Parabola del banchetto di Nozze (Mt 22,1-14)

 

“Gesù riprese a parlare loro con parabole…” in cui il Regno di Dio, per la sua ineffabilità, sfugge ad ogni definizione ed è pertanto accostabile solo attraverso la similitudine, qui espressa come il passaggio dall’onere del lavoro nella vigna della parabola precedente all’onore della festa al banchetto in questa.

Il Re “fa” la festa per le nozze del Figlio che sono immagine del connubio tra Gesù-sposo e la Chiesa-sposa. È interessante osservare il graduale cammino di intimità tra Dio ed il suo popolo, dapprima espresso dall’ “amicizia” con Abramo, poi dalla “conoscenza” con Mosè, in seguito dall’ “innamoramento” con i Profeti ed ora dal matrimonio con Gesù, fino all’ultima espressione della Bibbia, nella finale del Libro dell’Apocalisse, in cui la sposa attende lo sposo con il maranathà (vieni Signore) per la consumazione delle nozze eterne.

 

Il Re che “manda” è espresso con il verbo greco ‘apostello, da cui deriva il sostantivo “apostolo” che significa “inviato”. La chiamata è espressa invece con il verbo kaleo, che compone il sostantivo ekklesia, ed indica dei “chiamati fuori”, come lo sono i cristiani, scelti tra gli uomini, direttamente dalla voce di Dio.

Nella parabola essi sono gli amici del Re, i dignitari di corte e i consiglieri che rappresentano l’antico popolo di Israele la cui defezione caratterizza la parabola, rompendo la dialettica tra chiamata di Dio e risposta del popolo.  

L’offesa arrecata al Re è grave ma questi non desiste dalle sue intenzioni ed insiste convocando altri invitati che rappresentano i pagani i quali, accogliendo l’invito e convertendosi, costituiranno un’inquietante provocazione per i giudei che rifiutano l’invito, rifiutando la messianicità di Gesù.

Per i “lontani” il Re fa uccidere gli animali ingrassati e come il vitello grasso nella parabola del Padre Misericordioso, rappresentano l’abbondanza della grazia di Dio.

 

I primi invitati alternano atteggiamenti di indifferenza a reazioni violente, fino all’uccisione dei servi del Re. Matteo destina il suo vangelo ai cristiani provenienti dal Giudaismo ed intende qui ricordare il triste martirio dei profeti operato dall’antico Israele i quali accusavano il popolo di “affari” loschi, lontani dalla Legge, dediti alla ricchezza che ostacola la conversione. Il paradosso è tale da rilevare in quei giudei il passaggio da eletti a persecutori.  

Il Re reagisce a sua volta con l’atteggiamento tipico dell’invasore, di triste memoria dai tempi della deportazione in Assiria e Babilonia, permessa da Dio per la purificazione del suo popolo.

I primi invitati “non ne erano degni”, sentenza lapidaria che decreta la fine della fase israelitica ed il proseguimento della “festa” con il “nuovo Israele”, costituito da “quelli che troverete”, non più nelle lussuose dimore dei benestanti amici del re ma “ai crocicchi delle strade”, in cui abitano “cattivi e buoni” che saranno poi selezionati, come raccontano le parabole della rete e della zizzania.  

 

Durante la festa il Re entra nella sala per “esaminare” gli invitati, come esprime il verbo greco theaomai e all’invitato colto senza abito nuziale, si rivolge con l’ironia di “amico”, la stessa con cui Gesù chiamerà Giuda al momento del tradimento.

L’abito nuziale è l’abitus del comportamento abituale secondo gli insegnamenti del Vangelo ed è il criterio di giudizio per l’ammissione nella sala del Re. L’invitato indegno ammutolisce davanti al rimprovero  come chi non ha parole davanti ad un’osservazione meritata. È l’immagine del giudizio escatologico di coloro che ammutoliranno davanti all’accusa dei peccati che li renderanno indegni di accedere alla casa del Padre.

La parabola si chiude con i servi non più chiamati douloi (schiavi) ma diakonoi (inservienti) i quali hanno il compito di immobilizzare l’indegno, nell’immagine della legatura di mani e piedi, impedendo così l’azione del male e condannandolo al dolore della lontananza da Dio. Questi rappresenta il terzo tipo di invitati in cui devono riconoscersi i cristiani incoerenti.

Saranno molti i convocati (kletoi) ma pochi i scelti (ekletoi). È la glossa finale che costituisce il rimprovero per coloro che rifiutano Gesù e l’esortazione ai cristiani per la dignità della loro appartenenza alla Ekklesia.   

 

di Ferrario Fabio