzato l'utilizzo delle risorse contro patologie precise (Aids, tubercolosi, malaria) in zone definite dell' Africa, ha adottato un approccio nuovo: non si limita a comprare le medicine per una terapia ma, quando è possibile, promuove egli stesso la messa a punto di farmaci più efficaci.

Un impegno enorme, di una complessità straordinaria, vulnerabile. Gates se n'è reso conto e ha deciso di dedicarsi a questa attività a tempo pieno. C'è chi spera che, dopo aver rivoluzionato il modo di comunicare, il fondatore di Microsoft riesca a rivoluzionare anche quello di fornire assistenza agli «ultimi» della Terra.

Massimo Gaggi per il Corriere della Sera 

di Carlo Maria Martini 

Quale cristianesimo nel mondo

Che cosa posso dire sulla realtà della Chiesa cattolica oggi? Mi lascio ispirare dalle parole di un grande pensatore ed uomo di scienza russo, Pavel Florenskij, morto nel 1937 da martire per la sua fede cristiana: «Solo con l’esperienza immediata è possibile percepire e valutare la ricchezza della Chiesa». Per percepire e valutare le ricchezze della Chiesa bisogna attraversare l’esperienza della fede.

Sarebbe facile redigere una raccolta di lamentele piena di cose che non vanno molto bene nella nostra Chiesa, ma questo significherebbe adottare una visione superficiale e deprimente, e non guardare con gli occhi della fede, che sono gli occhi dell’amore. Naturalmente non dobbiamo chiudere gli occhi sui problemi, dobbiamo tuttavia cercare anzitutto di comprendere il quadro generale nel quale essi si situano.

UN PERIODO STRAORDINARIO NELLA STORIA DELLA CHIESA Se dunque considero la situazione presente della Chiesa con gli occhi della fede, io vedo soprattutto due cose.

Primo, non vi è mai stato nella storia della Chiesa un periodo così felice come il nostro. La nostra Chiesa conosce la sua più grande diffusione geografica e culturale e si trova sostanzialmente unita nella fede, con l’eccezione dei tradizionalisti di Lefebvre.

Secondo, nella storia della teologia non vi è mai stato un periodo più ricco di quest’ultimo.

Persino nel IV secolo, il periodo dei grandi Padri della Cappadocia della Chiesa orientale e dei grandi Padri della Chiesa occidentale, come San Girolamo, Sant’Ambrogio e Sant’Agostino, non vi era un’altrettanto grande fioritura teologica.

È sufficiente ricordare i nomi di Henri de Lubac e Jean Daniélou, di Yves Congar, Hugo e Karl Rahner, di Hans Urs von Balthasar e del suo maestro Erich Przywara, di Oscar Cullmann, Martin Dibelius, Rudolf Bultmann, Karl Barth e dei grandi teologi americani come Reinhold Niebuhr - per non parlare dei teologi della liberazione (qualunque sia il giudizio che possiamo dare di loro, ora che ad essi viene prestata una nuova attenzione dalla Congregazione della Dottrina della fede) e molti altri ancora viventi. Ricordiamo anche i grandi teologi della Chiesa orientale dei quali conosciamo così poco, come Pavel Florenskij e Sergei Bulgakov.

Le opinioni su questi teologi possono essere molto diverse e variegate, ma essi certamente rappresentano un incredibile gruppo, come non è mai esistito nella Chiesa nei tempi passati.

Tutto ciò è avvenuto in un mondo carico di problemi e di sfide, come la ingiusta distribuzione delle ricchezze e delle risorse, la povertà e la fame, i problemi della violenza diffusa e del mantenimento della pace. È poi particolarmente vivo il problema della difficoltà di comprendere con chiarezza i limiti della legge civile in rapporto alla legge morale. Questi sono problemi molto reali, soprattutto in alcuni Paesi, e sono spesso oggetto di differenti letture che generano una dialettica anche molto accesa.

A volte sembra possibile immaginare che non tutti stiamo vivendo nello stesso periodo storico. Alcuni è come se stessero ancora vivendo nel tempo del Concilio di Trento, altri in quello del Concilio Vaticano Primo. Alcuni hanno bene assimilato il Concilio Vaticano Secondo, altri molto meno; altri ancora sono decisamente proiettati nel terzo millennio. Non siamo tutti veri contemporanei, e questo ha sempre rappresentato un grande fardello per la Chiesa e richiede moltissima pazienza e discernimento.

Ma preferisco accantonare almeno per il momento questo genere di problemi e considerare piuttosto la nostra situazione pedagogica e culturale con le conseguenti questioni collegate all’educazione e all’insegnamento.

UNA MENTALITÀ POSTMODERNA

Per cercare un dialogo proficuo tra la gente di questo mondo ed il Vangelo e per rinnovare la nostra pedagogia alla luce dell’esempio di Gesù, è importante osservare attentamente il cosiddetto mondo postmoderno, che costituisce il contesto di fondo di molti di questi problemi e ne condiziona le soluzioni.

Una mentalità postmoderna potrebbe essere definita in termini di opposizioni: un’atmosfera e un movimento di pensiero che si oppone al mondo così come lo abbiamo finora conosciuto. È una mentalità che si distacca spontaneamente dalla metafisica, dall’aristotelismo, dalla tradizione agostiniana e da Roma, considerata come la sede della Chiesa, e da molte altre cose.

Il pensare postmoderno è lontano dal precedente mondo cristiano platonico in cui erano dati per scontati la supremazia della verità e dei valori sui sentimenti, dell’intelligenza sulla volontà, dello spirito sulla carne, dell’unità sul pluralismo, dell’ascetismo sulla vitalità, dell’eternità sulla temporalità. Nel nostro mondo di oggi vi è infatti una istintiva preferenza per i sentimenti sulla volontà, per le impressioni sull’intelligenza, per una logica arbitraria e la ricerca del piacere su una moralità ascetica e coercitiva. Questo è un mondo in cui sono prioritari la sensibilità, l’emozione e l’attimo presente. L’esistenza umana diventa quindi un luogo in cui vi è libertà senza freni, in cui una persona esercita, o crede di poter esercitare, il suo personale arbitrio e la propria creatività.

Questo tempo è anche di reazione contro una mentalità eccessivamente razionale. La letteratura, l’arte, la musica e le nuove scienze umane (in particolare la psicoanalisi) rivelano come molte persone non credono più di vivere in un mondo guidato da leggi razionali, dove la civiltà occidentale è un modello da imitare nel mondo. Viene invece accettato che tutte le civiltà siano uguali, mentre prima si insisteva sulla cosiddetta tradizione classica. Oggi un po’ tutto viene posto sullo stesso piano, perché non esistono più criteri con cui verificare che cosa sia una civiltà vera e autentica.

Vi è opposizione alla razionalità vista anche come fonte di violenza perché le persone ritengono che la razionalità può essere imposta in quanto vera.

Si preferisce ogni forma di dialogo e di scambio per il desiderio di essere sempre aperti agli altri e a ciò che è diverso, si è dubbiosi anche verso se stessi e non ci si fida di chi vuole affermare la propria identità con la forza. Questo è il motivo per cui il cristianesimo non viene accolto facilmente quando si presenta come la 'vera' religione. Ricordo un giovane che recentemente mi diceva: «Soprattutto, non mi dica che il cristianesimo è verità. Questo mi dà fastidio, mi blocca. È diverso che dire che il cristianesimo è bello...». La bellezza è preferibile alla verità.

In questo clima, la tecnologia non è più considerata uno strumento al servizio dell’umanità, ma un ambiente in cui si danno le nuove regole per interpretare il mondo: non esiste più l’essenza delle cose, ma solo l’utilizzo di esse per un certo fine determinato dalla volontà e dal desiderio di ciascuno.

In questo clima, è conseguente il rifiuto del senso del peccato e della redenzione. Si dice: «Tutti sono uguali, ma ogni persona è unica».

Esiste il diritto assoluto di essere unici e di affermare se stessi. Ogni regola morale è obsoleta. Non esiste più il peccato, né il perdono, né la redenzione e tanto meno il «rinnegare se stessi». La vita non può più essere vista come un sacrificio o una sofferenza.

Un’ultima caratteristica della postmodernità è il rifiuto di accettare qualunque cosa che sa di centralismo o di volontà di dirigere le cose dall’alto.

In questo modo di pensare vi è un «complesso anti-romano». Siamo ormai oltre il contesto in cui l’universale, ciò che era scritto, generale e senza tempo, contava di più; in cui ciò che era durevole e immutabile veniva preferito rispetto a ciò che era particolare, locale e datato. Oggi la preferenza è invece per una conoscenza più locale, pluralista, adattabile a circostanze e a tempi diversi.

Non voglio ora esprimere giudizi. Sarebbe necessario molto discernimento per distinguere il vero dal falso, che cosa viene detto con approssimazione da ciò che viene detto con precisione, che cosa è semplicemente una tendenza o una moda da ciò che è una dichiarazione importante e significativa. Ciò che mi preme sottolineare è che questa mentalità è ormai dappertutto, soprattutto presso i giovani, e bisogna tenerne conto.

Ma voglio aggiungere una cosa. Forse questa situazione è migliore di quella che esisteva prima. Perché il cristianesimo ha la possibilità di mostrare meglio il suo carattere di sfida, di oggettività, di realismo, di esercizio della vera libertà, di religione legata alla vita del corpo e non solo della mente. In un mondo come quello in cui viviamo oggi, il mistero di un Dio non disponibile e sempre sorprendente acquista maggiore bellezza; la fede compresa come un rischio diventa più attraente. Il cristianesimo appare più bello, più vicino alla gente, più vero.

Il mistero della Trinità appare come fonte di significato per la vita e un aiuto per comprendere il mistero dell’esistenza umana.

«ESAMINA TUTTO CON DISCERNIMENTO»

Insegnare la fede in questo mondo rappresenta nondimeno una sfida. Per essere preparati, bisogna fare proprie queste attitudini: Non essere sorpreso dalla diversità. Non avere paura di ciò che è diverso o nuovo, ma consideralo come un dono di Dio. Prova ad essere capace di ascoltare cose molto diverse da quelle che normalmente pensi, ma senza giudicare immediatamente chi parla. Cerca di capire che cosa ti viene detto e gli argomenti fondamentali presentati. I giovani sono molto sensibili ad un atteggiamento di ascolto senza giudizi. Questa attitudine dà loro il coraggio di parlare di ciò che realmente sentono e di iniziare a distinguere che cosa è veramente vero da ciò che lo è soltanto in apparenza. Come dice San Paolo: «Esamina tutto con discernimento; conserva ciò che è vero; astieniti da ogni specie di male» (1 Ts 5:21-22).

Corri dei rischi. La fede è il grande rischio della vita. «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt. 16,25). Tutto deve essere dato via per Cristo e il suo Vangelo.

Sii amico dei poveri. Metti i poveri al centro della tua vita perché essi sono gli amici di Gesù che ha fatto di se stesso uno di loro.

Alimentati con il Vangelo. Come Gesù ci dice nel suo discorso sul pane della vita: «Perché il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (Gv. 6,33).

PREGHIERA, UMILTÀ E SILENZIO

Per aiutare a sviluppare queste attitudini, propongo quattro esercizi:

1. Lectio divina. È una raccomandazione di Giovanni Paolo II: «In particolare è necessario che l’ascolto della Parola diventi un incontro vitale, nell’antica e sempre valida tradizione della lectio divina che fa cogliere nel testo biblico la parola viva che interpella, orienta, plasma l’esistenza» ( Novo Millennio Ineunte, N. 39). «La Parola di Dio nutre la vita, la preghiera e il viaggio quotidiano, è il principio di unità della comunità in una unità di pensiero, l’ispirazione per il rinnovamento continuo e per la creatività apostolica» ( Ripartendo da Cristo, N. 24).

2. Autocontrollo. Dobbiamo imparare di nuovo che sapere opporsi alle proprie voglie è qualcosa di più gioioso delle concessioni continue che appaiono desiderabili ma che finiscono per generare noia e sazietà.

3. Silenzio. Dobbiamo allontanarci dalla insana schiavitù del rumore e delle chiacchiere senza fine, e trovare ogni giorno almeno mezz’ora di silenzio e mezza giornata ogni settimana per pensare a noi stessi, per riflettere e pregare. Questo potrebbe sembrare difficile, ma quando si riesce a dare un esempio di pace interiore e tranquillità che nasce da tale esercizio, anche i giovani prendono coraggio e trovano in ciò una fonte di vita e di gioia mai provata prima.

4. Umiltà. Non credere che spetti a noi risolvere i grandi problemi dei nostri tempi. Lascia spazio allo Spirito Santo che lavora meglio di noi e più profondamente. Non cercare di soffocare lo Spirito negli altri, è lo Spirito che soffia. Piuttosto, sii pronto a cogliere le sue manifestazioni più sottili. Per questo hai bisogno di silenzio.

Postmoderno

 

Non avere paura di ciò che è diverso o nuovo, ma consideralo come un dono di Dio. Prova ad ascoltare cose molto diverse dalle tue ma senza giudicare immediatamente chi parla.

I giovani sono molto sensibili ad un atteggiamento di ascolto senza giudizi. La fede è il grande rischio della vita. Tutto deve essere dato via per Cristo. Metti i poveri al centro della tua vita perché essi sono gli amici di Gesù

 

 

INTERVISTA AL CARD. CARLO MARIA MARTINI

Carlo Maria Martini: ''Caro professor Marino, ho letto con molto interesse e partecipazione il suo libro ''Credere e curare''. Mi ha colpito da una parte il suo amore per la professione medica e il suo interesse dominante per il malato e dall'altra la sua obiettivita' di giudizio, il suo equilibrio nel trattare problemi di frontiera, la' dove le esigenze mediche si incontrano e talora sembrano scontrarsi con le esigenze etiche. Ho visto come lei non vuole rinunciare ne' alla sua oggettivita' professionale di medico ne' alla sua coscienza di uomo e anche di credente. Tutto cio' mi pare molto importante per quel ''dialogo sulla vita'' che interessa giustamente tanto i nostri contemporanei, soprattutto per quei casi limite in cui gli ardimenti della scienza e della tecnica destano da una parte meraviglia e gratitudine e dall'altra suscitano preoccupazione per la specie umana e la sua dignita'. Tutto questo rende necessario e urgente un ''dialogo sulla vita'' che non parta da preconcetti o da posizioni pregiudiziali ma sia aperto e libero e nello stesso tempo rispettoso e responsabile''.

Ignazio Marino: ''Vedo anch'io molte ragioni per un dialogo oggettivo, approfondito e sincero sul tema della vita umana. Viviamo infatti un momento storico particolare in cui il progresso scientifico ha rivoluzionato la posizione dell'essere umano nei confronti della vita, della malattia e della morte. Oggi, diversamente da ieri, si puo' nascere in molti modi diversi, si puo' essere curati con terapie straordinarie e mantenuti per lungo tempo, in un reparto di rianimazione, in uno stato che puo' essere chiamato ''vita'' semplicemente dal punto di vista delle funzioni fisiologiche. La morte e' sempre piu' considerata come un evento eccezionale da evitare e non il naturale traguardo a cui giunge inevitabilmente ogni vita umana.

Questi cambiamenti influenzano non solo il corso della nostra esistenza ma anche il modo di concepire la vita, la malattia e la morte. Per questo non e' possibile ignorare gli innumerevoli quesiti etici che emergono dai continui cambiamenti legati alle nuove tecnologie e alle possibilita' che la scienza mette a disposizione degli uomini.

Il dialogo su questi temi e il confronto tra uomini di diversa formazione e con differenti ruoli all'interno della societa' puo' contribuire alla circolazione di idee e posizioni volte ad individuare punti di incontro e non di divisione. Su temi cosi' delicati, infatti, il rischio e' di cadere in facili contrapposizioni e strumentalizzazioni che non portano alcun vantaggio se non quello di creare fratture nella societa'. Invece, se il ragionamento viene condotto onestamente e con spirito di sincera apertura, e' possibile individuare percorsi comuni o per lo meno non troppo divergenti''.

L'inizio della vita

Martini: ''Sono pienamente d'accordo sulle sue premesse. La' dove per il progresso della scienza e della tecnica si creano zone di frontiera o zone grigie, dove non e' subito evidente quale sia il vero bene dell'uomo e della donna, sia di questo singolo sia dell'umanita' intera, e' buona regola astenersi anzitutto dal giudicare frettolosamente e poi discutere con serenita', cosi' da non creare inutili divisioni. Penso che potremmo iniziare qualche esperimento di un simile dialogo partendo dall'inizio della vita e in particolare da quella prassi, oggi sempre piu' comune, che si chiama ''fecondazione medicalmente assistita'' e alla sorte degli embrioni che vengono utilizzati a questo scopo. Su cio' vi sono non poche divergenze di pareri e anche incertezze di vocabolario e di prassi. Vuole chiarire un poco questo punto, sulla base della sua competenza?''.

Marino: ''Oggi e' possibile creare una vita in provetta, ricorrendo alla fecondazione artificiale. In presenza di problemi di fertilita' all'interno di una coppia, la fecondazione artificiale puo' servire allo scopo di completare una famiglia con un figlio. Tuttavia, questa pratica si e' diffusa in Italia e in molti altri paesi del mondo senza una regolamentazione prevista dalla legge. La scienza e le sue applicazioni mediche hanno camminato piu' rapidamente dei legislatori e, per questo motivo, ora ci troviamo ad affrontare il problema di migliaia di embrioni umani congelati e conservati nei frigoriferi delle cliniche per l'infertilita', senza che si sia deciso quale dovra' essere il loro destino.

L'attuale legge italiana, per evitare di perpetuare la produzione di embrioni di riserva che non vengono utilizzati, ha scelto una via semplicistica: crearne solo tre alla volta e impiantarli tutti nell'utero della donna. Ma questo numero, se si ragiona su base scientifica, dovrebbe essere flessibile e determinato caso per caso, secondo le condizioni mediche della coppia. Pero', la scienza viene in aiuto per suggerire delle alternative alla creazione e al congelamento degli embrioni. Esistono delle tecniche piu' sofisticate di quelle utilizzate oggi, che prevedono il congelamento non dell'embrione ma dell'ovocita allo stadio dei due pronuclei, cioe' nel momento in cui i due corredi cromosomici, quello femminile e quello maschile, sono ancora separati e non esiste ancora un nuovo Dna.

In questa fase non e' possibile sapere che strada prenderanno le cellule nel momento in cui inizieranno a riprodursi: potrebbero dare origine ad un bambino come a due gemelli monozigoti. Non c'e' l'embrione, non c'e' un nuovo patrimonio genetico e quindi non c'e' un nuovo individuo. Dal punto di vista biologico non c'e' una nuova vita. Possiamo allora pensare che essa non ci sia nemmeno dal punto di vista spirituale e quindi che non esistano problemi nel valutare l'idea di seguire questa strada anche da parte di chi ha una fede?''.

Martini: ''Capisco come questi fatti angustino molte persone, soprattutto quelle piu' sensibili ai problemi etici. E insieme sono convinto che i processi della vita, e quindi anche quelli della trasmissione della vita, formano un continuum in cui e' difficile individuare i momenti di un vero e proprio salto di qualita'. Questo fa si' che quando si tratta della vita umana, occorre un grande rispetto e un grande riserbo su tutto cio' che in qualche modo la manipola o la potrebbe strumentalizzare, fin dai suoi inizi.

Ma cio' non vuol dire che non si possano individuare momenti in cui non appare ancora alcun segno di vita umana singolarmente definibile. Mi pare questo il caso che lei propone dell'ovocita allo stadio dei due protonuclei. In questo caso mi sembra che la regola generale del rispetto puo' coniugarsi con quel trattamento tecnico che lei suggerisce. Mi pare anche che quanto lei propone permetterebbe il superamento di quel rifiuto di ogni forma di fecondazione artificiale che e' ancora presente in non pochi ambienti e che produce un doloroso divario tra la prassi ammessa comunemente dalla gente e anche sancita dalle leggi e l'atteggiamento almeno teorico di molti credenti. Ritengo comunque opportuna una distinzione tra fecondazione omologa e fecondazione eterologa. Ma mi sembra che un rifiuto radicale di ogni forma di fecondazione artificiale fosse basato soprattutto sul problema della sorte degli embrioni. Nella proposta che lei illustra tale problema potrebbe trovare un superamento''.

La fecondazione eterologa

Marino: ''Lei ha accennato anche alla distinzione tra fecondazione omologa ed eterologa. Il problema e' molto discusso. Infatti, se il desiderio di una coppia di creare una famiglia non puo' essere compiuto a causa di problemi di infertilita' o per la presenza di malattie genetiche in uno dei due potenziali genitori, perche' non ricorrere al seme o all'ovocita di un individuo esterno alla coppia? Non potrebbe rappresentare una soluzione per riuscire ad andare incontro a quel desiderio di famiglia? Il patrimonio genetico conta comunque di piu'? Riflettendo su questo tema, la mia prima valutazione sarebbe in favore della fecondazione eterologa, se questa e' l'unico mezzo per avere un figlio e se per la donna e' importante avere una gravidanza. Pero' mi sono confrontato anche con chi sostiene che la fecondazione eterologa non di rado introduce un disequilibrio nella coppia tra il genitore biologico, che trasmette al figlio parte del proprio Dna e l'altro.

Alcuni studi pubblicati su riviste scientifiche e condotti in paesi dove la fecondazione eterologa e' ammessa, hanno evidenziato che si puo' effettivamente creare un nucleo familiare psicologicamente sbilanciato a favore del genitore che ha trasmesso al figlio una parte del proprio patrimonio genetico, come se in qualche modo un genitore valesse piu' dell'altro. Un'altra questione riguarda la trasparenza: il bambino che nasce da una fecondazione eterologa dovrebbe esserne informato? E, se la risposta e' affermativa, e' giusto seguire un percorso che puo' creare traumi psicologici, anche se nasce dal desiderio di avere un figlio? Vietare per legge il ricorso alla fecondazione eterologa significa limitare la liberta' dei cittadini o va interpretata come una tutela per il futuro di chi verra' dopo di noi?''.

Martini: ''Le obiezioni di natura psicologica che lei ha ricordato sono appunto tra i motivi che hanno bloccato non pochi sul fatto di procedere sulla via della fecondazione eterologa, anche se cio' puo' comportare sofferenze per alcuni. Si aggiunge dal punto di vista etico la protezione del rapporto privilegiato che col matrimonio si viene ad istituire tra un uomo e una donna.

Personalmente tuttavia rifletto anche sulle situazioni che si vengono a creare con le varie forme di adozione e di affido, dove al di la' del patrimonio genetico e' possibile instaurare un vero rapporto affettivo ed educativo con chi non e' genitore nel senso fisico del termine. Sarei dunque prudente nell'esprimermi su quei casi che lei ricorda, dove non e' possibile ricorrere al seme o all'ovocita all'interno della coppia. Tanto piu' la' dove si tratta di decidere della sorte di embrioni altrimenti destinati a perire e la cui inserzione nel seno di una donna anche single sembrerebbe preferibile alla pura e semplice distruzione.

Mi pare che siamo in quelle zone grigie di cui parlavo sopra, in cui la probabilita' maggiore sta ancora dalla parte del rifiuto della fecondazione eterologa, ma in cui non e' forse opportuno ostentare una certezza che attende ancora conferme ed esperimenti''.

La ricerca sulle cellule staminali embrionali

Marino: ''I problemi connessi con gli embrioni hanno suscitato aspre discussioni anche sull'utilizzo a scopo di ricerca delle cellule staminali prelevate dagli embrioni stessi. Il referendum sulla procreazione medicalmente assistita del giugno 2005 chiedeva, tra le altre cose, di abrogare l'articolo della legge 40 in cui si vieta l'utilizzo di queste cellule staminali. Dal punto di vista scientifico e' ipotizzabile, anche se non ancora confermato, che le cellule staminali embrionali siano le piu' adatte ai fini di ricerca, per individuare terapie per curare malattie molto gravi, dal morbo di Parkinson all'Alzheimer ecc. Esistono altri tipi di cellule staminali, prelevate da tessuti adulti o dal cordone ombelicale, che gia' oggi vengono utilizzate con qualche successo. Quasi tutti i ricercatori concordano sul fatto che non sia necessario creare embrioni con il solo scopo di prelevarne le cellule staminali: si possono infatti acquistare linee cellulari per condurre le ricerche, e, inoltre, studi molto recenti condotti sui topi hanno dimostrato la possibilita' di ottenere cellule che abbiano le stesse caratteristiche delle staminali embrionali senza dover creare degli embrioni. Resta in sospeso la questione che riguarda gli embrioni conservati nelle cliniche per l'infertilita' e che con ogni probabilita' non verranno mai utilizzati da nessuna coppia. La loro fine e' certa, ma e' meglio lasciarli morire nel freddo oppure utilizzare le preziose cellule per scopi di ricerca? In una visione di ortodossia religiosa, si tratta di vite e come tali non possono essere soppresse per prelevare le cellule a scopo terapeutico, anche se un giorno quegli embrioni saranno comunque distrutti. Si tratterebbe della diversita' tra uccidere e il lasciar morire. Questo punto e' eticamente superabile? Non e' opportuno chiedere la donazione delle cellule staminali embrionali da destinare ai laboratori per sostenere la ricerca a favore di malattie oggi incurabili?''.

Martini: ''Innanzi tutto sono impressionato dalla prudenza con cui lei parla dell'efficacia terapeutica delle cellule staminali. Mi pare di capire che siamo ancora nel campo della ricerca e che quindi non e' onesto propagandare certezze sull'efficacia curativa di queste cellule prima che cio' sia stato debitamente provato. Mi rallegro anche per il fatto che non e' piu' ritenuto necessario creare degli embrioni con lo scopo di produrre le cellule staminali e che sono stati eleborati metodi alternativi che non pongono problemi alla coscienza. È un motivo in piu' per avere fiducia in quella intelligenza che il Signore ha dato all'uomo perche' superi i problemi che la vita pone. È nel nome di questa stessa intelligenza che non vedo possibile pensare a una utilizzazione di cellule staminali embrionali per la ricerca. Cio' sarebbe contro tutti i principi esposti finora''.

Gli embrioni congelati esistenti

Marino: ''La sua risposta mi permette di allargare la riflessione alla sorte degli embrioni esistenti anche al di la' di quanto sopra ipotizzato. Quando essi non vengono utilizzati, che cosa sarebbe etico fare? Attualmente non e' stata individuata una soluzione, se non quella di abbandonare le provette nei congelatori. Ma e' eticamente corretto ed accettabile tollerare che migliaia di embrioni umani restino congelati nelle cliniche per l'infertilita', attendendo semplicemente che si spengano nel freddo con il passare degli anni? Non potrebbero per esempio essere destinati a donne single che desiderano avere una gravidanza? Oppure a coppie con problemi legati a malattie genetiche che non possono ricorrere alla fecondazione artificiale normale per evitare il rischio di trasmissione del difetto genetico?''.

Martini: ''Mi pare che qui siamo di fronte a un conflitto di valori, piu' evidente nel caso della donna single che desidera avere una gravidanza, ma esistente anche, per i motivi che ho detto sopra, per coppie che per gravi ragioni mediche non possono ricorrere alla fecondazione artificiale normale. La' dove c'e' un conflitto di valori, mi parrebbe eticamente piu' significativo propendere per quella soluzione che permette a una vita di espandersi piuttosto che lasciarla morire. Ma comprendo che non tutti saranno di questo parere. Solamente vorrei evitare che ci si scontrasse sulla base di principi astratti e generali la' dove invece siamo in una di quelle zone grigie dove e' doveroso non entrare con giudizi apodittici''.

Adozioni per single

Marino: ''Ci sono poi altri problemi, connessi allo sviluppo della vita, in particolare alla cura che la societa' deve avere per i bambini che non hanno una famiglia. In questi casi si apre la possibilita' e l'utilita', anzi quasi la necessita' di un'adozione. Oggi in Italia le adozioni non sono ammesse per i single e, piu' in generale, la legislazione e' molto complessa e rende difficile ogni tipo di adozione. Mi chiedo se, dal punto di vista etico, sia preferibile che un bambino orfano o abbandonato dai genitori passi la vita in un istituto o sulla strada piuttosto che avere una famiglia composta da un solo genitore? Siamo sicuri che sia questa la strada giusta per garantire la migliore crescita possibile a quel bambino? Del resto, se un genitore rimane vedovo, anche alla nascita del primo figlio, nessuno pensa che il bambino non debba continuare a vivere nel suo nucleo familiare anche se il genitore e' solo uno. O ancora, la Chiesa sostiene che in presenza di un feto, in qualunque circostanza si debba invitare la donna a portare a termine la gravidanza, anche se il padre e' assente o contrario, e quindi si trattera' di sostenere una madre che nei fatti sara' single. Perche' allora non sostenere anche le adozioni per i single, una volta accertata la motivazione, i mezzi e le capacita' del potenziale genitore di assicurare una crescita serena al bambino adottato?''.

Martini: ''Lei si pone domande serie e ragionevoli su un tema complesso, sul quale non ho sufficiente esperienza. Ma penso che il punto di partenza e' la condizione che lei esprime in chiusura. Occorre cioe' assicurare che chi si prende cura del bambino adottato abbia le giuste motivazioni e abbia anche i mezzi e le capacita' per assicurarne una crescita serena. Chi e' in tale condizione? Certamente anzitutto una famiglia composta da un uomo e una donna che abbiano saggezza e maturita' e che possano assicurare una serie di relazioni anche intrafamiliari atte a far crescere il bambino da tutti i punti di vista. In mancanza di cio' e' chiaro che anche altre persone, al limite anche i single, potrebbero dare di fatto alcune garanzie essenziali. Non mi chiuderei percio' a una sola possibilita', ma lascerei ai responsabili di vedere quale e' la migliore soluzione di fatto, qui e adesso, per questo bambino o bambina. Lo scopo e' di assicurare il massimo di condizioni favorevoli concretamente possibili. Percio', quando e' data la possibilita' di scegliere, occorre scegliere il meglio''.

Aborto

Marino: ''Uno dei temi piu' difficili da affrontare, su cui ci si interroga in continuazione proprio per la sua delicatezza e complessita', e' l'aborto. In Italia, lo Stato ha regolato la materia, sforzandosi di coniugare il principio dell'autodeterminazione delle donne con la liberta' di coscienza dei medici che possono scegliere l'obiezione. In questi anni in Italia abbiamo potuto constatare gli effetti della legislazione sull'aborto. Per quanto ciascuno di noi riconosca che l'aborto costituisce sempre una sconfitta, nessuno puo' negare che la legge ha permesso di ridurre il numero complessivo degli aborti e di tenere sotto controllo quelli clandestini, evitando di mettere a rischio la vita delle donne esposte a gravi disastri come le perforazioni dell'utero fatte dalle ''mammane'' per indurre l'aborto. Di fronte a casi estremi come una donna che ha subito una violenza, una gravidanza in un'adolescente di undici o dodici anni, una donna senza le possibilita' economiche di allevare un bambino, come si pone la Chiesa? Se si ammette il principio della scelta del male minore e, come suggerisce la Chiesa cattolica, quello di affidare la risposta all'intimo della propria coscienza (conscientia perplexa: quella condizione in cui un uomo o una donna a volte si trovano ad affrontare situazioni che rendono incerto il giudizio morale e difficile la decisione), non sarebbe eticamente corretto spiegare apertamente questo punto di vista? E sostenerlo anche pubblicamente?''.

Martini: ''Il tema e' molto doloroso e anche molto sofferto. Certamente bisogna anzitutto voler fare tutto quanto e' possibile e ragionevole per difendere e salvare ogni vita umana. Ma cio' non toglie che si possa e si debba riflettere sulle situazioni molto complesse e diversificate che possono verificarsi e ragionare cercando in ogni cosa cio' che meglio e piu' concretamente serve a proteggere e promuovere la vita umana. Ma e' importante riconoscere che la prosecuzione della vita umana fisica non e' di per se' il principio primo e assoluto. Sopra di esso sta quello della dignita' umana, dignita' che nella visione cristiana e di molte religioni comporta una apertura alla vita eterna che Dio promette all'uomo. Possiamo dire che sta qui la definitiva dignita' della persona. Anche chi non avesse questa fede, potrebbe pero' comprendere l'importanza di questo fondamento per i credenti e il bisogno comunque di avere delle ragioni di fondo per sostenere sempre e dovunque la dignita' della persona umana. Le ragioni di fondo dei cristiani stanno nelle parole di Gesu', il quale affermava che ''la vita vale piu' del cibo e il corpo piu' del vestito'' (cfr Matteo 6,25), ma esortava a non avere paura ''di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima'' (cfr Mt 10,28). La vita fisica va dunque rispettata e difesa, ma non e' il valore supremo e assoluto.

Nel vangelo secondo Giovanni Gesu' proclama: ''Io sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, anche se muore, vivra''' (Gv 6,25). E san Paolo aggiunge: ''Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovra' essere rivelata in noi'' (Rom 8, 18). V'e' dunque una dignita' dell'esistenza che non si limita alla sola vita fisica, ma guarda alla vita eterna. Cio' posto, mi sembra che anche su un tema doloroso come quello dell'aborto (che, come lei dice, rappresenta sempre una sconfitta) sia difficile che uno Stato moderno non intervenga almeno per impedire una situazione selvaggia e arbitraria. E mi sembra difficile che, in situazioni come le nostre, lo Stato non possa non porre una differenza tra atti punibili penalmente e atti che non e' conveniente perseguire penalmente. Cio' non vuol dire affatto ''licenza di uccidere'', ma solo che lo Stato non si sente di intervenire in tutti i casi possibili, ma si sforza di diminuire gli aborti, di impedirli con tutti i mezzi soprattutto dopo qualche tempo dall'inizio della gravidanza, e si impegna a diminuire al possibile le cause dell'aborto e a esigere delle precauzioni perche' la donna che decidesse comunque di compiere questo atto, in particolare nei tempi non punibili penalmente, non ne risulti gravemente danneggiata nel fisico fino al pericolo di morte. Cio' avviene in particolare, come lei ricorda, nel caso degli aborti clandestini, e quindi e' tutto sommato positivo che la legge abbia contribuito a ridurli e tendenzialmente a eliminarli.

Comprendo che in Italia, con l'esistenza del Servizio Sanitario Nazionale, cio' comporta una certa cooperazione delle strutture pubbliche all'aborto. Vedo tutta la difficolta' morale di questa situazione, ma non saprei al momento che cosa suggerire, perche' probabilmente ogni soluzione che si volesse cercare comporterebbe degli aspetti negativi. Per questo l'aborto e' sempre qualcosa di drammatico, che non puo' in nessun modo essere considerato come un rimedio per la sovrapopolazione, come mi pare avvenga in certi paesi del mondo. Naturalmente non intendo comprendere in questo giudizio anche quelle situazioni limite, dolorosissime anch'esse e forse rare, ma che possono presentarsi di fatto, in cui un feto minaccia gravemente la vita della madre. In questi e simili casi mi pare che la teologia morale da sempre ha sostenuto il principio della legittima difesa e del male minore, anche se si tratta di una realta' che mostra la drammaticita' e la fragilita' della condizione umana.

Per questo la Chiesa ha anche dichiarato eroico ed esemplarmente evangelico il gesto di quelle donne che hanno scelto di evitare qualunque danno recato alla nuova vita che portano in seno, anche a costo di rimetterci la vita propria. Non riesco invece ad applicare tale principio della legittima difesa e/o del male minore agli altri casi estremi da lei ipotizzati, ne' mi avvarrei del principio della conscientia perplexa, che non so bene che cosa significa. Mi pare che anche nei casi in cui una donna non puo', per diversi motivi, sostenere la cura del suo bambino, non devono mancare altre istanze che si offrono per allevarlo e curarlo. Ma in ogni caso ritengo che vada rispettata ogni persona che, magari dopo molta riflessione e sofferenza, in questi casi estremi segue la sua coscienza, anche se si decide per qualcosa che io non mi sento di approvare''. Compensi per la donazione di organi?

Marino: ''C'e' un argomento che mi tocca da vicino, dato che da piu' di venticinque anni mi occupo di trapianti di organo. Grazie ai trapianti oggi migliaia di persone, altrimenti destinate a morte certa, guariscono e conducono un'esistenza piena da tutti i punti di vista. Il limite principale ad una maggiore diffusione di questa terapia e' legato all'insufficiente numero di donazioni e quindi di organi da trapiantare, e di conseguenza molte persone muoiono in lista d'attesa.

Per aumentare il numero di donatori, in alcuni paesi e principalmente in Gran Bretagna, e' stata avanzata l'ipotesi di stabilire un compenso per le famiglie che accettano di donare gli organi del proprio parente dopo la morte. Il dubbio e' se sia eticamente corretto proporre vantaggi materiali o denaro in cambio della donazione degli organi. Si potrebbe in questo modo probabilmente aumentare il numero delle donazioni e dei trapianti e rispondere cosi' alle esigenze dei malati che attendono in lista un organo che salvera' loro la vita. Eppure questa ipotesi contiene in se il presupposto per un comportamento non equo. Non si rischia di instaurare una situazione in cui solo i meno abbienti, incentivati da un compenso, saranno disposti a donare gli organi mentre i piu' ricchi si limiteranno a riceverli? E la donazione, proprio in quanto tale, non dovrebbe sempre e solo basarsi sul principio dell'uguaglianza?''.

Martini: ''Personalmente sento molto cio' che lei afferma in conclusione, cioe' l'importanza del principio dell'uguaglianza e i pericoli gravissimi di una ipotesi di retribuzione per gli organi. Mi pare che la strada e' invece quella di propagandare il piu' possibile il principio della donazione e far crescere la coscienza collettiva su questo punto. C'e' davvero da auspicare che non vi sia piu' chi muoia in lista d'attesa, mentre vi sono organi disponibili''.

Hiv e Aids

Marino: ''La questione dell'uguaglianza ci porta direttamente ad interrogarci su problemi e malattie che affliggono milioni di persone in tutto il mondo, soprattutto nei paesi piu' poveri e svantaggiati per i quali l'idea di uguaglianza rimane un sogno molto lontano se non una mera utopia. Come non pensare subito all'Aids? Circa 42 milioni di persone nel mondo sono portatrici del virus dell'Hiv. Nel solo 2005 secondo i dati riferiti dalle agenzie dell'Onu, 3 milioni di persone sono morte di Aids mentre si sono registrati 5 milioni di nuovi infetti. Il 60 per cento dei portatori del virus vive nei paesi piu' poveri dell'Africa Sub-Sahariana, con un'incidenza media nella popolazione tra il 5 e il 10 per cento e punte che arrivano sino al 25-30 per cento in alcuni paesi come il Botswana o lo Zimbabwe.

L'Hiv e' la piaga di un continente che genera non solo ammalati ma orfani, poverta', impossibilita' di migliorare le condizioni di vita. Nel mondo occidentale, oggi il virus viene tenuto sotto controllo grazie ai progressi nelle terapie farmacologiche che permettono ad un sieropositivo di condurre un'esistenza del tutto normale, con un'aspettativa di vita paragonabile a quella delle persone non affette dal virus. Fino a pochi anni fa, il costo annuale per i farmaci di una persona sieropositiva si aggirava intorno a dieci mila euro, una cifra proibitiva che poteva essere sostenuta soltanto dai paesi dove era presente un sistema sanitario nazionale. Oggi i prezzi, in regime di concorrenza, hanno subito un crollo, fino ad attestarsi a meta' 2003 su 700 euro per i farmaci di marca (prodotti dalle multinazionali farmaceutiche) e intorno a 200 euro per i generici di fabbricazione indiana, brasiliana e tailandese. Nonostante questi importanti passi avanti, in molti paesi africani la spesa procapite in sanita' non supera i 10 dollari l'anno per cui, nei fatti, l'accesso ai farmaci e alle terapie per contrastare l'Aids e' negato e il virus continua a diffondersi. Sappiamo che l'Aids si puo' in parte contrastare con la prevenzione e l'utilizzo dei profilattici. Come e' accettabile non promuovere l'utilizzo del profilattico per contribuire a controllare la diffusione del virus? È o non e' un dovere dei governi fare scelte e prendere decisioni su questo tema? E, rispetto alla dottrina ufficiale della Chiesa cattolica, non si tratterebbe comunque di optare per un male minore e contribuire alla salvezza di tante vite umane?''.

Martini: ''Le cifre che lei cita destano smarrimento e desolazione. Nel nostro mondo occidentale e' assai difficile rendersi conto di quanto si soffra in certe nazioni. Avendole visitate personalmente, sono stato testimone di questa sofferenza, sopportata per lo piu' con grande dignita' e quasi in silenzio. Bisogna fare di tutto per contrastare l'Aids. Certamente l'uso del profilattico puo' costituire in certe situazioni un male minore. C'e' poi la situazione particolare di sposi uno dei quali e' affetto da Aids. Costui e' obbligato a proteggere l'altro partner e questi pure deve potersi proteggere. Ma la questione e' piuttosto se convenga che siano le autorita' religiose a propagandare un tale mezzo di difesa, quasi ritenendo che gli altri mezzi moralmente sostenibili, compresa l'astinenza, vengano messi in secondo piano, mentre si rischia di promuovere un atteggiamento irresponsabile. Altro e' dunque il principio del male minore, applicabile in tutti i casi previsti dalla dottrina etica, altro e' il soggetto cui tocca esprimere tali cose pubblicamente. Credo che la prudenza e la considerazione delle diverse situazioni locali permettera' a ciascuno di contribuire efficacemente alla lotta contro l'Aids senza con questo favorire i comportamenti non responsabili''.

La fine della vita

Martini: ''Ma credo che e' giunto il momento per il nostro dialogo di passare ad un'altra serie di problemi che riguardano la vita, e precisamente quelli che si riferiscono alla fine di essa. È necessario vivere con dignita', ma per questo morire anche con dignita'. Ora, come lei sa, qui si pongono, soprattutto in Occidente, problemi molto gravi''.

Marino: ''Lei pensa certamente anzitutto all'eutanasia, una parola attorno a cui si crea sempre molta confusione attribuendole diversi significati. Per questo preferisco non parlare in astratto, ma esprimermi in maniera molto concreta. Si puo' o no ammettere che una persona induca volontariamente la morte di un'altra, sebbene gravemente ammalata e in preda a dolori fisici devastanti, per alleviare questo dolore? Di fronte ad una situazione irreversibile in cui la morte e' inevitabile, ritengo sia assolutamente necessaria la somministrazione di farmaci come la morfina, che alleviano il dolore e accompagnano il malato con maggiore tranquillita' nel passaggio dalla vita alla morte. È quanto viene fatto, in queste drammatiche circostanze, in tutte le rianimazioni negli Stati Uniti. Io stesso, pur soffrendone perche' un medico vorrebbe sempre poter salvare la vita dei suoi pazienti, lavorando negli Stati Uniti ho deciso diverse volte di sospendere tutte le terapie. È un momento doloroso per la famiglia e, le assicuro, anche per il medico ma e' una onesta accettazione che non si puo' fare piu' nulla se non evitare di prolungare sofferenze inutili e lesive della dignita' del paziente.

L'Italia e' ancora gravemente carente in proposito, in assenza di una legge che regolamenti la materia al punto che se io eseguissi lo stesso tipo di procedimento nel nostro paese potrei essere arrestato e condannnato per omicidio, mentre si tratta solo di non accanirsi con terapie senza senso. Non sono invece d'accordo nel somministrare una sostanza velenosa per provocare l'arresto del cuore del malato e quindi indurre la morte. E, pur condannando il gesto, non sono tuttavia certo che si possa condannare la persona che lo compie.

Faccio un esempio: in un recente film vincitore del premio Oscar, dal titolo ''One Million Dollar Baby'', viene descritto il dramma di una donna ridotta in stato semivegetativo dopo un grave incidente sportivo, che chiede ad un uomo, il suo principale punto di riferimento nella vita, di aiutarla a porre fine alla sua sofferenza fisica e psicologica. L'uomo inizialmente rifiuta poi accetta perche' ritiene che quello sia un atto d'amore estremo verso l'essere umano a cui si tiene di piu'. Pur non riuscendo a giustificare l'idea della soppressione di una vita, mi chiedo, in situazioni simili, come si puo' condannare il gesto di una persona che agisce su richiesta di un ammalato e per puro sentimento d'amore? E d'altra parte e' lecito ammettere il principio di non condannare una persona che uccide?''.

Martini: ''Sono d'accordo con lei che non si puo' mai approvare il gesto di chi induce la morte di altri, in particolare se e' un medico, che ha come scopo la vita del malato e non la morte. Neppure io tuttavia vorrei condannare le persone che compiono un simile gesto su richiesta di una persona ridotta agli estremi e per puro sentimento di altruismo, come pure quelli che in condizioni fisiche e psichiche disastrose lo chiedono per se'. D'altra parte ritengo che e' importante distinguere bene gli atti che arrecano vita da quelli che arrecano morte. Questi ultimi non possono mai esser approvati. Ritengo che su questo punto debba sempre prevalere quel sentimento profondo di fiducia fondamentale nella vita che, malgrado tutto, vede un senso in ogni momento dell'esistere umano, un senso che nessuna circostanza per quanto avversa puo' distruggere. So tuttavia che si puo' giungere a tentazioni di disperazione sul senso della vita e a ipotizzare il suicidio per se' o per altri, e percio' prego anzitutto per me e poi per gli altri perche' il Signore protegga ciascuno di noi da queste terribili prove. In ogni caso e' importantissimo lo star vicino ai malati gravi, soprattutto nello stato terminale e far sentire loro che si vuole loro bene e che la loro esistenza ha comunque un grande valore ed e' aperta a una grande speranza. In questo anche un medico ha una sua importante missione''.

Accanimento terapeutico e interruzione delle terapie

Marino: ''Connesso con questo tema e' quello dell'accanimento terapeutico. La tecnologia attuale e' in grado di mantenere in vita malati che fino a pochi anni fa non venivano nemmeno condotti in un reparto di rianimazione. Il progresso scientifico permette di prolungare artificialmente anche la vita di una persona che ha perso ogni speranza di ritrovare una condizione di salute accettabile. Per questo appare urgente affrontare il problema dell'interruzione delle terapie. Ogni forma di accanimento terapeutico andrebbe evitata perche' contrasta con il rispetto della dignita' umana. Per la Chiesa, la sospensione delle terapie viene considerata come accettazione di un fatto naturale, di non accanirsi piu'.

Il Catechismo della Chiesa cattolica dice: ''L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi puo' essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all'accanimento terapeutico. Non si vuole cosi' procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacita', o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volonta' e gli interessi legittimi del paziente''.

Esistono strumenti legali, come il testamento biologico, che permettono al singolo individuo di indicare con precisione, e in un momento di tranquillita' emotiva, fino a che punto si desidera accettare il ricorso a terapie straordinarie. Il testamento biologico rappresenta uno strumento molto valido per aiutare il medico e la famiglia a prendere la decisione finale. Dovrebbe basarsi su regole flessibili e indicare anche una persona di fiducia in grado di interpretare le volonta' di quell'individuo tenendo conto degli ulteriori progressi della scienza. Molti paesi lo hanno adottato con buoni risultati. In Italia un disegno di legge e' stato presentato al Senato da molto tempo ma attende ancora di essere discusso. Non sarebbe il momento di avviare una riflessione seria e condivisa per introdurre al piu' presto anche nel nostro paese una legislazione in merito alla fine della vita, cioe' a uno dei momenti piu' importanti della nostra esistenza?''.

Martini: ''Il testo da lei citato del Catechismo della Chiesa cattolica mi pare esauriente al proposito. Se si volesse legiferare su questo punto e' pero' importante che non si introducano aperture alla cosiddetta eutanasia di cui abbiamo parlato sopra. Per questo sono incerto anche sullo strumento del testamento biologico. Non ho studiato l'argomento e non saprei dare un parere decisivo. Ritengo con lei che una riflessione seria e condivisa sulla fine della vita potrebbe essere utile, purche' sia appunto seria e condivisa e non si presti a speculazioni di parte e soprattutto non introduca in qualche modo aperture a quella decisione sulla propria morte che ripugna al senso profondo del bene della vita, come sopra si e' detto''.

La scienza e il senso del limite

Marino: ''In conclusione, vorrei proporre una riflessione piu' generale. La conoscenza, il progresso scientifico, l'avanzamento tecnologico creano straordinarie opportunita' di crescita per il nostro pianeta ma allo stesso tempo mettono nelle mani di ricercatori e scienziati un grande potere, legato al fatto di essere in grado di intervenire sui meccanismi che regolano l'inizio della vita e la sua fine. La scienza corre piu' veloce del resto della societa' e anche dei parlamenti, incaricati di fissare delle regole ma il piu' delle volte incapaci di intervenire tempstivamente.

A mio modo di vedere andrebbe richiesta con fermezza un'assunzione di responsabilita' da parte di ogni scienziato coinvolto in un campo della ricerca che interviene sull'essenza della vita, sulla sua creazione e sulla sua fine. Fermo restando che la valutazione razionale e' indispensabile, l'arbitrio del ricercatore dovrebbe essere disciplinato anche dal senso di responsabilita' bilanciato dalla valutazione dei rischi e delle conseguenze.

Non si tratta di appellarsi alla fede o alla religione ma di puntare su una presa di coscienza da parte di ogni scienziato. Questo non significa voler arrestare il progresso scientifico ma preservare e rispettare il nostro bene piu' prezioso, ovvero la vita. Ma la storia purtroppo ci insegna che l'appello alla responsabilita' individuale a volte non basta. Per questo gli scienziati devono fornire ogni informazione utile e alla fine dovrebbero essere i parlamenti, o meglio le istituzioni sovranazionali, a fissare le regole sulla base del comune sentire dei cittadini''.

Martini: ''Tutti siamo pieni di meraviglia e di stupore, e quindi anche grati a Dio, per il formidabile progresso scientifico e tecnologico di questi anni che permette e permettera' sempre piu' e meglio di provvedere alla salute della gente. Insieme siamo consci, come lei dice, del grande potere che e' nelle mani di ricercatori e di scienziati e della ferma assunzione di responsabilita' che deve permettere ad essi di ricercare sempre valutando i rischi e le conseguenze delle loro azioni. Esse devono sempre contribuire al bene della vita e mai al contrario. Per questo occorre anche talora sapersi fermare, non varcare il limite. Io sono inclinato a nutrire fiducia nel senso di responsabilita' di questi uomini e vorrei che avessero quella liberta' di ricerca e di proposta che permette l'avanzamento della scienza e della tecnica, rispettando insieme i parametri invalicabili della dignita' di ogni esistenza umana. So anche che non si puo' fermare il progresso scientifico, ma lo si puo' aiutare ad essere sempre piu' responsabile. Come lei dice, non si tratta di appellarsi alla fede o alla religione, ma di puntare sul senso etico che ciascuno ha dentro di se'. Certamente anche leggi buone e tempestive possono aiutare, ma come lei afferma, la scienza corre oggi piu' veloce dei parlamenti. Si esige quindi un soprassalto di coscienza e un di piu' di buona volonta' per far si' che l'uomo non divori l'uomo, ma lo serva e lo promuova. Anche le istituzioni sovranazionali debbono prender coscienza del pericolo che tutti corriamo e del bisogno di interventi tempestivi e responsabili.

In tutta questa materia occorre che ciascuno faccia la sua parte: gli scienziati, i tecnici, le universita' e i centri di ricerca, i politici, i governi e i parlamenti, l'opinione pubblica e anche le chiese. Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, vorrei sottolineare soprattutto il suo compito formativo. Essa e' chiamata a formare le coscienze, a insegnare il discernimento del meglio in ogni occasione, a dare le motivazioni profonde per le azioni buone. A mio avviso non serviranno tanto i divieti e i no, soprattutto se prematuri, anche se bisognera' qualche volta saperli dire. Ma servira' soprattutto una formazione della mente e del cuore a rispettare, amare e servire la dignita' della persona in ogni sua manifestazione, con la certezza che ogni essere umano e' destinato a partecipare alla pienezza della vita divina e che questo puo' richiedere anche sacrifici e rinunce. Non si tratta di oscillare tra rigorismo e lassismo, ma di dare le motivazioni spirituali che inducono ad amare il prossimo come se stessi, anzi come Dio ci ha amato e anche a rispettare e ad amare il nostro corpo.

Come afferma san Paolo, il corpo e' per il Signore e il Signore e' per il corpo. Il nostro corpo e' tempio dello Spirito Santo che e' in noi e che abbiamo da Dio: percio' non apparteniamo a noi stessi e siamo chiamati a glorificare Dio nel nostro corpo, cioe' nella totalita' della nostra esistenza su questa terra (cfr 1 Cor 6,13.19-20)''.

A cura di Daniela Minerva

 

Pace. Medio Oriente, ricordati di Abramo

L'appello di André Chouraqui

Gerusalemme rappresenta uno dei crocevia più importanti di quell’incontro fra l'Asia e il Mediterraneo da cui sono nati la Bibbia e il Corano, e un punto d'incontro d'importanza storica fra nord e sud, fra Paesi ricchi e Paesi poveri. Alle soglie del terzo millennio la città, per la sua posizione geografica e storica, è l'epicentro di un confronto e di un conflitto permanente fra i popoli e le religioni che a essa si richiamano. Gerusalemme può e deve, invece, diventare il centro della loro riconciliazione esemplare, dove si incontrano l'Asia, l'Africa e il Mediterraneo. Capitale nazionale d'Israele, capitale religiosa dell'ebraismo, del cristianesimo e dell'islam, Gerusalemme avrà dunque il compito di realizzare le speranze nutrite dai suoi fondatori e, lungo i secoli, dai suoi abitanti ebrei, cristiani e musulmani, i quali hanno tutti cullato la visione di un'alleanza universale di pace. La riconciliazione dei suoi abitanti - ebrei provenienti da tutti i Paesi del mondo, musulmani appartenenti a tutti i gruppi etnici e a tutti i riti dell'islam e cristiani che, con le loro trentacinque differenti confessioni, rappresentano in modo perfetto l'ecumenicità della Chiesa, costituisce il vero volto della nostra città, a immagine del «villaggio globale» del mondo.

Una Gerusalemme realmente pacificata in tutti i suoi abitanti potrebbe diventare uno dei luoghi privilegiati dell'incontro fra il Creatore e le Sue creature, fra Dio e gli uomini. Al termine di tante migliaia di anni da Abramo, da Mosè e al termine del secondo millennio da Gesù, è infine tempo che il popolo dell'Alleanza tenga fede alle promesse fatte, giacché tale popolo esiste: esso non annovera solamente circoncisi e battezzati, ma ogni uomo vivente, costruttore di pace, sorgente di vita. Quanto al paese dell'Alleanza, solo la terra intera oggi potrebbe esserlo, definitivamente votata alla luce dell'amore.

Noi siamo i figli di una generazione che si è mostrata capace dei più grandi crimini perpetrati nella storia, le cui vittime si contano in decine di milioni. Questa stessa generazione ha inoltre disvelato con il suo genio i segreti più riposti sia dell'infinitamente piccolo sia dell'infinitamente grande, e oggi si eleva nella stratosfera per contemplare direttamente Giove o Venere.

Saprà scoprire il Volto del Creatore dei cieli e della terra? Sulla terra, questa stessa generazione ha riconciliato ebrei e cristiani, i figli di Cristo e quelli d’Israele, grazie al genio di grandi papi come Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II.

Ci auguriamo che la riconciliazione dell'ebraismo, del cristianesimo e dell'islam inauguri La via regale dell'autentico dialogo fra tutti gli universi culturali, sia quelli nati sulle rive del Mediterraneo sia quelli sorti in Asia, in Africa e nelle Americhe. Rabbini, preti e imam dovranno privilegiare, al di là delle loro divergenze teologiche, l'ideale dell'Alleanza, cioè del dialogo fra gli universi culturali. Nella Bibbia la piramide dell'Alleanza ha inizio con l'atto creatore dei cieli e della terra: «In principio Dio [Elohim] creò i cieli e La terra». Tale atto creatore fonda l'alleanza fondamentale di Elohim con tutte le creature delle quali Egli è Padre. L’inveramento di tale visione, che è al primo posto sia nell'ebraismo,sia nel cristianesimo e nell'islam, potrebbe salvare il mondo dalle conflagrazioni sin troppo prevedibili e dai pericoli mortali che lo minacciano.

La mia Lettre à un ami arabe [Lettera a un amico arabo], pubblicata in francese nel 1968 e tradotta in inglese e in arabo, prefigurava una soluzione durevole al conflitto fra israeliani e palestinesi, con la proposta di una confederazione che riunisse entrambi i popoli. A quell'epoca, tale soluzione sembrava una chimera. «E’ un'utopia», dicevano i critici. Il fuoco della guerra continua a mietere vittime in attentati nella maggior parte dei casi provocati da forze estranee al Paese, terroristi istigati e prezzolati da estremisti quali gli Hezbollah. Tuttavia, La pace non è certamente più considerata impossibile dai due popoli, che fanno le spese della guerra. Nel profondo, i nostri due popoli aspirano a una riconciliazione reale, che apra le porte a un avvenire degno della loro trascorsa grandezza. La soluzione di tale conflitto non verrà mai da una mera spartizione territoriale, qualunque essa sia. Lo Stato di tipo hegeliano, napoleonico o prussiano è ormai anacronistico e in Medio Oriente costituirebbe un'assurdità ancora più grave, laddove le nazionalità, le etnie e le religioni sono strettamente intrecciate le une alle altre.

Invece di dividerlo, è necessario unificare il Paese, separando le competenze amministrative in modo tale da garantire i diritti legittimi di ciascuno. Gerusalemme, capitale d’Israele, svilupperà la vocazione di capitale della confederazione, come già lo è dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’islam. Il suo compito sarà quello di unificare i popoli e le religioni, salvaguardando la specificità di ciascuno nell’unità territoriale del Paese grazie a un'equa ripartizione delle competenze.

I popoli della regione, malgrado le bramosie e le bravate dei loro dirigenti e dei loro politici, sono sfiniti e chiedono grazia, come chiede grazia la terra lacerata dal conflitto. Ora più che mai è il momento di resistere ai ciechi estremismi di ogni frangia. Questa pace, così difficile da realizzare, finirà per vincere sia le pesantezze e le lacerazioni della storia sia i potenti interessi di coloro che di tale conflitto ancora vivono.

Riconciliatevi, ebrei, cristiani e musulmani, a Gerusalemme e in tutto il Medio Oriente, e creerete una comunità unificata da una fede comune, dal medesimo dialogo e dalla stessa speranza, quella dell’Alleanza predicata da Mosè e da Gesù e promessa da Maometto. Sarà necessaria tutta questa potenza spirituale, viva e unica, per vincere i pericoli mortali che minacciano la terra, nostra madre.

L’AUTORE

Nato nel 1917 ad Ain Témouchent, in Algeria, da una famiglia ebrea sefardita, erede della cultura arabo-giudaica fiorita per secoli in Nordafrica, André Chouraqui (nella foto) è autore di numerosi saggi sulla storia e l’attualità di Israele - tra cui i celebri Lettre à un ami arabe e Lettre à un ami chrétien -, di traduzioni di testi biblici, oltre che di opere teatrali e poetiche.

Questo testo è tratto dal discorso pronunciato in occasione del conferimento del premio per il Dialogo fra gli universi culturali (per gentile concessione della Fondazione Agnelli).

Creazionismo ed Evoluzionismo. Intervista a Vincenzo D'Ascenzi

Sfoglia Darwin, ritrovi Dio (e Cristo) preso in senso letterale, lo diceva perfino sant'Agostino, tanti secoli fa: Agostino anticipa ciò che dirà il Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes, e cioè che Dio non completò la Creazione: nel De Genesi ad litteraml afferma: "Considera quei sei giorni come un sol di' o come un solo istante in cui Dio creò alcune cose 'attualmente', cioè subito, come materia prima; le altre solo virtualmente, cioè nelle loro cause seminali, come le piante, gli animali, l'uomo. Il Creatore, fin dal primo giorno, nelle cose fatte inseriva le cause del farsi, e con infinita potenza faceva le cose future". E quanto ripeterà Teilhard: Dio, creando, fece sì che le cose continuassero a farsi (a evolversi).

da Avvenire 11. 04. 07

Da quarant'anni studia i concetti di creazione ed evoluzione. Ed è arrivato a conciliare scienza e fede, nella disputa sulla teoria darwiniana. La conosce bene questa teoria. Il padre gesuita Vincenzo D'Ascenzi.

E non gli è affatto ignoto neanche l'ambiente estremo nel quale Charles Darwin concepì la teoria evoluzionista: due anni fa, con un gruppo di paleontologi e biochimici dell'Università di Pisa, D'Ascenzi ha visitato le Galapagos, le isole del Pacifico in cui Darwin trovò prove decisive per le sue ricerche. Inoltre padre D'Ascenzi è uno dei maggiori conoscitori del pensiero di Pierre Teilhard de Chardin - la cui teoria dell'evoluzione è molto diversa da quella darwiniana -, al quale ha dedicato il suo nuovo libro Teilhard de Chardin a fronte della globalizzazione (Pardes Edizioni, pagine 146, euro 12,50).

Nel suo libro lei afferma che l’«evoluzione intelligente, animata dal Creatore, non è più un'ipotesi ma una certezza».

«La scienza analizza e stabilisce relazioni fisiche o fisico-chimiche; formula ipotesi, teorie, come quella darwiniana. Di altra natura sono le riflessioni filosofiche e teologiche che possono riferirsi alla ‘realtà’ messa in luce dalle scoperte scientifiche. Di per sé, la teoria darwiniana appartiene all'ambito scientifico, e in  tale contesto dovrebbe rimanere. Taluni darwinisti, invece, pretendendo di escludere Dio dall'evoluzione cosmico-biologica, abbandonano la scienza ed esprimono una valutazione filosofica. Atea, naturalmente.

Io sostengo che si può ritenere valido il neodarwinismo e, al tempo stesso, credere in Dio. Come fa Francis Collins, già direttore del Progetto Genoma.

Più la scienza si addentra nel libro della natura, più viene messa in luce la sbalorditiva ‘intelligenza’ insita in ogni cosa: nella struttura dell'atomo, nel funzionamento di una cellula, nella perfezione del moto celeste, e via dicendo. La razionalità e le ‘leggi’ che governano il moto evolutivo rendono possibile la scienza stessa, non viceversa. Questa constatazione ci lascia intuire un Creatore che anima il moto evolutivo. L'uomo è tuttavia libero di pensare che sia la natura a possedere le caratteristiche di Dio (eternità e intelligenza creativa).

Il concetto di «creatio continua» è un'intuizione recente, nata per rispondere alla teoria darwiniana?

«Che il racconto della Creazione non vada

'Inoltre, l'uomo ha ricevuto dal Creatore il mandato di dominare la Terra per migliorarla con la sua intelligenza: così Teilhard per ‘coscienza cosmica’ intende anche la consapevolezza della necessità di rispettare la natura con una nuova etica di salvaguardia dell' ambiente".

L’uomo come risultato dell'evoluzione che porta al sempre più complesso è una verità scientifica.

La ‘complessificazione’ della materia, come dice Teilhard, comincia sin dal Big Bang, che risale a quindici miliardi di anni fa. Dall'origine del primo elemento vitale (la cellula), comparso 3,5-4 miliardi di anni fa, si sono prodotti sistemi nervosi sempre più evoluti, secondo la legge di complessità e coscienza, scoperta da Teilhard de Chardin. Teoria fatta propria dal documento Comunione e servizio: la persona umana creata a immagine di Dio, redatto dalla Commissione teologica internazionale tra il 2000 e il 2002 e firmata dal cardinale Joseph Ratzinger, allora prefetto della congregazione per la Dottrina della fede».

Eppure oggi chi si azzarda a parlare di principio antropico viene attaccato dagli ambienti scientifici laici.

«Il principio cosmologico antropico, probabilmente, è mal definito. In realtà corrisponde a una grande conquista del calcolo fisico-matematico. Questo dimostra che, nel corso del moto evolutivo, sono state superate situazioni, e si sono create condizioni, altamente improbabili. Esiste cioè una fine sintonizzazione dell'universo, tale da rendere possibile tutto ciò che vediamo: piante, animali e uomini. Coloro che si vogliono sbarazzare di questa speculazione scientfica ricorrono all' escamotage dei molti universi: un'idea scientifìcamente infondata. Nessun biologo, nemmeno Jacques Monod, nega che nell'embrione ci siano delle ‘finalità’.

Laddove queste non siano evidenti, come nelle mutazioni del Dna, si parla di ‘casualità’ Per correttezza, si dovrebbe dire ‘apparente casualità’.

Un capitolo del suo libro è intitolato: «TeiIhard oltre l'evoluzionismo materialistico di Charles Darwin».

«Teilhard riteneva la teoria darwiniana valida ma non suffìciente a spiegare la ‘pre-vita’, cioè tutto il processo evolutivo precedente la vita. Egli affermava che la vita procede ‘a tentoni’, sfruttando sia i casi statisticamente favorevoli, sia le situazioni casuali che provocavano nuove opportunità. Pensava che la casualità fosse ‘orientata’ secondo una linea preferenziale di sviluppo ulteriore. Teilhard ha preso in considerazione tutto il moto evolutivo dal Big Bang all'uomo e dall'uomo all'unificazione crescente e completa dell'umanità. Questo moto evolutivo ascendente è illuminato dalla fede in Cristo che si è incarnato nella materia cosmica e guida il processo di unificazione umana, raggiungibile solo attraverso l'Amore».

A confronto

Il teologo Pierangelo Sequeri: «In quel "’Dio dov'è’ c'è l'angoscia di tutti gli umili oppressi».

Il filosofo Sergio Givone: «Ci serve un nuovo ‘uomo folle’ che ridesti la ricerca»

Cristo muore ogni giorno

di Antonio Giuliano per Avvenire del 6 aprile 2007, venerdì santo

Quella mattina di duemila anni fa «si fece buio su tutta la terra», dicono le Scritture.

Da mezzogiorno alle tre il sole si eclissò e la terra tremò. La natura stessa sembrava inorridita di fronte al martirio di quel Nazareno inchiodato sulla croce. Era notte fuori e dentro la coscienza di chi aveva castigato un innocente. Ma che Dio è quello che appare sconfitto sul legno della croce? Lui, l'Onnipotente, può lasciarsi umiliare e percuotere fino alla morte dalle sue creature? Ancora oggi di fronte a quell'immagine straziante pare scendere il buio nel cuore dell'uomo.

Il filosofo Sergio Givone, docente di Estetica presso l'Università di Firenze, e monsignor Pierangelo Sequeri, docente di Teologia fondamentale presso la Facoltà teologica dell'Italia settentrionale, illuminano un mistero che continua ad appassionare. Perché la croce, simbolo amato e odiato tuttora, è per i credenti l'albero di una nuova vita.

Quali interrogativi suscita la Passione di Cristo?

Sergio Givone: Non c'è domanda, non c'è questione filosofica che non venga da lì. Certo la Passione è un fatto storico e in quanto tale non è oggetto della filosofia. Ma da quando quell'evento si è compiuto, la filosofia non ha più potuto fare a meno di interrogarsi su di esso. Se Dio ha preso su di sé tutto l'umano fino alla sofferenza estrema e alla morte, la filosofia è scossa nel suo stesso fondamento. Che ne è dell'immutabile? Che ne è dell' essere "già da sempre in salvo"? Ecco, la morte di Dio comporta una profonda conversione dello sguardo. Dall'eterno al tempo. Dalla verità come necessità alla verità come libertà: verità crocifissa, potremmo dire. Non è però la filosofia a dare le risposte. Queste vengono semmai dalla fede. Infatti è la fede e solo la fede a dirci che la morte di Dio non precipita nel nulla, ma apre alla speranza. La filosofia ha il compito di porre le domande giuste e soprattutto di non eluderle.

Pierangelo Sequeri: Prima di domande e risposte, la Passione di Cristo impone un'evidenza.

L’amore puro, contrariamente ai proverbi popolari, raccoglie anche tempesta. L’amore di Dio, he ha trapanato la crosta terrestre, suscita nondimeno inaudite potenze del risentimento.

A parole, sembrerebbe che gli uomini non desiderino altro: che almeno Dio si manifesti come Amore.

Forse sono scettici all'idea, in teoria. Ma - dicono - se si vedesse, si udisse, si toccasse con mano che è proprio cosi... Ebbene, qui si è visto udito, toccato. Eppure... La domanda sorge spontanea: bisognerà modificare la rivelazione, a fronte di questo orrore? La risposta viene dal Figlio crocifisso.

No, la rivelazione non cambia. Dio rimane amore. È proprio questo ‘rimanere’, che vediamo, udiamo, tocchiamo, esponendo il Segno del Christus Passus. Ed è questo che dobbiamo pensare, quando diciamo che Dio è immutabile. Ogni volta che si rende testimonianza a questa immodificabilità dell'amore di Dio, nelle tempeste dell'umana prevaricazione, l’intera storia dell'ingiustizia perde l'ultima parola.

Nella via Crucis dov'è Dio? È un quesito che scuote ancor oggi la coscienza dell'uomo?

Givone: La situazione dell'uomo d'oggi mi sembra piuttosto quella descritta da Nietzsche attraverso la figura dell’uomo ‘folle’. Costui cerca disperatamente Dio. Alla sua domanda: dove sia finito Dio, gli altri uomini rispondono tranquillamente, come fosse la cosa più naturale del mondo: Dio è morto. Ma se è vero che l'uomo contemporaneo è capace soprattutto d'indifferenza, non è meno vero che è capace anche di memoria. Bisogna però che qualche ‘uomo folle’ ridesti ciò che è sepolto nel profondo. E gli ricordi che la morte di Dio non è un fatto avvenuto una volta e archiviato. Bensì un fatto che si ripete in ogni istante della storia.

Di fronte a quell'orrenda flagellazione anche un credente si chiede: ma Dio dov'è?

Sequeri: Dio è nella fedeltà dell' amore, che rimane e lega gli umani, a dispetto di tutto. Miracolo puro della grazia, ovunque accada. Nella nostra epoca post -cristiana, l'eccesso della confidenza con Dio - una libertà che proprio la rivelazione biblico-cristiana ha insegnato - ha reso la domanda superficiale e di comodo. Essa riveste spesso, anche se a porla sono intellettuali apparentemente sofisticati, la volgarità della provocazione della soldataglia che irride Gesù. La risposta, in questo caso, è una sola: "E tu dov'eri?".

Quando invece è la domanda angosciosa di tutti i Giobbe della terra, essa va raccolta e condivisa. Quell'angoscia è infatti assunta nel grido di Gesù, che in tal modo la avvolge di misericordia, e la rende non imputabile di fronte a Dio stesso. Questa compassione, nella nostra cultura, ha ormai abbandonato le basi più elementari del legame sociale. Se non la impariamo di nuovo, la nostra civiltà sarà la prima a perdersi. Guardate il prodigioso Cristo alla colonna di Antonello da Messina, e troverete tutto questo in un solo sguardo.

Oggi, quali situazioni le ricordano il supplizio di quell'Uomo?

Givone. «Si, la parola esatta è supplizio. È Dio a essere suppliziato (è il senso della vita a essere sfigurato e annichilito) ogniqualvolta si assiste a una perdita d'umanità. Ciò può avvenire laddove l’uomo è umiliato, privato dell' essenziale, ucciso, ma anche in forme più subdole e meno evidenti, là dove l'uomo viene svuotato d'anima, ridotto a strumento, a merce, magari con il suo consenso. Ed è, questo, un mistero non meno grande della Passione di Cristo. Là era il Figlio a morire nel Padre. Qui è Dio che muore nell'uomo.

E per lei, monsignor Sequeri, chi sono i crocifissi del nostro tempo? Quando il male sembra trionfare sul bene, dov'è la speranza?

Sequeri: Penso all'impotenza quotidiana di milioni di miti nel cuore e appassionati della giustizia, che sono condannati a non ricevere cuore né giustizia. Invisibili, afflitti dalla prevaricazione impunita dei loro simili, trattati male, irrisi e sbeffeggiati dalla commiserazione del protagonisti e dei professionisti, dei vincenti e dei mediocri. Fuori dalla religione, ma anche dentro la religione. Nel cuore stesso della nostra civiltà, così evoluta, scientifica e democratica. Ecco la forma normale dell'Uomo che porta la Croce. È il popolo delle beatitudini, che non indurisce il cuore. È la moltitudine dei senza nome dell'Apocalisse, che non perde la fede. Grazie a loro non siamo ancora sprofondati. Gesù Cristo Crocifisso è il loro fondamento: ieri, oggi, sempre. E loro sono, per la nostra speranza, una casa scolpita nella roccia.

 

L'arcivescovo di Vienna, cardinale Christoph Schonborn, al memoriale della Shoah a Gerusalemme

12/10/2007-Il Foglio

Christoph Schönborn

Schonborn torna a parlare di creazione e disegno intelligente. Chi critica il dogma evoluzionista non è bigotto, a differenza di certi darwinisti. Una lectio magistralis.

Diamo a Darwin quel che è di Darwin e a Dio quel che è di Dio

Il testo riprodotto è di prossima pubblicazione in lingua italiana all'interno del volume "Creazione ed Evoluzione" presso EDB - Bologna. 2007 (c) Libreria, Editrice Vaticana - 2007 (c) Centro Editoriale Dehoniano EDB

Isaac Newton ultimò nel 1686 i suoi Philosophiae naturalis principia mathematica, che l'anno seguente furono pubblicati a Londra. Alla seconda edizione del 1713 Newton aggiunse uno "Scholium Generale". Nei Principia l'interesse di Newton era rivolto principalmente a confutare la teoria cartesiana dei movimenti dei pianeti, che egli respingeva in quanto teoria materialistica. La perfezione, la regolarità di tali movimenti, scrive Newton, non poteva "avere origine da cause meccaniche" (originem non habent ex causis mechanicis).

È vero piuttosto che "questa elegantissima compagine a noi visibile (elegantissima haecce... compages) del sole, dei pianeti e delle comete non poté nascere se non per il disegno e la potenza di un essere intelligente e potente (non nisi consilio et dominio entis intelligentis et potentis oriri potuit). E se le stelle fisse sono centri di analoghi sistemi, tutti questi, essendo costruiti con un identico disegno (simili concilio constructa), saranno soggetti alla signoria di Uno solo (suberunt Unius dominio). ... E affinché i sistemi delle stelle Fisse non cadessero, a causa della gravità, vicendevolmente l'uno sull'altro, questo stesso pose una distanza immensa fra di loro. Egli regge tutte le cose non come anima del mondo, ma come Signore dell'universo (ut universorum dominus)".

Ma noi possiamo riconoscere colui che "a causa della sua signoria suole essere chiamato Pantocrator"? Della sua sostanza, della sua essenza, non abbiamo alcuna idea, alcuna immagine. "Possiamo conoscere Dio solo attraverso le sue proprietà e i suoi attributi (per proprietates ejus et attributa), e tramite il sapientissimo ed ottimo ordinamento e le cause finali del mondo (per sapientissimas et optimas structuras et causas finales); e lo ammiriamo in virtù delle sue perfezioni (et admiramur ob perfectiones)".

Per poter conferire a queste asserzioni chiarezza e incisività definitive, Newton si scaglia contro l'allora già imperante deismo (ossia la riduzione dell'operare divino ad un'attività da "orologiaio", situata, nel tempo, soltanto all'inizio):

"Dio senza signoria, provvidenza e cause finali (deus sine dominio, providentia et causis finalibus) altro non è che fato e natura (nihil aliud est quam fatum et natura). Da una cieca necessità metafisica (a caeca necessitate metaphysica), che è sempre e ovunque la stessa, non nasce alcuna possibilità di variazione delle cose (nulla oritur rerum variatio). L'intera varietà delle cose, ordinate secondo il luogo e il tempo, ha potuto nascere soltanto dalle idee e dalla volontà di un essere necessariamente esistente (tota rerum conditarum pro locis ac temporibus diversitas, ab ideis et voluntate entis necessario existentis solummodo oriri potuit)".

Questo passo dello "Scholium Generale" si chiude con le lapidarie parole:

"E questo per quanto riguarda Dio; disquisire di lui sulla base dei fenomeni è in ogni caso compito della filosofia della natura (et haec de deo, de quo utique ex phaenomenis disserere, ad philosophiam naturalem pertinet)" (Newton, Philosophiae naturalis principia mathematica, III edizione, Londra 1726, 526-529).

Il celebre"Scholium" newtoniano contiene in nuce le questioni essenziali che trattiamo oggi quando affrontiamo il rapporto fra la scienza, la ragione e la fede. La passione con cui viene condotto il dibattito si è riaccesa ancora una volta con veemenza quando ho pubblicato un articolo su questo argomento sul New York Times del 7 luglio 2005.

Ma perché, sin da Galilei e Newton, queste domande vengono discusse con tale veemenza e passione? Fra gli eruditi le controversie sono sempre esistite, e sempre esisteranno. Il dibattito sulla questione se un manoscritto scoperto di recente contenga un'opera autentica di sant'Agostino o no, riguarda una piccola cerchia di addetti ai lavori. La questione però se l'origine dell'universo, e in esso della nostra terra, e sudi essa di noi uomini, sia dovuta al "cieco destino" o ad un "progetto saggissimo e buono", tocca invece gli animi di molti, poiché riguarda le domande che ogni essere umano prima o poi si pone: "Da dove veniamo? Dove andiamo? Qual è il senso della vita?".

Ma queste domande non dovrebbero esser poste in primis alla religione? È sensato attendersi una risposta dalle scienze (della natura)? Non chiediamo forse troppo alla scienza? Che accadrebbe se gli scienziati, sulla base delle loro ricerche sulla natura, arrivassero alla conclusione di spiegare tutto come il risultato del cieco gioco di caso e necessità? La risposta religiosa alle domande essenziali dell'essere umano non diverrebbe allora infondata, senza ragione, come una ghirlanda che librandosi nel vuoto, senza motivo, senza fondamento, affermasse che ci sarebbe un senso, un progetto dietro a tutto ciò, e che tutto avrebbe un fine ultimo che Dio ha voluto e che anche realizza? A ciò si aggiunga: se l'asserzione secondo cui il mondo testimonia un progetto, una finalità da parte del Creatore si dimostrasse infondata a livello scientifico, allora il credere in un Creatore e nella sua provvidenza sarebbe irragionevole. La fede nella creazione, allora, potrebbe al massime basarsi su un credo quia absurdum. Una fede che però si basasse su un fondamento assurdo non sarebbe una fede, ma soltanto un'illusione. La fede nel Creatore è un'illusione priva di futuro, come ad esempio ha tentato di dimostrare Sigmund Freud?

Lo "Scholium Generale" di Newton è parte di questo dibattito, Per Newton l'armonia delle orbite dei pianeti è un fenomeno che non si può spiegare "a partire da cause meccaniche". Questa compagine "elegantissima" può aver avuto origine soltanto in virtù del disegno e della potenza di un'intelligenza suprema. Dai fenomeni naturali si arriverebbe alla certezza riguardo al Creatore.

Dunque esiste una "prova cosmologica dell'esistenza di Dio"? Alcuni fenomeni particolarmente complessi non depongono nettamente a favore di un "disegno intelligente" nella natura? Newton si spinge ancor oltre: dal cieco gioco di caso e necessità non può avere origine la varietà delle cose. La teoria dell'evoluzione oggi diffusa afferma proprio il contrario: l'intera varietà delle specie è nata dal gioco privo dì orientamento delle forze della mutazione e della selezione. Per Newton, l'intera varietà delle cose è scaturita soltanto ed esclusivamente "dalle idee e dalla volontà" dell'essere supremo. Questa è una certezza che gli deriva dalle sue ricerche. E se fosse vero il contrario? Che la sua fede nel Creatore lo induce a vedere le cose sotto questa luce? Lasciamo per il momento la questione in sospeso.

L'aneddoto di Voltaire

Narriamo dapprima il celebre aneddoto raccontato da Voltaire: Newton sedeva una sera sotto un albero di mele, nella fattoria dei genitori. "Cadde una mela dall'albero. Newton vide ciò e guardò la luna che brillava nel cielo della sera. In quel momento pose la questione decisiva: 'Se la mela cade sulla terra, perché la luna non vi cade?'. La forza di gravità con cui la terra attrae la mela dovrebbe agire allo stesso modo sulla luna, più lontana, ma pur tuttavia nel raggio d'azione della terra" (R. 'Iaschner, Das Unendliche. Mathematiker ringen uni einen Begriff, Berlin-Heidelberg 2006 2, pag, 52). Ebbene, la luna non precipita sulla terra. Ciò accadrebbe se fosse ferma. Dal momento però che si muove con moto costante, senza la forza di gravità della terra si allontanerebbe da questa. Entrambe le forze agiscono insieme, il moto della luna e la forza di gravità della terra (cfr. ibid., pag. 53). Newton ha calcolato questo concorso di forze. Era però convinto che questi movimenti regolari non possono aver avuto origine da cause meccaniche, ma "soltanto in virtù del disegno" e della potenza di un essere intelligente supremo, che noi chiamiamo Dio.

Newton ritenne al riguardo che la provvidenza divina intervenga continuamente per garantire la stabilità dell'orbita dei pianeti e del sistema solare (cfr. St. L. Jaki, Intelligent Design? Port Huron, MI, USA, 2005, pag. 12). Sembrava che, senza un simile e ripetuto intervento speciale del Creatore, l'ordine delle orbite dei pianeti fosse inspiegabile.

Leibniz rimprovera a Newton che, secondo la sua dottrina, "Dio dovrebbe ogni tanto ricaricare il suo orologio che altrimenti si fermerebbe": secondo la visione di Newton l'opera di Dio sarebbe "così imperfetta, che Dio è costretto, di tanto in tanto, a ripulirla con un intervento straordinario e ad aggiustarlaaddirittura, come fa un orologiaio con la sua opera. Leibniz ritiene che questo sminuisce l'onnipotenza divina e vi contrappone la propria dottrina della "bella armonia prestabilita", nella quale, solo, si rivela la sapienza e la potenza di Dio (vedi Samuel Clarke, Brieftvechsel mit G. W. Leibniz von 171511716, a cura di E. Dellian. Amburgo 1990, pag. 10 sgg.; cfr. E. Dellian, Die Rehabilitierung des Galileo Galilei oder Wie die Wahrheit zu inessen ist, Berlino 2006, stampa privata, pag. 326). La questione non ha perso oggi nulla della sua attualità. E presente il Creatore nella sua opera?

Quando, poco meno di un secolo dopo, Laplace fu davvero in grado di dare una spiegazione "meccanica" dell'orbita dei pianeti, rivolse a Napoleone, che preoccupato gli chiedeva quale fosse il posto di Dio in quella spiegazione, la celebre frase: "Je n'ai pas besoin de cette hypothèse" (non ho bisogno di questa ipostesi).

Laddove Dio è chiamato a riempire le lacune del sapere, il suo spazio si riduce sempre più ad ogni scoperta che riesca a chiarire qualcosa fin'allora inspiegabile. Queste "nicchie di sopravvivenza" del Creatore sono divenute sempre più ristrette e, quanto più successo hanno avuto le scienze naturali, tanto più sicuri di vittoria si sono sentiti molti degli appartenenti alla scientific community, affermando che un giorno "l'ipotesi di Dio" sarebbe divenuta del tutto superflua.

Sotto il medesimo auspicio si è presentato anche Charles Darwin. Come il professor Stanley L. Jaki ha più volte dimostrato e accuratamente documentato, Darwin era "ossessionato" dall'idea di fornire una spiegazione scientifica plausibile dell'origine delle specie che potesse prescindere del tutto da atti creativi separati, propri di Dio. La sua "teoria della discendenza", che soltanto in seguito fu chiamata teoria dell'evoluzione, era una lunga argomentazione a favore di una spiegazione "immanente al mondo", ossia puramente materiale, meccanica, dell'origine delle specie". Mentre Newton ancora affermava che dalla cieca necessità non poteva generarsi alcun mutamento e quindi alcuna varietà delle cose, poiché ciò poteva avere origine solo dalle idee divine e dalla volontà divina, Darwin sosteneva il contrario: l'intera varietà delle specie ha origine dalle mutazioni casuali e dalle loro opportunità di sopravvivenza. Allo scopo non sono necessari interventi speciali del Creatore.

Secondo le ricerche approfondite di Jaki, non resta alcun dubbio sul fatto che Darwin, con la sua teoria, intendesse favorire la vittoria scientifica del materialismo. E non era certo l'unico a volerlo, nell'Ottocento. Non a caso Karl Marx e Friedrich Engels hanno salutato con entusiasmo la teoria darwinista come fondamento scientifico per la loro teoria.

Questa componente ideologica, che implica una concezione del mondo, della teoria darvinista è probabilmente anche la causa principale del fatto che ancora oggi si continui a discutere di essa, di evoluzione e creazione, con la stessa intensità e passione del passato. Il dibattito degli ultimi mesi l'ha chiaramente dimostrato ancora una volta. Per questo ritengo che il compito prioritario sia apportare chiarezza al dibattito con i mezzi della filosofia della natura. Ciò richiede diversi passaggi:

Passaggi

1. Dove, nella teoria di Danvin (e nei suoi sviluppi successivi), opera realmente la scienza e dove invece si tratta di elementi ideologici legati ad una visione del mondo ed estranei alla scienza? Occorre scindere Darwin dal darvinismo, liberarlo dalle sue catene ideologiche. Ci sono buone ragioni per supporre che ciò sia possibile.

2. Deve essere pure consentito esercitare critiche obiettive degli aspetti ideologici del darvinismo. Non si capisce perché debba essere vietato (così come negli Stati Uniti) trattare la questione di Dio, nell'insegnamento delle scienze a scuola, e non chiedersi mai se in realtà sia lecito insegnare il materialismo (una visione del mondo assai discutibile) insieme alla teoria darvinista. Non deve per forza essere così, a meno di sovraccaricare ideologicamente le lezioni di biologia con elementi estranei alla materia. De facto ciò accade frequentemente, a scapito della scienza, della ragione e della fede.

3. Ciò richiede inoltre una grande libertà nel discutere le questioni aperte della teoria dell'evoluzione. Spesso, nella comunità scientifica, si escludono a priori tutti gli interrogativi mossi, a livello scientifico, ai punti deboli di tale teoria. Qui vige in parte una sorta di censura simile a quella che in passato spesso si rimproverava alla chiesa.

4. La questione decisiva non si pone però sul piano delle scienze naturali, e neppure della teologia, bensì si colloca fra l'una e l'altra: sul piano della filosofia della natura. Sono sempre più convinto che i progressi decisivi nel dibattito sulla teoria dell'evoluzione avverranno a livello della filosofia della natura, della metafisica in ultima analisi. Farà bene a tutti noi addentrarci un po' più in profondità nei nessi filosofici del nostro dibattito.

5. Il dibattito degli ultimi mesi mi ha fatto capire, con molta chiarezza, una cosa: è una forzatura, se non addirittura una caricatura, ridurre tutto ad un conflitto fra evoluzionisti e creazionisti. Questo semplificherebbe troppo le cose. La posizione "creazionista" si basa su un'interpretazione della Bibbia che la chiesa cattolica non condivide. La prima pagina della Bibbia non è un trattato cosmologico sull'origine del mondo in sei giorni. La Bibbia non ci insegna "how the heavens go, but how to go to heaven" (St. Jaki, Darwin's Design, Port Huron, MI, Usa, 2006, pag. 4).

È accettabile, perla fede cattolica, la possibilità che il Creatore si serva anche dello strumento dell'evoluzione. La questione è piuttosto se l'evoluzionismo (come visione del mondo) sia conciliabile con la fede in un Creatore. Tale questione presuppone, a sua volta, che si distingua fra la teoria scientifica dell'evoluzione e le sue interpretazioni ideologiche o filosofiche. Ciò presuppone, d'altro canto, che si pervenga ad un chiarimento dei presupposti filosofici, di pensiero, dell'intero dibattito sull'evoluzione.

Sono conciliabili la fede nella creazione e la teoria dell'evoluzione? Il "concordismo", oggi ampiamente diffuso, afferma che "la teologia e la teoria dell'evoluzione non possono mai,entrare in conflitto perché le due discipline si muovono in ambiti completamente diversi" A. Walker, Schopfung und Evolution jenseits des Konkordismus, in: Intern. Kath. Zeitschrift Communio 3512006). Questo tipo di rapporto, che Stephen Gould definisce "principio NOMA" (Non-Overlaping Magisteria), non regge, a mio avviso. Devono esserci necessariamente delle "sovrapposizioni", delle intersezioni fra la teologia e le scienze naturali, fra la fede, il pensiero e la ricerca. La fede in un Creatore, nel suo progetto, nel suo "governo universale", nel suo condurre il mondo verso un fine da lui stabilito, non può restare senza punti di contatto con lo studio concreto del mondo. Pertanto non ogni variante della teoria dell'evoluzione è conciliabile con la fede nella creazione.

Darwinismo stretto

Dice a tal proposito Adrian Walker (John Paul II - Institute, Washington):

"Un esempio classico di variante problematica della teoria dell'evoluzione è ciò che definisco darvinismo stretto: la tesi secondo cui il concorso di mutazione (genetica) e selezione naturale costituisca una spiegazione sufficiente della nascita di nuove forme di vita. Se infatti mutazione e selezione bastano a spiegare tale nascita, niente vieta che la materia cieca possa essere la prima origine della vita; una tesi che ... è inconciliabile con la dottrina cristiana della creazione" (ibid., pag. 55 sg.).

Spesso si cerca una via d'uscita affermlando che la biologia o in generale le scienze della natura sono materialistiche soltanto a livello metodologico, senza per questo professare il materialismo come visione del mondo. Anche se ciò fosse vero, resta comunque chiaro che questa opzione metodologica è un atto spirituale che presuppone ragione, volontà, libertà. Basta già questo a dimostrare che la restrizione del metodo scientifico a processi meramente materiali non è in grado di spiegare il complesso della realtà.

Continua a rimanere pienamente valida la frase di Newton, secondo cui è compito della filosofia della natura fare asserzioni su Dio ex phaenomenis, a partire dai fenomeni naturali, La fede cattolica afferma, insieme alla Bibbia dell'antica e, nuova Alleanza, che la ragione può riconoscere con certezza, benché non senza fatica, l'esistenza del Creatore dalle sue tracce nella creazione.

Che cosa può dunque riconoscere la ragione? Innanzitutto che essa esiste, e che è qual cosa di più delle sue condizioni materiali.

Vorrei spiegare tutto ciò ricorrendo a un esempio ben comprensibile:

Il filosofo ebreo tedesco-americano Hans Jonas ha scritto un'importante opera tarda, l'Etica della responsabilità. Gli era chiaro che non ha senso parlare di etica e di responsabilità se non c'è lo spirito, l'anima, la ragione e il libero arbitrio. I geni non si assumono alcuna responsabilità. Essi, se producono cellule tumorali, non saranno chiamati a giudizio. Neanche gli animali sono chiamati a rispondere di qualcosa. Soltanto gli esseri umani esercitano responsabilità e sono chiamati a render conto del loro operato (al più tardi nel giudizio universale). La quotidianità è una confutazione costante del materialismo. In economia, ad esempio, devo assumermi responsabilità. Le api e le formiche sono incredibilmente efficienti, ma il loro comportamento è guidato dall'istinto, per cui non rispondono dei loro errori. Soltanto gli esseri liberi sono responsabili dei loro errori. Benché la vita quotidiana confuti continuamente la visione materialistica, anche persone molto intelligenti incappano in questo errore. Hans Jonas decise così di premettere alla sua Etica della responsabilità una confutazione filosofica del materialismo. Diede al libretto il titolo di Potenza e impotenza della soggettività (Macht und Ohnmacht der Subjektivitàt, Frankfurt 1981). Egli vi riporta, subito all'inizio, il seguente aneddoto: tre giovani scienziati, destinati in futuro a divenire celebri studiosi, s'incontrarono a Berlino nel 1845 e "solennemente si promisero a vicenda con un giuramento ... di far valere la verità secondo cui nell'organismo non agiscono altre forze se non quelle volgarmente fisico-chimiche". I tre restarono fedeli per tutta la vita al loro "giuramento". Hans Jonas afferma a tal riguardo: "Nella promessa solenne essi confidarono in qualcosa di assolutamente non fisico, nel loro rapporto con la verità, la forza che, per l'appunto, governava il comportamento dei loro cervelli, e che però essi, in generale, nel contenuto della solenne promessa, negarono" (ibid., pag. 13 sg.).

Ma quale forza è qui all'opera? Essere in grado di promettere qualcosa, sforzarsi di mantenere la promessa, con il rischio anche di poterla rompere: tutto questo non può essere effetto di forze prettamente materiali. L' elaborazione di una teoria scientifica è un processo spirituale, persino quando la teoria in questione è materialistica. È nota l'osservazione ironica di Alfred N. MThitehead (The Function of Reason, Princeton 1929, pag. 12) su quei darvinisti che rifiutano ogni finalità della natura: "Those who devote themselves to the purpose of proving that there is no purpose constitute an interesting subject for study" (Coloro che si dedicano interamente al fine di dimostrare che non esiste alcun fine costituiscono un soggetto di studio interessante). L'uomo fa esperienza di se stesso come uno che si propone finalità e scopi. L'agire umano non sarebbe infatti pensabile se non come orientato a un fine. Non esiste esempio di un agire più finalizzato di quello scientifico, e in particolare dell'agire delle scienze naturali.

Qual è però la situazione del mondo subumano? Cosa dire degli animali, delle piante, della natura inorganica, del cosmo stesso? Esistono qui dei fini? E, se esistono, chi è che li stabilisce? Chi persegue dei fini, se non c'è una volontà che se li prefigga? È questo probabilmente il quesito fondamentale nel dibattito su creazione ed evoluzione. Ci può essere d'aiuto un'osservazione di Darwin in una lettera del 1870 a J. Hooker (More letters of Charles Darwin, ed. F. Darwin and A. C. Seward, New York 1903, vol. I, pag. 321): "I cannot look at the universe as a result of blind chance. Yet I can see no evidence of beneficent design, or indeed any design of any kind, in the detail" (Non posso considerare l'universo come il risultato di un cieco caso. Tuttavia, nel dettaglio, non posso avere l'evidenza di un disegno benevolo o, a dire il vero, di un qualsiasi disegno).

Un progetto, un ordine, un'armonia

L'osservazione della natura, lo studio dell'universo, della terra, della vita, ci parla con "overwhelming evidence", con schiacciante evidenza (sono i termini che ho usato sul New York Times) di un ordine, di un progetto, di una armonia (fine-tuning), di intenzione e fine. La questione è soltanto: chi è che riconosce il disegno? E come lo riconosce? Darwin dice di non poter riconoscere alcun tipo di disegno nei dettagli della sua ricerca sulla natura. Seguendo il metodo strettamente scientifico, quantitativo e misuratore, ciò, in effetti, non è possibile. Martiri Rhonheimer dice a tal riguardo: "Ciò che noi effettivamente possiamo vedere ed osservare nella natura non sono né progetti né intenzioni, ma al massimo ... il loro prodotto. Noi vediamo la teleologia. gli sviluppi finalizzati, un ordine della natura che è adeguato al fine ed è bello. Non ci è dato però osservare se il principio che muove questi processi naturali siano effettivamente 'intenzioni' e 'progetti intelligenti'. Ciò che vediamo nella natura non è un disegno, ma qualcosa che deve necessariamente basarsi su. un disegno" (Pro manuscripto, pag. 4).

Noi diciamo sempre che "la natura" ha fatto le cose in un certo modo, che le ha organizzate ecc., come se "la natura" fosse un soggetto dotato di spirito, che si pone esso stesso dei fini e che opera mirando al loro raggiungimento. Anche i darvinisti più rigorosi, e lo stesso Darwin, parlano a più riprese della natura in questa maniera "antropomorfica", anche se poi si correggono e dicono, come Julian Huxley (Evolution in Action, New York 1953, pag. 7): "At first sight the bìological sector seems full of purpose. Organisms are built as if purposely designed... But as the genius of Darwin showed, the purpose is only an apparent one" (A prima vista il mondo biologico sembra ricco di finalità. Gli organismi sono costruiti come se fossero disegnati intenzionalmente ... Ma il genio di Darwin ha dimostrato che il fine è solo un fine apparente).

"La natura" si comporta solo come se avesse dei fini? San Tommaso d'Aquino nella "quinta via", la sua quinta "prova dell'esistenza di Dio", aveva indicato una via di pensiero che qui prosegue oltre. I corpi fisici, egli dice, che di per sé sono privi di conoscenza, agiscono in maniera finalizzata, come possiamo vedere, per raggiungere ciò che è bene per loro. Essi raggiungono il loro fine non a caso, ma per intenzione (non a casu, sed ex intentione). Ma essendo privi di intelletto non lo raggiungono diretti dalla propria intenzione, bensì da quella di un essere intelligente che li dirige verso il fine come un arciere la freccia. Questo essere intelligente, che dirige tutte le cose naturali verso il loro fine, lo chiamiamo Dio (cfr. STh I, q.2, a.3).

C'è un testo affascinante di San Tommaso che dimostra con grande evidenza come si possa pensare l'operare del Creatore, come egli "infonda" nella natura la sua finalità (ringrazio cordialmente il professor Rhonheimer per avermi indicato questo testo così importante): il testo è particolarmente d'aiuto, poiché paragona la natura con l'arte ovvero con la tecnica (così infatti si può tradurre ars). "La natura si differenzia dall'artelteenica soltanto per il fatto che la natura è un principio intrinseco, mentre l'arte/tecnica è un principio estrinseco." Per chiarire il "principio intrinseco" di "natura", San Tommaso usa un paragone: "Se l'arte di costruire le navi fosse immanente al legno, allora la natura (del legno) produrrebbe la nave, così come normalmente fa la tecnica." E in un brano successivo Tommaso specifica ancora una volta: "La natura non è alti o che una certa arteltecnica, ossia l'arte divina impressa nelle cose, dalla quale le cose stesse sono mosse verso un fine determinato (natura nihil est aliud quam ratio cuiusdam artis, scilicet divinae, indita rebus, qua ipsae res moventur ad finem determinatum)." E di nuovo Tommaso illustra il suo pensiero con la metafora della costruzione di una nave: "come se il costruttore di una nave fosse in grado di fornire ai pezzi di legno il potere di muoversi da sé per assumere la forma di una nave" (In Physic, lib.2, e 14, n.8).

Martin Rhonheimer commenta: "La natura si comporta teleologícamente (come se agisse secondo un progetto e in modo intelligente); ma poiché nella natura stessa non si possono individuare cause intelligenti e agenti a livello intenzionale, tale causa intelligente deve risiedere al di fuori della natura" (Al. Rhonheimer, Pro manuscripto, pag. 11).

"Da dove proviene tutto ciò?"

Così, come la nave porta alla domanda: "Chi l'ha costruita?", allo stesso modo, l'esperienza evidente di adeguatezza al fine, di ordine e di bellezza della natura porta a chiedersi: "Da dove proviene tutto ciò?". La teoria dell'evoluzione, con il suo metodo scientifico, non può dare risposta a questa domanda, essa può soltanto ricercare le cause agenti nella natura ed empiricamente constatabili. "Per questo essa non può neanche ritenere di dimostrare la non esistenza di un Dio che progetti, il cui spirito sia la causa della natura e della sua evoluzione" (ibid.).

Una frase spesso citata di George G. Simpson (The Meaning of Evolution, New Haven, 1949, pag. 344) dice: "Man is the result of a purposeless and materialistic process that does not have him in mind. He was not planned" (L'uomo è il risultato di un processo materialistico e senza scopo che non lo aveva in mente. Egli non era programmato). Se Simpson avesse detto: 'mediante il metodo meramente quantitativo e meccanico non si riesce a constatare alcun progetto secondo il quale avrebbe avuto origine l'uomo", tale affermazione avrebbe potuto corrispondere al vero. Ma questa maniera di vedere le cose non è "data per natura", è invece un'opzione volontaria, metodica. altamente finalizzata allo scopo.

La consapevole restrizione dell'osservazione a quanto è quantificabile, numerabile e misurabile, alle condizioni e alle connessioni materiali. ha reso possibili gli enormi successi delle scienze naturali. Ma sarebbe assai problematico dichiarare come semplicemente non esistente ciò che qui si è metodicamente escluso dal campo di osservazione, a cominciare dalla ragione e dal libero arbitrio, che soli rendono possibile tale scelta metodologica.

È vero: il codice genetico dell'uomo si differenzia solo in misura minima da quello dello scimpanzè. Ma soltanto all'uomo può venire in mente di studiare il proprio codice genetico, nonché quello dello scimpanzè!

Vorrei chiarire, con un esempio, in che cosa consista il problema dei limiti del metodo scientifico, Sul settimanale Die Zeit del 3 agosto 2006 è uscito un grande dossier Il medico e il paziente che sviluppa la seguente idea: la tecnicizzazione della medicina rischia di far atrofizzare il lato umano della professione medica. Un vecchio tema tornato oggi di estrema attualità. Paul Tournier. medico ginevrino e fondatore del movimento "Médecine de la Persone", era solito dire che il medico ha due mani e che deve usarle entrambe: l'una è quella della sua conoscenza scientifica dell'essere umano, dell'organismo e del suo funzionamento. L'altra è quella del suo cuore, della sua intuizione e della sua empatia. Il medico non può rinunciare a nessuna delle due, se vuole curare il suo paziente in modo giusto. L'uomo non è una macchina, benché il corpo umano, sotto vari aspetti, consista di meccanismi complessi e grandiosi, e di funzioni materiali. Ma nessun buon medico considererebbe l'uomo soltanto così. Prenderà sul serio anche la realtà della sua anima. La visione dell'uomo di George G. Simpson, da sola, non basterà a nessun medico. Essa è errata, se la si intende come affermazione complessiva sull'uomo nella sua interezza.

E veniamo adesso alla conseguenza decisiva che emerge dal paragone con il medico: ambedue le mani. lo strumento scientifico dei medico e la sua intuizione derivante da esperienza, empatia, conoscenza dell'uomo, appartengono entrambe alla scienza medica. Soltanto la loro reciproca interazione fa sì che un medico sia bravo.

Questo modello non potrebbe aiutarci, anche nel dibattito che stiamo affrontando, a vedere le cose con maggiore chiarezza? Consentitemi di illustrare succintamente, con tre esempi, i tipici aspetti problematici del dibattito sull'evoluzionismo.

1. Il primo esempio è il concetto di specie. Il celebre libro di Darwin s'intitola "The origin of species". Ma esistono davvero le specie? Il metodo meramente quantitativo riesce a coglierle? Nella teoria dell'evoluzione c'è posto per loro? Non è forse vero che tutto ciò che chiamiamo specie non è che un'istantanea nell'ampio flusso dell'evoluzione? I concetti di specie, di genere, di regno (regno animale e vegetale) non sono forse soltanto nomina nuda, pure parole, senza una realtà corrispondente? A livello di misurabilità e quantificabilità, species e genera sono parole vuote. Ma gli occhi dello spirito afferrano perfettamente che esiste la specie "gatto' (e proprio il Santo Padre Papa Benedetto, amante dei gatti, ne è un sicuro testimone!). La differenziazione fra cane e gatto è pertanto già di per sé non scientifica?

2. Ancora più evidente è la necessità di fidarsi degli "occhi dello spirito" quando ne va della questione che oggi viene più volte respinta come "non scientifica", perché in ultima analisi è metafisica, ponendosi al di là di ciò che è meramente materiale: la questione della forma dell'essere. "Mentre il comune buon senso afferma che cose come gli alberi o gli elefanti sono appunto cose, esseri autonomi, che sono ben più che non la mera somma delle loro componenti materiali, la teoria materialistica dell'evoluzione li riduce ... a mere trasformazioni epifenomeniche della materia, la quale diviene così l'unica realtà ultima essenziale all'interno del cosmo. In ultima analisi allora non esisterebbero gli alberi né gli elefanti, ma soltanto aggregati temporanei di proprietà materiali" cui noi attribuiamo questi nomi (A. Walker, op.cit., pag. 59).

Concetto di 'forma'

Per superare la visione materialistica dell'evoluzionismo, occorre pertanto recuperare alla scienza innanzi tutto il concetto di forma o struttura (nel senso aristotelico o goethiano). Il grande zoologo svizzero Adolf Portmann ha messo in particolare evidenza questo punto nella sua critica al darwinismo. Tutto ciò che è vivente si presenta come forma, come espressione di un'interiorità che va oltre le sue componenti materiali, La ricerca biochimica analitica può prescindere, a livello metodologico, dalla questione della forma, della struttura, ma se non vuole diventare una scienza cieca, la biochimica non può prescindere, alla lunga, dal chiedersi che cosa renda la pianta, che cosa renda il cane ciò che essi sono.

Infatti ogni misurare e quantificare presuppone sempre che ci sia l'essere vivente, questo essere umano, questo animale, questa pianta come una totalità propria percepibile anche dallo spirito umano.

Come il medico non può considerare il paziente in quanto fegato, cuore, o un qualsiasi altro organo isolato, ma come questo essere umano, il cui cuore è malato o sano, così il biologo si sforzerà sempre di considerare l'essere vivente, oggetto della sua ricerca, come un tutto e vedrà tutti i suoi dettagli come gli elementi dell'intero essere vivente. Per riprendere le parole di Hans Urs von Balthasar, si sforzerà di pervenire alla "percezione della forma", senza la quale il suo strumento di misurazione resta cieco. Ma la "percezione della forma" è anche la via per riconoscere le tracce del Creatore.

3. E vengo così al mio terzo esempio. Leggere le tracce di Dio nel creato è cosa che compete alla scienza? Gli scienziati del passato, da Copernico a Galilei a Newton, ne erano convinti. Essi conoscono, oltre al libro della Bibbia, il libro della creazione, in cui il Creatore ci parla in un linguaggio leggibile e comprensibile (cfr. R. Schaeflier, Lesen im Buch der Welt. Ein Weg philosophischen Sprechens von Gott?, in: Stimme der Zeit 2006, pagg. 363-378).

Quello che la visione materialistica della scienza non considera è lo stupore per la "leggibilità" della realtà. L'indagine scientifica della natura è possibile soltanto perché la natura ci dà delle risposte. Essa è "costruita" in maniera tale che il nostro spirito riesce a penetrare nelle sue leggi di costruzione. Che c'è dunque di più ovvio dell'ipotesi che la possibilità di indagare e quindi di conoscere la realtà (benché in modo faticoso e soltanto parziale) derivi dal fatto che essa porta la "firma" del suo autore? Dio parla nel linguaggio del suo creato e il nostro spirito, che è anch'esso sua creazione, riesce a percepirlo, ad ascoltarlo, a comprenderlo. Non è forse questo, in ultima analisi, il motivo per cui la scienza moderna è cresciuta proprio sulla terra madre della fede giudaico-cristiana nella creazione? Una comprensione materialistica e ristretta della scienza scambia le lettere per il testo. Lo studio e l'analisi delle lettere materiali sono propedeutici alla lettura dei testo. Ma esse non sono il testo stesso, bensì il suo supporto materiale. Anche qui si vede ancora una volta, come già nell'esempio del medico, che la scienza che si limita soltanto alle condizioni naturali è "monca di una mano" e quindi "unilaterale". Le manca ciò che qualifica l'uomo come tale: il dono di potersi elevare, con la ragione e l'intuizione, al di sopra delle condizioni materiali, e di penetrare fino al senso, alla verità, al "messaggio dell'autore del testo".

Conclusioni

E vengo alla conclusione di queste riflessioni, già troppo lunghe. Quali conseguenze pratiche risultano dalle riflessioni abbozzate? Fra le molteplici possibili riflessioni di approfondimento ne scelgo solo due:

1. Perché l"'evoluzionismo", con il suo materialismo ideologico, è divenuto ormai quasi una sorta di surrogato della religione? Perché tanto spesso viene difeso in modo così aggressivo ed emotivo? Oso affermare che al momento non c'è probabilmente un'altra teoria scientifica contro la quale esistano obiezioni altrettanto gravi, e che ciononostante venga difesa da molti come assolutamente sacrosanta. Le obiezioni più importanti sono ben note e sono state avanzate frequentemente:

- i "missing links", le numerose forme intermedie mancanti fra le specie, nonostante centocinquanta anni di intense ricerche, non sono stati trovati;

- il fatto, spesso ammesso, che finora non è mai stata realmente dimostrata un'unica forma di evoluzione da una specie all'altra;

- l'impossibilità, a livello di "teoria dei sistemi", che un sistema vivente (ad esempio i rettili), mediante innumerevoli mutazioni di minima entità, possa essere trasformato in un altro sistema vivente (ad es. gli uccelli);

- il problematico concetto di "survival of the fittest". Marco Bersanelli ha dimostrato, con degli esempi, che la sopravvivenza dipende spesso soltanto dalla "fortuna", che è una casualità, una contingenza, e non la prova di una particolare "fitness". I dinosauri, e molte altre specie, sono scomparsi per delle catastrofi naturali e non a causa della loro non adattabilità. 

Queste sono soltanto alcune delle maggiori difficoltà della teoria. Ma perché essa, nonostante ciò, è ancora così tanto considerata come teoria scientifica? Perché finora non ne esiste un'altra migliore e perché, come teoria scientifica, è semplice ed "attraente".

Ma perché allora viene così caricata di ideologia e diviene uno shibolet materialista? Perché essa è la visione del mondo alternativa alla fede nella creazione. Chi dice creazione, dice anche necessità del Creatore. Se esiste un linguaggio leggibile del Creatore, allora esso è anche un appello, una richiesta del Creatore. Da cui deriva anche un dovere, un ordine etico, ad esempio nella questione della relazione fra i sessi o della difesa della vita. Al materialismo e al relativismo si può più facilmente collegare una visione materialistica dell'evoluzione. Non è un caso che l'evoluzionismo ideologico sia stato l'orpello scientifico sia del comunismo che del nazionalsocialismo. Ed è oggi l'orpello del darvinismo socio-economico, che giustifica la sfrenata "lotta economica per l'esistenza".

Ci rallegra l'illogicità dell'affermazione di Richard Dawkins, principale teorico del darwinismo ideologico, quando in un'intervista, dice che non vorrebbe vivere in una società darwinista, poiché sarebbe troppo disumana.

2. C'è però ancora un altro motivo che rende plausibile il darwinismo. La fede in un Creatore buono, nel suo "progetto intelligente del cosmo" (Papa Benedetto XVI, udienza generale del 13 novembre 2006), è messa in dubbio da una serie infinita di atrocità: - perché questo faticoso cammino dell'evoluzione: innumerevoli tentativi, vicoli ciechi, miliardi e miliardi di amni, l'espansione dell'universo, le esplosioni gigantesche delle supernove, gli elementi che bruciano nella fusione nucleare delle stelle, la macina instancabile dell'evoluzione con i suoi infiniti inizi e distruzioni, le sue catastrofi e crudeltà, fino ad arrivare alle indicibili brutalità della vita e della sopravvivenza? Non è più sensato considerare tutto come il cieco gioco del caso, di una natura priva di progetto? Non è più onesto questo che non i tentativi di teodicea di un Leibniz, cui vengono a mancare gli argomenti? Non è forse più plausibile dire semplicemente: sì, il mondo è proprio crudele?

Giunti al termine delle nostre riflessioni va precisata una cosa: non pretendiamo dappertutto di dimostrare l' 'intelligent design' in maniera avventata, apologetica. Come Giobbe, neanche noi conosciamo la risposta al dolore. Abbiamo ricevuto soltanto una risposta. Ce l'ha data Dio stesso. Il Logos, attraverso il quale e nel quale tutto è creato, ha assunto la carne e con essa l'intera storia dell'universo, l'evoluzione con i suoi lati grandiosi e orribili. Ha assunto su di sé l'intera negatività del dolore, della distruzione e soprattutto del male morale. La croce è la chiave di lettura del piano e del consiglio di Dio. Per quanto sia importante, imprescindibile, uno sforzo rinnovato ed approfondito in temi di filosofia della natura, la parola della croce è l'ultima sapienza di Dio. Infatti egli ha riconciliato il mondo intero attraverso la sua santa croce. Ma la croce è la porta per la risurrezione.

Nella sua prima omelia pasquale, Papa Benedetto quest'anno ha detto: 'La risurrezione di Cristo..., se possiamo per una volta usare il linguaggio della teoria dell'evoluzione, è la più grande 'mutazione', il salto assolutamente più decisivo, verso una dimensione totalmente nuova, che nella lunga storia della vita e dei suoi sviluppi mai si sia avuto: un salto in un ordine completamente nuovo, che riguarda noi e concerne tutta la storia... E' un salto di qualità nella storia dell"evoluzione' e della vita in genere verso una nuova vita futura, verso un mondo nuovo che, partendo da Cristo, già penetra continuamente in questo nostro mondo, lo trasforma e lo attira a sé" (Omelia della Veglia pasquale, 15 aprile 2006).

Se la risurrezione di Cristo è, per così dire, "la più grande mutazione", o come dice Papa Benedetto nella stessa omelia, l'esplosione dell'amore" che sciolse l'intreccio fino ad allora indissolubile del "muori e divieni", allora anche noi possiamo dire: questo è il traguardo "dell'evoluzione". A partire dalla sua fine, dal suo compimento, si manifesta  anche il suo senso. Anche se nelle sue singole fasi può forse apparire privo di fine e di orientamento, dalla prospettiva della Pasqua quel lungo cammino ha avuto un senso. Non: "il cammino è la meta", ma: "la risurrezione è il senso del cammino".

1. Darwin, mancano prove

di Christoph Schonborn. Avvenire 18 aprile 07

Quando Laplace fu in grado di dare una spiegazione «meccanica» dell'orbita dei pianeti, replicò a Napoleone, che preoccupato gli chiedeva quale fosse il posto di Dio in quella spiegazione, dicendo la celebre frase: «Je n'ai pas besoin de cette hypothèse». Laddove Dio deve riempire le lacune del sapere, il suo posto diviene sempre minore con ogni scoperta che riesce a spiegare qualcosa fino ad allora inspiegabile. Queste «nicchie di sopravvivenza» del creatore sono divenute sempre più ristrette, e quanto maggiore è stato il successo delle scienze naturali, tanto più sicuri si sentivano tutti quegli appartenenti alla scientifìc community che affermavano che un giorno «l'ipotesi di Dio» sarebbe divenuta del tutto superflua.

Sotto il medesimo auspicio si è presentato anche Charles Darwin. Come il professor Stanley L. Jaki ha più volte dimostrato e accuratamente documentato, Darwin era ‘ossessionato’ dall'idea di fornire una spiegazione scientifica plausibile dell'origine delle specie che potesse interamente fare a meno dell'atto separato della creazione divina. La sua «teoria della discendenza», che soltanto in seguito fu chiamata teoria dell' evoluzione, era una lunga argomentazione a favore di una spiegazione ‘intramondana’ ossia puramente materiale, meccanica, dell' «origine delle specie».

Laddove Newton affermava ancora che dalla cieca necessità non poteva generarsi alcun mutamento e quindi alcuna varietà delle cose, poiché ciò sarebbe possibile soltanto a partire dall'idea divina e dalla volontà divina, in Darwin valeva il contrario: l'intera varietà delle specie ha origine nelle mutazioni casuali e nelle loro opportunità di sopravvivenza. Il che non rende necessario alcun intervento separato del creatore.

Secondo le ricerche approfondite di Stanley Jaki, non resta dubbio alcuno sul fatto che Darwin, con la sua teoria, intendesse favorire la vittoria scientifica del materialismo. E Dio sa che non era l'unico a volerlo, nell'Ottocento. Non per caso KarI Marx e Friedrich Engels hanno salutato la teoria darwiniana come il fondamento scientifico della loro teoria.

Questa componente ideologica della teoria darwiniana è probabilmente anche la causa principale del fatto che sino ad oggi di essa, dell' evoluzione e creazione, si continui a discutere con altrettanta intensità e passione che in passato. Il dibattito degli ultimi mesi l'ha dimostrato ancora una volta chiaramente. [...]

La possibilità che il creatore si serva anche degli strumenti dell'evoluzione è accettabile per la fede cattolica. La questione è piuttosto se l'evoluzionismo (come visione del mondo) sia conciliabile con la fede in un creatore. Tale questione presuppone a sua volta che si differenzi fra la teoria scientifica dell'evoluzione e le sue interpretazioni ideologiche o filosofiche.

Ciò presuppone dal canto suo che si addivenga ad un chiarimento dei presupposti filosofici, di pensiero, dell'intero dibattito sull' evoluzione.

DAVIDE RONDONI

Cara Fallaci [sul referendum circa la fecondazione assistita medicalmente].

Da Avvenire del 12. 06. 05 e con riferimento al Corriere della Sera del 10. 06. 05

Cara Fallaci,

nel tuo intervento sul Corriere dell' altro ieri sei entrata con veemenza nel dibattito in corso: «Non mi piace questo referendum al quale i mecenati del dottor Frankenstein voteranno». E giù due paginoni pieni di dolore aggrumato, di buon senso, di sferzate verso una laicità presunta, ammosciata e priva di intelligenza, che rifiuta il confronto razionale sul punto vero: l'embrione è una cosa o un inizio di persona? E poi citazioni di Ratzinger e del suo magistero sui limiti e sulle grandezze dell'uomo, e un richiamo a usare la propria testa, in un momento in cui tecnologia farmaceutica e involuzione morale dell'Europa mettono a rischio il futuro. Quindi da laica che parla sul grande quotidiano laico ti fermi e dici più o meno: so che mi ascriveranno alle schiere dei quasi convertiti, dei venduti al Vaticano ecc. Hai ragione. Hanno fatto così. Idioti. O si sono persi in suffumigi sul liberalismo e l'etica circostante. Evitando la questione. Ma io vorrei parlare, da credente che scrive poesie in questo tempo tremendo e grandioso, non alle tue opinioni (che condivido) bensì al tuo nodo.

A quel magone che un po' nascondi e un po' esponi con la sfrontatezza di una ragazzina. Che è il tuo, e di molti altri. Il nodo del tuo dolore di fronte a Dio. Al Dio a cui non credi (<<è una favola bella», dici), perché non si capisce come mai acconsente a un mondo così cattivo e pieno d'odio. E che acconsente al tuo privato, carnale dolore. Hai ragione, un Dio lontano dal dolore umano non può che essere un Dio tremendo. So che non è mio diritto parlarti così. Farlo pubblicamente può dare materia ai moralisti o ai cicisbei delle buone maniere. A quelli che pensano solo in maniera faziosa. E che diranno: «Vedi, le rispondono dal quotidiano cattolico, la imboniscono». No. io intendo parlare di fronte a quel nodo. Che lascia senza parole. O chiede alle parole di far emergere la vita che è in loro, se c'è.

Non ti dirò: «Stai tranquilla, Dio esiste». Dirò il contrario: non stare tranquilla. Di più: non farmi stare tranquillo. A me che credo al Dio padre. Ricordami che non posso riparare dal male nemmeno la mia donna e i miei figli. E che se il Dio a cui credo non vince il male cosa è... Fai bene a portare Dio di fronte a ciò che ogni figlio può imputare a chi dice di essere suo padre: dov'eri tu, quando io soffrivo? Fai bene a non lasciare tranquillo Dio. Nemmeno i santi lo lasciano in pace.

Il grande Mounier, che teneva a capotavola la sua piccola demente Francoise, violata dalla meningite, quando aveva ospiti i migliori filosofi e scrittori di Francia, diceva: il dolore è come un ospite troppo grande. Costringe a cambiare le misure.

Una volta chiesi a un prete: perché c'è il dolore. Non mi diede una "riposta da prete". Mi disse: non c'è risposta, è un mistero. Non mi disse: si soffre per diventare migliori. Un poeta ha scritto che se uno rispondesse a quella domanda lo guarderemmo atterriti, perché la risposta non appartiene allo stesso mondo della domanda. Quel prete mi disse anche: però noi guardiamo il crocefisso. Fallaci, noi non siamo teisti, siamo cristiani. Crediamo a un Dio che ha creato l'uomo non come un meccanismo perfetto, ma un essere libero. Libero fino a odiarlo, il padre. E i fratelli. Libero perché un amore senza libertà non è da figli. E Dio voleva un figlio, non un giocattolo. Tu sai cosa vuol dire. Ha voluto un figlio libero. Se no che Padre era. Ma non solo. E' sceso nel limite della vita umana, fino al grande limite di morire. E di morire urlando, di crepare innocente e perduto. Non c'è risposta come discorso al tuo nodo.

Dio non ha fatto un discorso. S'è incarnato. Non ha dato una filosofia sul bene e sul male. Ha offerto un corpo. Scandalo dei sapienti. Per assumere il dolore, l'ineliminabile dal mondo. Ha dato un grido di nascita e di morte. E di resurrezione. Non ha inventato delle parole convincenti, ma un popolo che vive il dolore e la morte non come ultime parole sulla vita. Tu non sei tra noi credenti, Fallaci. Non sei nel corpo di questo popolo. Ma ricordarci il tuo nodo ci costringe ad essere più noi stessi. E la persona che mi ricorda chi sono, e m'inquieta, è l'amico tremendo e migliore.

Il bene della vita è un bene di tutti e per tutti

Riflessioni sui referendum abrogativi della legge 40/2004 [referendum sulla fecondazione medicalmente assistita]

Articolo del Cardinale Arcivescovo Dionigi Tettamanzi pubblicato sull'Osservatore Romano del 25 maggio 2005

Si va facendo sempre più acceso il dibattito sui prossimi referendum abrogativi della legge 40/2004. A preoccupare non sono tanto i "toni" che rendono difficile un confronto aperto ed esplicito sì ma insieme responsabile e pacato, quanto le "ragioni" che vengono addotte per sostenere certe posizioni.

In questo contesto, mi sono più volte domandato se da un lato, per la mia attuale responsabilità pastorale e, dall'altro lato, per la mia precedente consuetudine di studioso dei problemi di bioetica non potessero tornare utili alcune riflessioni, offerte con grande semplicità, sull'argomento della vita umana, specie nei suoi momenti iniziali.

1. Il mio punto di partenza è l'affermazione che la vita dell'uomo è sempre un bene. Anzi, è il bene più prezioso, perché costituisce il fondamento di ogni altro bene di cui l'uomo possa godere sulla terra: la libertà, l'amore, la pace, la salute, lo sviluppo, la cultura, le relazioni interpersonali, il benessere economico, l'esperienza religiosa, la fede, e altri beni ancora. In particolare, la vita di ciascun essere umano è un bene incondizionato, in possesso di un altissimo valore individuale e sociale, che non ha pari tra i viventi. «La vita che Dio dona all'uomo ha scritto Giovanni Paolo II è diversa e originale di fronte a quella di ogni altra creatura vivente, in quanto egli, pur imparentato con la polvere della terra, è nel mondo manifestazione di Dio, segno della sua presenza, orma della sua gloria» (Enciclica Evangelium vitae, n. 34).

Con questo riferimento a Dio, sto parlando sì da "credente", ma nello stesso tempo da "uomo", dal momento che quello della vita è «un valore che ogni essere umano può cogliere anche alla luce della ragione e che perciò riguarda necessariamente tutti», credenti e non credenti (ivi, n. 101). Faccio, dunque, appello alla ragione umana, ad una ragione che sa essere aperta a "tutta" la realtà e che, quindi, osa interrogarsi anche sulla "trascendenza".

È questa la prospettiva di fondo che guida la nostra riflessione destinata a precisare la valutazione da dare e la responsabilità da assumere nei confronti della vita umana nascente e, in specie, della procreazione medicalmente assistita, quale è stata disciplinata nel nostro Paese con la legge 40/2004. Entriamo così in una questione medica, etica, sociale e giuridica molto complessa e specialistica, per la quale desidero offrire alcune riflessioni che credo serie e fondate, ma che non pretendono di affrontare tale questione in ogni suo aspetto e in modo estremamente analitico. Il loro intento è più modesto, ma spero di non poca utilità. Il desiderio è di condividere, non solo con il credente ma con ogni uomo, alcune "ragioni" circa il bene della vita umana e circa il contributo che tutti noi siamo chiamati a dare al bene comune.

 

2. Accogliere, tutelare e promuovere la vita umana non può essere semplicemente considerata la prerogativa di alcune persone o associazioni o istituzioni.

È, piuttosto, un preciso dovere morale di ognuno di noi nessuno escluso , da assumere in modo consapevole e da praticare con determinazione responsabile, chiara e ferma. Ed è, insieme, un preciso dovere civile, dal momento che l'accoglienza, la tutela e la promozione della vita umana costituiscono la condizione basilare e irrinunciabile per realizzare il bene comune, al quale ognuno di noi è chiamato a portare il proprio contributo (cfr. Evangelium vitae, n. 72). In particolare, la dimensione e l'incisività sociale di questo impegno personale possono richiedere, in differenti circostanze, espressioni concrete diverse, quali la partecipazione ad una iniziativa, un esplicito dissenso, la sola astensione: il tutto sempre secondo forme lecite e legali e nell'osservanza delle procedure di cui una nazione si è dotata al fine di conseguire il bene comune attraverso il concorso dei cittadini.

Essendo poi il bene della vita il più comune dei beni perché riguarda ogni individuo e insieme tutta la società , ne deriva che la salvaguardia di questo bene intrinseco e integrale della persona da ogni tentativo di strumentalizzazione rispetto a taluni desideri o progetti, pur degni di grande attenzione, costituisce un servizio necessario da rendere alla solidarietà tra gli uomini.

 

3. È per questa ragione che la Chiesa chiamata dal suo Signore a servire "tutto" l'uomo e "ogni" uomo, in modo speciale quando è piccolo, debole e indifeso sta al fianco di coloro che accolgono, aiutano nella crescita e curano la vita umana dal suo concepimento sino alla morte. La comunità cristiana, infatti, come potrebbe costruire la pace tra i popoli, soccorrere i poveri, difendere gli oppressi e i perseguitati, educare i giovani ai valori, sostenere un autentico progresso culturale e sociale, se non fosse al tempo stesso impegnata nella difesa e promozione di quel bene fondamentale, anzi fontale, che è la vita dell'uomo?

Il fatto poi che alcuni diritti e doveri fondamentali vengono proposti e difesi anche dalla Chiesa non diminuisce, né tanto meno cancella, la piena legittimità civile e la natura autenticamente "laica" ovvero non confessionale dell'impegno di quanti aderiscono ad iniziative finalizzate alla tutela e alla promozione di questi stessi diritti-doveri «che appartengono nativamente alla persona e che qualsiasi legge positiva deve riconoscere e garantire» (Evangelium vitae, n. 71). Tra questi va annoverata anche la difesa e la promozione della vita umana, che non è prerogativa dei soli cristiani, ma che si presenta come "questione pienamente umana", poiché tale difesa e promozione «anche se come leggiamo ancora nell'enciclica Evangelium vitae dalla fede riceve luce e forza straordinarie, essa appartiene ad ogni coscienza umana che aspira alla verità ed è attenta e pensosa per le sorti dell'umanità» (n. 101).

In questo senso, l'eventuale emarginazione culturale e politica di un'azione civile di per sé legittima e volta alla promozione di un ordinamento giuridico più giusto e coerente con la vita e la dignità dell'uomo, per il solo fatto che in esso si riconoscono in tutto o in parte i credenti, costituirebbe una grave forma di intolleranza ideologica verso il contributo offerto dai cristiani alla edificazione della società. E a patirne sarebbe la stessa democrazia!

 

4. La tutela e la cura della vita umana veri e irrinunciabili doveri morali e civili iniziano dal concepimento e dal suo primo sviluppo, quello embrionale, durante i quali la vita è più debole e bisognosa di premurose attenzioni.

Ora, un difetto di protezione da parte dei genitori e di attenzione da parte dei medici, come pure un difetto di tutela sociale e giuridica possono comportare il rischio di un danno irreparabile o addirittura di una distruzione della vita del concepito. Il rischio appena ricordato viene oggi accresciuto dalla pratica della fecondazione in vitro o artificiale che è una delle forme di procreazione medicalmente assistita , la cui diffusione anche nel nostro Paese ha portato a introdurre nel quadro normativo italiano una legge che ne regolamenta l'esercizio nel rispetto dei «diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito» (Legge 40/2004, art. 1, c. 1).

È su questa precisa legge civile che fermiamo ora la nostra valutazione, come necessaria premessa al discorso sui referendum in atto. La prima essenziale riflessione riguarda la connessione-distinzione che esiste tra la legge civile e la norma morale. C'è connessione tra legalità e moralità, perché sui diritti e sui doveri reciproci della persona e della società spetta, da un lato, alla morale illuminare le coscienze e, dall'altro lato, al diritto precisare e organizzare le prestazioni. In realtà, lo Stato non è fonte originaria, bensì garante doveroso dei diritti umani: come non li crea, così non può distruggerli. Suo preciso compito è riconoscerli, tutelarli e promuoverli per il bene di tutti.

Nel senso ora detto, c'è connessione. Ma c'è anche distinzione tra la norma morale e la legge civile. Scopo di quest'ultima, infatti, è solo ma proprio qui stanno la sua dignità e, insieme, il suo limite! di assicurare il bene comune. Ne segue che «il compito della legge civile è diverso e di ambito più limitato rispetto a quello della legge morale» (Evangelium vitae, n. 71). La legge civile, allora, «non può abbracciare tutto l'ambito della morale, o punire tutte le malefatte: nessuno pretende questo da essa. Spesso essa deve tollerare ciò che, in definitiva, è un male minore, per evitarne uno più grande» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull'aborto procurato, n. 20). È il cosiddetto principio della tolleranza civile o anche del minor male, in forza del quale la legge civile non è obbligata a proibire qualsiasi male perché è male, ma ha la possibilità o addirittura il dovere di "tollerare" o "permettere" alcuni mali che, nella concreta situazione socio-culturale, risultano sì essere "mali", ma che di fronte ad altri mali si configurano soltanto come "mali minori". Al riguardo, san Tommaso d'Aquino rilevava che se la legge umana dovesse pretendere di proibire tutto ciò che è contrario alla legge naturale, sarebbe responsabile di far nascere mali ancora più gravi: deteriora mala prorumperent! In questa prospettiva, si può comprendere il giudizio più volte espresso dai Vescovi sulla legge 40/2004: questa «sotto diversi e importanti profili non corrisponde all'insegnamento etico della Chiesa, ma ha comunque il merito di salvaguardare alcuni principi e criteri essenziali, in una materia in cui sono in gioco la dignità specifica e alcuni fondamentali diritti e interessi della persona umana» (card. C. Ruini, Prolusione al Consiglio Permanente, 17 gennaio 2005, n. 6).

 

5. Questo giudizio sulla legge 40/2004 che la qualifica, tecnicamente, come una "legge imperfetta" trova giustificazione a partire dal suo stesso contenuto normativo. È una legge che esclude la possibilità di generare vite umane che non siano individualmente destinate a venire tutte accolte, durante i primi giorni della loro esistenza, nel grembo della propria madre. Inoltre, non concede il ricorso alla sperimentazione sugli embrioni, che di fatto li priverebbe della vita e li calpesterebbe nella loro inviolabile dignità di soggetti umani. Per questo, una simile legge costituisce oggettivamente un importante passo in avanti nella tutela degli albori della vita umana rispetto al cosiddetto far west precedente.

La legge, poi, riconosce che a nessun uomo per quanto piccolo e debole o in condizioni precarie di esistenza, come nel caso degli embrioni crioconservati può venire intenzionalmente tolta la vita nel tentativo di ridare la salute ad un'altra vita. In tal modo, la normativa vigente non priva affatto la ricerca scientifica, sulla cura di alcune malattie, del prezioso contributo che viene offerto dagli studi sulle cellule staminali e predifferenziate, poiché, come è dimostrato, sono oggi disponibili sorgenti biologiche alternative alle cellule dell'embrione umano prima del suo impianto in utero. La legge, ancora, esclude la fecondazione eterologa, tutelando in tal modo il ruolo fondamentale dei legami unici e certi all'interno dei rapporti tra i genitori e i figli, resi invece precari o aleatori dall'impiego di cellule germinali spermatozoi oppure ovociti non appartenenti alla coppia che fa ricorso alla procreazione medicalmente assistita.

Infine, la legge non ammette che il concepito, prima del suo trasferimento in utero, venga sottoposto ad indagini e interventi genetici che non siano diretti alla tutela della salute e allo sviluppo dell'embrione stesso. Si vuole così evitare, nell'ambito della fecondazione extracorporea, l'introduzione di pratiche di selezione eugenetica e di discriminazione dei concepiti affetti da malattie rispetto a quelli considerati "sani". Come si vede, non è difficile comprendere come queste disposizioni rispondono a considerazioni fondamentali e razionali sulla natura e sul compito della medicina in riferimento alla procreazione: non è quello di favorire la frammentazione deliberata e preordinata della relazione unitaria somatica, affettiva e sociale tra chi genera e chi viene generato e neppure di condizionare lo sviluppo dei concepiti al loro stato di salute, ma quello di rendere possibile il concepimento impedito da uno o più fattori di sterilità.

 

6. Su questa legge, brevemente richiamata, si pongono i quesiti dei referendum, con i quali si chiede di decidere o per il "cambiamento" o per il "mantenimento" della legge stessa nella sua forma giuridica attuale.

Sotto il profilo morale di una morale che rispetti quanto detto sulla connessione-distinzione tra legge morale e legge civile , non è accettabile una scelta che, in riferimento sia a tutti i quesiti sia solo a qualcuno di essi, porti a un "cambiamento" della legge. E questo per una duplice e convergente ragione. La prima deriva dal giudizio appena dato sulla legge 40/2004, una legge sì "imperfetta", ma che salvaguarda alcuni principi e criteri essenziali. Questa è, infatti, una legge che diminuisce gli effetti negativi della fecondazione extracorporea e ne disciplina l'esercizio nell'ambito dei diritti e dei doveri di tutti i soggetti coinvolti, non escluso il concepito, e che, in particolare, tra i diritti riconosciuti, tutela quello fondamentale e inalienabile alla vita di chi, come l'embrione umano, è stato generato attraverso la procreazione medicalmente assistita. Come tale, non può né deve essere peggiorata, minacciando o negando questi diritti, come avverrebbe introducendo i cambiamenti previsti con i quesiti sottoposti a referendum. La seconda ragione è che poiché il cambiamento finirebbe di fatto per "peggiorare" la legge vigente questa stessa legge, da "tollerante", diverrebbe "intollerabile" ossia non accettabile , perché oltrepasserebbe quella "soglia" che anche la legge civile deve rispettare in forza della sua finalizzazione al bene comune.

Ma, soprattutto, diventerebbe "intollerante" perché, non rispettando quanto è intrinsecamente essenziale alla dignità della persona umana, si fa "prepotente" nei confronti di questa stessa persona umana e, in tal modo, rende radicalmente impossibile la realizzazione del bene comune e mina alla base la stessa convivenza sociale.

7. Rimane, allora la richiesta del "mantenimento" della legge 40/2004 nella sua forma giuridica attuale.
Mi chiedo quale deve essere, in maniera specifica, l'atteggiamento dei credenti. In forza della tradizione cristiana, essi sono consapevoli che la visione integrale del rispetto della vita umana, della dignità della procreazione e dei beni della famiglia impedisce loro di condividere la prospettiva di un concepimento che non sia il frutto dell'unione coniugale nell'amore sponsale che unisce l'uomo e la donna.

Tuttavia, senza venir meno a questa visione originale e profonda della procreazione, i credenti si sentono chiamati dalla propria coscienza prima ancora che da una voce esteriore ad offrire il proprio sostegno ad una legge che diminuisce gli effetti negativi della fecondazione extracorporea e che ne disciplina l'esercizio nell'ambito dei doveri e dei diritti di tutti i soggetti coinvolti, non escluso il concepito. Nello stesso tempo, essi sono cittadini come tutti gli altri e, perciò, sono responsabilmente chiamati a partecipare alla vita pubblica in tutte le forme previste dalla Costituzione, e così contribuire a edificare una società più giusta e solidale tramite la promozione organica e istituzionale del bene comune.

Nel caso specifico della procreazione medicalmente assistita, la responsabilità dei credenti non può esaurirsi in un dissenso interiore da quelle forme di svalutazione della vita embrionale dell'uomo, che la assimilano a quella cellulare o di un animale, e neppure in un rifiuto personale del ricorso a determinate pratiche di fecondazione artificiale nell'ambito della vita coniugale o della attività professionale medica e biologica: un dissenso e un rifiuto sempre doverosi e lodevoli.

La loro è una responsabilità chiamata anche a contribuire in modo efficace secondo le opportunità offerte a ciascun cittadino dall'ordinamento statale alla formulazione e/o al mantenimento di norme giuridiche che, nelle forme concretamente possibili, tutelino le esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili che riguardano il bene della vita umana e l'accoglienza e la tutela dei figli. Operando in questo modo, i credenti non perseguono alcun interesse di parte, ma servono la causa del bene comune, incontrando sul loro cammino altri uomini e donne, di ogni fede e cultura, che hanno a cuore le sorti della società ed il destino dell'umanità.

8. È pacifico che la legge sulla procreazione medicalmente assistita attualmente in vigore potrà essere migliorata in futuro attraverso il concorso di tutti, tenuto conto dell'esperienza proveniente dalla sua applicazione, dello sviluppo delle conoscenze scientifiche e della medicina, come pure della evoluzione culturale e sociale del nostro Paese.

Nello stesso tempo, è da rilevarsi che l'abrogazione di parti decisive e qualificanti dell'articolato di questa legge farebbe invece venir meno il suo efficace contributo ad una maggiore tutela del bene della procreazione e della vita umana nell'ambito di un delicato campo di applicazione della biomedicina, quale è quello della fecondazione extracorporea e del trasferimento in utero degli embrioni umani. Nella linea indicata, allora, deve dirsi una forma di vera collaborazione alla costruzione del bene comune l'adoperarsi dei credenti, in unità di intenti e con coerenza interiore, affinché la legge attuale possa essere conservata integralmente nell'ordinamento giuridico italiano attraverso una delle modalità previste dall'istituto referendario quella, appunto, dell'astensione , modalità pienamente legittima e da molti considerata la più efficace. Non si tratta di un disimpegno rispetto ad un appuntamento della vita democratica del nostro Paese. Ci guida in questo discernimento di fronte ad una norma civile, la cui permanenza in vigore è affidata alla scelta di ciascuno di noi, una retta concezione della persona e del suo rapporto con la vita umana che la costituisce come soggetto di pensiero e di azione. Sono, infatti, il rispetto della persona e la tutela della sua vita a rendere possibile la partecipazione democratica alla società civile, non viceversa. Qualora venisse meno questo elementare rispetto della vita che se non ha inizio dal concepimento dell'uomo difficilmente potrà abbracciarne tutta l'esistenza successiva , i diritti della persona non potrebbero venire garantiti. D'altra parte, come insegna il Concilio Vaticano II, la tutela «dei diritti della persona è condizione perché i cittadini, individualmente o in gruppo, possano partecipare attivamente alla vita e al governo della cosa pubblica» (Gaudium et spes, n. 73).

+ Dionigi card. Tettamanzi Arcivescovo di Milano

Milano, 18 maggio 2005.

 

Tettamanzi: «L'astensione è giusta ma evitiamo scomuniche tra i cattolici».

«Il consiglio della Chiesa come quello materno: difficile ignorarlo senza sentirsi in colpa Il referendum non divida i fedeli, sarebbe una tentazione diabolica che porta a lacerazioni»

La linea è chiara come l'«irrinunciabile diritto-dovere» della Chiesa di intervenire su scelte «che decidono il futuro stesso dell'umanità» e indicare il non voto quale mezzo più efficace per non peggiorare una legge che è già «al limite della soglia di tollerabilità». Ma la questione, spiega l'arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi, non può finire con il referendum. Disteso, l'aria serena, il cardinale parla al primo piano dell'Arcivescovado con accenti tolleranti, spiega che le indicazioni della Chiesa sono come quelle «di una madre a un figlio» e mette in guardia i cattolici dalla tentazione, letteralmente «diabolica», di dividersi: «Evitino ogni forma più o meno larvata di "reciproca scomunica"». Anche perché l'impegno dovrà proseguire ben oltre il voto, «quella della vita è una delle sfide principali del nostro tempo».

Che effetto le ha fatto, eminenza, il dibattito degli ultimi mesi sulla procreazione assistita?

«Rilevo che il dibattito presenta un aspetto positivo, perché attira l'attenzione di tanti ad interessarsi di questioni di cui spesso si tace, mentre sono importanti e decisive per ogni uomo e per la società. Devo però aggiungere che questo dibattito non sempre è stato corretto e non sempre ha saputo affrontare alcune questioni. Da parte di molti si è preferito parlare per slogan, semplificando e assolutizzando alcuni aspetti, giungendo persino a falsare i termini dei problemi in discussione.Di più: non sempre sono stati messi in luce i valori in gioco; e, quando lo si è fatto, non si è discusso adeguatamente il temaimportante e, per qualche verso, discriminante in ordine ad un confronto referendario del rapporto tra la legge morale e quella civile. Devo dire, ancora, di alcune prese di posizione pregiudizialmente chiuse a ogni vero e serio confronto. Così, ad esempio, la contrapposizione tra cultura cattolica e cultura laica: la ritengo del tutto inaccettabile, perché qui in gioco non è una "questione cattolica", ma una questione pienamente "umana". È in gioco la vita umana, il bene fondamentale per ogni persona, sia essa cattolica o no, credente o no, di destra o di sinistra».

Che cosa risponderebbe a chi ha attaccato il cardinale Ruini, per l'indicazione del "non voto"?

«La Chiesa se non vuole venir meno alla sua identità e missione non può esimersi dall'intervenire di fronte a scelte etiche e legislative di primaria importanza come quelle che toccano la vita dell'uomo e, quindi, la sua inviolabile dignità di persona e che decidono del futuro stesso dell'umanità. Gli interventi del presidente della Cei scaturiscono da questo "diritto-dovere" della Chiesa, lo esprimono e lo esercitano. Si tratta di un "diritto-dovere" irrinunciabile che, in una società veramente libera e democratica, non può essere soggetto a nessuna forma di limitazione, a meno di dimostrare che l'esercitarlo sia contro il bene comune!»

In questo caso, però, non ci si limitava al principio, si indicava un comportamento...

«Se si rileggono con pacatezza e onestà gli interventi del cardinale Ruini, si nota immediatamente che essi offrono, anzitutto, gli elementi essenziali per un giudizio etico sulla legge sottoposta a referendum. Sottolineano, poi, con insistenza la necessità di un'informazione corretta ed equilibrata e di una formazione davvero attenta ai valori in gioco. Dando anche voce all'indicazione del Comitato "Scienza vita" di non partecipare al voto, affermano che "in concreto è necessaria la più grande compattezza nell'aderire all'indicazione del Comitato, per non favorire, sia pure involontariamente, il disegno referendario", che consiste nel sopprimere alcune parti della legge 40, con il risultato di peggiorarla da un punto di vista etico. Aggiungo che lo stesso presidente della Cei, insieme con i vescovi del Consiglio permanente, ha precisato con cura che il senso autentico di questa indicazione non è affatto una scelta di disimpegno, ma l'esatto contrario».

Sì, ma per la Chiesa è legittimo consigliare il non voto?

«Questo consiglio è di per se stesso del tutto legittimo, a prescindere da chi lo formula. Come precisano, infatti, gli esperti del diritto e come, per altro, è stato indicato da esponenti politici di primo piano in altre occasioni referendarie, la non partecipazione al voto nel caso dei referendum abrogativi è una delle scelte possibili previste già nella nostra Costituzione. Il non votare, allora, è un modo per esprimere democraticamente la propria volontà di cittadini, che è il primo gradino della libertà democratica. Al dire dei giuristi, nel caso dei referendum abrogativi, diversamente che nelle elezioni amministrative e politiche, non sussiste un dovere civico di votare. Anzi, la libera scelta di votare o di non votare è un ingrediente essenziale del congegno referendario. Ora se il consiglio del non votare è legittimo, legittimo rimane da chiunque venga dato: anche dalla Chiesa e, in essa, anche dai vescovi. Perché meravigliarsene o rimanerne scandalizzati?»

Forse perché viene visto come un'ingerenza?

«La Chiesa è "madre e maestra", come ci ha ricordato Giovanni XXIII in una sua famosa enciclica sociale. Come "maestra", ha il compito di "insegnare", ossia di annunciare la verità del Vangelo e la fede con tutte le sue conseguenze sui valori e sulle esigenze etiche dell'uomo. Come "madre", può e deve orientare e guidare i suoi figli, indicando la strada più sicura per vivere in fedeltà al Vangelo. E questo tanto più se la Chiesa, come vuole il Signore e quindi come è il suo "ruolo", rimane pienamente inserita nelle vicende e nelle problematiche del mondo, testimoniando nella società quei valori che le vengono dal Vangelo e che sono capaci di rendere più giusta e più umana l'intera convivenza. E sono valori che la Chiesa è chiamata a proporre in modo coerente e convincente, con gesti e argomentazioni che sanno interrogare anche chi non è cristiano e suscitare e favorire anche il suo consenso. È innanzitutto in questa prospettiva di Chiesa "madre e maestra" che si pone, e dunque va letto, il consiglio espresso dai vescovi».

L'indicazione è vincolante, per un cattolico?

«Per la verità, le indicazioni dei vescovi sono più di una. La prima, la più sostanziale e vincolante, è che a partire dalla retta ragione ci sono diritti fondamentali che vanno salvaguardati: il diritto alla vita e all'integrità fisica di ogni essere umano, compreso l'embrione; i diritti della famiglia e del matrimonio come istituzione; il diritto per il figlio ad essere concepito, messo al mondo ed educato dai suoi genitori in un contesto di vita matrimoniale».

Ma una legge dello Stato può assumere tali valori?

«Si tratta di diritti che costituiscono dei "limiti invalicabili" oltre i quali la legge civile, proprio in forza della propria finalizzazione al bene comune, non può andare, senza la sua perdita di forza e di credibilità. Sono come la "soglia di tolleranza" che non può essere oltrepassata. Se invece venisse superata, ad essere negato sarebbe qualche cosa di intrinsecamente essenziale alla dignità della persona umana, così come a non poter essere ottenuto sarebbe lo stesso bene comune, cui la legge deve sempre mirare».

Diceva che le indicazioni sono più d'una...

«L'altra indicazione dei vescovi è che la legge 40 è una legge che "sotto diversi e importanti profili non corrisponde all'insegnamento etico della Chiesa, ma ha comunque il merito di salvaguardare alcuni principi e criteri essenziali". In altre parole, è una legge la cui "soglia di tollerabilità" è già al limite: non può, dunque, essere superata, come avverrebbe abrogando le parti indicate nei quesiti referendari. Di qui un'altra precisa e vincolante indicazione: questa legge non può non deve essere peggiorata. Ma questo avverrebbe votando "sì" ai referendum, mentre rimarrebbero aperte come eticamente possibili (almeno sotto il profilo teorico) le due strade del votare "no" e del "non votare". In particolare, l'indicazione della "non partecipazione al voto" deve dirsi "vincolante" in forza delle ragioni, di ordine "pratico e prudenziale", che vengono portate per difenderla e promuoverla. E sono ragioni non deboli né peregrine che molte persone del mondo scientifico, culturale, professionale e politico persone competenti e di diversa appartenenza non solo partitica, ma anche culturale e religiosa hanno illustrato in questi mesi e che il Comitato "Scienza vita" ha cercato e continua a cercare di diffondere e di chiarire. Nella prospettiva ecclesiale sopra ricordata, leggo l'indicazione del "non votare" analogamente a quella che una madre guidata da vero amore per i figli, di cui comunque riconosce la maturità e rispetta la libertà si sente in dovere di dare a un proprio figlio quando è di fronte a scelte importanti, addirittura decisive, per la sua esistenza. È un'indicazione da prendere in grande considerazione e che solo per gravi motivi si potrebbe disattendere senza sentirsi in qualche modo a disagio o in colpa».

Cosa direbbe ai cattolici che invece vogliono votare?

«Direi che non devono, con il loro voto, peggiorare la legge. Chiederei, poi, che prendano in seria considerazione le motivazioni che accompagnano il consiglio, da più parti espresso, di non andare a votare, esprimendo così "un doppio no": il "no" al peggioramento di questa legge e il "no" ad un uso dell'istituto referendario che, anche in questa occasione, sembra quanto mai discutibile, se non addirittura guidato da inaccettabili strumentalizzazioni. Li inviterei, ancora, ad interrogarsi sugli effetti che, nel concreto panorama attuale delle posizioni, questa loro scelta potrebbe avere: sia in ordine al raggiungimento del "quorum" per la validità del referendum, sia in ordine ad un'eventuale affermazione dei "sì", che porterebbero all'inaccettabile peggioramento della legge. Sento, infine, vivo il bisogno di rivolgere un forte e accorato invito a tutti i cattolici: evitino ogni forma, più o meno larvata, di "reciproca scomunica". Non è forse una tentazione "diabolica" che, se seguita, porterebbe a deleterie e infondate "divisioni" e "lacerazioni" del tessuto ecclesiale?»

Che dice, invece, ai fedeli della sua diocesi?

«Dico, anzitutto, che su questi temi è necessaria una più limpida e costante opera di informazione e di formazione, che è parte integrante e permanente della missione evangelizzatrice della Chiesa. Ed è, quindi, un'opera che deve continuare anche dopo il referendum.Eal riguardo tutti, con competenze e forme diverse, dobbiamo sentirci fortemente responsabilizzati».

In che senso?

«Quella della vita, in realtà, è una delle "sfide" principali del nostro tempo, anche nel nostro Paese e nella nostra comunità cristiana: accogliere, tutelare e promuovere la vita umana di ogni persona e in tutte le sue condizioni e fasi di sviluppo è un grave dovere morale, che ci interpella come uomini e come cristiani. Ma, nello stesso tempo e nonmeno, questo è un grave dovere civile, che ci interpella come cittadini. Lo è perché la vita fisica, per ogni uomo e donna, costituisce il fondamento di ogni altro bene di cui l'uomo possa godere sulla terra: la libertà, l'amore, la pace, la salute, lo sviluppo, la cultura, le relazioni interpersonali, il benessere economico e altri ancora. Accogliere, tutelare e promuovere la vita umana, allora, è la condizione originaria e necessaria perché si possa realizzare il bene comune. Interessarsi di questi problemi e partecipare attivamente a livello culturale, sociale e politico perché di fronte a ogni minaccia e ad una sempre più diffusa "cultura della morte"si affermi e si diffonda una vera "cultura della vita", è questione di tale portata presente e futura che non può lasciare indifferente e inerte nessuno! E nel segno della concretezza devo dire che la "partecipazione", di cui sto parlando, chiede di esprimersi anche in questa vicenda referendaria, con scelte precise che non portino ad un peggioramento dell'attuale legge italiana sulla procreazione medicalmente assistita».

Gian Guido Vecchi

17 maggio 2005

 

GALILEO GALILEI: IL CRISTIANESIMO, MOTORE DEUA SCIENZA?

di GIUSEPPE O. LONGO Avvenire 08. 12. 05

In una lettera a Federico Cesi del 1612, Galileo scriveva:

«Noi non deviamo desiderare che la natura si accomodi a quello che parrebbe meglio disposto e ordinato da noi, ma conviene che noi accomodiamo l'intelletto nostro a quello che ella ha fatto, sicuri che tale essere l'ottimo e non altro». Come dire che lo scienziato non deve piegare la realtà alla propria interpretazione, bensì aggiustare questa a quella. Di fronte alla natura, lo scienziato tenta dunque una traduzione, un'interpretazione, che la renda intelligibile. Il mondo è sempre lì, vivo e resistente, metro e pietra di paragone infalsificabile di ogni nostra descrizione, mentre le interpretazioni sono perfettibili, a volte si dimostrano false e bisogna scartarle. Scartata un'interpretazione lo scienziato ne tenta un'altra, convinto di potersi via via avvicinare a un'immagine vera, a una traduzione esatta, a un modello adeguato della natura.

Ma da che cosa deriva questa presunzione di poter descrivere, anzi spiegare, il mondo traducendolo in parole, in segni, in formule? Galileo riteneva che la natura fosse scritta in linguaggio matematico, quindi a noi accessibile. Più in generale i fisici ritengono che l'universo segua leggi razionali, suscettibili quindi di essere indagate e conosciute dalla mente umana.

Questa convinzione, che sta alla radice della scienza occidentale, viene fatta risalire da molti scienziati alla tradizione cristiana, per la quale l'universo è cosa buona ed è stato creato da Dio secondo un disegno conoscibile perché razionale (tesi piuttosto scandalosa per chi consideri antagoniste fa scienza e la fede cristiana). Di questa convinzione è portavoce tra gli altri il fisico britannico Peter Hogdson, che si spinge fino ad affermare che la visione cristiana, lungi dall'opporsi alla ricerca scientifica, ne è il motore.

Lo storico americano Thomas E. Woods riprende questa tesi in un libro recentissimo, «How the Catholic Church Built Western Civilization» (<<Come la Chiesa cattolica costruì la civiltà occidentale»), suffragandola con l'osservazione (non originale, ma circostanziata) che nelle grandi civiltà con tradizioni religiose diverse dalla nostra l'idea che il mondo fisico sia soggetto a una norma conoscibile non si è mai affacciata: questo sarebbe il motivo per cui Cina, India, area islamica e via dicendo, dopo una prima fioritura prescientifica, non sono state capaci di giungere alla maturità progressiva e cumulativa tipica della scienza occidentale. Tesi interessante, che conviene approfondire. Questo sotto il profilo teorico.

Sul piano pratico non si può trascurare che moltissimi uomini di chiesa sono stati anche valenti scienziati. Un esempio per tutti è costituito dalla Compagnia di Gesù, fondata da Ignazio di Loyola nel 1540: i padri gesuiti, ferventi servitori della fede, facevano e fanno delle varie scienze (dalla matematica alla geologia, dall'astronomia alla cartografia) un'insegna e uno strumento di conversione nei confronti dei popoli esotici, ma forse soprattutto un mezzo per rendere gloria a Dio.

Un vangelo bellico?

don Gianfranco Formenton

Don Gianfranco Formenton, parroco di Sant'Angelo in Mercole (Spoleto), propone la sua riflessione sul coinvolgimento della chiesa cattolica e di Dio in guerra.

L'arruolamento di Dio in guerra... assolutamente involontario da parte sua che (ne sono sicuro) non ha nessun interesse e nessuna intenzione di benedire via via l'America, la regina d'Inghilterra, l'Italia, le nostre armi, i nostri soldati ecc. Ma tant'è, ce l'hanno tirato dentro anche stavolta. C'era da aspettarselo.

Dalle crociate, alle lotte comunali, alla conquista dell'America, alle guerre mondiali... c'è sempre stato qualche imperatore che ha issato il simbolo della croce sui propri stendardi, qualche cappellano militare pronto a benedire uomini e armi contro il nemico, qualche "carroccio" su cui celebrare messe di guerra per propiziare i favori celesti ed alti prelati a esaltare i valori morali dei "nostri" contro le attitudini immorali degli "altri".

La categoria del "nemico" non esiste nelle pagine evangeliche e se esiste è per stabilire una volta per tutte che il "nemico" non esiste. Ma da sempre troviamo preti sulla "nostra" trincea a implorare Dio ad avere un occhio di riguardo per i "nostri", mentre sull"'altra" trincea altri preti pregano lo stesso Dio chiedendogli la stessa cosa. Credo che Dio si trovi in forte difficoltà in queste situazioni.

Che c'entra? Per quanto riguarda questa guerra è tutto più facile. Gli altri sono musulmani e quindi anche Dio dovrebbe sentirsi più sereno e potrebbe ricordarsi ad esempio di Lepanto quando si arruolò persino la Beata Vergine Maria che in quell'occasione acquistò persino il titolo di Regina della Vittoria.

Siamo riusciti anche questa volta ad arruolarlo, Dio, a chiedergli di fare cose che non può fare. È la mistica della guerra. Gli uomini che uccidono per cavoli loro sono degli assassini. Gli uomini inquadrati negli eserciti, al soldo (soldatil) dei governi, delle industrie belliche, delle multinazionali del petrolio, sono degli eroi della patria.

E sembra che la storia tutta, umana e divina, si pieghi di volta in volta ai destini della patria, ai sacri confini "stabiliti da Dio", ai desideri degli imperatori, dei dittatori, dei governi. Nelle preghiere del carabiniere, dell'alpino, dell'aviatore, del carrista , del bersagliere... si trovano mille argomenti che dovrebbero convincere Dio a rendere immancabilmente forti le 'nostre' armi.

Nella Chiesa cattolica c'è persino una categoria strana di preti, stipendiata dall'Esercito, inquadrata nella sua gerarchia, addetta a ricordare a Dio i suoi doveri verso i "nostri" soldati: i cappellani militari che a loro volta sono inquadrati in un'altra gerarchia teologicamente inesistente ma che è contemplata dagli ordinamenti giuridici: l'Ordinariato Militare. Vale a dire che in pratica esiste una "Chiesa militare" con relativo Vescovo. Per la Chiesa sono preti e monsignori. Per l'esercito sono capitani, tenenti ecc.. con relative insegne da apporre sul bavero e stipendio da ufficiale.

È una specie di legittimazione religiosa dell'immorale industria delle armi, e della politica guerrafondaia (perché le armi che Dio dovrebbe benedire qualcuno le avrà pure costruite, e saranno al servizio di qualcuno, o no?) di nobilitazione morale di addestramenti studiati per trasformare uomini normali in guerrieri, in Rambo dalle "virtù morali" ben descritte in film come Full Metal Jaket, in Platoon, in Apocalipse Now, ecc., di giustificazione storica della violenza come mezzo normale per risolvere le controversie internazionali. (Ma che gli raccontate ai "nostri" ragazzi? Che il Vangelo è d'accordo con le farneticazioni dei loro istruttori invasati?).

Su qualche vaga citazione evangelica abbiamo costruito una morale sessuale monumentale capace di fare le lastre persino agli spermatozoi; sul comandamento "Tu non uccidere", chiaro, preciso, contundente, solare, evidente, non equivocabile... abbiamo lasciato passare sopra secoli di violenza, abbiamo fatto passare cammelli attraverso crune di aghi, abbiamo benedetto guerre, genocidi, violenze di ogni tipo, in nome di Dio, in nome della Patria, in nome della Chiesa... Implacabili fino alla spietatezza nella sessualità, tolleranti e conniventi sulla violenza organizzata (questa è la guerra) fino a fornire legittimazione morale ai signori della guerra di tutti i tempi.

Viviamo in un mondo complicato ma ci sono parole che non si possono equivocare. I soldati di un esercito in armi non possono essere operatori di pace. Un prete non può essere soldato (al soldo) di un esercito. Una guerra preventiva è una guerra di aggressione. "Tu non uccidere" non può ammettere eccezioni.

E poi la verità. Il povero, vecchio Papa l'aveva detto: «la prima vittima della guerra è la verità». Ed è sempre così. Lo è sempre stato ma ora di più. La menzogna è una necessità. Bisogna mentire prima, durante e dopo. È la logica dei bollettini di guerra che obbediscono solo alla legge della propaganda militare (anche i moderni bollettini di guerra camuffati da Porta a Porta e simili). E la logica della retorica che colora gli avvenimenti con le tonalità imposte dai regimi e dalle democrazie parziali. È la logica delle benedizioni e delle prediche militari che danno un valore divino a cose solamente umane.

Gino Strada, medico, profeta e laico parla sempre (ma con la censura vigente lo fanno parlare sempre meno) degli aspetti chirurgici dei corpi umani dilaniati dalle mine e dalle bombe ed è proprio quello che adesso nessuno vuole sentire. Tra Gino Strada e i vari Vespa, Costanzo e Ferrara la differenza è solo questa: che il primo conosce gli effetti devastanti della guerra sui corpi umani e gli altri si dilettano in particolari e prediche patriottiche.

«Se avessero i loro figli lì, non parlerebbero più...» ha affermato un giorno. Perché la guerra è questa e basta ed è allucinante che ci sia ancora qualcuno che pensa che ci siano ideali o qualcosa di simile (se non gli interessi dell'impero) nelle strategie pianificate dal Pentagono o qualcosa di nobile nei contingenti di pace inviati dai governi vassalli per partecipare alla spartizione del bottino.

Gli eserciti moderni sono strutture di peccato creati da altre strutture di peccato che li organizzano per difendere interessi e privilegi che nulla hanno a che fare con la normale vicenda umana. La moderna tecnologia militare che non tiene in nessun conto i costi in vite umane (il 99% delle vittime sono civili), che sottrae risorse vitali per l'umanità consentendo all'occidente di spendere in questa guerra quello che basterebbe per risolvere tutti i problemi alimentari e medici di tutta l'umanità, non consente a nessun cristiano di partecipare a queste stragi organizzate, a questo terrorismo di stato ('neanche come cuciniere' direbbe don Lorenzo Milani) né consente a nessun prete o vescovo o cardinale di benedire niente e nessuno.

E oltretutto è inutile perché certamente Dio non ascolta queste preghiere stupide e retoriche. Spesso i soldati che muoiono sono buoni, ma non è la moralità personale che rende moralmente accettabile anche solo l'idea della guerra. Anche i civili che muoiono sotto i bombardamenti democratici sono buoni e la loro morte sì che rende immorale la guerra anche se sono mussulmani.

Monsignor Bagnasco, Vescovo Militare di una chiesa che non esiste, si arrenda, dia le dimissioni, sciolga il suo "esercito" di cappellani militari e torniamo tutti a invocare e a costruire la pace nelle parrocchie di tutto il mondo. Torniamo ad insegnare ai giovani a disobbedire alla logica della violenza, a rifiutarsi di offrire incenso all'imperatore, a sognare che la pace è possibile anche su questo mondo e che non è necessario aspettare il requiescat in pace ai funerali di Stato. Sarebbe un bel segno e il Papa, ne sono sicuro, ne sarebbe felice e capirebbe che ha fatto bene a condannare fino all'ultimo momento questa inutile, illegale, idiota strage, senza "se" e senza "ma".

Buon Natale a tutti

Natale 2003

INTERVISTA

Parla lo storico Thomas E. Woods jr.: «Sui media domina una leggenda nera sulla Chiesa "oscurantista". La realtà è l'opposto»

Cristianesimo, sale dell'Occidente

«Nessun storico crede davvero che la civiltà occidentale derivi solo da classicità, Rinascimento e Illuminismo» «L’idea di un universo ordinato secondo leggi naturali ben fisse è sorta nell’Occidente cattolico che vedeva nell’ordine di Dio un Suo segno»

di Lorenzo Fazzini. Avvenire 14 giugno 2007

Antiscientifica, nemica della libera espressione artistica, oscurantista in campo sociale e foriera di ogni lato buio della storia. A leggere con un certo disincanto un po' di pubblicistica nostrana oppure orecchiando qualche salotto televisivo, parrebbe che alla Chiesa cattolica manchi soltanto la definizione storiografica per essere assurta allo status di "regime totalitario". A smontare tale stantio cliché populista con una panoramica storica a largo raggio (e con impronta divulgativa, fatto che - come nota nella prefazione Lucetta Scaraffia - risulta di grande utilità) è un giovane studioso americano, Thomas E. Woods jr., di cui in questi giorni Cantagalli pubblica Come la Chiesa cattolica ha costruito la civiltà occidentale. Da notare che Woods, senior fellow in Storia al Ludwig von Mises Institute, non sostiene solo che l'Occidente abbia radici cristiane, ma che proprio il cattolicesimo sia stata la linfa vitale che ha dato origine al grande albero della cultura e società occidentale così come oggi la conosciamo.

Professor Woods, perché ha deciso di scrivere questo libro?

«I docenti di Storia medievale o di Storia della scienza tendono ad essere più comprensibili sulle vicende della Chiesa rispetto a coloro che insegnano altre discipline, più portati a diffondere miti e leggende riguardo a quest'ultima. Il grande pubblico è stato istruito (a scuola e dai media) a credere ad ogni sorta di nonsenso sulla Chiesa. Questi miti sono stati confutati in libri di spessore accademico, ma la maggior parte della gente non li legge mai. Il mio testo attinge a queste opere e le rende accessibili al lettore medio».

Nella Costituzione dell'Unione europea non c'è menzione delle radici cristiane. Cosa pensa di tale scelta?

«Rigettare le radici cristiane dell'Europa è l'apice dell'assurdità. Nessun storico moderno prende seriamente in considerazione l'idea che la civiltà occidentale derivi esclusivamente dal mondo classico, dal Rinascimento e dall'Illuminismo, come se il cosiddetto Medio Evo non fosse altro che un periodo di stagnazione o repressione».

Nel suo libro lei argomenta che la Chiesa cattolica ha plasmato la civiltà occidentale e fa una serie di esempi: il sistema universitario, la tradizione artistica, il diritto internazionale,… Quale il contributo più importante?
«La vera storia della relazione tra la Chiesa e la scienza è senza dubbio il fatto di maggior rilevanza. Per lungo tempo la gente ha considerato assodato che la Chiesa sia stata un ostacolo allo sviluppo scientifico. I moderni studiosi di scienza - sia cattolici che non - respingono tale visione, purtroppo ancora insegnata ai nostri figli. Dubito che vi sia chi sappia che trentacinque crateri lunari si chiamano come altrettanti scienziati gesuiti oppure che fu un gesuita (Giambattista Riccioli) il primo a misurare l'accelerazione di un corpo in caduta libera. O, ancora, che fu un membro della Compagnia di Gesù - Francesco Maria Grimaldi - a scoprire il fenomeno della diffrazione della luce».

Perché la scienza è stata una conquista cattolica?

«Importanti aspetti della visione del cattolicesimo hanno aiutato ad assicurare il successo della scienza in Occidente. Il metodo scientifico non può funzionare senza che gli esperimenti siano ripetibili e ciò può avvenire solo se l'universo è ordinato. Se non posso aspettarmi di ottenere lo stesso risultato quando lo ripeto nelle medesime condizioni, ecco che diventa impossibile fare scienza. L'idea di un universo ordinato secondo leggi naturali ben fisse è sorta nell'Occidente cristiano perché l'ordine di Dio è stato considerato come un segno della Sua bontà. Sant'Anselmo non era il solo tra i teologi a distinguere tra la potentia assoluta di Dio e la sua potentia ordinata. In altre parole, sebbene Dio possieda il reale potere di governare l'universo in maniera capricciosa, Egli non ha voluto esercitare tale potestà dal momento che ciò non era adatto alla Sua natura. La fiducia in una strutturazione dell'universo, congiunta al fatto di credere che esso possa essere compreso in via quantitativa (come afferma il Libro della Sapienza 11,21, uno dei versetti biblici più citati nel Medio Evo), ha creato il contesto intellettuale nel quale la scienza ha potuto nascere in Occidente».

Lo storico delle religioni Philip Jenkins sostiene che l'anticattolicesimo sia l'ultimo pregiudizio oggi accettabile. Perché ciò avviene?

«Alcuni intellettuali e celebrità occidentali odiano la Chiesa perché ne rimprovera gli immorali stili di vita. Altri credono al mito illuminista per cui tutte le forme di progresso provengono dai laicisti che hanno combattuto la Chiesa. Ai nostri giorni i cattolici sono considerati stupidi, superstiziosi e deboli perché hanno bisogno della loro gretta fede in Dio per confortare se stessi. L'idea che qualcuno possa supportare i principi cattolici e difenderli con argomenti filosofici è semplicemente ignorata. E ciò avviene nonostante esista una fruttuosa relazione tra fede e ragione lungo un vasto periodo della storia della Chiesa: Anselmo e Tommaso d'Aquino, ad esempio, hanno posto senza sosta domande filosofiche e teologiche, impegnando molto spesso la ragione per giungere alle loro conclusioni».

A proposito del pamphlet di Hitchens

Quel «poderoso saggio» confonde fanatismo e religione

di Francesco D'Agostino. Avvenire 15.06.07

Cominciamo col tranquillizzare chi abbia letto l'interminabile recensione, intitolata "Contro la religione", che, sul Corriere della Sera del 12 giugno, Pierluigi Battista ha dedicato a Christopher Hitchens e al suo ultimo libro "Dio non è grande". Non si tratta affatto di un saggio "poderoso", né l'autore sembra essere "singolarmente intelligente"; il libro non è né "spiritoso", né "straordinariamente insidioso per chi è impegnato nella guerra culturale contro il secolarismo", né infine appare scritto "con la maestria di un campione della polemica culturale". Vale la pena comprarlo e leggerlo? No. Ma poiché Battista insiste nel dire che le tesi di Hitchens "esigono una risposta, non una scomunica" e soprattutto "non il silenzio imbarazzato, come accade troppo spesso", proverò a motivare rapidamente le ragioni per le quali - senza sentire alcun imbarazzo - ritengo che "Dio non è grande" sia tutto sommato un libro inutile.

Quando si può raccomandare la lettura di un libro di saggistica? Essenzialmente quando l'autore sostiene idee nuove e riesce ad argomentarle adeguatamente. In via subordinata, quando, anche se non sostiene idee nuove, le presenta con uno stile innovativo e accattivante. Hitchens non rientra né nell'una né nell'altra categoria. Le sue idee non hanno alcuna originalità: rientrano in un filone antichissimo di critica alla religione, già ampiamente sfruttato in epoca classica, in particolare dagli epicurei, e che attraversa, come un filo rosso, l'intera storia dell'Occidente: la religione è violenta. Tutti gli studenti della mia generazione hanno letto Lucrezio (quando nei licei classici si studiava ancora il latino!) e imparato a memoria la sua famosissima accusa alla religione: tantum religio potuit suadere malorum! Se Lucrezio appare troppo datato, si prenda James Hillmann e il suo "Un terribile amore per la guerra", apparso, nell'edizione originale, solo tre anni fa: vi si possono trovare tutte, proprie tutte le critiche di Hitchens alla religione, esposte però con ben altra vigoria teoretica. Sta di fatto che al pensiero forte di Hillmann, così come al semplicistico argomentare di Hitchens va mossa la medesima obiezione: sia l'uno che l'altro confondono indebitamente fanatismo e religione. Se è indubbio che il fanatismo trova il più delle volte (ma non sempre) le sue radici nella religione, è altrettanto indubbio che questa è ben diversa da quello: il fanatico si rapporta all'altro come ad un nemico, per asservirlo, l'uomo religioso si rapporta all'altro come a un fratello, per servirlo. Non solo è ingeneroso, ma è scorretto assimilare grossolanamente l'una e l'altra figura: il fanatico terrorista non appartiene al mondo del Buon Samaritano, esattamente come (e mi scuso per la pochezza dell'esempio) i veri amanti dello sport non vanno assimilati ai teppisti che incendiano gli stadi.

Resta ancora in piedi l'altra possibile buona ragione per leggere Hitchens: la brillantezza del suo stile. Personalmente, non riesco a percepirla. Hitchens è fondamentalmente un tardo epigono di Voltaire, anche per il quale le Scritture erano piene di "approssimazioni, incongruenze, assurdità", infarcite di "terrificanti proibizioni" e che vedeva in Abramo uno che ascoltava delle "voci" e che, dopo essersi fatto accompagnare dal figlio in una "folle e fosca camminata" era addirittura pronto ad assassinarlo. Qualcuno potrà anche divertirsi a leggere come Hitchens stigmatizza il Dio biblico che "odia il prosciutto"; ma è doveroso ricordare che battute del genere Voltaire ne ha scritte a decine e decine, e in genere ben più brillanti di quelle di Hitchens. Una volta messa da parte tutta questa non irresistibile ironia, cosa resta se non l'incredibile sordità di Hitchens (e, ben prima di lui, di Voltaire) nei confronti della Bibbia e del suo linguaggio? E' ben difficile far percepire a chi sia completamente cieco lo splendore delle arti figurative; ma anche se non tutti sono in grado di leggere la storia di Abramo con l'appassionata intelligenza di un Kierkegaard, tutti dovrebbero avere almeno il garbo di un non credente come Max Weber, che non perse mai il rispetto nei confronti della religione, anche se personalmente si riconosceva completamente stonato (unmusikalisch) nei suoi confronti.

Non sono, come crede Battista, i "difensori della fede" a dover "fare attenzione a questo pamphlet"; sono piuttosto i "laici". Anche a costoro bisogna consigliare di prendere questo libro con le molle: chi si compiace delle argomentazioni di un Hitchens e si illude di poter liquidare la religione con queste antiquate invettive è già fuoriuscito, senza accorgersene, dalla modernità. Voltaire, per quanto gradevole sia leggerlo, non rappresenta né il presente né il futuro; è solo - come la parrucca che indossò fino alla fine della sua vita - il simbolo di un passato definitivamente sepolto.

Ma Hitchens dimentica che Dio è amore

Editoriale di Giacomo Samek Lodovici. Avvenire 14. 06. 07

Nell'attesa di leggere il libro di Christopher Hitchens, che ha il già significativo titolo "Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa", può essere utile prenderne in considerazione una tesi anticipata sul "Corriere", in un lungo articolo di P. Battista, e alcune di quelle di un articolo dello stesso Hitchens, sempre sul quotidiano di via Solferino. Per Hitchens tutte le religioni sono menzogne che hanno fatto e continuano a fare molto male al mondo, generando le peggiori violenze. Ora, bisogna replicare che ci sono differenti religioni, in cui le cui dottrine, gli atti di culto e le condotte sono diversi e la differenza si evince anche in relazione al rapporto tra religione e violenza. Così, ad esempio, le religioni precolombiane sacrificavano agli dei innumerevoli uomini, donne e bambini (per esempio, gli Aztechi ne uccidevano a tal fine, in modo crudele, più di ventimila all'anno).

Ma se ci concentriamo sul cristianesimo la critica di Hitchens è clamorosamente erronea. Infatti, il cristianesimo ha operato una rivoluzione culturale straordinaria ed inestimabile: 1) perché ha sancito per primo in modo chiarissimo il dovere assoluto di rispettare la dignità di ogni essere umano; 2) perché prescrive l'amore del prossimo, tanto che la sintesi dei precetti cristiani è il comandamento dell'amore: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso» (Mc 12, 29-31). Storicamente, l'esercizio concreto dell'amore verso il prossimo, verso ogni essere umano (e non solo verso alcuni), non esisteva in nessuno dei popoli precedenti al cristianesimo. È il cristianesimo che promuove in concreto istituzioni caritatevoli e assistenziali come, per esempio, l'ospedale, dove vengono curati tutti (e non solo alcuni) i malati, e che è stato gestito dalla Chiesa fino al 1700 inoltrato. Insomma, i cristiani che hanno calpestato la dignità umana (meno spesso di quanto affermino certe accuse, ma non è questo che qui conta), lo hanno fatto trasgredendo l'insegnamento cristiano.

Che cosa ha invece prodotto l'ateismo, la cancellazione della religione? Per esempio i totalitarismi, che volevano cancellare Dio dalla storia, e che, con le loro ideologie laiciste ed antiteiste, hanno realizzato le più grandi e mostruose carneficine. Hitchens dice inoltre che, nei monoteismi, da un lato il credente si sente indegno, e si prostra davanti ad «un monarca irritabile»; dall'altro «la religione insegna agli individui ad essere estremamente egocentrici e presuntuosi. Li assicura che Dio si prende cura di loro singolarmente e che l'universo è stato creato con essi specificamente in mente». Anche qui limitiamoci al cristianesimo. Intanto il Dio cristiano non è un monarca irritabile, bensì un Dio che è amore. Se poi egocentrico vuol dire che il cristianesimo porta il singolo a pensare solo a se stesso, Hitchens ha ancora torto, perché il precetto cristiano dell'amore del prossimo è l'opposto dell'egoismo. Se egocentrico vuol dire che il cristiano ritiene che Dio si prenda cura solo di lui e non dei non cristiani, Hitchens si sbaglia di nuovo, perché per il cristianesimo ogni singolo uomo è dotato di una dignità inviolabile e Dio si prende cura di ogni persona, persino dei malvagi. Secondo il cristianesimo ogni uomo, Hitchens compreso, è stato coronato di gloria e di onore rispetto al resto del cosmo (salmo 8), ed è oggetto di un amore tale che Cristo ha sparso per lui il suo sangue sulla croce.

Il mondo capovolto degli ateologi

Editoriale di Giorgio De Simone. Avvenire 16. 06. 07

Chi si voglia prendere la briga di andare su Internet per saperne un po' di più di Christopher Hitchens, autore di "Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa" (Einaudi), troverà una serie di informazioni che può anche ritenere, come ha fatto l'altro giorno sul "Corriere della Sera" Pierluigi Battista, di nessuna importanza visto che non vi ha fatto cenno, ma che servono a meglio inquadrare, come ci dicevano i professori a scuola, la figura dell'autore. Riportano, queste informazioni, alcuni verdetti emanati da Hitchens con tutto l'ardore di chi li pretende inappellabili.

Di Madre Teresa di Calcutta, per esempio, riferì a suo tempo come di «un'opportunista che si lasciò costruire addosso l'immagine di santa già da viva» e che, «per le sue anacronistiche posizioni in materia di contraccezione, divorzio, aborto ha costituito la più grande minaccia per la pace del mondo». Di Giovanni Paolo II diede la definizione di «querulo zitello… arrivato troppo tardi e rimasto troppo a lungo». E di se stesso il saggista inglese disse: «Il mio consumo giornaliero di alcol sarebbe stato sufficiente per stordire un mulo di stazza media». Un uomo, come si vede, attirato dagli eccessi. E tuttavia di questo suo libro ci viene detto che non è uno dei soliti esercizi di "ateologia", ma che, «singolarmente intelligente» e «ferocemente sarcastico», ha il grande merito di non sbilanciarsi a danno del cristianesimo perché contro, anche, le "nefandezze dell'islamismo". Sicché «appare ancor più persuasivo e sconvolgente l'assunto che ne regge l'argomentazione polemica: le religioni sono (tutte: dall'ebraismo al cristianesimo, dall'islamismo all'induismo…) menzogne, menzogne che hanno fatto e continuano a fare molto male al mondo e alle singole persone». Così Battista.

E noi che siamo singole persone, noi frequentatori di Paolo e di Agostino, di Francesco e di don Bosco, di Tommaso e Giovanni XXIII, ci sentiamo subito in mezzo ai nostri Grandi e Grandissimi diventati bugiardi e formidabili imbroglioni. Vittime tutti noi, in quanto cristiani, di un gigantesco, bimillenario inganno. Fermo restando che quella che perseguita e uccide nel nome di Dio non si chiama più religione così come non si chiama più madre ma assassina la donna che uccide il proprio figlio. Per quanto poi riguarda la Storia e le sue barbarie, ciò che hanno fatto nel secolo scorso Hitler e Stalin, Mao e Pol Pot niente ha da spartire con dei credi religiosi, ma tutto con la negazione e l'occultamento di Dio. Tutto con il rinnegamento della religione, ovvero dell'uomo. Fare come se Dio non ci fosse, professare l'ateismo, insegnarlo, convertirvi popoli interi, questo hanno fatto le grandi ideologie del XX secolo. E questo perseguono ancora oggi, nel XXI, gli illuministi alla Hitchens nemici di Dio, devoti della loro atea ragione.

DI LUIGI DELL’AGLIO

L’ universo si espande, ma non a caso. Se crescesse un po’ più rapidamente o un po’ più lentamente, la vita non esisterebbe affatto. Energia oscura: per capire questo mistero dell’universo bisogna ricorrere a una cifra illeggibile, pari a 10 seguito da 120 zeri.

Bene, sarebbe bastata la mancanza di uno solo di questi zeri per mandare a monte il programma della vita nell’universo.

John D. Barrow, 55 anni, uno dei più grandi matematici e cosmologi viventi, torna con nuove ragioni a sostenere che l’universo è stato fatto per la vita e per il genere umano, come affermava anche nel libro che gli ha dato fama: The Anthropic Cosmological Principle, del 1986.

Docente all’Università di Cambridge, insignito del premio Templeton 2006 («per aver contribuito al progresso della conoscenza in materia di scienza e religione») e del Queen’s Anniversary Prize, Barrow parlerà a Spoletoscienza sabato, presentando il suo ultimo libro, Cosmic Imagery.

Quanto manca perché la ricerca astrofisica possa risalire all’attimo del Big Bang, la grande esplosione che ha dato origine all’Universo?

«Siamo in grado di produrre una ben dimostrata ricostruzione storica dell’universo giovane, tornando indietro fino a un secondo dopo la sua tumultuosa nascita. In quel momento, la materia è un po’ più densa dell’acqua. Poi, entro i primi tre minuti, l’universo si comporta come un grande reattore nucleare che produce deuterio, elio e litio. Subito dopo si espande. E oggi le osservazioni astronomiche confermano il modello Big Bang, accettato da quasi tutti i cosmologi. Non c’è accordo, invece, sulla complicata sequenza di eventi che dal Big Bang porta alla formazione di galassie, stelle e pianeti».

Quand’è che l’Universo comincia a creare le condizioni favorevoli alla vita?

«Per poter disporre dei 'mattoni' necessari, occorrono elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio che compaiono nei primi minuti dal Big Bang. Gli elementi interessanti dal punto di vista biochimico, come il carbonio, sono prodotti dall’idrogeno e dall’elio nelle fornaci nucleari delle stelle.

Quando le stelle muoiono, questi elementi si disperdono nello spazio e trovano la loro via nei pianeti e negli esseri viventi. Il processo dell’alchimia nucleare è lungo e lento. Ha bisogno di miliardi di anni. Perciò, per creare le condizioni favorevoli alla vita, l’universo deve essere grande, vecchio, buio e freddo».

Deve allontanarsi dall’immenso calore dell’universo giovane. E diventare grande. Ma perché anche buio?

«Man mano che ci si allontana dal Big Bang, l’energia cosmica ha una densità troppo bassa perché l’universo sia luminoso di notte. Più in generale, la stessa densità media dell’universo è veramente bassa: stelle e galassie sono separate da crescenti distanze astronomiche.

Gli avamposti si allontanano. La vastità e la dispersione che regnano nell’universo avevano indotto non pochi filosofi a negare il carattere teleologico, cioè finalistico, del cosmo. Ma le apparenze ingannano. La scoperta dell’espansione dell’Universo (prevista dalla teoria generale della relatività, di Albert Einstein) ha mostrato la sottigliezza e la complessità della moderna cosmologia».

Perché l’Universo continua a espandersi?

«Ecco un mistero. L’universo segue una 'rotta', diciamo così, ed è altamente improbabile che sia stata segnata dal caso. È uno spartiacque molto preciso: se l’Universo si espandesse troppo velocemente, non riuscirebbe ad aggregare materiale nelle galassie e nelle stelle (e non si formerebbero i mattoni della vita); se si espandesse troppo lentamente, collasserebbe in un processo di crescente contrazione e non durerebbe quei miliardi di anni necessari perché si formino le stelle. È fantastico che l’Universo abbia mantenuto questa rotta per quattordici miliardi di anni».

In quali direzioni punta oggi la ricerca cosmologica?

«Scopriamo sempre nuove cose sulla 'corsa' dell’universo. Ma c’è un altro enigma, molto stringente, da spiegare. Come rilevano i più avanzati telescopi, pochi miliardi di anni fa l’espansione sembra aver subito un’accelerazione che è tuttora in atto. È come se il moto inflazionario dell’universo sia ripreso da capo. La spinta verrebbe dall’energia oscura che rappresenta circa il 70% di tutta l’energia cosmica. Secondo tutti i calcoli eseguiti, per poterne valutare l’importanza occorre considerare un numero spropositato: dieci seguito da centoventi zeri. Se questa cifra avesse perduto un solo zero, addio galassie, stelle e forme di vita (compresa la nostra)».

 

LA CONVERSIONE ECOLOGICA,

per non dimenticare Alexander Langer

 

Forse, negli anni ’90, lo conosceva solo chi seguiva più attentamente le vicende della politica e dell’ambientalismo italiani. L’anno che si chiude è quello del decennale della sua morte, avvenuta nell’estate del 1995, e forse oggi non sono più in molti a ricordarsi di lui. Eppure di buoni motivi per cui sarebbe bene che non si perdesse la memoria di Alexander Langer e, soprattutto, del suo messaggio e del suo pensiero, ve ne sono molti: contenuti in libri e pubblicazioni a proposito dei quali il sito internet www.alexanderlanger.org  è ricco di indicazioni ed estratti.

Rimandando al sito citato (ed al sintetico box in coda) per più ampie informazioni su Alexander Langer, ci piace qui ricordarlo diffondendone un testo del 1990, "Caro San Cristoforo", pubblicato in

Caro San Cristoforo, non so se tu ti ricorderai di me come io di te. Ero un ragazzo che ti vedeva

Tu eri uno che sentiva dentro di sé tanta forza e tanta voglia di fare, che dopo aver militato - rispettato ed onorato per la tua forza e per il successo delle tue armi - sotto le insegne dei più illustri ed importanti signori del tuo tempo, ti sentivi sprecato. Avevi deciso di voler servire solo un padrone che davvero valesse la pena seguire, una Grande Causa che davvero valesse più delle altre. Forse eri stanco di falsa gloria, e ne desideravi di quella vera. Non ricordo più come ti venne suggerito di stabilirti alla riva di un pericoloso fiume per traghettare - grazie alla tua forza fisica eccezionale - i viandanti che da soli non ce la facessero, né come tu abbia accettato un così umile servizio che non doveva apparire proprio quella "Grande Causa" della quale - capivo - eri assetato. Ma so bene che era in quella tua funzione, vissuta con modestia, che ti capitò di essere richiesto di un servizio a prima vista assai "al di sotto" delle tue forze: prendere sulle spalle un bambino per portarlo dall’altra parte, un compito per il quale non occorreva certo essere un gigante come te ed avere quelle gambone muscolose con cui ti hanno dipinto. Solo dopo aver iniziato la traversata ti accorgesti che avevi accettato il compito più gravoso della tua vita, e che dovevi mettercela tutta, con un estremo sforzo, per riuscire ad arrivare di là. Dopo di che comprendesti con chi avevi avuto a che fare, ed avevi trovato il Signore che valeva la pena servire, tanto che ti rimase per sempre quel nome.

Perché mi rivolgo a te, alle soglie dell’anno 2000? Perché penso che oggi in molti siamo in una situazione simile alla tua, e che la traversata che ci sta davanti richieda forze impari, non diversamente da come a te doveva sembrare il tuo compito in quella notte, tanto da dubitare di farcela. E che la tua avventura possa essere una parabola di quella che sta dinnanzi a noi. Ormai pare che tutte le grandi cause riconosciute come tali, molte delle quali senz’altro importanti ed illustri, siano state servite, anche con dedizione, ed abbiano abbondantemente deluso. Quanti abbagli, quanti inganni ed auto-inganni, quanti fallimenti, quante conseguenze non volute (e non più reversibili) di scelte ed invenzioni ritenute generose e provvide. I veleni della chimica, gettati sulla terra e nelle acque per "migliorare" la natura, ormai ci tornano indietro: i depositi finali sono i nostri corpi. Ogni bene ed ogni attività è trasformata in merce, ed ha dunque un suo prezzo: si può comperare, vendere, affittare. Persino il sangue (dei vivi), gli organi (dei morti e dei vivi), e l’utero (per una gravidanza in "leasing").

Tutto è diventato fattibile: dal viaggio interplanetario alla perfezione omicida di Auschwitz, dalla neve artificiale alla costruzione e manipolazione arbitraria di vita in laboratorio. Il motto dei moderni giochi olimpici è diventato legge suprema ed universale di una civiltà in espansione illimitata: "citius, altius, fortius", più veloci, più alti, più forti si deve produrre, consumare, spostarsi, istruirsi... competere, insomma. La corsa al "più" trionfa senza pudore, il modello della gara è diventato la matrice riconosciuta ed enfatizzata di uno stile di vita che sembra irreversibile ed incontenibile. Superare i limiti, allargare i confini, spingere in avanti la crescita ha caratterizzato in misura massiccia il tempo del progresso dominato da una legge dell’utilità definita "economia" e da una legge della scienza definita "tecnologia" - poco importa che tante volte di necro-economia e di necro-tecnologia si sia trattato. Cosa resterebbe da fare ad un tuo emulo oggi, caro San Cristoforo? Quale è la Grande Causa per la quale impegnare oggi le migliori forze, anche a costo di perdere gloria e prestigio agli occhi della gente e di acquattarsi in una capanna alla riva di un fiume? Qual è il fiume difficile da attraversare, quale sarà il bambino apparentemente leggero, ma in realtà pesante e decisivo da traghettare? Il cuore della traversata che ci sta davanti è probabilmente il passaggio da una civiltà del "di più" ad una del "può bastare" o del "forse è già troppo".

Dopo secoli di progresso, in cui l’andare avanti e la crescita erano la quintessenza stessa del senso della storia e delle speranze terrene, può sembrare effettivamente impari pensare di "regredire", cioè di invertire o almeno fermare la corsa del "citius, altius, fortius". La quale è diventata autodistruttiva, come ormai molti intuiscono e devono ammettere (e sono lì a documentarlo l’effetto-serra, l’inquinamento, la deforestazione, l’invasione di composti chimici non piú domabili... ed un ulteriore lunghissimo elenco di ferite della biosfera e dell’umanità). Bisogna dunque riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (i ritmi di crescita e di sfruttamento), abbassare (i tassi di inquinamento, di produzione, di consumo), attenuare (la nostra pressione verso la biosfera, ogni forma di violenza). Un vero "regresso", rispetto al "più veloce, più alto, più forte". Difficile da accettare, difficile da fare, difficile persino a dirsi. Tant’è che si continuano a recitare formule che tentano una contorta quadratura del cerchio parlando di "sviluppo sostenibile" o di "crescita qualitativa, ma non quantitativa", salvo poi rifugiarsi nella vaghezza quando si tratta di attraversare in concreto il fiume dell’inversione di tendenza. Ed invece sarà proprio quello ciò che ci è richiesto, sia per ragioni di salute del pianeta, sia per ragioni di giustizia: non possiamo moltiplicare per 5-6 miliardi l’impatto ambientale medio dell’uomo bianco ed industrializzato, se non vogliamo il collasso della biosfera, ma non possiamo neanche pensare che 1/5 dell’umanità possa continuare a vivere a spese degli altri 4/5, oltre che della natura e dei posteri.

La traversata da una civiltà impegnata nella gara per superare i limiti ad una civiltà dell’autolimitazione, della frugalità sembra tanto semplice quanto immane. Basti pensare all’estrema fatica con cui il fumatore o il tossicomane o l’alcoolista incallito affrontano la fuoriuscita dalla loro dipendenza, pur se magari teoricamente persuasi dei rischi che corrono se continuano sulla loro strada e forse già colpiti da seri avvertimenti (infarti, crisi…) sull’insostenibilità della loro condizione. Il medico che tenta di convincerli invocando o fomentando in loro la paura della morte o dell’autodistruzione, di solito non riesce a motivarli a cambiare strada, piuttosto convivono con la mutilazione e cercano rimedi per spostare un po’ più in là la resa dei conti. Ecco perché mi sei venuto in mente tu, San Cristoforo: sei uno che ha saputo rinunciare all’esercizio della sua forza fisica e che ha accettato un servizio di poca gloria. Hai messo il tuo enorme patrimonio di convinzione, di forza e di auto-disciplina a servizio di una Grande Causa apparentemente assai umile e modesta. Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini): oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!

Ed il fiume da attraversare è quello che separa la sponda della perfezione tecnica sempre più sofisticata da quella dell’autonomia dalle protesi tecnologiche: dovremo imparare a traghettare dalle tante alle poche kilowattore, da una super-alimentazione artificiale ad una nutrizione più equa e più compatibile con l’equilibrio ecologico e sociale, dalla velocità supersonica a tempi e ritmi più umani e meno energivori, dalla produzione di troppo calore e troppe scorie inquinanti ad un ciclo più armonioso con la natura. Passare, insomma, dalla ricerca del superamento dei limiti ad un nuovo rispetto di essi e da una civiltà dell’artificializzazione sempre più spinta ad una riscoperta di semplicità e di frugalità. Non basteranno la paura della catastrofe ecologica o i primi infarti e collassi della nostra civiltà (da Cernobyl alle alghe dell’Adriatico, dal clima impazzito agli spandimenti di petrolio sui mari) a convincerci a cambiare strade. Ci vorrà una spinta positiva, più simile a quella che ti fece cercare una vita ed un senso diverso e più alto da quello della tua precedente esistenza di forza e di gloria. La tua rinuncia alla forza e la decisione di metterti al servizio del bambino ci offre una bella parabola della "conversione ecologica" oggi necessaria."

Lettera 2000 ed. Eulema, dal quale emergono con evidenza la sua umanità e la sua sensibilità per la tutela dell’ambiente come necessità perché il genere umano possa sopravvivere sulla Terra.dipinto all’esterno di tante piccole chiesette di montagna. Affreschi spesso sbiaditi, ma ben riconoscibili. Tu - omone grande e grosso, robusto, barbuto e vecchio - trasportavi il bambino sulle tue spalle da una parte all’altra del fiume, e si capiva che quella era per te suprema fatica e suprema gioia. Mi feci raccontare tante volte la storia da mia madre, che non era poi chissà quale esperta di santi, né devota, ma sapeva affascinarci con i suoi racconti. Così non ho mai saputo il tuo vero nome, né la tua collocazione ufficiale tra i santi della chiesa (temo che tu sia stato vittima di una recente epurazione che ti ha degradato a santo minore o di dubbia esistenza). Ma la tua storia me la ricordo bene, almeno nel nocciolo.

Alexander Langer

Chi era Alexander Langer?

Nato in Alto Adige nell’immediato dopoguerra, fin da giovanissimo collabora con riviste, associazioni ed iniziative civiche per la convivenza e l’autonomismo democratico in Alto Adige. Alla fine degli anni ‘70 entra in politica cominciando con l’elezione nei Consigli Provinciale e Regionale della sua terra, proseguendo con la promozione del movimento politico dei Verdi in Italia ed Europa fino ad arrivare all’elezione al Parlamento Europeo nella metà degli anni ‘90. Nella sua azione politica si dimostra sempre teso ad un intenso dialogo di ricerca con tutte le culture, laiche e religiose, di destra e sinistra o di movimenti non compresi nei classici schematismi partitici. Si impegna soprattutto nella politica estera e di pace, per relazioni più giuste Nord-Sud ed Est-Ovest; in particolare, nell’ultimo periodo della sua vita, si impegna sempre con maggior coinvolgimento nel conflitto allora in corso nella ex-Jugoslavia, sostenendovi le forze di conciliazione interetnica.

Pace a Gerusalemme

del card. CARLO MARIA MARTINI

‘Cammino ecumenico di pace a Gerusalemme’, tema ardito e arduo. Come è ardito e arduo il tema che mi avete proposto per questa conversazione: "Incontrare Israele oggi" Questo tema mi intimorisce e mi suscita un senso di inadeguatezza.

Israele oggi è una significativa entità politica, militare, economica, culturale, sociale, religiosa, etnica... con problemi comuni a tutte le nazioni moderne, ma anche con delicati e dolenti problemi propri, che voi ben conoscete, ma di cui non sono competente, né per quanto riguarda i problemi generali né per quanto riguarda quelli particolari.

Io non posso parlare se non a partire dalla mia modesta esperienza che è quella di un cristiano che si sforza di vivere in Israele e nella Terra Santa leggendo e studiando la Bibbia in spirito di fede e di speranza e con un compito di intercessione e preghiera.

Richiamerò dunque i punti seguenti: incontrare Israele mediante la Scrittura, i luoghi biblici e la letteratura post biblica; incontro nella fede e nella preghiera; con la cura di non giudicare; lanciando in continuità verso Dio ancore di speranza (cfr Ebr 6, 19) e con un amore concreto verso tutti quelli che abitano questa terra.

1

Il primo mezzo di incontro é dato anzitutto dalla Bibbia letta qui nella terra di Israele. Ci si potrebbe domandare che diversità c'è tra leggere la Scrittura in Israele e leggerla per esempio nel Duomo di Milano o al Pontificio Istituto Biblico di Roma.

La risposta non è facile, anche perché é più legata al vissuto emozionale che a comprensioni teoriche particolari. Sta il fatto che la Bibbia letta a Gerusalemme ha un fascino, una concretezza. un'attrazione tutta speciale che farei fatica qui a esprimere compiutamente. Ciascuno deve farne l'esperienza per se stesso. Vorrei solo far notare che la frequentissima menzione di Gerusalemme nella Bibbia pone a chi legge e prega qui con questo libro in mano un problema lacerante nella tensione tra la Gerusalemme che è il popolo del salvati e la Gerusalemme storica con le sue sofferenze e le sue disperazioni.

Ma poi ci sono tutti i richiami visibili e tangibili del paesaggio, delle rovine e delle memorie. C’è quella indicibile emozione che si esprime con le semplici parole: Gesù è passato di qua. Gesù ha contemplato questo panorama, questo cielo, quello stesso che avevano contemplato Abramo, Davide e Isaia.

Naturalmente la lettura della Bibbia a Gerusalemme dovrebbe poter essere accompagnata da una certa familiarità con la letteratura post biblica, in particolare rabbinica. Sono scritti di grande importanza per la storia e la mentalità di Israele. Un documento recente della Pontificia Commissione Biblica (‘Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana’ 2001) si pone la domanda se tali tradizioni post bibliche siano utili per la comprensione cristiana della Bibbia. Tenendo presente che non è possibile accettare quanto negli scritti e nelle tradizioni rabbiniche escluda la fede in Gesù come Messia e Figlio di Dio, il documento è del parere che sul plano concreto dell'esegesi, i cristiani possono, nondimeno, apprendere molto dall'esegesi ebraica praticata da più di duemila anni (ivi, n. 22).

2

Ma l'Incontro con Israele avviene anzitutto per me nel quadro della fede, nel ricordo dell'amore straordinario testimoniato da Dio per il suo popolo. Dunque per me incontrare Israele significa anzitutto sintonizzarsi con questa Passione amorosa e gelosa di Dio per il popolo da lui eletto. Occorre entrare nei sentimenti con i quali Gesù percorreva queste strade predicando ai suoi. Questi sentimenti non sono cambiati. Dio ama tuttora il suo popolo e continuamente lo chiama e vuole incontrarlo. Per questo la premessa per ogni rapporto con Israele è un amore sincero, un rispetto delicato, che esige un'attenzione costante. Questo affetto diviene partecipazione alle sue sofferenze, alle sue angosce, ai suoi dolori indicibili del passato remoto e prossimo e anche del presente (Shoah, "l'insegnamento del disprezzo", i mea culpa' di papa Giovanni Paolo II e le sue richieste di perdono).

Bisogna dunque partire anzitutto dal desiderio di amare Israele e soffrire con Israele, e perciò conoscerlo nella sua storia, nella sua letteratura, nella sua arte, nella sua musica, nelle sue espressioni culturali e sociali, nel suoi problemi e nelle sue dolorosissime vicende storiche. E questo non per un motivo di semplice simpatia umana ma per corrispondere all'amore con cui Dio da sempre ha circondato il suo popolo.

Questo amore non significa distanza da altri popoli, in particolare quello a cui appartengo per nascita e quello in mezzo a cui pure vivo e di cui le sofferenze mi entrano nella carne, cioè il popolo palestinese.

3

Una terza caratteristica del mio incontro con Israele é l'assenza di giudizio e il primato dell'intercessione. Ritengo importante per me vivere alla lettera la parola evangelica: non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati (cfr Mt 7,1; Lc 6,37). In particolare in questi ultimi decenni la situazione di Israele nel quadro del paesi arabi e soprattutto in relazione al Palestinesi si è fatta così complessa, dolorosa e intricata, che anche per un competente sarebbe quasi impossibile dare giudizi spassionati e oggettivi. Io vi rinuncio per principio, perché voglio vivere la mia presenza in Israele soprattutto come intercessione, nel senso etimologico della parola, che ho già avuto modo di spiegare più volte. Intercedere, cioè camminare in mezzo, non inclinando né da una parte né da un'altra, pregando ugualmente per tutti, per ottenere grazie di pace e di riconciliazione.

Si potrebbe pensare che questa preghiera di intercessione non riceva risposta. Infatti non vediamo attorno a noi attualmente vie di uscita politiche convincenti dalla dolorosa situazione presente. Eppure chi abita in questi luoghi sa che vi sono, a livello di piccole realizzazioni, tanti sforzi e tentativi di dialogo, di incontro, di comprensione mutua, di riconciliazione, di dono autentico di sé, di perdono. Sono tentativi e sforzi che non fanno notizia e per lo più non giungono al livello politico o dei mass media. Ma sono reali: sono una piccola risposta che il Signore elargisce fin da ora alla nostra preghiera di intercessione.

4

Incontrare Israele per me dunque vuoi dire incontrarlo nella fede, nella preghiera, nel non giudizio, ma nella speranza. Vuole anche dire cercare di incontrarlo nella sua lingua e nelle sue espressioni culturali. Per questo mi sforzo di passare dalla conoscenza dell'ebraico biblico a quella dell'ebraico moderno, anche se propter ingravescentem aetatem sento che il cammino é un po' lungo e faticoso. Ma lo debbo compiere per fedeltà a questa terra e a questo popolo. Dedico poi buona parte del mio tempo allo studio dei manoscritti biblici antichi, con la convinzione che la Chiesa viene servita, si, nei compiti pastorali, ma ha bisogno anche della dedicazione scientifica, in particolare alle sue fonti storiche e documentarie.

5

L'amore per Israele così vissuto apre gli occhi anche all'amore per tutte le situazioni presenti qui a Gerusalemme e in questa terra. Anzitutto per le situazioni del popolo palestinese, che soffre molto a causa dell'occupazione dei Territori e nella sua legittima aspirazione alla libertà e indipendenza. È importante pregare perché ottenga tutto ciò senza violenza alcuna. Non possiamo approvare nessuna violenza, di nessuna matrice e di nessun tipo. Ma dobbiamo auspicare e sperare perché siano rimosse le cause della violenza.

Preghiamo inoltre per le situazioni dei cristiani e delle Chiese qui a Gerusalemme. Non sono certamente situazioni facili. Anche a questo riguardo bisogna guardarsi dal giudizio troppo rapido e superficiale e dal pettegolezzo. Vi sono ovviamente delle dialettiche e delle tensioni, ma noi dobbiamo pregare anzitutto perché prevalga ciò che unisce e siano superati i motivi di contrasto. In ogni caso non tocca a me sottolinearli né esasperarli.

Ecco gli atteggiamenti con i quali mi pare importante, almeno per me, incontrare Israele. Auguro che voi possiate viverli anche in questi giorni e così contribuire, pur se con un contributo semplice e umile, a quell'opera di pacificazione che corrisponde al desiderio di Gesù per tutti questi popoli e per l’umanità intera.

 

Perché esiste l'universo? Bibbia e scienza a confronto

Di Luigi dell’Aglio. Avvenire marzo 2007

La ragione è la stella polare per navigare fuori dalla palude «fideistica del nichilismo imperante». Anzi, la ragione è molto di più, per il «credente post-moderno»: proprio la fede lo persuade che la ragione è «l'impronta più alta che la divinità ha posto in lui». Questo concetto, che Gianfranco Basti, professore di Filosofia della natura e della scienza alla Pontificia Università Lateranense, illustrerà al convegno "Bibbia e Scienza", in calendario a marzo al Teatro della Rosa di Pontremoli, può rappresentare una base di consenso tra scienziati e teologi.

Amos Luzzatto, già presidente dell'Unione Comunità Ebraiche. Italiane, il quale parlerà di "Portata e limiti del linguaggio biblico", renderà dal canto suo un altro omaggio alla ragione, sostenendo che la Scrittura è un testo «che deve» (non «che può») essere indagato, per poter essere capito. Allora il biblista è come un ricercatore, e l’oggetto della ricerca è la Scrittura. Ma anche se l'oggetto dell'indagine, la Bibbia, non è scientifico, nel senso che non consiste nella natura e nelle sue leggi, il metodo della ricerca può esserlo.

Ragione e linguaggio, ecco le due chiavi del convegno. Il linguaggio della Bibbia, in particolare i primi due capitoli della Genesi, in cui si parla della creazione, hanno subito due opposti destini, nota Paolo De Benedetti, docente di Giudaismo alla Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale: vengono presi alla lettera, cioè «letti come ‘storia vera’ dai fondamentalisti, e trattati come semplice ‘mito’ da una fascia del mondo laico». De Benedetti pensa perciò che si debba mettere in luce «ciò che di Dio, del mondo e dell'uomo (s'intende: "il Dio di oggi, il mondo di oggi, l'uomo di oggi"), Genesi 1 e 2 ancora ci dicono».

Quanto al modo corretto di leggere le Scritture, Piero Stefani, biblista a Ferrara, osserva che Galileo Galilei l'aveva già intuito, quando affermava che la Bibbia si preoccupa di indicare non già come va il cielo, bensì come si vada in cielo. Se tra scienza e fede è in atto un contrasto, si aprono tre alternative, osserva Piero Stefani. Prevale la nostalgia per la sintesi medievale (scienza e metafisica in simbiosi) e la conseguente condanna del moderno; si rifonda l'unione scienza - creazionismo; si distinguono piani diversi: la scienza si occupa dei fenomeni, mentre su un altro livello si pongono i valori etici e su un altro ancora le ragioni ultime dell' essere.

Una novità è che le scienze fisiche sono ora meno sicure dell' oggettività dei caratteri con cui è scritto il ‘libro della natura’. E se le scienze linguistiche sono penetrate anche nel mondo delle Scritture, aggiunge Stefani, la scienza nel suo complesso ha assorbito «gli influssi di antiche matrici bibliche».

Ma la frattura (che si cerca di colmare) fra scienza e fede non nasce con Galileo, quanto con l'illuminismo. Galileo (e, come lui, Copernico e Newton) - rileva Pietro Redondi, ordinario di Storia della scienza alla Bicocca - pensa che il Libro della Natura e il Libro della Scrittura, anche se scritti in linguaggi diversi, conducano alla conoscenza di Dio, che è l'autore di entrambi. Anzi Galileo dice che la scienza può aiutare a interpretare la Scrittura quando questa si occupa di fenomeni naturali.

Ma anche il linguaggio della scienza ha la sua portata e i suoi limiti. Giulio Giorello, che insegna Filosofia della Scienza alla Statale dì Milano, premette che i modelli scientifici non possono «pretendere di dire la verità dell' essere o di esaurire il reale», possono risultare falsi e venire abbandonati. E non è tutto. La modellizzazione scientifica nasce anche dal mythos arcaico. Per i fondamentalisti e i fanatici, inoltre, il modello, sia esso scientifico, filosofico o religioso, finisce per sostituirsi alla realtà.

Il dissenso tra scienza e fede è oggi un fossato variabile. Dipende da vari fattori, dall'acuirsi dei dibattiti, dallo scontro ideologico, da mode, da ripensamenti, da equivoci. Ancora Gianfranco Basti cita il caso del fisico e matematico Stephen Hawking. Nel suo best seller Dal Big Bang ai buchi neri sembrava negare perentoriamente l'esistenza di Dio, poi quando un giornalista di recente gli ha chiesto se volesse «mettere Dio fuori dalla fisica», lui ha fatto il seguente ragionamento: «Resta aperto il problema: perché l'universo, così come è fatto, si sia dato la pena di esistere». Aggiungendo subito: «Se lei crede, può dire che Dio sia la risposta a questa domanda».

 

Maurizio BLONDET

Primi cristiani, non talebani

tratto da Avvenire, 3 novembre 2001.

La Chiesa non ha ucciso la cultura antica: un pamphlet dello storico Jean Dumont (La Chiesa ha ucciso l'Impero romano e la cultura antica?) smonta i pregiudizi. Non furono sovversivi e nemmeno fondamentalisti. Una dura polemica con la Nuova destra francese

Si facevano crescere le barbe. Odiavano le istituzioni. Distruggevano le splendide statue pagane. Bruciavano i libri degli antichi poeti. I primi cristiani furono i talebani della classicità? «Incompatibili con la civiltà», li ha definiti Louis Pauwels, il celebre redattore culturale del Figaro: una massa sottoproletaria e ignorante che finì per distruggere l'Impero Romano. E' una polemica che conduce in Francia il "Grece", il gruppo culturale di destra, neopagano, guidato da Alain de Benoist (un nouveau philosophe "nero").

E' questa la «leggenda nera» originaria contro il cristianesimo: i primi cristiani sarebbero stati dei sottoproletari sovversivi, che fecero tabula rasa della splendida cultura classica, e precipitarono il mondo nella barbarie oscurantista del Medio Evo. Jean Dumont, storico francese noto per avere smentito con gli argomenti la più famosa leggenda nera, quella secondo cui la Spagna cattolica avrebbe sterminato gli indios d'America (vedasi il suo «Il Vangelo delle Americhe», pubblicato dalla Effedieffe nel 1992), smentisce anche questa. Con dati di fatto sorprendenti.

Nei primi due secoli (la nuova fede era ancora clandestina e perseguitata) si fecero cristiani membri del più nobile patriziato di Roma. Come Acilio Glabrione, console nel 91 d.C. e martire sotto Domiziano (sotto la sua villa furono scavate le catacombe clandestine di Priscilla). La celebre martire Domitilla era figlia di Flavio Clemente, della famiglia dei Flavii che aveva dato a Roma tre imperatori, Vespasiano, Tito e Domiziano. Di più. Gli scavi nella necropoli sotto l'attuale basilica di San Pietro hanno scoperto numerose tombe di grandi famiglie della politica imperiale, le cui successive inumazioni testimoniano il passaggio dei loro membri al cristianesimo. Persino i Giulii, cioè i discendenti di Cesare (e di Augusto) erano diventati cristiani attorno al 200 dopo Cristo. E i Valerii, gens patrizia che aveva tra i suoi antenati Valerio Messala Corvino, amico di Ovidio e tra i vincitori di Azio nel 31 a.C.

Cristiani così, di famiglie che dell'Impero incarnavano il potere, e la cultura e la ricchezza, non potevano essere sovversivi. I primi cristiani si arruolavano in massa nelle legioni, in tempi in cui chi poteva scansava il servizio militare (nell'esercito il culto di Cristo rivaleggiava col culto di Mitra, militare per eccellenza); anche i pagani ostili riconoscevano la lealtà patriottica dei cristiani. Nel secondo secolo in ogni chiesa si pregava, attesta Tertulliano, perché l'imperatore avesse «lunga vita, regno tranquillo, truppe valorose, un Senato fedele, un popolo leale». San Gerolamo s'era fatto eremita nel deserto, apparentemente rifiutando i beni e i comodi della civiltà. Ma quando Roma fu devastata dai Visigoti di Alarico nel 410, scrisse disperato: «La gloriosa luce del mondo si è spenta, quando la capitale del nostro impero fu presa. L'intero universo e la civiltà sono periti».

Tanto meno i cristiani furono «fondamentalisti» nel senso in cui i talebani (e l'islam in generale) distruggono ogni memoria delle civiltà precedenti, in quanto tenebra demoniaca. Per Giustino, padre della Chiesa che scrive verso il 150, «il Verbo ha fatto intendere la verità tra i greci e per bocca di Socrate». Clemente d'Alessandria sostiene: «La filosofia è il Testamento che Dio ha dato ai greci». La Chiesa non pretese di cacciare nell'oblio il grande passato classico. Al contrario. Innestò il ramoscello di Cristo sull'antica quercia di Platone e Aristotele, di cui si riconobbe tributaria. Fu un superbo sforzo culturale, iniziato da Paolo fariseo e civis romanus, e concluso mille anni dopo da Tommaso d'Aquino.

E' utile ricordare queste cose. Perché se Dumont polemizza con la "Nouvelle droite" francese, il fondo della sua polemica è diretto anche verso una tendenza presente nel cristianesimo di oggi che vorrebbe "purificare" il messaggio cristiano "originale" (con una profonda matrice giudaica) da tutti gli apporti greci e romani, ossia della filosofia e del diritto. Che vogliono "Gerusalemme" senza però "Roma". Ma la Chiesa - ci dice Dumont - ha voluto tenere insieme Roma e Gerusalemme: separare l'ebraismo cristiano dalla sua romanità, questo appunto è il "fondamentalismo" che ha sempre voluto e saputo evitare, sapendo che esso porta alla barbarie irrazionalista.

I mercanti e il tempio Dalla Bibbia ai nostri giorni

di Gianfranco Ravasi

« Gesù, entrato nel tempio, si mise a cacciare quelli che vendevano e comperavano nel tempio; rovesciò i tavoli dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe e non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio. Insegnava loro dicendo: Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti?

Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri! Lo udirono i sommi sacerdoti e gli scribi e cercavano il modo di farlo morire». Chi non ricorda questo episodio della vita di Cristo, riferito qui dall’evangelista Marco (11, 15-18) ma offerto da tutti e quattro i vangeli e ripreso in infinite raffigurazioni artistiche e persino cinematografiche?

La sferza di Cristo e dei profeti

Il monumentale tempio di Erode dalla planimetria piuttosto complessa accoglieva, soprattutto in occasione delle grandi solennità ebraiche, una folla variopinta di pellegrini che avevano bisogno di acquistare animali sacrificali, ritualmente attestati come 'puri' dalle commissioni ispettive sacerdotali. Il mercato si svolgeva nel cosiddetto 'atrio dei gentili', cioè in un vasto cortile aperto anche agli stranieri, largo 300 metri e lungo 475. Si contrattavano non solo buoi e pecore per i sacrifici più importanti ma anche colombe e tortore per le offerte dei meno abbienti, come era attestato dalla stessa normativa biblica: «Se uno non ha mezzi per procurarsi una pecora o una capra, offrirà al Signore due tortore o due colombi» ( Levitico 5, 7). Così avevano fatto anche Giuseppe e Maria in occasione del rito di purificazione della puerpera, a quaranta giorni dalla nascita di Gesù ( Luca 2, 22-24).

Non mancava neppure il commercio del vino per i riti di libagione e quello degli incensi e aromi per i cosiddetti 'sacrifici vegetali'. Ogni ebreo, poi, doveva versare la sua decima per il tempio, tassa che anche Gesù aveva pagato, come narra Matteo (17, 24-27). Era, però, necessario ricorrere a una valuta che non recasse l’effigie di qualche sovrano, considerata come segno idolatrico: così, era ammessa solo l’antica monetazione giudaica o la valuta della città fenicia di Tiro, priva di tali immagini. Ecco, allora, la presenza dei cambiavalute, chiamati da Marco in greco kollybistai perché l’imposta ammontava a un kollybos, cioè a mezzo siclo.

Secondo le testimonianze rabbiniche, nel cambio gli operatori trattenevano per sé una commissione che oscillava dal 2,1 al 4,2%.

Attorno al tempio ruotava, dunque, un vero e proprio sistema commerciale sul quale lucrava il sacerdozio gerosolimitano e l’impressione generale era quella che ancor oggi si riproduce nelle adiacenze dei santuari di ogni fede religiosa, con un movimento d’affari consistente, legato anche all’oggettistica e agli ex-voto.

Gesù piomba come scrive Giovanni nel suo racconto parallelo (ma con diversa collocazione cronologica) con «una sferza di cordicelle» e, citando la parola dei profeti di Israele, cerca di riportare il tempio alla sua vera anima di «casa di preghiera», impedendo che si trasformi in una «spelonca di ladri», espressioni mutuate appunto dai testi di due profeti, Isaia (56, 7) e Geremia (7, 11). Con questo gesto di alta carica simbolica egli colpiva interessi consolidati ed è in questa luce che l’evangelista Marco registra la reazione aspra e quasi scomposta dei sommi sacerdoti e degli scribi, cioè dei gestori del culto ufficiale gerosolimitano. Certo è che, già da secoli, su Israele chiara e forte s’era levata la voce dei profeti che, oltre a sostenere come imprescindibile il nesso tra culto e giustizia sociale, aveva denunciato senza esitazione le degenerazioni del mercato che si effettuava anche in sede civile, cioè alle porte della città, l’ambito pubblico per eccellenza.

Basterebbe solo sfogliare il libretto di Amos, un pecoraio e coltivatore di sicomori chiamato a svolgere la missione profetica nella prospera capitale del regno settentrionale di Israele, Samaria, città di vivaci commerci nell’VIII secolo a.C. «Hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali egli grida e bevono il vino confiscato come ammenda nel tempio del loro Dio Violenza e rapina accumulano nei loro palazzi Voi schiacciate lindigente e gli estorcete una parte del grano Voi siete oppressori del giusto e incettatori di ricompense Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne» (2, 6.8; 3, 10; 5, 11-12.24). Un altro profeta dello stesso secolo, Isaia, denunzia invece le speculazioni terriere che conducevano al latifondismo: «Guai a voi che aggiungete casa su casa e unite campo a campo finché non vi sia più spazio e così restate soli ad abitare nel paese» (5, 8). Quasi tutti i profeti, poi, protestavano con severità sulle falsificazioni commerciali, emblematicamente rappresentate dalle bilance truccate. Già la legge biblica ammoniva: «Non avrai nel tuo sacco due pesi diversi, uno grande e uno piccolo. Non avrai in casa due tipi di efa [unità di misura di 45 litri], una grande e una piccola… Chiunque compie tali cose e commette ingiustizia è in abominio al Signore» ( Deuteronomio 25, 13-16).

Il mercante di perle preziose

Tuttavia proprio questa insistenza sulla correttezza commerciale è l’indiretta attestazione di una vivace attività economica che si sviluppava sui vari mercati e attraverso una rete di traffici. È curioso notare che i termini ebraici per designare il mercato sono metonimie: così, ma’arab di per sé indica le merci e gli articoli di scambio e sahar il 'guadagno'. Nella Bibbia si acquistano terreni ma anche derrate alimentari, si trattano incensi e profumi e si lavorano metalli preziosi, si importano materie prime e si mettono sul mercato manufatti e così via. Si esaltano centri commerciali di prim’ordine come le fenicie Tiro e Sidone, si conia un termine tecnico come 'cananeo' che originariamente era un vocabolo etnico per indicare gli indigeni della terra promessa a Israele per definire il mercante e si esalta Salomone per lo straordinario impulso impresso al mercato: «La quantità d’oro che affluiva nelle casse di Salomone ogni anno era di 666 talenti [un talento equivaleva a quasi 35 chili], senza contare quanto ne proveniva dai trafficanti e dai commercianti, da tutti i re dell’Arabia e dai governanti del paese» ( 1 Re 10, 14-15). Nelle liste delle sue importazioni marittime non si esita e segnalare la presenza non solo di «carichi d’oro, d’argento e d’avorio» ma anche quelli «di scimmie e di babbuini» ( 1 Re 10, 22)!

Non mancano scenette di vita mercantile in presa diretta come in questa 'vignetta' del libro dei Proverbi: «Robaccia, robaccia!, dice chi compra. Ma, mentre se ne va dopo l’acquisto, si vanta dell’affare» (20, 14). Anche Cristo non esita a desumere dalla vita commerciale spunti per le sue parabole. Lasciando da parte la celebre parabola dei talenti e gli altri rimandi concreti alla vita economica di allora (si pensi solo alla moneta di Cesare), citiamo questa scheggia narrativa del vangelo di Matteo: «Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra» (13, 45-46). L’Apocalisse in una pagina di grande potenza letteraria (capitoli 18-19) descrive il dramma dei mercati internazionali in seguito al crollo della 'borsa' della Roma imperiale, «Babilonia, possente e immensa città tutta ammantata di bisso, di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle! In un’ora sola è andata dispersa sì grande ricchezza!» (18, 16-17).

Già nell’antichità, infatti, un reticolo di traffici copriva il mondo allora conosciuto: lo sterminato patrimonio di tavolette di terracotta venute alla luce negli scavi archeologici dell’antico Vicino Oriente testimonia questo vigoroso sistema di scambi che si compiva per via marittima, soprattutto con la flotta fenicia (ma non solo), e per via terrestre con le carovane di cavalli, asini e muli e, sul finire del II millennio a.C., coi cammelli, capaci di trasportare fino a 400 chili di materiali percorrendo anche 50 chilometri al giorno e rimanendo fino a 5 giorni senza bere. Siamo, quindi, di fronte a un fenomeno sociale e culturale che non poteva non incrociarsi e, come si è visto, scontrarsi o dialogare con la religione.

L’oscillazione tra due poli

È ciò che raggiunge il suo apice con l’ingresso del cristianesimo nell’Occidente. Al di là delle discussioni ideologiche di questi anni, è indubbio a livello storiografico che il cristianesimo costituisce il fondamento capitale dell’Europa. Certo, ci sono altri ingredienti indiscutibili come il pensiero greco col suo contributo critico, logico ed etico, o come il diritto romano; ma su di essi si esercita una forte elaborazione di impronta cristiana. In un’intervista rilasciata ad Avvenire nel febbraio 2002 il famoso storico francese Jacques Le Goff dichiarava: «L’Europa cominciò ad apparire nel IV sec. con la fusione tra i popoli dell’impero romano e i popoli barbari grazie al cristianesimo. La struttura giuridica si fondò sul diritto romano, sul diritto consuetudinario, ma anche sul diritto canonico, che ha avuto nel Medio Evo un’importanza fondamentale. Il fatto che la Chiesa si sia riservata la giurisdizione su certi settori, come quello del matrimonio, ha rappresentato in un certo periodo un innegabile elemento di progresso. Un esempio: nel 1215 il IV Concilio Lateranense esige che la donna sia consenziente affinché il matrimonio sia valido, un elemento che favorì indubbiamente la dignità femminile e stabilì una quasi parità tra uomo e donna. Anche nel rapporto col danaro l’Europa possiede una sua 'personalità', che le viene proprio dalla Chiesa, la quale si è sempre riservata il diritto di giurisdizione e di giudizio sui trattati commerciali come sui prestiti a interesse. Penso sia questa la ragione per cui ancor oggi in Europa esiste un capitalismo diverso da quello americano, dal momento che tiene conto di preoccupazioni di ordine etico e morale».

Ovviamente non possiamo ora tracciare un ritratto storico di questa complessa vicenda che vide il tempio e il mercato accostarsi con alterne vicende. Era, infatti, facile oscillare tra poli estremi. Da un lato, ad esempio, c’è l’Opus imperfectum in Matthaeum, attribuito falsamente al grande Padre della Chiesa d’Oriente Giovanni Crisostomo (IV secolo), che non esita a bollare la mercatura e l’attività economicofinanziaria in genere come contrastante con la fede cristiana, quasi che il mercante e l’uomo di finanza non potessero mai piacere a Dio. D’altro lato, invece, ecco il trattato De emptionibus et venditionibus del teologo Pietro di Giovanni Olivi che, alla fine del Duecento, rivaluta la figura del mercante, divenendo così «un indagatore della razionalità economica medievale», come dice il titolo di un saggio di Amleto Spicciani dedicato a questo personaggio che seppe riconoscere in sede teorica ed etica una funzione positiva alle professioni economico-finanziarie.

Gli esordi del cristianesimo sembravano, infatti, al riguardo piuttosto reticenti per non dire ostili, sia per alcune spinte di taglio apocalittico, sia per ideali di impronta ascetica, sia per esperienze di forte impatto utopico (la comunione totale dei beni, praticata dalla comunità cristiana delle origini a Gerusalemme, come si evince dagli Atti degli Apostoli 2, 42-48; 4, 32-35; 5, 12-16). Anche il primo monachesimo, che sarà poi capitale nello sviluppo economico-sociale dell’Europa, si presentava come una comunità radicalmente ascetica, egalitaria, 'utopica' e apparentemente 'isolazionista'. Quel testo fondamentale che è la Regola di san Benedetto è, al riguardo, lapidario: «Ogni cosa sia in comune tra tutti, come sta scritto, e nessuno chiami qualcosa come sua proprietà o avanzi diritti su qualcosa… Affinché questo vizio della proprietà venga estirpato con tutta la sua radice, dia l’abate ciò che è necessario: cocolla, tunica, calze, calzature, cintura, coltello, stilo, punta, fazzoletto, tavoletta per scrivere, così che venga a mancare qualsiasi pretesto di bisogno» (cc. 33 e 55).

Tuttavia già san Paolo di fronte agli eccessi 'apocalittici' dei cristiani di Tessalonica non esitava a scrivere: «Sapete come dovete imitarci: poiché noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo giorno e notte per non essere di peso a nessuno di voi… Quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: Chi non vuole lavorare neppure mangi» (2 Tessalonicesi 3, 7-10). Tra l’altro l’aforisma finale formulato da Paolo divenuto popolare nel Medioevo nella versione latina Si quis non vult operari nec manducet è entrato persino nella costituzione dei Soviet voluta da Lenin. Sullo stimolo delle parole dell’Apostolo ma anche per la sua forte capacità di 'incarnazione' nei vari contesti culturali, il cristianesimo seppe coniugare religione ed economia, distacco e possesso, ascesi e sviluppo sociale, mistica e progresso, naturalmente con tutti i rischi che questo equilibrio delicato comportava. Sempre in agguato era, infatti, la tentazione dell’idolatria, dell’estenuazione del giudizio morale, dell’insorgenza dell’egoismo.

Indimenticabile come monito rimaneva il detto di Cristo: «Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro.

Non potete servire a Dio e a mammona!» ( Luca 16, 13).

La morale e il Regno di Dio

Certo è che la spiritualità autentica, componente strutturale dell’esperienza religiosa, sarà sempre come una spina nel fianco della società e quindi anche dell’attività economica. Lo sarà adempiendo a due compiti differenti ma connessi. Da un lato, richiamerà in modo permanente le esigenze dell’etica impedendo che si instaurino leggi di mercato del tutto aliene da ogni norma morale, immerse in un immanentismo autoreferenziale, autosufficiente e 'autonomo'.

Come ammoniva il profeta Isaia, il mercato non può rendere «bene il male e male il bene, le tenebre trasformarle in luce e la luce in tenebre, l’amaro in dolce e il dolce in amaro» (5, 20). La denuncia delle violazioni morali sarà affidata alla voce genuina del tempio (si pensi al gesto di Cristo da cui siamo partiti) e alla testimonianza personale dei giusti (pensiamo, ad esempio, a san Francesco). Costoro condanneranno come ci ricorda il libro della Sapienza, opera biblica greca di matrice giudeo-alessandrina chi «considera un trastullo la nostra vita e l’esistenza come se fosse un mercato lucroso. Costui dice: Da tutto, anche dal male, si deve trarre profitto» ( Sapienza 15, 12).

D’altro lato, come insegna anche la recente dottrina sociale della Chiesa, la religione smitizza il valore assoluto del mercato e dell’economia, relativizzandolo non solo alla persona umana e alla sua dignità ma anche rispetto al tema centrale del Regno di Dio, cioè di un progetto superiore di giustizia e di pace verso cui tendere. Non possiamo ovviamente delineare il quadro generale del moderno 'magistero' ecclesiale sui temi sociali, un insegnamento che ha come suo punto d’avvio l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1891) dalla quale si dirama una vera e propria genealogia di documenti ufficiali, apparsi soprattutto a partire dal pontificato di Giovanni XXIII ( Mater et magistra del 1961, Pacem in terris del 1963). Il Concilio Vaticano II è penetrato nel groviglio della modernità con la costituzione Gaudium et spes (1965), mentre fondamentale riguardo alla questione sociale è stata per Paolo VI la sua enciclica Populorum progressio (1967). Giovanni Paolo II ha emesso un trittico di documenti particolarmente attenti alla dimensione socio-economica del nostro tempo: la Laborem exercens (1981), attenta a marcare la priorità del lavoro sul capitale, dato che è il lavoro a fondare il diritto alla proprietà, diritto che è pur sempre funzionale al principiobase della dottrina sociale cristiana, quello della destinazione universale dei beni; la Sollicitudo rei socialis (1987) e soprattutto la Centesimus annus (1991).

Ebbene, è proprio quest’ultima enciclica a dedicare per la prima volta un intero paragrafo (n. 34) proprio al libero mercato. Lo vogliamo proporre nella sua integralità così puntuale da non avere bisogno di commento (naturalmente questa lettera si colloca all’interno di uno scenario dottrinale molto articolato e ricco del quale non possiamo ora rendere conto). «Sembra che, tanto a livello delle singole Nazioni quanto a quello dei rapporti internazionali, il libero mercato sia lo strumento più efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni. Ciò, tuttavia, vale solo per quei bisogni che sono 'solvibili', che dispongono di un potere d’acquisto, e per quelle risorse che sono 'vendibili', in grado di ottenere un prezzo adeguato. Ma esistono numerosi bisogni umani che non hanno accesso al mercato. È stretto dovere di giustizia e di verità impedire che i bisogni umani fondamentali rimangano insoddisfatti e che gli uomini che ne sono oppressi periscano. È, inoltre, necessario che questi uomini bisognosi siano aiutati ad acquisire le conoscenze, ad entrare nel circolo delle interconnessioni, a sviluppare le loro attitudini per valorizzare al meglio capacità e risorse. Prima ancora della logica dello scambio degli equivalenti e delle forme di giustizia, che le son proprie, esiste un qualcosa che è dovuto all’uomo perché è uomo, in forza della sua eminente dignità. Questo qualcosa dovuto comporta inseparabilmente la possibilità di sopravvivere e di dare un contributo attivo al bene comune dell’umanità. Nei contesti di Terzo Mondo conservano la loro validità (in certi casi è ancora un traguardo da raggiungere) proprio quegli obiettivi indicati dalla Rerum novarum, per evitare la riduzione del lavoro dell’uomo e dell’uomo stesso al livello di una semplice merce: il salario sufficiente per la vita della famiglia; le assicurazioni sociali per la vecchiaia e la disoccupazione; la tutela adeguata delle condizioni di lavoro».

Certo è che compito della religione e della morale è quello di risalire alle radici dell’autentica umanità e di allargare l’orizzonte oltre i ristretti perimetri delle leggi economiche impedendone l’assolutizzazione. Si tratta di una sorta di 'principio di utopia' o 'di speranza' trascendente che è il seme che la religione depone nella storia. La fede, consapevole del suo essere nel mondo senza essere del mondo (Giovanni 17, 11.14), fa sì che «quelli che comprano vivano come se non possedessero», secondo l’espressione di san Paolo che continua: «Quelli che usano del mondo vivano come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!» (1 Corinzi 7, 30-31). Questo fremito escatologico fa alzare lo sguardo oltre le merci e le cose, oltre il possesso e la storia.

Proclamava il profeta Ezechiele: «È giunto il tempo, è vicino il giorno: chi ha comprato non si allieti, chi ha venduto non rimpianga!» (7, 12). Ed è ancora una volta Cristo a raffigurare in forma plastica e potente questa relatività e a infondere l’inquietudine della trascendenza: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così disse : demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e divertiti! Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce davanti a Dio» (Luca 12,16-21).

Già san Paolo di fronte agli eccessi 'apocalittici' dei cristiani di Tessalonica non esitava a scrivere: «Quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: Chi non vuole lavorare neppure mangi» (2 Tessalonicesi 3, 7-10). L’aforisma finale divenuto popolare nel Medioevo nella versione latina «Si quis non vult operari nec manducet» è entrato persino nella Costituzione dei Soviet voluta da Lenin L’«Apocalisse» in una pagina di grande potenza letteraria descrive il dramma dei mercati internazionali in seguito al crollo della 'borsa' della Roma imperiale: «Babilonia, possente e immensa città tutta ammantata di bisso, di porpora e di scarlatto, adorna d’oro, di pietre preziose e di perle! In un’ora sola è andata dispersa sì grande ricchezza!» (18, 16-17)

 

Cresce il fervore religioso, ma specialmente in Europa aumenta l'intolleranza verso la fede: la denuncia dello storico René Rémond. Avvenire 9 ottobre 2005

Cristianesimo sotto accusa

 

INTERVISTA I cristiani sono depositari di una visione dell'uomo che non è confessionale ma di interesse generale.

Da sempre energico difensore del genio del cristianesimo e della sua attualità di fronte ai dilemmi delle società contemporanee, il grande storico e politologo René Rémond scandaglia nel suo ultimo saggio le correnti del nuovo anticristianesimo. Non senza una punta di lucida apprensione.

Nato nel 1918, accolto fra gli "immortali" dell'Académie française e da tempo alla guida della prestigiosa Fondazione di Scienze politiche di Parigi, Rémond ha esplorato per decenni i ponti fra le nuove correnti del pensiero politico e l'ansia di trascendenza dell'uomo contemporaneo.

Professor Rémond, anni fa nel libro "Le christianisme en accusation" lei si era interrogato sul discredito intellettuale e culturale di cui il cristianesimo è oggetto nelle nostre società. Perché tornare sul tema con questo nuovo volume «Vers un nouvel anti-christianisme»?

«Proprio l'eco ricevuta dal libro, le reazioni che ha suscitato nel mondo politico e presso gli opinionisti, mi ha spinto a completare il discorso. Si trattava in quel caso di ricordare l'importanza incontestabile del fatto religioso nelle nostre società. Cinque anni dopo, la problematica si è spostata e arricchita. Si pensi al dibattito sulla Costituzione europea o anche, per la Francia, alla codificazione del culto musulmano e alla legge del 15 marzo 2004 (sul velo e altri segni religiosi vistosi). In generale, cosa si constata? La diffidenza di fronte al fatto religioso non sembra essersi affievolita, alimentata d'altra parte più dalla congiuntura internazionale che dalla situazione francese. Constato persino una certa radicalizzazione:  la legge del 2004,  per esempio, non significa un ritorno al clima del 1880 in cui furono proscritti tutti i segni religiosi?».

Sul momento, si era pensato me l'emozione planetaria percepita in occasione della morte di Giovanni Paolo n avrebbe segnato un'evoluzione di clima e di prospettiva «Vi ho visto un segno di resistenza del fatto religioso alla cancellazione, ma il ritorno di fervore ha anche acuito delle allergie. Soprattutto da parte di coloro che rifiutano sempre che il fatto religioso sia presente nello spazio pubblico. Ho ascoltato, in quest'occasione, uomini politici francesi indignarsi del fatto che il governo avesse deciso di mettere le bandiere a mezz'asta per un giorno per onorare un grande uomo, Giovanni Paolo II, mentre, al contempo, l'Egitto o il Pakistan decidevano tre giorni di lutto nazionale per il capo di una religione che non è la loro!>>.

Eppure, è nel momento in cui il cristianesimo presenta dei segni evidenti di debolezza che è così fortemente posto sotto accusa.

<<Il che dovrebbe avere per conseguenza che lo si attacchi di meno! Capisco che un secolo fa i "laici" potessero preoccuparsi del clericalismo di una Chiesa che accettava malvolentieri di perdere il suo potere di tutela sulla società. Oggi, non è più il caso. Invito quelli che dubitano sempre della sincerità dell'evoluzione della Chiesa a rileggere i testi del Concilio Vaticano II, come la Dichiarazione sulla libertà religiosa. Consiglio anche di operare delle distinzioni fra le religioni. Non si deve perdere di vista che, oltre alle loro tradizioni dogmatiche, le religioni non sono intercambiabili. Soprattutto sul piano delle loro relazioni con la società civile. Anche se riconosco che il fenomeno del neoconservatorismo americano confonde attualmente le carte: vediamo emergere in questa parte del mondo un cristianesimo che pratica di nuovo la confusione dei generi nel quale non ci riconosciamo».

Fra le forme attuali d'anticristianesimo che lei individua, lei si sofferma sul recente libro di Michel Onfray «Trattato di ateologia». Perché? <<E’ sintomatico di un radicalismo intellettuale che attacca, senza sfumature, i monoteismi e in particolare il cristianesimo. Ogni cristiano dovrebbe interrogarsi sul successo di un simile saggio che ha trovato presto duecentomila acquirenti. Michel Onfray è libero di esprimere le sue convinzioni, comprese quelle oscurantiste. Ma lo chiamo in causa su due punti: innanzitutto, la sproporzione, il divario, fra la pretesa dell' enunciazione - scrivere un trattato di ateologia - e il contenuto del libro. Ci si attende un'opera scientifica - Michel Onfray fa riferimento a Spinoza - e si scopre poi un pamphlet. Con controverità scioccanti, come la presunta connivenza fra nazismo e cristianesimo. il libro mostra superbia e intolleranza, e non una volontà sciéntifica. D'altronde, resto convinto che questo pseudo trattato si inscrive in una logica d'insegnamento del disprezzo verso le fedi dei nostri contemporanei e verso loro stessi. In una società pluralista, ciascuno deve ascoltarsi e rispettarsi. Ora, Onfray presenta i cristiani quasi come dei deboli di mente. Non mi spiego questa forma di odio, inverosimile da parte di un intellettuale che si presenta come un filosofo».

Quale sarebbe, in questo contesto,1a migliore risposta da dare ai nuovi detrattori del cristianesimo?

<<Difendo una Chiesa educatrice della libertà di coscienza. Una coscienza illuminata, libera e adulta, che nutre delle convinzioni. Per questo abbiamo bisogno di un cristianesimo ragionevole, che affronti le sfide intellettuali con cui le società si confrontano. Le risposte pietistiche sono insufficienti. Nel solco della

grande tradizione della Chiesa, i cristiani sono depositari di una visione dell'uomo che non è innanzitutto confessionale, integralista ma di interesse generale. I cristiani non devono cedere alla tentazione di presentarsi come i difensori di un'identità particolare o ritirarsi nelle sagrestie».

(traduzione di Daniele Zappalà per gentile concessione del quotidiano "La croix")

 

Tutte le atomiche sono immorali

di Giovanni Cubeddu

Robert McNamara è stato segretario della Difesa statunitense dal 1961 al 1968. Le sue posizioni da falco nella guerra del Vietnam gli valsero notorietà, ma alla sua visione netta già non mancava quella dose di realismo con cui egli fece intendere al presidente Lyndon Johnson che gli Stati Uniti (che a un certo momento non esclusero l'uso dell'atomica) quella guerra forse non l'avrebbero mai vinta. Dal 1968 al 1981 McNamara è stato presidente della Banca mondiale e, come ci dirà lui stesso, chiuso il periodo degli incarichi istituzionali, iniziò a rendere pubblica in modo militante quella convinzione che negli anni gli era maturata dentro: ridurre gli armamenti, a partire da quelli nucleari. In un momento in cui questa politica lungimirante di disarmo non trova molti seguaci, è stato un conforto udire recentemente ancora la voce di McNamara (su Foreign Policy in maggio) indicare i pericoli della proliferazione nucleare e di una deterrenza che fa da alibi al riarmo.

Oggi il numero delle testate atomiche prodotto è minore che in passato, il rischio di uno scontro atomico tra le due grandi potenze della guerra fredda è limitato, e l'Occidente è più preoccupato dalle "medie potenze nucleari", aperte all'ipotesi nucleare per risolvere controversie regionali oppure disposte a usare l'ultima carta prima di soccombere definitivamente di fronte alla minaccia di un cambio di regime, imposto dall'esterno per" esportare democrazia" .. .

Ma c'è una grande ipocrisia oggi sottostante al dibattito su chi possa o non possa avere tecnologia nucleare, e che bene si evince dalle parole di McNamara.

Il Concilio Vaticano II, nella Gaudium et spes 81, ha espresso in modo cristallino il giudizio della Chiesa cattolica: «E mentre si spendono enormi ricchezze per la preparazione di armi sempre nuove, diventa poi impossibile arrecare sufficiente rimedio alle miserie così grandi del mondo presente [. ..]. E’ necessario pertanto ancora una volta dichiarare: la corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell'umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri; e c'è molto da temere che, se tale corsa continuerà, produrrà un giorno tutte le stragi, delle quali va già preparando i mezzi».

Intanto, neanche all'ultimo vertice dei capi di Stato e di governo per i sessant'anni delle Nazioni Unite si è riusciti a menzionare nel testo finale un impegno, neppure generico, alla non proliferazione. Da questa triste impasse parte il colloquio con McNamara.

ROBERT McNAMARA: Quando nel 1968 abbiamo negoziato il Trattato di non proliferazione nucleare, l'Npt [Non-Proliferation Treaty, ndr], ci siamo impegnati a lavorare in buona fede per la definitiva eliminazione degli arsenali nucleari. Lo scorso maggio i diplomatici di oltre 180 Paesi si sono riuniti a New York per rivedere il Trattato e valutare se i firmatari avessero ottemperato agli accordi. Gli Stati Uniti, per comprensibili ragioni, si sono concentrati a persuadere la Corea del Nord a rientrare nell'Npt, e a negoziare delle condizioni più restrittive alle ambizioni nucleari dell'Iran. Ma l'attenzione di molte nazioni, compresi alcuni Paesi potenziali nuovi possessori di armi nucleari, era a sua volta puntata sugli Stati Uniti. Avere un così grande numero di tali armi e mantenerle in stato di allerta immediata è un chiaro segno che gli Stati Uniti non stanno lavorando seriamente all'eliminazione dei propri arsenali e fa sorgere domande scomode sul perché gli altri Stati dovrebbero invece limitare le proprie ambizioni nucleari.

Certo il fallimento di quella Conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione è stato amaro ed evidente. Perché, secondo lei? Quel Trattato è un relitto della guerra fredda?

McNAMARA: Beh, c'è da dire una cosa fondamentale. Il Trattato di non proliferazione aveva la natura di un compromesso. I cinque Stati dichiaratamente nucleari affermarono che se le nazioni che ancora non possedevano armi nucleari si fossero impegnate a non acquisirle, allora essi avrebbero rinunciato alle loro. Questo è il cosiddetto articolo 6 del Trattato. I cinque Paesi nucleari non si sono mossi in direzione di una tale rinuncia. Perciò le altre nazioni non accettano che si dica che invece loro dovrebbero farlo: devono confrontarsi con avversari militarmente forti, magari con le stesse potenze nucleari. Le potenze nucleari, d'altronde, pur disponendo di grandi forze convenzionali, dicono di aver bisogno dell'armamento nucleare per salvaguardare i loro Paesi, e dicono che le nazioni senza armi nucleari non sarebbero autorizzate ad averle. Questo viola l'accordo che è alla base del Trattato di non proliferazione.

Secondo il Dipartimento di Stato americano, anche se la Conferenza di revisione è sostanzialmente fallita, il Trattato è tuttora vigente...

McNAMARA: Non vedo come. Guardi, ci sono l'Iran e la Corea del Nord, per esempio, che vanno chiaramente contro l'Npt, e abbiamo un ex segretario della Difesa americano, William Perry - che è stato un ministro assai saggio, non una cassandra, è uno scienziato, il capo del Programma di sicurezza dell'Università di Stanford -, che qui a Washington, lo scorso agosto, ha detto che esiste più del 50 per cento di probabilità di un'esplosione nucleare sul territorio americano entro dieci anni, e questo certamente indica che la non proliferazione non sta avendo successo.

Lei ha detto recentemente che «per gli Stati Uniti è ormai tempo (e lo è da un pezzo) di smetterla, con uno stile da guerra fredda, di appoggiarsi sulle armi nucleari come strumento di politica estera».

McNAMARA: Anche rischiando di apparire semplicistico e provocatorio, definirei l'attuale politica nucleare degli Stati Uniti come immorale, illegale, militarmente non necessaria e terribilmente pericolosa. Il rischio di un lancio nucleare accidentale o involontario è inaccettabilmente alto. Lungi dall'operare per la riduzione di tali rischi, questa amministrazione è impegnata a mantenere l'arsenale nucleare americano come un puntello del suo potere militare un impegno che sta fra l'altro erodendo le norme internazionali che hanno limitato la diffusione di armi nucleari e di materiale fissile per cinquant'anni.

E’ sorprendente ascoltare tale giudizio proprio da lei, un ex segretario della Difesa del governo americano...

McNAMARA: Mi lasci dire una cosa. La Convenzione di Ginevra ha rappresentato un accordo tra le nazioni in base al quale la forza militare avrebbe dovuto essere conforme a dei principi e proporzionata, il che sta a dire che se una nazione fa uso della forza militare contro un'altra, ciò non dovrà eccedere quanto il suo avversario ha fatto o intende fare. E questo uso deve essere inoltre discriminante, cioè i civili devono essere esclusi dall'uso della forza militare. È chiaro che l'uso di armi nucleari fatto da una potenza nucleare non può soddisfare nessuna di queste condizioni, ed è per questo che affermo che esso è sia immorale che illegale. È un dato di fatto che la maggioranza dei giudici di una corte internazionale che ha esaminato la legalità delle armi nucleari ha deciso per la loro illegalità.

Quest'anno ha segnato il sessantesimo anniversario del bombardamento di Hiroshima e Nagasaki. La rivista Time ha affermato che quell'atto bellico, con cui gli Stati Uniti hanno colpito dei civili considerandoli legittimi bersagli di guerra, ha oltrepassato «la soglia della morale».

McNAMARA: Difatti anch'io lo giudico immorale. Non credo che gli Stati Uniti intendessero usare armi nucleari per colpire i civili, ma di certo avrebbero dovuto prevedere che sarebbe stato ucciso un grande numero di civili. Così, sia che lo si chiami prendere di mira i civili oppure no, è chiaro che gli Stati Uniti avrebbero dovuto aspettarsi un eccidio di civili.

Certo, quando l'atomica fu usata, l'assassinio di civili tramite bombardamenti nella Seconda guerra mondiale era già stato intrapreso da tutte le grandi potenze, come con l'attacco britannico su Dresda, ad esempio. Non sto giustificando l'uso della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, non mi fraintenda, sto solo dicendo che stragi di civili erano già state provocate dalle campagne di bombardamento della Seconda guerra mondiale.

Io ero in forza alle unità dei B29 ed ero sull'isola di Guam nel marzo 1945, quando il generale LeMay, comandante dei B29, fece partire da lì dei raid incendiari usando i B29 non più per bombardare da alta quota con esplosivi ma da bassa quota con bombe incendiarie. Nel primo attacco su Tokyo - c'ero quella notte del marzo 1945 - credo che morirono circa 80mila civili. Quello fu il primo di 66 attacchi, e certo, non è che ogni volta furono uccise 80, 90 o 100mila persone, ma era comunque sempre un grande, grande numero.

In effetti, la questione importantissima che potrebbe essere sollevata è se era militarmente necessario usare armi nucleari per escludere la necessità di un'invasione di terra delle isole giapponesi più grandi da parte americana, visto che il Giappone, con i raid incendiari, aveva già subito ingenti distruzioni.

Ma oggi, quanto è grande il pericolo nucleare?

McNAMARA: Gli Stati Uniti dispiegano attualmente circa 4.500 testate nucleari strategiche offensive. La Russia ne ha circa 3.800. Le forze strategiche di Gran Bretagna, Francia e Cina sono considerevolmente minori, ci sono tra le 200 e le 400 armi nucleari negli arsenali di ciascuno di questi Stati. Le nuove potenze nucleari, Pakistan e India, hanno meno di 100 ordigni ciascuna. La Corea del Nord afferma di essersi dotata di armamenti nucleari, e le agenzie di intelligence statunitensi credono che Pyongyang abbia materiale fissile sufficiente per 2-8 bombe. Qual è la potenza distruttiva di tutte queste bombe? La bomba atomica "media" americana ha una potenza di distruzione fin oltre venti volte quella che cadde su Hiroshima. Delle 8mila testate americane attive o operative, duemila sono in stato di allerta immediata, pronte per essere lanciate con un preavviso di quindici minuti. Come sono da usare queste armi? Gli Stati Uniti non hanno mai sostenuto la politica del "colpire per primi", né durante i sette anni del mio mandato come segretario della Difesa né dopo. Noi siamo stati, e rimaniamo, preparati ad avviare l'uso di armi nucleari - in base alla decisione di una persona, il presidente - contro un nemico, nucleare o meno, ogniqualvolta crediamo che sia nel nostro interesse farlo. Per decenni le forze nucleari americane sono state sufficientemente solide da poter assorbire un primo colpo e poi da infliggere all'avversario un danno "inaccettabile". Fin quando noi ci troveremo di fronte a un potenziale nemico dotato di armi nucleari, questo è stato e deve continuare a essere il fondamento della nostra deterrenza nucleare.

Ciò che è scioccante è che oggi, a più di un decennio dalla fine della guerra fredda, la base della politica nucleare americana sia immutata. Non s'è adeguata al collasso dell'Unione Sovietica. I piani e le procedure non sono state riviste per far sì che gli Usa o gli altri Stati abbiano meno probabilità di premere il bottone. Come minimo dovremmo rimuovere tutte le armi nucleari strategiche dallo status di allerta immediata, come anche altri hanno raccomandato, incluso il generale Lee ButIer, l'ultimo comandante dello Strategic Air Commando. Questo semplice mutamento ridurrebbe grandemente il rischio di un lancio nucleare accidentale. Sarebbe altresì un segno per gli altri Paesi che gli Stati Uniti si stanno avviando a ridurre la propria fiducia nelle armi nucleari.

Durante la guerra fredda circolava una sorta di "anticomunismo teologico" e alcuni, non solo nell'amministrazione statunitense, erano ansiosi di usare la leva nucleare per risolvere le controversie internazionali. Recentemente lei ha scritto della possibilità di un'imminente "apocalisse". Voleva forse dire che c'è qualche legame tra religione e politica sul tema?

McNAMARA: Non ho usato la parola "apocalisse" per la sua connotazione religiosa. Non mi piace questo tipo di interpretazioni religiose distorte. L'ho usata piuttosto perché è di uso comune applicarla a questi eventi terribili. C'è un grande pericolo oggi di un uso involontario o accidentale di armi nucleari e questo sarebbe un evento apocalittico, nel mio linguaggio, senza alcun riferimento religioso.

A questo proposito, ci sono comunque, credo, fattori religiosi che dovrebbero essere presi in considerazione. I vescovi cattolici degli Stati Uniti hanno pubblicato alla fine degli anni Ottanta un rapporto, la cui preparazione fu diretta da un sacerdote del Massachussets, ancora vivo, che è la migliore dichiarazione fatta da non militari che io abbia mai letto sui problemi morali e umani legati all'uso della forza nucleare. Quel rapporto afferma che per la prima volta dal tempo della Genesi la razza umana ha la capacità di autodistruggersi. Dobbiamo evitarlo. Sono davvero dell'idea che dovremmo iniziare a pensare e a discutere seriamente della proliferazione, perché è assolutamente contraria a tutti i principi morali.

Lei ha scritto anche che non ha mai visto «un pezzo di carta che delineasse un piano degli Usa o della Nato per iniziare una guerra nucleare con un qualche vantaggio per gli Usa o per la Nato». Va letto come un messaggio a coloro che oggi sponsorizzano un "limitato uso" di armi nucleari, ad esempio contro i cosiddetti "Stati canaglia"?

McNAMARA: Ciò che intendo dire è che, dal punto di vista militare, l'arma nucleare non ha oggi alcuna utilità per nessuna nazione, se non quella di essere un deterrente all'uso delle armi nucleari da parte dei propri avversari. E se l'avversario non possiede il nucleare, allora non ha davvero nessuna utilità militare. Questo è il primo punto. Il secondo è che anche se il tuo avversario ha armi nucleari, non c'è alcuna giustificazione per cominciare a usarle: contro un'altra potenza nucleare sarebbe un suicidio. E non c'è alcuna possibile giustificazione per usarle contro un Paese non nucleare, dal momento che sarebbe moralmente riprovevole e politicamente indifendibile. E dunque le potenze nucleari devono riflettere bene su come giustificare il mantenimento del loro arsenale nucleare. Se lo facessero, penso che arriverebbero alla conclusione cui sono giunto anch'io, cioè che andrebbero eliminate tutte o quasi le armi atomiche. Su questo si fonda la mia decisione.

Glielo ripeto: lanciare bombe contro una potenza nucleare avversaria è suicida, farlo contro un nemico non dotato di armi nucleari sarebbe militarmente non necessario, moralmente ripugnante e politicamente indifendibile.

Sono arrivato a queste conclusioni molto presto, una volta diventato segretario della Difesa. Sebbene credo che i presidenti John Kennedy e Lyndon Johnson condividessero il mio punto di vista, per ciascuno di noi fu impossibile rendere pubbliche tali convinzioni poiché esse erano totalmente contrarie alla politica stabilita dalla Nato.

Dopo il mio ritiro dalla vita pubblica, ho deciso di rendere pubbliche alcune informazioni che sapevo sarebbero state oggetto di controversie, ma sentivo che c'era bisogno di iniettare una dose di realismo nelle discussioni sempre più irrealistiche sull'utilità militare delle armi nucleari. Con articoli e conferenze ho criticato l'assunto fondamentalmente viziato secondo cui le armi nucleari con qualche limitazione potrebbero essere utilizzate. Non c'è alcun modo di contenere effettivamente un attacco nucleare, di impedirgli di infliggere una distruzione enorme di vite umane e di beni, e non c'è alcuna garanzia contro l'escalation illimitata che seguirebbe al primo attacco atomico.

 

Secondo la "Revisione della dottrina nucleare" del 2002 (Nuclear Posture Review), il governo americano è autorizzato a compiere ulteriori ricerche e ulteriori esperimenti nucleari e a costruire più ordigni. Ciò significa che è iniziata una nuova proliferazione atomica statunitense?

McNAMARA: È proprio così, e secondo me questa Revisione è totalmente sbagliata nelle sue conclusioni e nei suoi giudizi...

Essa promuove la possibilità di una diffusione di armi nucleari più utilizzabili, più semplici da usare.

McNAMARA: Hanno proposto, credo, almeno due nuove armi atomiche, una che penetra in profondità e una nuova arma nucleare tattica. Sarebbe un errore di valutazione, sarebbe un errore andare avanti su questa strada e spero davvero che il Congresso americano non l'autorizzerà.

È giusto dire che tra i risultati dell'11 settembre c'è anche questa Revisione nucleare? C'è un legame?

McNAMARA: No, non c'è alcuna connessione, non è fondato, in alcun modo... Gli attacchi dell'11 settembre non influenzano il giudizio sul "se" gli Stati Uniti debbano avere armi nucleari. In realtà io penso sia vero l'opposto, che quegli attacchi in un certo senso hanno confermato l'esistenza di un nuovo potenziale avversario terrorista, e tra le armi che i terroristi vorrebbero utilizzare ci sono le armi nucleari ovvero il materiale fissile, e dobbiamo perciò fare tutto ciò che è in nostro potere per limitare l'ulteriore sviluppo di armi nucleari e di materiale fissile. Ma non lo stiamo facendo a sufficienza.

Lei ha scritto che Fidel Castro ha impartito agli Stati Uniti una lezione...

McNAMARA: La crisi dei missili di Cuba ha dimostrato che gli Stati Uniti e l'Urss - e di fatto il resto del mondo - sono arrivati a un pelo dal disastro nucleare, nell' ottobre 1962.

Al culmine della crisi le forze sovietiche a Cuba possedevano 162 testate nucleari, incluse almeno 90 armi tattiche. La lezione, se non fosse stato già prima chiaro, fu data a una conferenza sulla crisi tenuta a L'Avana nel 1992, quando per la prima volta noi venimmo a sapere da ex ufficiali sovietici che loro erano pronti alla guerra nucleare nel caso di un'invasione americana di Cuba. Quasi alla fine di quell'incontro, io chiesi a Castro se lui avrebbe raccomandato a Krusciov l'uso delle armi di fronte a un'invasione americana, e se sì, come avrebbe immaginato la reazione degli Stati Uniti. «Siamo partiti dall'assunto che se ci fosse stata l'invasione di Cuba, ne sarebbe scaturita una guerra nucleare», rispose Castro. «Noi eravamo certi... che saremmo stati costretti a pagare il prezzo della nostra scomparsa». Poi continuò: «Sarei stato pronto a usare armi atomiche? Sì, sarei stato d'accordo a utilizzarle». E aggiunse: «Se il signor McNamara o il signor Kennedy fossero stati al nostro posto, e se il loro Paese fosse stato lì lì per subire un'invasione, o un'occupazione... credo che loro avrebbero usato armi nucleari tattiche».

Avendo questo in mente, che cosa prova oggi?

McNAMARA: Spero che il presidente Kennedy e io non ci saremmo comportati come Castro credeva. La sua decisione avrebbe distrutto il suo Paese. Se avessimo risposto in un modo simile, il danno per gli Stati Uniti sarebbe stato inimmaginabile.

Ma gli esseri umani possono sbagliare. In una guerra convenzionale gli errori costano vite umane, talvolta migliaia di vite. Se vi fossero stati errori nel decidere sull'uso della forza nucleare, non vi sarebbe stata alcuna "curva di apprendimento" e sarebbero state distrutte intere nazioni.

E la lezione allora?

McNAMARA: Non c'è alcun modo di ridurre il rischio a livelli accettabili. Salvo quello di eliminare in primo luogo la politica di allerta immediata e subito dopo smantellare tutte o quasi le armi atomiche. Gli Stati Uniti dovrebbero immediatamente muoversi e avviare queste azioni, in collaborazione con la Russia.

L'Agenzia internazionale per l'energia atomica (Aiea) si è occupata, nel suo ultimo rapporto annuale di fine luglio scorso, delle posizioni nordeoreana e iraniana sull'arricchimento dell'uranio, condannando Pyongyang ma valutando con maggiore moderazione il comportamento di Teheran.

McNAMARA: Giudico i programmi nucleari iraniano e nordcoreano entrambi molto, molto pericolosi. Ma non c'è alcuna soluzione militare. Attaccare la Corea del Nord sarebbe per gli Stati Uniti disastroso, perché i nordcoreani potrebbero spazzare via Seoul e un gran numero di truppe americane lì stanziate, e, similmente, sarebbe assurdo per gli Stati Uniti attaccare l'Iran nelle circostanze attuali - non abbiamo abbastanza truppe in Iraq. Perciò, per risolvere quelle due situazioni, dobbiamo basarci sulla diplomazia. Sin qui la diplomazia è stata relativamente inefficace, ma essa deve affrontare i problemi che hanno condotto la Corea del Nord e l'Iran ad assumere l'iniziativa di sviluppare armi nucleari. E uno di questi problemi è la paura che gli Stati Uniti si muovano in direzione di un cambio di regime. Hanno ascoltato il presidente Bush collegare Iraq, Corea del Nord e Iran come "male", come emissari di un asse del male, e hanno visto gli Stati Uniti intraprendere un cambio di regime in Iraq. Che ci sia gente in Corea del Nord e in Iran che tema il cambio di regime, sono sicuro, perciò dobbiamo impegnarci in negoziati di alto livello perché questa paura sia rimossa.

Se gli Stati Uniti continueranno troppo a lungo nel loro attuale atteggiamento riguardo alle armi nucleari, ne seguirà quasi certamente una sostanziale proliferazione. Alcune o forse tutte queste nazioni, come l'Egitto, il Giappone, la Corea del Sud, l'Arabia Saudita, la Siria e Taiwan, molto verosimilmente inizieranno dei programmi di armamento nucleare, accrescendo sia il rischio dell'uso di armi nucleari che il dirottamento di armi nucleari e materiale fissile nelle mani degli Stati canaglia o dei terroristi.

Né l'amministrazione Bush né il Congresso né il popolo americano né quello di altre nazioni hanno ancora discusso del valore di politiche alternative, per i loro Paesi e per il mondo intero, circa le armi nucleari a lunga gittata. Ma tali dibattiti si sarebbero già dovuti tenere da tempo. Se lo si farà, credo che si arriverà alla conclusione cui anch'io, insieme a un numero crescente di alte autorità militari, di politici e di civili esperti di sicurezza, sono giunto: dobbiamo sollecitamente arrivare all'eliminazione o quasi di tutte le armi nucleari. Per molti c'è ancora la grande tentazione di aggrapparsi alle strategie degli ultimi quarant'anni. Ma comportarci così sarebbe un grave errore che ci porterebbe a rischi inaccettabili per tutte le nazioni.

Lei è stato presidente della Banca mondiale per tredici anni, ha avuto modo di vedere da vicino ciò che la povertà significa, e chi sono i poveri. Che traccia ha lasciato quest'esperienza in lei, che era stato così coinvolto in ingenti spese militari? Non ha avvertito che c'era una contraddizione?

 

 

 

I cristiani del Medio Oriente possono salvarci dallo Scontro di Civiltà. Se noi salviamo loro.

di Rowan Williams dal Times di Londra, 23. 12. 06

Il 23 dicembre 2006 il Times di Londra ha pubblicato un intervento dell'arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, primate della Comunione anglicana, molto critico verso l'intervento armato in Iraq e, più in generale, verso la politica bellicista perseguita in questi anni dall'amministrazione americana e dal governo inglese. Williams era appena tornato da un pellegrinaggio in Terra Santa, svoltosi dal 20 al 23 dicembre appunto, insieme all'arcivescovo di Westminster, il cardinale Cormac Murphy-O'Connor, al primate della Comunione armena in Gran Bretagna, Nathan Hovhannisian e al reverendo David Coffey, moderatore delle Free Churches. I pellegrini si sono recati a Gerusalemme, dove hanno incontrato i rappresentanti delle 13 Chiese e comunità cristiane della città, ospiti del patriarca greco ortodosso Teofilo. Infine, si sono recati a Betlemme, presso la grotta della Natività, dove hanno preso parte a una celebrazione ecumenica. Di seguito pubblichiamo ampi brani dell'articolo apparso sul Times.

Nei frenetici giorni immediatamente precedenti la guerra in Iraq, qualcuno aveva spesso profeticamente avvertito, per essere sistematicamente ignorato, che l'intervento militare occidentale - se condotto in quel momento e con quelle modalità - avrebbe messo a rischio le popolazioni cristiane dell'intero Medio Oriente, perché sarebbero state considerate simpatizzanti di un Occidente impegnato in una crociata. E ci si era chiesti se non fosse per lo meno il caso di avere una strategia per poter gestire tale eventualità.

Ebbene, non c'è mai stata alcuna strategia. E le conseguenze vanno ora dolorosamente ad aggiungersi alla già difficile situazione delle comunità cristiane di tutta la regione. La popolazione cristiana dell'Iraq continua a ridursi di migliaia di unità ogni due mesi e alcuni tra i suoi capi più validi sono stati costretti a lasciare il Paese. A Istanbul la popolazione ortodossa è un minuscolo resto e una parte della stampa turca ha fatto sapere al loro Patriarca che è ormai giunto per lui il momento di andarsene. In Egitto, dove le relazioni tra cristiani e musulmani sono da sempre - e continuano a essere - intense e buone, gli attacchi condotti da integralisti contro i cristiani si sono fatti considerevolmente più frequenti.

Oltre a dover cercare asilo, cosa già di per sé ardua, non è raro per le famiglie arabe cristiane, che cercano rifugio nel Regno Unito, vedere i propri figli considerati a scuola "senza dubbio musulmani" e, quindi, messi insieme ai bambini musulmani a svolgere attività speciali. Questo a semplice riprova della totale disinformazione esistente nel Regno Unito, a partire dalle autorità governative, sui cristiani mediorientali.

Eppure per secoli quei cristiani hanno avuto una parte fondamentale praticamente in tutte quelle nazioni oggi considerate uniformemente musulmane - persino in Iran. Sono da sempre serviti a ricordare, tanto al mondo arabo quanto a quello occidentale, che ‘arabo’ e ‘musulmano’ non sono la stessa cosa e che le nazioni musulmane vantano una tradizione di rapporti amichevoli con i cristiani, loro vicini di casa. La migrazione delle popolazioni cristiane, invece, non fa altro che alimentare il mito, in Oriente come in Occidente, che l'islam non possa convivere con altre fedi e che lo scontro tra Oriente e Occidente rappresenti uno scontro insanabile tra fedi e culture.

Eppure le popolazioni cristiane potrebbero davvero rappresentare una parte della soluzione. In Libano, nel corso del conflitto della scorsa estate, sono state le comunità cristiane ad avanzare le proposte che potevano meglio assicurare una pace duratura, e sono stati i piani di pace elaborati dalla Chiesa maronita a essere ampiamente riconosciuti come la proposta più realistica nella ricerca di una pace tra le fazioni libanesi in guerra.

Certo, le comunità cristiane non possono vantare una storia priva di colpe nella regione, ma nell'attuale clima hanno qualcosa di significativo da dire: agli occidentali dicono di ricordare che il cristianesimo non ha avuto inizio in Inghilterra e nemmeno a Roma, ma che è una fede mediorientale; al mondo musulmano di ricordare che l'islam non avrebbe conosciuto la diffusione che ha avuto, se il terreno non fosse stato preparato - così come il Corano stesso dice - da altre religioni locali, dai cristiani e dagli ebrei della regione, e che esistono modi di essere autenticamente arabi, non occidentali, senza dover per forza essere musulmani.

Queste comunità potranno sopravvivere solo se i loro fratelli cristiani in Occidente si decideranno a prestare loro un po' di attenzione. Questo non significa il ricorso a rozze pressioni politiche e militari per ‘proteggerle’, con modalità che andrebbero solo a rafforzare !'idea che siano alleate dell'Occidente e, pertanto, necessariamente inaffidabili. È accaduto troppo spesso nel passato. Significa, invece, essere pronti e disposti a protestare quando sono soggette a soprusi; mettersi direttamente in contatto con loro, creare connessioni tra le Chiese locali qui e in Medio Oriente; ricordare, quando si va a visitare quella regione, che esistono e che hanno bisogno di amici. [...]

Far sentire la nostra voce a nome delle antiche comunità cristiane del Medio Oriente ed essere loro amici è un bene sia per loro che per i musulmani, poiché serve a ricordare che in molte parti del Medio Oriente, e per lunghi tratti della sua complessa storia, tra le fedi esistevano rapporti più sani e responsabili.

Come si avverte in modo più intenso in Terra Santa. Ho trascorso gli ultimi due giorni con i capi cristiani di Betlemme, che hanno visto la popolazione cristiana ridursi a nemmeno un quarto. In parte della popolazione musulmana si notano segnali allarmanti di un sentimento anticristiano, nonostante le salde tradizioni di convivenza. E la situazione è resa ancor più intollerabile dalle tragiche condizioni create dal ‘muro di sicurezza’ - che quasi soffoca la città ormai sempre più piccola -, dalla tragedia della povertà, dal vertiginoso livello di disoccupazione e dalle semplici difficoltà di ordine pratico per riuscire ad andare a scuola, al lavoro o in ospedale. Questo senso di disperato isolamento viene avvertito più acutamente dai cristiani rispetto alla maggior parte della popolazione.

Una volta i cristiani erano ampiamente rappresentati nelle classi di professionisti e meglio istruite, oggi molti sentono di non aver altra scelta che andar via. Un amico palestinese di fede cristiana mi ha detto che non avrebbe mai immaginato che persone come loro si sarebbero trovate ridotte a patire la fame, a non avere un lavoro, a dover affrontare violenze quotidiane. Alcuni tra quelli che potrebbero offrire un notevolissimo contributo per rendere la società palestinese più solida e più democratica sentono di non avere futuro in Terra Santa: per gli zeloti di una parte i cristiani rappresentano dei potenziali terroristi; per gli zeloti dell'altra possono essere considerati degli infedeli. E purtroppo sono gli zeloti a dirigere i giochi.

I primi fedeli cristiani furono mediorientali. Fa veramente riflettere l'idea che noi potremmo essere gli ultimi a vedere gli ultimi fedeli cristiani originari di quella regione.[...]

Pregate per la piccola città di Betlemme, e riservate un pensiero a quanti sono stati messi in una così grave situazione di pericolo a causa della nostra miopia e ignoranza; e chiedetevi cosa sia possibile fare a livello locale per risollevare queste coraggiose e antiche Chiese.

 

Scienza, fede e società.

Intervista al fisico Ugo Amaldi

di Luigi Dell’Aglio. Avvenire 23 febbraio 2007

Filosofia, scienza e sapienza: in questa triade, vista come un percorso circolare che non ha interruzioni, l'uomo conosce e realizza se stesso, grazie alla ragione. È il pensiero di Ugo Amaldi, professore di Fisica medica all'Università di Milano Bicocca e presidente della fondazione «Tera» (Terapia antitumorale con radiazioni adroniche).

«L’approccio scientifico ai problemi postici dalla natura - spiega - sta alla base del benessere delle società occidentali. Colpiti dalla sua efficacia, molti percepiscono la ‘razionalità scientifica’ come unico strumento a nostra disposizione per giungere al ‘vero’. A mio giudizio invece la capacità mentale dell'uomo, la sua ratio, è ben più ampia della razionalità scientifica. Oltre alla razionalità scientifica, sono facce della stessa ratio la ragione filosofica e quella che - in mancanza di un termine migliore - chiamo ‘ragionevolezza sapienziale’.

In questa sapienza, che attinge ai libri sacri ed è illuminata dai testimoni credibili, sono le radici della religiosità, della fede. E’ questa parte della ratio umana che, senza negare razionalità e ragione, risponde alla richiesta di senso che ciascuno di noi si porta dentro. Penso che, senza una visione unitaria dei diversi aspetti della ratio umana, non si possano affrontare, nella foro globalità i problemi del vero e del bene».

Professore, quali strade sono oggi aperte alla scienza?

«Sono sotto gli occhi di tutti gli effetti delle scoperte rese possibili dall'applicazione dei metodi rigorosi della razionalità scientifica alla cura delle malattie e all'aumento del benessere materiale. La biologia e la medicina molecolare, la fisica e l'ingegneria energetica, la fisica dell'atmosfera, l'astronomia e la cosmologia, appaiono regolarmente in televisione e sui quotidiani: superficialmente diventano attori della vita di tutti. E le prospettive sono grandiose. Si spera di giungere a curare efficacemente i tumori, a produrre energia per tutti, a difendere l'ambiente dall'inquinamento prodotto dalla stessa umanità. Fortunatamente è sempre più diffusa la sensibilità alle implicazioni etiche e alle conseguenze, a lungo raggio, delle scelte tecnologiche. Tuttavia né il pubblico né i politici si rendono conto di ciò che è necessario fare per mantenere la scienza in vita e rendere permanenti in futuro i suoi successi. In particolare, in Occidente gli iscritti alle facoltà scientifiche e a ingegneria calano. In Italia, poi, gli investimenti nella ricerca rimangono sempre a un terzo del livello previsto dall'Unione europea. Dedichiamo a ricerca e sviluppo l'un per cento del Pil, invece del tre».

La causa più profonda di questa noncuranza autolesionista?

«La responsabilità è della nostra classe politica, che non vede che in altri Paesi l'investimento in ricerca e nelle carriere dei giovani ricercatori ripaga abbondantemente dal punto di vista economico. La Finlandia è all'avanguardia da tempo ma ora anche la Spagna ci ha superato».

Senza parlare dei temi scientifici che sollevano questioni etiche.

«Innanzi tutto non possiamo farci illusioni: vi saranno sempre più possibilità, offerte dall'avanzare delle conoscenze, che comporteranno implicazioni etiche tanto gravi che gli uomini si divideranno in campi opposti. Per prepararsi, non bisogna lasciare le scelte ai soli scienziati; ma perché le opinioni dei non scienziati siano ascoltate è necessario che essi sappiano almeno di che cosa si parla. Prendiamo il caso delle cellule staminali adulte e di quelle germinali: hanno riempito le pagine dei giornali e le trasmissioni televisive, ma pochissimi saprebbero darne una definizione un minimo accurata.

La mia ‘fissazione’ è che oggi è necessario che cittadini e scienziati sottoscrivano una nuova clausola da aggiungere al tacito ‘patto’ su cui si fonda ogni società. Gli scienziati debbono aprire i loro laboratori e le loro idee alla discussione pubblica preventiva, quando sono in gioco temi etici che toccano le radici del nostro vivere comune; nello stesso tempo, i cittadini si devono impegnare ad acquisire e mantenere una conoscenza essenziale sui temi scientifici, in particolare su quelli che potrebbero riguardare aspetti etici».

Questo potrebbe giovare al reperimento di giovani di talento e di risorse finanziarie?

«Certamente porterebbe anche questo vantaggio. In una società più preparata sui temi scientifici sarà più facile trovare giovani dotati, pronti ad affrontare la difficoltà degli studi di scienza, e persuadere i politici (che agiscono solo se sollecitati) ad aumentare gli investimenti per la ricerca».

Quali sviluppi si delineano all' orizzonte della scienza fondamentale?

«I nuovi sistemi di rilevazione fisica delle attività cerebrali permetteranno di comprendere i meccanismi che sono alla base del pensiero. Nella biologia molecolare, dopo la genomica si comincia da affrontare la molto più difficile, e altrettanto essenziale, proteomica, cioè lo studio dell'insieme delle proteine delle cellule, e le catene di reazioni che vi avvengono. In antropologia, si scoprono sempre più spesso fossili di ominidi che ci permettono di comprendere la successione di eventi che ha portato alla comparsa dell'uomo. Quanto alla fisica astroparticellare, dobbiamo aspettarci che, con il Large Hadron Collider che entrerà in funzione al Cern di Ginevra nel 2007, sarà compresa la natura della massa ‘oscura’, che nell'universo è ben sei volte maggiore della massa visibile».

 

BOTSWANA 'Sono qui perché il mio popolo ama la sua terra' 11 Dic 2005

Il discorso tenuto da Roy Sesana durante l'assegnazione del Right Livelihood Award, noto come "Premio Nobel Alternativo".

Stoccolma, 9 dicembre 2005

Il mio nome è Roy Sesana. Sono un Boscimane Gana e vengo dal Kalahari, che oggi viene chiamato Botswana. Nella mia lingua, il mio nome è "Tobee" e la mia terra si chiama "T//amm". Nessun popolo ha mai vissuto in un luogo tanto quanto noi nel Kalahari.

Quando ero ragazzo, sono andato a lavorare in una miniera. Ho messo da parte le pelli e ho indossato degli abiti. Ma dopo un po', sono tornato. Questo mi avrebbe reso meno Boscimane degli altri? Non credo.

Sono un leader. Quand'ero piccolo non avevamo bisogno di leader e vivevamo bene. Ora, non possiamo farne a meno perché ci è stata rubata la nostra terra e dobbiamo combattere per sopravvivere. Ma questo non significa che io dica alla gente cosa fare, anzi, è proprio il contrario: sono loro a dirmi come devo agire per aiutarli.

Non so leggere. Mi avete chiesto di mettere per iscritto il mio discorso e, così, ho dovuto chiedere a degli amici di aiutarmi ma io non riesco a leggere le parole, mi dispiace! Però so leggere la terra e gli animali. Tutti i nostri bambini lo sanno fare. Se non fossero stati in grado di farlo, sarebbero morti molto tempo fa.

Conosco tante persone che sanno leggere le parole e molti, come me, che riescono a leggere solo la terra. Sono importanti entrambi. Noi non siamo primitivi o meno intelligenti; viviamo esattamente nel vostro stesso mondo moderno. Voglio dire che viviamo tutti sotto le stesse stelle... oh no, in realtà quelle sono diverse... nel Kalahari ce ne sono molte di più. Ma il sole e la luna, quelli sì, sono gli stessi.

Sono cresciuto facendo il cacciatore. Tutti i ragazzi e gli uomini del mio popolo erano cacciatori. Cacciare vuol dire cercare e parlare agli animali. Noi non rubiamo. Noi andiamo e chiediamo. Sistemiamo una trappola o camminiamo con un arco o una lancia. Possono occorrere anche molti giorni. Finalmente vedi le tracce di una antilope. Lei sa che tu se lì, lei sa che ti deve dare la sua forza. Ma si mette a correre e tu la devi inseguire. Correndo, diventi come lei. La corsa può durare ore e, alla fine, ci fermiamo stremati entrambi. Allora le parli e la guardi negli occhi. È così che lei capisce che ti deve dare la sua energia, perché i tuoi bambini possano sopravvivere.

 

Quando sono andato a caccia per la prima volta, non mi hanno permesso di mangiare. Gli adulti hanno bruciato alcuni pezzi della gazzella insieme a delle radici, e hanno cosparso il mio corpo con le ceneri. È così che ho imparato. Non è lo stesso modo di imparare che avete voi, ma funziona.

L'allevatore dice di essere più progredito dei cacciatori primitivi ma io non gli credo. Le sue greggi non danno più cibo delle nostre. L'antilope non è nostra schiava, non è costretta a portare dei campanelli al collo e può correre più veloce delle mucche, che sono pigre. Noi e la gazzella corriamo nella vita insieme.

Quando indosso le sue corna, l'antilope mi aiuta a parlare con i miei antenati, e loro aiutano me. Gli antenati sono molto importanti: non saremmo riusciti a sopravvivere senza di loro! Ognuno di noi lo sa, in fondo al suo cuore. Ma alcuni lo stanno dimenticando. Ci sarebbe qualcuno di noi vivo, oggi, se non ci fossero stati i nostri antenati? Io non credo.

Mi hanno insegnato a fare il guaritore. Devi sapere leggere le piante e la sabbia. Devi scavare le radici e metterti in forma. E devi lasciare da parte qualche radice per il futuro, perché un giorno i tuoi nipoti le possano trovare e mangiare. Impari quello che la terra ti insegna.

Quando un anziano muore, noi lo cremiamo e lui diventa un nostro antenato. Quando c'è una malattia, noi danziamo e parliamo con loro. Loro parlano attraverso il mio sangue. Allora io tocco la persona malata, trovo la malattia e la curo.

Noi siamo gli antenati dei figli dei nostri nipoti. Noi ci prendiamo cura di loro, esattamente come i nostri antenati si prendono cura di noi. Noi non siamo qui per noi stessi. Noi siamo qui gli uni per gli altri, e per i figli dei nostri nipoti.

Perché io sono qui? Perché il mio popolo ama la sua terra. Perché senza la nostra terra stiamo morendo. Molti anni fa, il presidente del Botswana disse che avremmo potuto vivere sulle nostre terre ancestrali per sempre. Non c'era mai stato bisogno che qualcuno ce lo dicesse. È naturale che possiamo vivere là dove Dio ci ha creato! Ma il presidente successivo ha detto che dobbiamo andarcene e ha cominciato a cacciarci via.

Ci disse che dovevamo andarcene a causa dei diamanti. E poi disse che cacciavamo troppi animali; ma questo non è vero. Dicono tante cose che non sono vere. Hanno anche detto che dovevamo andarcene perché il governo potesse svilupparci. Il presidente dice che se non cambieremo, moriremo come il Dodo. Non sapevo cosa fosse il Dodo. E allora mi sono messo a fare ricerche. Era un uccello, ed è stato sterminato dai coloni. Il presidente aveva ragione. Cacciandoci via dalla nostra terra, loro ci stanno uccidendo. Ci hanno torturato e sparato addosso. Io sono anche stato arrestato e picchiato.

Grazie per questo premio. È un riconoscimento mondiale della nostra lotta e porterà la nostra voce in tutto il mondo. Quando ho saputo di aver vinto, ero appena uscito di prigione. Dicono che sono un criminale, ma oggi sono qui, in piedi davanti a voi.

Mi chiedo che sviluppo sia mai quello che fa vivere la tua gente meno di quanto vivesse prima... Stiamo prendendo l'HIV/AIDS. I nostri bambini non vogliono andare a scuola perché là vengono picchiati. Alcuni si stanno dando alla prostituzione. Non gli è permesso cacciare, e allora si picchiano perché si annoiano e bevono. Alcuni hanno cominciato a suicidarsi. Non si è mai vista una cosa del genere prima! Fa male raccontare queste cose. È questo lo sviluppo?

Noi non siamo primitivi. Noi viviamo in modo diverso da voi, ma non viviamo esattamente come vivevano i nostri nonni, e la stessa cosa vale per voi. Noi amiamo i nostri bambini. E questa è una cosa che ci accomuna a tutti gli altri uomini.

Dobbiamo fermare il governo, dobbiamo impedirgli di rubare la nostra terra; senza di essa, noi moriremo.

Se qualcuno ha letto tanti libri e crede che siamo primitivi perché noi non ne abbiamo letto nemmeno uno, allora dovrebbe buttare via quei libri e cercarne uno che dica che siamo tutti fratelli e sorelle davanti a Dio, e che abbiamo tutti lo stesso diritto di vivere.

Questo è tutto. Grazie.

Roy Sesana

First People of the Kalahari, Botswana

 

 

Shalom, un dono di Dio

Card. Carlo Maria Martini da Il Nostro Tempo 27 giugno 2004

Il tema che mi è stato affidato, quello della pace, dello shalom, mi sgomenta per la sua vastità teologica e spirituale. E’ un tema immenso, denso di significati. Basta pensare ai vari significati che la parola shalom ha nella Bibbia ebraica: prosperità (anche fisica), buona salute, benessere, benevolenza, felicità, pace come sintesi di tutte queste cose. Anche se è semplificatorio, tuttavia può essere interessante fare un riferimento alle diversità etimologiche della parola pace nelle varie lingue antiche. Sembra che in greco eirene designasse soprattutto l'assenza di guerra, mentre il latino pax è lo stare ai patti, l'osservare i trattati; shalom, infine, è la pienezza dei beni, la positività senza limiti. Questo ci fa vedere l'immensità del tema, un tema senza fine ma anche molto logorato perché oggi tutti parlano di pace, tutti vogliono la pace, tutti manifestano per la pace. Ciascuno però a suo modo e possibilmente senza pagarne il prezzo. È un tema che per qualche tempo si vorrebbe persino sospendere dal vocabolario, proprio perché rischia di logorarsi, di inflazionarsi. Io mi limiterò a suggerire qualche seme di riflessione, che sento in modo particolare vivendo in questo Paese, a partire dalle situazioni con le quali sono in contatto.

Propongo quindi alcuni brevi pensiert sullo shalom. Anzitutto, una cosa che a me pare ovvia, ma che spesso si dimentica: occorre distinguere tra la pace mondo - anche in senso buono, pace sociale e politiica - e la pace di Gesù. Gesù nel Vangelo di Giovanni (cap. 14) dice: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace, non come la dà il mondo». C'e' una distinzione e bisogna accettarla. Altre volte il Nuovo Testamento ritorna su questa distinzione, per esempio nella seconda lettera a Timoteo (cap. 3): «Il Dio della pace vi dia egli stesso la pace sempre e in ogni modo» e questa non è la pace del mondo, la quale non è certamente «sempre e in ogni modo», ma è combattuta e continuamente da rifare. Quindi la pace dono di Dio è qualcosa di molto più grande della pace del mondo. E come dice San Paolo ai Filippesi, questa pace di Dio ‘sorpassa ogni intelligenza’, mentre la pace del mondo è a portata dell'intelligenza umana. Quella sorpassa ogni intelligenza ed è quindi dono di Dio, che deve custodire i nostri cuori e i nostri pensieri in Cristo Gesù. Dunque questa pace è distinta dalla pace del mondo, è dono di Dio, è frutto della preghiera e può essere data anche in circostanze totalmente avverse. Mi ha colpito molto il colloquio con un giovane padre di famiglia palestinese, che mi diceva:

«Se la pace non c'è dentro di noi, tutto il resto non conta». Che ci sia la pace nei cuori è dono del Signore. Dobbiamo anzitutto chiederla.

Tuttavia, tra la pace di Dio, la pace del cuore e la pace di questo mondo vi sono molteplici relazioni. La pace del cuore è in rapporto per così dire "genetico" con la pace del mondo, con la pace sociale e politica, perché la pace del cuore non può che esprimersi nei rapporti sociali, di giustizia, di accoglienza. E ci sono rapporti che chiamerei anche di tipo escatologico perché la pace politica, nel suo senso più nobile, tende all'unità del genere umano, a creare le condizioni per una pace universale, definitiva, quindi in qualche maniera rimane analoga e tende verso la pace piena che è dono di Dio. Il Concilio Vaticano II ha una frase molto efficace a questo proposito: «La pace terrene è immagine ed effetto della pace di Cristo che promana da Dio». Innanzitutto, dunque, c'è la pace di Cristo che promana da Dio, che però a sua immagine promuove una pace terrena, c'è perciò una responsabilità delle Chiese, non solo a livello di assistenza e di carità, ma soprattutto a livello di promozione del dono interiore.

La terza riflessione può apparire un po' pessimistica. La pace di questo mondo, che pure è così desiderabile, e per la quale ci impegniamo, parte da un contesto sempre un po' ristretto. Istintivamente, anche se non esplicitamente, ha dei confini. È pace e sicurezza per la mia famiglia, per il mio clan, per il mio popolo, per il mio gruppo, per la mia nazione, e solo con fatica allarga i suoi orizzonti. Vorrei citare una frase di Primo Levi, tratta dal libro ‘Se questo è un uomo’ che pessimisticamente, ma realisticamente, dice così: "A molti individui o popoli può accadere di ritenere più o meno consapevolmente che ogni

straniero è nemico. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente. Si manifesta solamente in atti saltuari e incoordinati e non sta all'origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora al termine della catena sta il lager. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo". Dunque dobbiamo tener conto di questa minaccia che è dentro il nostro cuore. La pace di questo mondo implicitamente ha dei confini, e solo con fatica vengono superati.

E’ invece la pace di Dio che non ha confini. Visitando Betlemme sentirete risuonare la parola "pace in terra agli uomini che Dio ama": questa è la pace che non ha confini. E anche annunciata qui a Gerusalemme, come ci dice Giovanni nel suo Vangelo al capitolo 20: «Gesù si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi». Ecco, questa è pace senza confini. E’ la pace che non ha alcuna remora, che non ha alcuna chiusura.

Un'altra riflessione. La pace è un rischio. La pace si paga. Ho sentito fare questa affermazione da qualche persona che è stata molti anni in questo Paese venendo da un altro continente: «Qui tutti vogliono la pace, però nessuno vuole pagame il prezzo». E il brano del Vangelo secondo Matteo è drammaticamente incisivo per farci capire il prezzo della pace: «Se uno ti percuote la guancia destra, porgigli anche l'altra; e a chi ti vuole chiamare in giudizio per la tunica, tu lascia anche il mantello». Sono parole che si dicono, si leggono, ma poi la vita le smentisce. Perché sono un intervento di Dio nella storta umana. Eppure hanno anche una ragione umana e civile. Ciò che ho trovato di più bello su questo tema è il messaggio di Giovanni Paolo II per la Giornata mondiale della pace del 2002, dal titolo che già spiega bene il tema: «Non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono». Questo documento mostra molto chiaramente che il perdono ha anche un valore civile e politico. E il rinunciare a qualcosa a cui si avrebbe diritto teoricamente ha anche un valore civile e politico. Finché non si arriva a questo, ma si vuole a tutti i costi ciò che compete, ciò che è di proprio diritto, e si fa semplicemente l'elenco delle proprie ragioni, non si arriva alla pace, perché non si vuole pagare niente. La pace invece ha un costo, richiede un compromesso anche nel senso di lasciar cadere alcuni diritti rivendicati. È chiaro che poi saranno le trattative che dovranno far vedere quali possono cadere. Però se si parte con la sola idea che bisogna avere la totalità dei propri diritti, non si arriva umanamente alla pace. E questo è un punto che sento molto e credo che la esperienza quotidiana continuamente lo riconfermi.

Il sesto pensiero che vi lascio è che la pace, in un mondo segnato dal peccato, suppone costante volontà di perdono, questo anche nelle famiglie, all'interno delle comunità, delle Chiese tra loro, e poi ancora più nel contesto civile. E uno dei punti sui quali ho molto insistito nel mio ministero a Milano è che il perdono ha anche un rilievo nel diritto penale. Tutto ciò che riguarda la pena, il carcere, la difesa, i crimini, la punizione, non può essere gestito sulla sola e pura giustizia dei codici, ma richiede anche questo aspetto.

Anche le nazioni che sono riuscite a superare situazioni drammatiche di divisione, per esempio il Sud Africa e il Perù, si fondavano non solo sulla verità e sulla giustizia, ma anche sulla riconciliazione. Penso in questo momento a tutti i carcerati che ho incontrato in questi anni a Milano. Ho sempre detto loro che il nostro sistema penale è da riformare, con questa sua insistenza quasi unica sulle carceri; va superato lasciandoci ispirare anche da pagine evangeliche che possono apparire fuori dal mondo ma che in realtà incidono molto nella carne di una umanità peccatrice.

Un settimo pensiero riguarda i conflitti. Essi sono sempre il risultato di passioni umane. Lo dice chiaramente la lettera di Giacomo in un testo molto esplicito: «Da che cosa derivano le liti che sono in mezzo a noi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? Bramate e non riuscite a possedere e uccidete. Invidiate e non riuscite ad ottenere. Combattete e fate guerre». Senza una lotta contro le passioni umane, contro l'idolo della potenza e del successo, della superiorità sull'altro di ogni tipo, senza una lotta contro tutto questo non c'è un cammino reale di pace. E queste cose, come diceva già Primo Levi nel brano che ho citato, sono dentro di noi. Quindi mentre portiamo dei messaggi di pace agli altri siamo invitati ad esaminarci dentro, perché anche dentro di noi ci sono i germi della guerra.

Infine come ultimo pensiero vorrei esprimere l'importanza del tema della preghiera di intercessione per la pace. Se la pace è dono di Dio, se da questo dono può nascere un processo di pacificazione, allora occorre una preghiera di intercessione che si unisca alla preghiera di Gesù, quella di cui parla Romani 8 ed Ebrei al capitolo 7, Gesù che sempre intercede per noi. E quindi la nostra preghiera raggiunge in qualche modo quella di Gesù, perché la nostra preghiera di intercessione è molto povera. Io cerco di vivere qui la preghiera di intercessione, anzi gli ho dato il primo posto, la priorità su tutto ciò che intendo fare qui a Gerusalemme, però proprio per questo sento la povertà estrema di questa preghiera. Ora sento che questa goccia di preghiera si unisce al fiume che nasce da tutte le Chiese, da tutte le comunità cristiane, da tutte le comunità che pregano, da tutte le preghiere anche fuori dall'ambito cristiano. E tutte queste preghiere costituiscono un fiume, un mare. E questo mare è tutto riassunto nella preghiera di intercessione di Gesù al Padre e quindi è una preghiera efficace.

Il vostro cammino sarà dunque accompagnato dalla preghiera e sarà questa la carta decisiva da giocare. Dobbiamo giocare tutte le altre carte, ciascuno secondo le sue responsabilità, ma questa carta è quella decisiva, quella che unisce il cielo e la terra, quella che fa sì che la pace di Dio risplenda nei nostri cuori e si diffonda come per contagio e possa aiutare molti. Stando qui a Gerusalemme si può conoscere un ricchissimo sottobosco positivo di rapporti di dialogo, di buona volontà di mutuo servizio, di accoglienza del diverso, di perdono, che arricchisce questa realtà. Purtroppo non sempre è una voce che viene raccolta dai mass media, non sempre viene ascoltata dai politici.

Ma certamente, quanto più ci saranno persone che cercano con sincerità la pace, l'accoglienza, il rispetto dell'altro, il dialogo, il perdono, la riconciliazione, quanto più tutto questo un giorno inciderà anche a livello politico, si avrà un segno della pace fondamentale che è nel cuore di ciascuno di noi e che auguro a tutti voi come frutto di questo cammino.

Card. Carlo Maria Martini

(trascrizione non rivista dall'autore)

 

INTERVISTA
Il teologo che ha ispirato anche Schönborn, fa il punto sulla battaglia tra evoluzionisti e creazionisti: «Due eccessi»

Stanley Jaki: la disfida dei darwinisti

«Il meccanismo descritto da Darwin non dà prove su come le specie si evolvono le une dalle altre» «Ma quanti insistono a prendere la Bibbia come testo scientifico rischiano una deriva nel fondamentalismo. I cattolici stiano attenti»

di Lorenzo Fazzini. Avvenire 22 maggio 2007

Non contro Darwin, ma in opposizione al darwinismo. Stando ben attenti a non fare del cosiddetto creazionismo una nuova ideologia, pericolosa per la fede. Stanley L. Jaki, docente alla Seton Hall University di South Orange, nel New Jersey, e noto studioso del rapporto tra teologia e scienza, non ha dubbi: «Sia darwinisti che creazionisti hanno posizioni rispettivamente incomplete». Di passaggio nei giorni scorsi a Verona per una conferenza - nel capoluogo scaligero ha sede Fede & Cultura, diventato il nuovo editore del sacerdote magiaro-americano (ultimo lavoro pubblicato, Cristo e la scienza) - Stanley L. Jaki affronta l'attualissimo tema delle relazioni tra la comprensione biblica della Creazione e la teoria evoluzionistica di Charles Darwin.

Proprio a Jaki il cardinale di Vienna Cristoph Schönborn aveva dedicato alcuni importanti passaggi della sua recente prolusione tenuta al Marcianum di Venezia su «Fides-ratio-scientia: dove è situato attualmente il dibattito sull'evoluzionismo?». A Jaki - premio Templeton nel 1987 - Schönborn ha riconosciuto il merito di aver smascherato la pretesa anti-teologica di Darwin. Ma, attestato ciò - secondo il teologo benedettino - non bisogna fare generalizzazioni e rigettare interamente quanto proposto dal naturalista di Shrewsbury: «Lui stesso aveva ammesso di non aver mai osservato, in nessun caso, la trasformazione di una specie in un'altra. Tuttavia ha affermato che il meccanismo da lui proposto per spiegare il gran numero delle specie e la loro sequenza era corretto».

Di quale meccanismo parla?

«Quello dell'evoluzione, che si basa su due fattori: la differenza tra genitori e prole, che è ovvia, e l'impatto dell'ambiente fisico su tale differenza. Da Darwin in poi questo meccanismo è stato abbondantemente investigato, in parte grazie allo sviluppo della genetica, che permette di misurare in profondità queste differenze fino ad arrivare al livello molecolare».

Quali sono le indicazioni a favore dell'evoluzione?

«La distribuzione geografica dei viventi e dei fossili, la loro sequenza temporale, gli organi omologhi e lo sviluppo filogenetico. Ma tali affermazioni si basano sull'abilità mentale dell'uomo di fare generalizzazioni ed estrapolazioni: è per questo che la filosofia di stretta osservanza materialista - connessa con il darwinismo dal punto di vista ideologico - distrugge il valore dimostrativo della stessa teoria di Darwin».

ual è la relazione tra darwinismo e cristianesimo?

«Tra le basi della fede cristiana c'è la dottrina della creazione. L'affermazione di un un Creatore infinitamente potente e intelligente comporta anche l'idea che la sua creazione sia totalmente connessa e coerente. Tale principio, in altri termini, afferma cioè che il mondo materiale opera esclusivamente per cause secondarie. Anche nella Rivelazione biblica niente indica che Dio abbia creato le varie specie separatamente. Dal punto di vista della fede cristiana è dunque molto sospetto il fatto che per contemplare il mondo materiale, compresi gli organismi viventi, si debba assumere la posizione secondo cui un tale mondo non possa operare in modo autonomo».

A suo giudizio, da cosa è causato l'attrito che spesso esiste tra chi professa la fede cristiana e coloro che sostengono l'evoluzionismo?

«Molti teologi non hanno voluto comprendere che la Rivelazione ci fu non per spiegare come vanno i cieli, ma come si va in cielo. D'altro canto molti darwinisti non hanno ammesso che il meccanismo darwinista non dà prove concrete a proposito della trasformazione graduale da una specie a un'altra. In modo particolare, questi ultimi non hanno valorizzato l'aspetto metafisico delle indicazioni prima accennate. Dunque l'attrito è originato da un conflitto di posizioni rispettivamente incomplete».

Può aggiungere qualcosa sulla corrente «creazionista»?

«Nel corso della storia vi sono stati dei cristiani, in particolare i fondamentalisti, che non hanno riconosciuto che la Bibbia non è un testo scientifico. Il cosiddetto creazionismo è una forma nascosta di fondamentalismo, a proposito del quale i cattolici devono stare in guardia. I creazionisti e i propugnatori dell'"Intelligent Design" sorvolano sul fatto che mentre una forma può essere misurata, un disegno implica un'intenzionalità che non può essere quantificata. E d'altro canto gli evoluzionisti non accettano che non c'è una giustificazione per rendere una teoria scientifica pari a un'ideologia».

Quali altre possibilità esistono per spiegare la sequenza degli esseri viventi?

«Vi è ad esempio il lamarckismo [dal nome di Jean Baptiste Lamarck, scienziato francese vissuto tra Sette e Ottocento, ndr], cioè la teoria secondo cui le caratteristiche acquisite possono essere trasmesse alla prole: ma essa non funziona. Un'altra spiegazione è il vitalismo e la sua variante dell'élan vital proposto da Henri Bergson; una nuova ipotesi è la supposizione che la materia contenga una tendenza interiore verso il punto-Omega. Ma tutte queste tendenze, non potendo esser soggette a misurazione, non posso essere proposte come teorie scientifiche».

Von Geusau: Il Vangelo, decalogo della democrazia di Pierluigi Fornari Avvenire 08. 12. 05

Con Cristo la libertà, i diritti umani e l'obiezione di coscienza irruppero nella storia

Nonno di ventitré nipoti, padre di sei figli, il settantunenne Frans Alting von Geusau, in un'Olanda che qualche volta è sembrata smarrire le sue radici, si conforta al pensiero che, a Dio piacendo, la prossima Pentecoste celebrerà il suo quarantacinquesimo anniversario di matrimonio con un pellegrinaggio al Soglio di Pietro, insieme a tutta la famiglia, nipoti compresi. È un'autorità a livello internazionale nelle scienze giuridiche (professore emerito di Diritto internazionale e cooperazione occidentale nelle università di Leiden e Tilbur), ma non considera un'attività secondaria la sua militanza nell'«aiuto alla Chiesa che soffre». Più volte è stato invitato da Giovanni Paolo II nei suoi cenacoli intellettuali estivi a Castel Gandolfo. Adesso è in Italia per un tour di lezioni e conferenze, prima ad un convegno all'università di Bari, e poi al corso di fondamenti del diritto europeo della Lumsa. Ieri ha tenuto una lezione all'Università europea di Roma sul concetto di laicità.

Professor von Geusau, lei sostiene che la separazione tra missione spirituale della Chiesa e potere temporale dello Stato non l'ha inventata l'illuminismo, ma Gesù Cristo. Perché?

«Si può far risalire all'insegnamento di Gesù, riportato in tre dei Vangeli. Ed è un esempio di saggezza divina. Penso in particolare all'affermazione fondamentale per lo sviluppo della nostra società: "Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio". Questa separazione è condizione indispensabile per lo sviluppo di una vera demo

crazia. Del resto quando si parla di illuminismo non si può fare di ogni erba un fascio. Solo l'illuminismo francese è stato anticristiano. Così non è accaduto per l'illuminismo inglese e per quello americano, che anzi si rifacevano esplicitamente al cristianesimo. È un dato spesso trascurato, ma che ha avuto conseguenze importanti nello sviluppo dei sistemi giuridici occidentali. Perché enorme è stato l'impatto della rivoluzione americana nello sviluppo della nostra società, per ciò che riguarda le relazioni tra Stato e Chiesa e la libertà religiosa. È una linea di pensiero che ancora oggi fa sentire il suo peso. Ad esempio la dichiarazione sulla liberta religiosa del Concilio Vaticano II (Dignitatis humanae) è stata preparata da un gesuita americano».

Lei ha detto che la possibilità di "una disobbedienza civile" è un portato del cristianesimo dei primi secoli...

«Infatti il cristianesimo è l'unico credo che al suo esordio si pone in contrasto con l'establishment politico. È da allora che si è scoperta l'importanza di una "coscienza attiva" e non succube del potere. Così ha contribuito a umanizzare il diritto. Degli esempi? Ha riportato agli uomini la monogamia, ha imposto dei limiti allo strapotere del padre sui figli e del marito sulla moglie. Pensiamo, poi, all'importanza del pensiero cristiano sul tema della guerra giusta».

E gli apporti più recenti?

«È dal Vangelo che Robert Schumann ha tratto l'ispirazione per promuovere, dopo la lacerazione della seconda guerra mondiale, la riconciliazione tra Germania e Francia, base dell'unificazione europea. Pensiamo, poi, alla società civile polacca che si è contrapposta al comunismo in nome della dignità umana. Una rivoluzione che ha portato al crollo di quel totalitarismo e ha fatto sì che l'Europa potesse essere riunita pacificamente».

Ma la Francia, con la sua retorica laicista, sembra piuttosto sorda a questi richiami.

«Il concetto francese di laicité de l'Etat è un'ideologia vicina alle idee di J. J. Rousseau sulla religione dello Stato ma lontana della realtà della società, anche nella stessa Francia. Infatti, nonostante questa concezione giuridica tenda a separare rigidamente la Chiesa e lo Stato, queste due realtà finiscono inevitabilmente per collaborare in alcuni campi molto importanti come la protezione della famiglia e l'educazione delle nuove generazioni. Su questi temi, lo Stato non può mai essere neutrale, come invece l'ideologia laicista pretenderebbe».

Ma la recente legge che vieta di portare simboli religosi sembra andare in un'altra direzione.

«È un esempio di un approccio che nella vita reale non può funzionare. E' una legge chiaramente discriminante. E' pensata contro il velo islamico, ma per la sua formulazione generale può applicarsi anche alla croce portata dai vescovi o ad altri simboli che non costituiscono nessuna violazione delle libertà altrui.

Lei ha criticato la mancata menzione delle radici cristiane nella Costituzione europea.

«Non sono il solo. Lo ha fatto anche un giurista di vaglia, come il mio amico Joseph Weiler, che pur essendo di religione ebraica, con il suo bel libro Un'Europa cristiana, ha evidenziato l'assurdità di tale omissione nel Preambolo della Costituzione. Adesso dobbiamo constatare, comunque, che essa è stata rigettata dai popoli francesi e olandesi con conseguenze irreversibili».

Di chi la colpa?

«Lo scandalo non è tanto rappresentato dal fatto che alcuni francesi laicisti hanno imposto questa omissione, ma che noi cristiani non siamo stati capaci di reagire con efficacia. Romano Guardini ha scritto nel 1946: "un'Europa che non è più cristiana non è piu di alcun interesse per il mondo". E in effetti o l'Europa è cristiana o non sarà».

C'è un legame tra le ideologie del male del XX secolo e la moderna dittatura del relativismo?

«È il problema affrontato da Giovanni Paolo II nel libro Memoria e identità. Nazismo, comunismo e relativismo risalgono a un processo che è iniziato con Cartesio. Se l'uomo rinchiude tutta la realtà in ciò che può pensare (Il Cogito ergo sum '), pone le premesse per qualsiasi manipolazione dei fatti. La realtà perde, in questa prospettiva, la sua consistenza oggettiva e tutto può accadere».

Sorella Buona Azione

Intervista a Patricia Wolf , un manager in abito da suora

di Paolo Lambruschi

Immaginate un consiglio di amministrazione di una multinazionale nordamericana. Di quelle che hanno un fatturato delle dimensioni di uno stato medio piccolo, che decidono con le loro strategie il destino di intere comunità del Nord e del Sud del pianeta o il futuro dell'ambiente.

Immaginate una suora che entra, si siede al tavolo e parla. I manager l'ascoltano attentamente. Gli sta dicendo che, se l'azienda continua ad operare su una linea contraria ai principi morali cristiani, la sua congregazione sarà costretta a vendere la propria partecipazione azionaria e ad acquistare titoli della concorrenza. In genere i manager trovano convincenti questi argomenti. Questa pratica negli Usa si chiama shareholder activism azionariato attivista.

È una storia cominciata nel 1971, quando un gruppo di pastori protestanti statunitensi si chiese se i loro fondi pensione traevano benefici dalla guerra in Vietnam e dal regime dell'apartheid in Sudafrica.

Attraverso il concilio nazionale delle chiese diedero vita all' Interfaith center on corporate responsibility (Iccr) per acquistare titoli e influire sulla condotta delle aziende.

Non lo sapevano, ma avevano fondato un movimento. Oggi Iccr è un’associazione di 275 investitori istituzionali religiosi, ogni anno i suoi membri promuovono oltre cento risoluzioni sui principali temi sociali e ambientali. Il valore del portafoglio complessivo degli associati è stimato in 110 miliardi di dollari, pari a circa 90 miliardi di euro.

Direttrice esecutiva di Iccr, che ha sede a New York, è una suora cattolica, sister Patricia Wolf.

Cos'è lo shareholder actlvism?

Voler legare i valori sociali alle scelte di investimento e poi agire su queste basi. I nostri membri utilizzano investimenti e altre risorse per lavorare per la pace, la giustizia economica e un ambiente sostenibile. Usiamo i mezzi che abbiamo a disposizione: la risoluzione dell'azionista e il rapporto diretto con la leadership aziendale. La prima non crea cambiamenti, ma è una piattaforma che stimola il management a incontrare gli azionisti attivi. E in quanto azionisti, abbiamo più forza in quanto "proprietari" della società.

Concretamente come agiscono i membri dell’lccr?

I nostri membri sono tutti investitori istituzionali.

Per poter agire devono possedere le azioni almeno per un anno. E’ necessario un investimento minimo di 1000 dollari. Normalmente, in quanto azionista, l'attivista dovrebbe scrivere alla società riguardo all'argomento e alle sue preoccupazioni. Se risponde, tentiamo di organizzare un incontro. Altrimenti utilizziamo la risoluzione dell'azionista, una lettera alla direzione aziedale alla quale la società può rispondere chiedendo un incontro. Gli incontri con la leadership aziendale occupano metà del nostro tempo.

È stato difficile coinvolgere le Istituzioni cattoliche nell'lccr?

No. I membri di fede cattolica cominciarono ad aderire all'Iccr nel 1973. Non avevano molto denaro, allora diversi ordini religiosi appartenenti alla stessa area geografica si misero insieme e formarono quella che viene chiamata una ‘coalizione’ e mandavano un membro a rappresentarli agli incontri dell'Iccr. Negli anni gli ordini religiosi femminili sono stati molto attivi, esattamente quanto quelli maschili lo sono stati molto poco. Alcuni hanno la casa madre in Italia, come i Cappuccini. Oggi il coinvolgimento cattolico nel l'Iccr è molto significativo, dando molto rilievo ad argomenti come gli standard globali del lavoro e l'accesso ai farmaci, in particolare quelli per Hiv-Aids e la malaria in Sudafrica.

Lei è la direttrice dell’Iccr. Quando e perché ha deciso di impegnarsi nell'azionariato attivo?

Sono entrata nell'Iccr nel 1977 su richiesta del mio ordine religioso, le Suore della misericordia. La mia comunità è molto impegnata sui temi della giustizia. Nel 1971 il documento del Sinodo mondiale dei vescovi cattolici "Giustizia nel mondo" diceva: «L'azione per conto della giustizia e la partecipazione alla trasformazione del mondo ci appare pienamente come una dimensione costitutiva della preghiera dello Spirito o, in altre parole,della missione della Chiesa per la redenzione della razza umana e la sua liberazione da ogni situazione di oppressione». Ho tenuto nel cuore questa dichiarazione e così hanno fatto le Suore della Misericordia. Siamo entrate in una delle coalizioni che le ho appena descritto. In seguito il mio ordine mi ha assegnata a questo servizio a tempo pieno. Il lavoro della responsabilità delle aziende è in trasformazione, ed è un modo di agire per ottenere giustizia. Ho fatto questo lavoro fino al 1984, quando mi è stata affidata una posizione di responsabilità all'interno del mio ordine. Allora non lo sapevo, ma avrei ricoperto una carica elettiva di responsabilità fino al 2000! Nel 2001 la poltrona di direttore esecutivo dell'Iccr restò vacante e fui invitata a candidarmi. Lo feci e venni eletta nel marzo 2001. Eccomi qua.

Ci sono storie e successi di cui lei va particolarmente orgogliosa?

Iccr resterà sempre legata al suo importante ruolo nel chiudere l'apartheid in Sudafrica indirizzando il ruolo delle grandi aziende contro la perpetuazione di questo sistema di segregazione razziale. Quest'anno sono particolarmente orgogliosa del lavoro svolto dai nostri membri nell'indirizzare le grandi aziende sul tema dell'accesso e della disponibilità di farmaci in Sudafrica, specialmente l'Hiv/Aids. Abbiamo chiesto ai manager: qual è l'impatto economico del morbo sulle operazioni della tua società e cosa stai facendo al riguardo? Penso che abbiamo focalizzato sullo stesso piano l'epidemia come crisi di immani proporzioni che chiede ad alta voce una risposta e come crisi che ha un impatto profondo sulle attività economiche della regione. Le grandi aziende ci hanno ascoltato. Coca Cola, con una mossa senza precedenti, ha appoggiato pubblicamente la nostra risoluzione che chiedeva maggiori aperture sul tema. E si è detta d'accordo a fare una relazione agli azionisti sui danni che l'epidemia ha arrecato ai suoi affari e la sua decisione ha generato pressioni su altre grosse aziende che l'hanno seguita a ruota. La nostra risoluzione ha ricevuto il 97% dei voti favorevoli degli azionisti.

Iccr è un'organizzazione ecumenica, quali valori comuni vi guidano nella scelta delle campagne?

Siamo guidati da 4 valori chiave: la fede, che stabilisce le priorità per l'azione; la giustizia, sfidando noi stessi e le grandi aziende alla responsabilità di corrette relazioni con tutto il creato; l'integrità, sforzandoci di essere credibili nella messa in pratica dei valori che sosteniamo; l'inclusione, perché la diversità è una forza quando ci riuniamo per lavorare insieme.

Oltre a questo, noi ci poniamo domande di verifica tipo: abbiamo scelto un tema di giustizia sociale importante? Abbiamo una politica che obbliga all'azione? Sarebbe irresponsabile non agire? Come possiamo indirizzare la condotta aziendale su un determinato tema?

Cosa ne pensa del profitto e del mercato?

Per noi il mercato non è il male in sé. Il suo obiettivo finale è il profitto. E questo spesso va a spese della parte più marginale della società. Per Iccr il fine della vita economica è la comunità. Noi misuriamo l'economia globale non solo per quel che produce, ma anche per il suo impatto ambientale e sociale e se protegge la dignità della persona. Da quando siamo all'interno del sistema economico, abbiamo la responsabilità di indirizzare e cambiare le strutture e le politiche aziendali secondo la prospettiva della giustizia.

Cosa potrebbero fare gli ordini religiosi con i loro patrimoni?

Potrebbero incontrare le grandi aziende e loro dirigenti utilizzando i metodi dell'Iccr. Potrebbero indirizzare la loro condotta in un modo socialmente responsabile e partecipare ad un incontro di azionisti come attivisti.

Provate adesso a immaginare cosa accadrebbe in un consiglio di amministrazione di una grande azienda italiana in cui entra una tipa come sister Pat Wolf.