Trovi qui testi impegnativi. Non spaventarti, ma in effetti... io sono impegnativo!

La deposizione del corpo di Gesù

Dalle rivelazioni alla Emmerick:

la deposizione del corpo di Gesù

ANNA KATHARINA EMMERICK nacque nel 1774 a Flamske, presso Münster, in Germania, e fin da giovane manifestò una particolare devozione alla passione del Signore. Entrata nel 1802 fra le agostiniane di Agnetenberg, subì non pochi contrasti a motivo degli speciali doni soprannaturali di cui era favorita. Quando, nel 1811, le leggi napoleoniche soppressero il convento, venne accolta in una casa privata a Dülmen. Nel 1812 ricevette le stimmate ai piedi e alle mani. Costretta sempre a letto dalle malattie e da una debolezza continua, conobbe nel 1818 Clemens Brentano (grande scrittore e poeta tedesco) che prese a registrare le visioni-contemplazioni della passione del Signore, di cui la Emmerick, in mezzo a gravi sofferenze, fu a lungo favorita. Tra l'altro, rese noti alcuni particolari geografici e storici non raggiungibili dalla scienza, come ad es. la presunta casa di Maria a Efeso, che fu ritrovata dagli archeologi grazie alle notizie fornite da lei. Morì il 9 febbraio 1824.

Il venerdì santo 30 marzo 1820, mentre suor Anna Katharina Emmerick contemplava la deposizione di Gesù dalla croce, svenne improvvisamente, al punto di sembrare morta. Quando si riebbe, nonostante le sue sofferenze non fossero cessate, così proferì: «Mentre contemplavo il corpo di Gesù steso sulle ginocchia della Madre dissi a me stessa: Guarda come è forte Maria, non ha nemmeno un istante di debolezza!» (Clemens Brentano).

di Anna Katharina Emmerick (nella trascrizione di Clemens Brentano)

[...] Vidi la Vergine seduta al suolo sopra una coperta, col dorso appoggiato su alcuni mantelli arrotolati. Aveva il ginocchio destro un poco rialzato, sul quale riposava il santo capo di Gesù, il cui corpo era steso sul sudario. La santa Madre teneva per l'ultima volta tra le braccia le sacre spoglie del Figlio amatissimo, al quale, durante il lungo martirio, non aveva potuto dare alcuna testimonianza d'amore. Ella baciava e adorava quel corpo orribilmente sfigurato e insanguinato, contemplandone le profonde piaghe e i terribili patimenti, mentre Maria Maddalena abbandonava delicatamente il volto sui suoi sacratissimi piedi.

Nel contempo gli uomini si erano ritirati in un piccolo avvallamento a sud-ovest del Calvario per preparare gli oggetti necessari all'imbalsamazione. Cassio e i soldati convertiti erano rimasti a rispettosa distanza in attesa di prestare aiuto. Giovanni si prodigava tra il gruppo degli uomini e quello delle donne, le quali porgevano a questi primi i vasi, le spugne, i lini, gli unguenti, gli aromi e tutto quanto serviva. Fra le donne vidi Maria di Cleofa, Salomè e Veronica. Maria Maddalena stava sempre accanto a Gesù. Maria Heli, seduta, contemplava tutta la scena. Accanto al gruppo delle discepole vidi degli otri e un vaso pieno d'acqua collocato sopra un fuoco a carbone.

Nel suo indicibile dolore la santa Vergine conservava una magnifica prontezza d'animo. Ella non poteva lasciare il corpo di suo Figlio in quel1'orribile stato, perciò incominciò a cancellare le tracce degli oltraggi che aveva sofferti. Con estrema delicatezza gli tolse la corona di spine, aprendola dal lato posteriore, quindi posò la corona vicino ai chiodi.

Servendosi di una specie di tenaglia rotonda, tolse le spine che erano rimaste nel capo del Signore e le mostrò mestamente alle pie donne e ai discepoli. Anche queste vennero raccolte vicino ai chiodi e alla corona; alcune furono conservate a parte. Vidi la Vergine lavare il capo e il volto insanguinato del Signore, passando la spugna bagnata sui suoi capelli per toglierne il sangue raggrumato. Via via che ella detergeva il santo corpo del Figlio, contemplandone le numerose piaghe, aumentavano la compassione e la tenerezza per le immani sofferenze che egli aveva subito. La santa Vergine gli lavò le piaghe del capo, il sangue che riempiva gli occhi, le narici e le orecchie, con una spugna e un piccolo lino steso sulle dita della mano destra. Allo stesso modo gli pulì la bocca semiaperta, la lingua, i denti e le labbra.

Poi la santa Madre suddivise la capigliatura di suo Figlio in tre parti, una per ogni tempia e l'altra dietro il capo. Quando ebbe sgrovigliati i capelli davanti e li ebbe resi lucidi e lisci, li fece passare dietro le orecchie. Una volta ripulito il capo, dopo aver baciato il Figlio sulle guance, passò infine a ripulire il collo, le spalle, il petto, il dorso, le braccia e le sue tenere mani piagate.

La Madonna addolorata lavò e ripulì, ad una ad una, tutte le numerose e orribili piaghe. Allora solamente le fu possibile vedere in tutti i minimi particolari gli spaventosi martiri subiti dal Figlio. Le ossa del petto e le giunture delle membra erano tutte slogate e non si potevano piegare. La spalla conservava la spaventosa ferita della croce e la parte superiore del santissimo corpo era coperta dalle lividure e dalle ferite dello staffile.

Al lato sinistro del petto si trovava una piccola piaga, da cui era uscita la punta della lancia di Cassio; al lato destro si apriva la larga ferita dov'era entrata la lancia che aveva attraversato il cuore da parte a parte.

Maria Maddalena, in ginocchio, aiutava la santa Madre, senza lasciare i piedi del Signore. Li bagnava per l'ultima volta con le sue lacrime, li asciugava con la sua capigliatura e vi appoggiava il suo pallido volto, con il quale, per rispetto, non osava toccare quello di Gesù. Il santissimo corpo, che aveva assunto un colore bianco bluastro, perché dissanguato al suo interno, riposava sulle ginocchia di Maria, la quale, lavati il capo, il petto e i piedi del Piglio, li coprì con un velo e iniziò a passare il balsamo su tutte le sante piaghe. La pie donne, in ginocchio, davanti a lei, le passavano di volta in volta una scatola, dove ella prendeva gli unguenti e i preziosi balsami con cui ungeva le ferite del Figlio.

Maria santissima gli unse anche i capelli, poi prese nella sua mano sinistra entrambe le mani di Gesù e le baciò con profondo rispetto, alla fine riempì con un unguento i larghi buchi prodotti dai chiodi, e lo stesso fece con la profonda piaga del costato.

L'acqua che era servita a lavare le ferite non veniva gettata, ma era raccolta solertemente in otri di cuoio in cui venivano spremute anche le spugne. Vidi Cassio e i soldati attingere acqua alla fontana di Gihon.

Quando la santa Vergine ebbe imbalsamato tutte le ferite, avvolse il sacro capo nei lini, ma senza coprire ancora il santo volto. Ella chiuse gli occhi semiaperti del Signore, lasciando riposare sopra la sua mano; poi gli chiuse anche la bocca, baciò il santo corpo e accostò il suo viso a quello del Figlio. Fu interrotta da Giovanni, che la pregò di separarsi dal corpo del Figlio perché il sabato era vicino e lo si doveva seppellire. Obbediente, ella abbracciò per l'ultima volta le sante spoglie e se ne distaccò con profonda commozione. Dopo averle tolte dal grembo materno, gli uomini portarono le sante spoglie nell'avvallamento del Golgota dove avevano preparato tutto il necessario per l'imbalsamazione. Lasciata di nuovo ai suoi dolori, Maria santissima, con il capo coperto, cadde svenuta tra le pie donne. Maria Maddalena, come se fosse stata derubata del suo amato Sposo, fece qualche passo avanti tenendo le braccia protese verso il corpo del Signore, poi ritornò vicino alla Vergine. Il corpo del Salvatore venne adagiato su un lino lavorato a maglia […]

La passione del Signore nelle visioni di Anna Katharina Emmerick

Il volume contiene il racconto della passione del Signore secondo le visioni della Emmerick per la penna dello scrittore Clemens Brentato: dal Cenacolo al Getsemani; la passione, morte e sepoltura; la risurrezione. I personaggi che vi appaiono sono vivi e realistici. L'umile monaca, mistica e stimmatizzata, fra 1'altro rese noti particolari geografici e storici che la scienza e l'archeologia riscontrarono attendibili.

Spiritualità - Maestri. Serie 226D24,

 

Se Dio stravolge le vie degli uomini

di don Antonio Mazzi 

Guardatelo! Eccolo il nostro Salvatore! Colui che ha creato in sei giorni l'universo e tutto ciò che contiene. Eccolo appeso a una miserabile croce! Ecco il Dio degli eserciti che per secoli aveva parlato per bocca dei profeti. Ecco il Dio di Abramo e di lsacco, il Dio di Giacobbe, di Mosè, di Davide, di Salomone. Ecco colui che fece sprofondare nelle pietre roventi Sodoma e Gomorra. Ecco colui che comandò alle acque del Mar Rosso e liberò Israele dal giogo degli Egiziani.

Ma che Dio è questo? Dov'è il suo braccio forte e terribile? A pensarci bene anche la sua nascita non fu delle migliori. Si era fatto carne nel grembo della. più umile fanciulla della Palestina. Era nato come un qualsiasi inerme neonato, e per giunta, in una fredda grotta! Si manifestò, per primo, ai cenciosi pastori del luogo, accettando doni dagli infidi stranieri, trascurando i palazzi del re, le case degli intellettuali, i cultori della Sacra Legge. Non aveva ancora poche ore di vita, che già aveva i suoi nemici. Costrinse i genitori con il cuore in gola a nascondersi e fuggire. Se Erode il grande lo avesse trovato la lotta sarebbe stata davvero impari. Impari e assurda e questa storia di redenzione sarebbe finita miseramente!

Perché rinunciò all’onnipotenza?

Perché un Dio bambino? Perché rinunciare alla sua onnipotenza? Poco sappiamo dei suoi anni dell'adolescenza e della giovinezza. Comunque non fece nulla di speciale. D'altronde cosa poteva fare? Il suo genitore non era forse quel Giuseppe che tutti conoscevamo, un pover'uomo che sapeva lavorare con le mani, assiduo nel frequentare il tempio, ma a cui nessun sacerdote si sarebbe mai sognato di porre nelle mani il rotolo della Legge! A stento sapeva leggere e scrivere. Però, a onore del vero, questo suo figlio Gesù, non ancora dodicenne, s'intratteneva spesso con i dottori del tempio. Cosa davvero insolita, sia per l'età sia per la sua semplice estrazione sociale. Vi sembra questa la famiglia di un Messia? Abbiamo davvero atteso per secoli la venuta di un uomo così semplice?

Perché ha preferito loro a noi?

Che dire poi di Maria, sua madre? Fra le sue coetanee, c’erano fior di ragazze, delle migliori famiglie, bellissime e leggiadre, le loro vesti profumavano la via; i loro occhi erano di cerbiatta indomita; la loro dote cospicua perché figlie dei più ragguardevoli uomini del paese.Tutte sarebbero state onorate di dar vita e fare da madre al potente Messia, che avrebbe liberato il popolo dal giogo straniero e avrebbe assoggettato il mondo, costringendolo così a riconoscere la supremazia d'Israele, l'Eletto!

Perché Dio ha voluto stravolgere le vie degli uomini? Non erano forse vie di buon senso, vie più comode e privilegiate?

Avrete senza dubbio sentito parlare della singolare compagnia di quest'uomo. Tutti onesti, per carità, ma avvezzi a lavorar più con le braccia che con il cervello; tutti timorati di Dio, per carità, non mancavano, infatti, di dare la decima dei loro guadagni al tempio. Ma da qui a diventare depositari della parola di Dio, beh… Bisognerebbe proprio stravolgere il pensiero. Pietro per esempio, era un pescatore che io conoscevo bene; un uomo di poche parole non so se per virtù o per timidezza; era comunque anche testardo, trascinava, infatti, spesso i compagni in battute di pesca rischiose; si diceva che avesse affrontato tempeste sul mare degne di un vero eroe, e tutte andarono a buon fine, con un po’ di spavento ma sempre con le reti piene.

Matteo poi, chi del popolo non aveva fatto la sua sgradita conoscenza? Era un esattore dei più ligi al dovere. Gli altri erano suppergiù dello stesso taglio. Noi eravamo i primi, perché ci hai lasciato per ultimi? Perché hai preferito loro a noi, che eravamo sazi di sapienza?

Miracoli, miracoli, la gente semplice non sa pregare se non chiedendo miracoli. Ma ancora non ha capito che i miracoli, quando Dio li concede, lo fa dopo laute offerte al tempio e sempre tramite noi ministri del tempio. Quest'uomo invece ha accorciato le distanze; stando ai fatti che ormai tutte le bocche narrano, basterebbe la fede per spostare le montagne; un giorno sfamò una moltitudine di persone con pochi pesci e qualche pane; certo che se costui ha davvero tanto potere; sarebbe uno spreco di miracolo! Ci sono cose più importanti dello stomaco.

Per secoli avevamo scrutato i cieli

Dio, che ne hai fatto dei tuoi sapienti e dei tuoi dottori? Che ne faremo di queste torri di libri? Facciamo il caso che quest'uomo sia davvero il . Figlio di Dio; facciamo il caso che il nostro cuore, così avvezzo da tanto tempo agli agi, alle ricchezze, ai gusti sopraffini, alle norme austere, non avesse riconosciuto ‘Dio fattosi uomo’. Ammettiamo la folle ipotesi che ’Dio fattosi uomo’ si fosse spogliato di tutto il suo immenso potere e fosse vissuto fra noi come un uomo qualsiasi. Se ciò fosse vero, non basterebbe tutta la cenere del mondo per coprire il capo e stracciarci le vesti non servirebbe più.

Se quest'uomo fosse davvero Dio, allora la croce sarebbe il trono che l'uomo ha preparato per accogliere il suo Dio, quel Dio che a parole, con fiumi di parole avevamo detto d'amare, d'adorare. Per secoli avevamo atteso, scrutato i cieli, per secoli ci siamo nutriti d'ogni parola della Scrittura, abbiamo vegliato nel tempio in attesa di un segno profetico. Se tutto ciò fosse vero, le vie che tu hai scelto non sono state le nostre. Signore, quand'è che ci siamo smarriti? Cos'è che non abbiamo capito?

 

Supplemento n. 8 a Famiglia Cristiana n. 46 del 13 novembre 2005

Abbiamo visto la sua stella. Avvento 05

I DOMENICA DI AVVENTO AMBROSIANO. ANNO B  -  ARMANDO CATTANEO

E’ IL MOMENTO DI ALZARE LA TESTA

La ‘giostra’ dell’Anno liturgico

Te la ricordi la giostra a catene? Ad ogni giro bisognava lanciarsi in alto per afferrare il premio. L’Anno liturgico è come un giro sulla giostra durante il quale ci viene ripresentata e di nuovo offerta la storia di Gesù che salva. Arriva un altro Avvento e dunque inizia un altro giro. Il Signore mi offre una nuova possibilità di provare a essere cristiano sul serio. Una nuova occasione di decidermi per Lui.

L’Avvento è Tempo Forte. Non solo per l’impegno deciso che io sono chiamato a profondere come cristiano. E’ tempo forte anche per Dio, che ricomincia da capo con il suo totale mettersi in gioco con noi. Il giro di giostra del nuovo Anno Liturgico che parte con questo Avvento sarà quello buono per volare in alto e acchiappare il ‘premio’ della salvezza, che poi è l’acquisire lo stile di Gesù?

Avvento: Tempo carico di opportunità

Tempo forte non sono solo queste poche settimane di preparazione al Natale. Forte è questo nostro tempo che ci tocca di vivere! Forte e decisivo addirittura per la sorte degli uomini. Su tanti fronti oggi ci giochiamo il futuro: dalla salvaguardia del creato alla sopravvivenza della specie umana, alla sopravvivenza della Chiesa stessa nei nostri Paesi di antica cristianità… Fino a mezzo secolo fa questi erano tutti temi quasi ‘escatologici’, perché li spingevamo verso una ‘fine del mondo’ considerata lontanissima. Ora invece ce li ritroviamo sull’uscio di casa.

Se Dio ricomincia l’avventura di diventare uomo, Lui in prima persona, è segno che un gran dispiegamento di forze è necessario. La lotta si fa dura! Eppure Avvento ‘Tempo Forte’ non significa tanto ‘tempi duri’, quanto invece tempi carichi di opportunità.

Michele e il Figlio dell’uomo: la straripante forza dei deboli

Che Dio sia deciso a rimettersi in gioco con noi è chiaro fin dalla prima riga della prima lettura dell’intero Avvento: "Sorgerà Michele, il gran principe che vigila sui figli del tuo popolo".

Mi piace questo passo del profeta Daniele che ci propone l’arcangelo Michele nel ruolo inedito di prefigurazione di Cristo stesso! Come a dire che quel Gesù che torniamo ad aspettare avrà le caratteristiche di Michele: sarà lui il gran principe a cui non mancherà davvero la forza, ma che userà tutto il suo potere per vigilare su noi, figli del suo popolo, per proteggerci e non invece per opprimerci. Gran ‘buona notizia’!

Il Vangelo ribadisce che Dio si muove in prima persona, nella figura del "Figlio dell’uomo" che verrà con grande potenza e gloria. Le forze in campo sono dunque formidabili e a noi favorevoli!

Il conto dei tempi torna o non torna?

Eppure, se mi guardo intorno per cercare ‘i San Michele e i Figli dell’Uomo’ di oggi, non scorgo granché. Vedo fedeli "fai da te", intenti a piluccare dalla fede cristiana qualche elemento di comodo, vedo abili trasformisti impegnati nel ‘salto della quaglia’ che passano da un sostanziale ateismo a un improvviso fervore religioso e devozionale, scavalcando però d’un balzo il Gesù Cristo esigente ed esaltante del Vangelo! Vedo buoni cristiani impegnati sui temi della giustizia soffocati dalle accuse di essere di sinistra e altri (o spesso gli stessi!) impegnati sui temi della famiglia/vita paralizzati dalle accuse di essere di destra!

Siamo a mollo in… "un tempo di angoscia come non c’è mai stato dal sorgere delle nazioni" (Daniele) e… "in quei giorni il sole si oscurerà e la luna non darà più il suo splendore."(Marco). Almeno sui tempi non c’è discussione: si tratta proprio dei nostri! O, almeno, anche dei nostri! E Gesù  sembra suggerire che nessuna generazione è esente da tempi simili!

L’impero della paura

La gente non sta più bene, perché alla paura del terrorismo (magistralmente costruita e pilotata proprio da chi avrebbe la funzione istituzionale di san Michele, quella di vigilare e rassicurare!) si aggiunge la paura di una natura che appare scatenata; agli aerei che cadono si somma il prezzo del petrolio che schizza come dai pozzi di trivellazione… Eppure chi si spaventa ha dimenticato le forze in campo! Ha dimenticato la parola di Dio che difatti, sia nelle espressioni del profeta Daniele sia in quelle dell’evangelista Marco, ci sorprende con uno scatto di forza pura: "In quel tempo sarà salvato il tuo popolo"!  "Allora riunirà i suoi eletti". La salvezza di Dio è ora. E’ quando meno te l’aspetti!

La saggezza di rischiare

"I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento, coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre". Mi rendo conto che, per vincere la paura diffusa e indistinta, nuovissimo strumento di oppressione sui popoli diabolicamente inventato dai nostri stessi capi, devo decidermi a leggere i fatti con una logica nuova. Dunque riassumiamo: La salvezza non è in discussione: Dio la rimette in palio e Lui stesso si rimette in gioco; abbiamo ottime opportunità. Le nostre vicende di uomini impastati di egoismo, opportunismo, menefreghismo non mettono in crisi il piano di salvezza di Dio. Le nostre schizofrenie fra delirio di onnipotenza e depressione/terrore non hanno ancora scoraggiato Dio dall’impegnarsi con noi! Se è vero che… "l’inferno di Dio è il suo amore per gli uomini", con questo nuovo Avvento Dio ci comunica ufficialmente di voler stare ancora un altro anno all’inferno. Lui torna in campo con tutta la sua potenza. E questo fa piacere!

Il punto in discussione è, come sempre, la mia voglia di lasciarmi amare da Dio.

Ecco la saggezza! Lasciarsi amare da Dio è saggio! Gesù è lo sposo-amante per eccellenza! Come in ogni avventura d’amore non può mancare il rischio, così neppure nella nuova avventura in cui Dio si lancia oggi con me mancherà l’ebbrezza. Gesù Cristo è lo sposo avventuroso e ardito. Con lui la sposa (che siamo noi!) non s’annoia mai! Questo è il Dio che ci è toccato! E non ne esiste un altro! Mi dispiace per i pantofolai.

Indurre alla giustizia

Ho deciso: proverò a risplendere come i saggi. Sarò tra "coloro che avranno indotto molti alla giustizia". Questo tocca proprio a ciascuno:

-a me, parroco, tocca indurre alla giustizia nei rapporti dentro e fuori la comunità cristiana

-a te madre e padre di famiglia è data la possibilità di essere saggio, educando alla giustizia i figli e stimolando ad essa i colleghi di lavoro, le famiglie amiche, chi rientra nella tua sfera di influenza…

Armando Cattaneo, parroco

II DOMENICA DI AVVENTO AMBROSIANO. ANNO B

UNA GIOIA SCANDALOSA

Gioia: un sentimento ‘out’

Hai mai provato a sorridere quando entri al mattino in ufficio? E mentre tratti un affare con un cliente?  Rischi di essere preso per un ‘poveretto’! Parlo di quel sorriso che rivela gioia. Tutt’altra cosa rispetto alla sghignazzata caustica o maliziosa che invece è molto ‘in’. Il sorriso di chi è libero e sereno, di chi sta bene ‘dentro’ non è ammesso in società. Nei nostri più comuni contesti di vita le parole del profeta Sofonia "Gioisci! Esulta! Rallegrati!" rasentano l’istigazione a delinquere; passano per roba da irresponsabili o, come minimo, da babbei che non colgono la drammaticità dei tempi!

Per i nostri colleghi il Vangelo di oggi produce un fenomeno tale da configurare una sorta di ‘banda armata’: arriva Gesù in Gerusalemme e "Quelli che andavano innanzi e quelli che venivano dietro gridavano: Osanna! … Osanna nel più alto dei cieli!". A una valutazione serena si direbbe che quel via vai è una bella cosa. Ma non più oggi. Non più da noi. Da noi subito si sibila con sospetto: "Fanatici! Fondamentalisti! Esaltati!".

Si dice che è il diverso a fare paura. Dunque chi gode di gioia vera fa paura, irrita, forse proprio perché è davvero un ‘diverso’ alle nostre latitudini.

Gioia: un’origine aliena

Personalmente sono d’accordo. La gioia veramente non è di questo mondo. Ha un’origine ‘aliena’. Ma il bello è che in Avvento torniamo ad aspettare un ‘incontro del terzo tipo’ (contatto) proprio con quel Gesù che è la fonte della gioia!

Si tratta di trasformare questo sentimento attribuito a gente ‘fuori contesto’ nella testimonianza credibile di noi cristiani. La gioia è uno dei nostri segni distintivi. Chi mi frequenta deve vedere che… "non mi lascio più cadere le braccia", che anzi ho dentro qualcosa che… "fa splendere il mio volto", e che anch’io comincio ad essere uno dei… "molti che stendono i propri mantelli sulla strada". Non si tratta infatti di avere un buon carattere. Non è frutto della buona accoglienza che ricevo. L’equilibrio psicologico ne è certo un presupposto, ma non ne è la fonte. La gioia cristiana ha origine solo in Cristo. Inutile quindi cercare la gioia, dico quella vera, dallo psicologo, al bar o in discoteca. E’ meglio cercarla nella Comunità, presso chi mi legge la parola di Dio e celebra con noi l’Eucaristia/Ringraziamento e la Riconciliazione/Perdono.

L’obbedienza non è più una virtù.

E’ il titolo di un celebre libriccino di don Lorenzo Milani. Lui contestava l’obbedienza cieca dei soldati e sosteneva l’obiezione di coscienza.  Paolo oggi documenta con un sofisticato ragionamento l’estro creativo di Dio che si serve proprio della disobbedienza alla sua legge dei diversi popoli, ora dell’uno ora dell’altro, per accomunarli tutti nella schiera dei ‘suoi preferiti’. Anche all’epoca gli osservanti gridavano allo ‘scontro di civiltà’ (tra Ebrei e Pagani, che era come dire Ebrei contro tutti!). Ma dal racconto di Paolo non sembra che ciò impensierisse il nostro Dio! Che sia anche questo tipo di scontro una nostra invenzione? E se fosse temuto (o provocato) proprio da chi non sorride mai e ‘ubbidisce’ sempre?!  In realtà l’unico che ha obbedito fino all’estremo a Dio Padre è Gesù sulla croce. Quanto a noi siamo tutti ‘disubbidienti’, chi più chi meno!

Questo incredibile ‘elogio della disubbidienza’ non a caso è stato scritto da Paolo, inorridito che la sua ‘obbedienza’ farisaica l’avesse portato ad assassinare gli avversari! Allora esso si trasforma in un terribile inno alla stupidità di chi si sente tutto intero nel giusto, sempre dalla parte della ragione! Questo errore lo fanno tragicamente ai giorni nostri i terroristi kamikaze. Ma in modo più subdolo ci casco pure io quando giudico (male, per non sbagliare!) il mio vicino che non va a messa come faccio io, che ha la moglie con le gonne più corte di quelle che ha la mia e che non va in ferie con la parrocchia come noi! E se risultasse, alla fine dei tempi, che è stata proprio la ‘disubbidienza’ del mio vicino a salvare anche me boriosamente ‘obbedientissimo’!?

Dio non la pensa come me

Insomma la Parola di Dio oggi dà un duro colpo alla supponenza di tanti ‘fedeli’ come me e forse anche come te. Sembra invece suggerire la necessità di mettersi in discussione e dialogare. E senza neanche l’obbligo di avere ragione! "Ogni uomo cerca la verità ci ricorda Philip Dormer, lord Chesterfield ma solo Dio sa chi lha trovata!"

"O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!" (Paolo). Insomma, è improbabile che Dio la pensi come chi vuole avere ragione!

Noi cristiani siamo fortunati perché accanto al dono della fede (che rischia di rendere presuntuoso chi dice di averla) abbiamo pure il dono della speranza (che attenua la boria del possesso) e quello prevalente della carità (che ci fa preferire la persona in sé alle convinzioni che ha). A me par di capire dalle letture di oggi che l’amore verso il mio prossimo non può mai mancare, men che meno con la scusa di dover obbedire a chissà quali altre leggi di Dio.

Ci vuole chiarezza su questo punto, perché anche oggi si fanno guerre ‘per obbedire a Dio’. A richiamare chi fomenta guerre tra popoli ci penserà magari il Papa. A noi tocca richiamare chi alza o restaura muri di separazione in famiglia e al lavoro, solo perché convinto di ‘avere ragione’.

Armando Cattaneo, parroco

III  DOMENICA DI AVVENTO AMBROSIANO. I DI AVVENTO ROMANO. ANNO B

GUARDA LONTANO!

"Vigilate", con una certezza!

Da quando hanno adottato il termine ‘vigilantes’, questo verbo non mi piace più. Peccato, perché sembra che a Gesù piacesse molto! Ma possiamo capirci con l’immagine di Ezechiele "Stare di sentinella". Come parroco io sono messo di sentinella. E sei di turno anche tu: è di sentinella ogni padre e madre per la sua famiglia, ogni responsabile per il suo gruppo di lavoro, ogni amministratore civico sulla sua città, ogni singolo individuo sulle sue scelte personali e di gruppo. Chi vigila sa allungare lo sguardo e tendere l’orecchio, non si lascia distrarre da nulla. E’ impegnativo, certo, eppure vigilare nel contesto dell’Avvento è bello, ha un sapore positivo, perché non ha tanto lo scopo di segnalare pericoli quanto quello di cogliere tracce di qualcosa che arriva di sicuro: "La manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo… perché fedele è Dio" (Paolo). Noi ‘vigilantes’ cristiani abbiamo una certezza: Lui non ‘buca’ mai l’appuntamento. Il Signore sta per… "squarciare i cieli e scendere", anzi il Signore ci viene incontro, perché… "Tu vai incontro a quanti operano la giustizia" (Isaia). Ecco: ‘Operare la giustizia’, questo è il modo concreto di vigilare!

E se ‘Operare la giustizia’ vuol dire tante cose, di sicuro non esclude la giustizia in senso classico.

Pericoli ‘sotto controllo’

Certo il pericolo accompagna il mestiere di vivere. Vale per chiunque. Al cristiano nulla è risparmiato. I santi non possono essere invocati come parafulmini. Quando il popolo saziato gratis di pani e pesci nel deserto volle fare re il Maestro, Gesù se la diede a gambe! Suo compito non è privilegiare i suoi. Eppure noi suoi discepoli godiamo del reale e grandissimo privilegio di credere in un Dio che è Provvidenza, di vivere con un Dio che s’è ridotto come me e come te per starmi vicino.

Premesso questo, confrontiamoci: quali segnali vediamo all’orizzonte? Con una scelta di campo però: sia io sia tu facciamo lo sforzo di intravedere quelli positivi, essendo l’elenco lamentoso dei segnali negativi ormai un esercizio quotidiano e per niente originale.

Distinguiamo i segnali in almeno due classi: alcuni riguardano tendenze generalizzate, altri sono più tipici delle nostre comunità ecclesiali.

In generale

Tra le tante donne e uomini che oscillano regolarmente come un pendolo dall’affanno del lavoro all’affanno dello shopping: guadagno spendo, ufficio - struscio,  coda in auto coda alla cassa, vedo crescere frange non più marginali di famiglie che reagiscono alla dittatura del consumo. Rinunciano a quote di lavoro e quindi di stipendio e di potere di acquisto per godere di più tempo insieme in famiglia, di una maggiore condivisione nella comunità parrocchiale, di maggiori agi per la cultura, l’impegno sociale e la preghiera. Acquisti con l’equosolidale e metter su casa in condomini solidali possono aiutare queste scelte, mentre una Banca Etica impreziosisce i risparmi.

Tra la massa di chi sfruguglia con il muso sempre a terra e addenta voracemente le cose minime ma ingannevolmente magnificate dalla pubblicità vedo persone e gruppi che alzano la testa in alto. L’uomo si distingue dall’animale non solo per la parola e il pensiero, ma per la sua capacità di alzare la testa. Solo l’uomo lo sa fare: hai mai visto un animale contemplare il cielo? Tanta gente torna alla nostalgia del cielo: gruppi, movimenti, associazioni. E poi monasteri che si ripopolano… certo non di monaci, di gente che ci passa le vacanze! Ma per ora va già bene così!

Vedo e temo una civiltà, quella unicamente misurata dalla crescita indefinita del PIL, che pretende di imporsi a tutte le altre benché corra il serio pericolo di essere la più vuota, misera e animalesca. Ma vedo anche crescere impetuosamente un ‘meticciato’ che non mescola ma si confronta e s’arricchisce con le culture più varie. In questo campo mi pare che la musica sia la punta di diamante e, mi vorrei tanto sbagliare, la religione il bastone fra le ruote. Ma - tranquilli!- il Cristianesimo non è una religione! Non ‘rilega’ ma libera.

Vedo saggezza e misura e serietà nei livelli di base della società più che nei suoi vertici. Vedo che persino i vertici fiutano che non basta più che loro si incontrino, è sempre più decisivo che lo facciano tenendo Dio fra di loro, o almeno il senso del limite e della decenza!

Nelle nostre comunità

Vedo gente che soffre le difficoltà del lavoro, della stretta economica e che però trasforma le difficoltà nell’opportunità di scelte più essenziali,  riducendo le esigenze spesso false della fuga ogni fine settimana, della seconda casa, del tutto concedere ai figli…

Vedo persone valide e spesso colte che dedicano energie a conoscere meglio la propria fede, la posizione della Chiesa su tanti punti controversi della nostra epoca. Le vedo creare nuove relazioni fondate sui rapporti franchi e sulle idee, non necessariamente del tutto condivise!

Vedo parrocchie e movimenti compiere la fatica di conoscere e riconoscere quanti si impegnano in altri ambiti della comune testimonianza cristiana. Vedo il superamento (benché spesso forzato dalle necessità create dalla mancanza di preti) dei campanilismi, della propria piccola cerchia, con il corollario di una conseguente buona testimonianza verso l’immensa schiera di chi non vive da cristiano! 

Vedo giovani famiglie impegnate a superare incomunicabilità parentali perduranti, ad archiviare ‘regole d’onore’ coltivate per generazioni, a rinunciare a stili di vita opprimenti per la donna, offensivi e ingiusti verso i figli. Il passato non è sempre meglio del presente!

Vedo tante comunità farsi accoglienti, anche verso i propri componenti che vivono un  fallimento matrimoniale. Dallo scandalo facile e ipocrita le vedo passare ad una vicinanza che ricostruisce vite spezzate.

Vedo quartieri di periferia in cui il dieci per cento che frequenta la Messa Domenicale visita più volte l’anno il novanta per cento che in chiesa non va mai, generando relazioni nuove e offrendo un volto di chiesa meno clericale e più sanamente laico.

Vedo volontari cristiani uscire dal proprio recinto e collaborare con organizzazioni di volontariato aconfessionali; vedo onesti padri e madri di famiglia non accettare più la ‘verità fatta a pezzi’ dal sistema mediatico globale e cercare almeno ‘pezzi di verità’ sulle reti alternative spesso tessute dai missionari…  Vedo. Vedo. Vedo…

Vedo o forse soltanto sogno… ma è così che la sentinella si trasforma in profeta!

Armando Cattaneo

IV  DOMENICA DI AVVENTO AMBROSIANO. II  DI AVVENTO ROMANO. ANNO B

MESSAGGIO PRIORITARIO

La voce da riscoprire

Gran parte della lettura di Isaia e metà del brano di Marco sono in forma diretta, riportano parole precise che suonano come se fossero state registrate dal vivo millenni fa ed ora riascoltate. Pare proprio di sentirvi dentro l’eco della voce originaria! Leggile a voce alta! Protagonista di questi brani è la Voce. Giovanni stesso non è che una precisa incarnazione della Voce di Dio. A me piace pensare perfino a Gesù come alla Voce.’ The Voice’ è Lui, con buona pace di Frank Sinatra.

Anche l’affermare che Lui è il Logos, la Parola, va bene, ma a un patto: che si intenda la ‘Parola detta’ e proclamata prima che scritta. Insomma, appunto, la Voce. Gesù non è rappresentato dalla parola fissata su una pagina e ridotta ad oggetto. Gesù è parola vivente e vibrante, infinitamente ricca di senso come anche di emozione, di suggestione e di ‘presenza’! Così come la musica è quella eseguita, non quella scritta sullo spartito!

Il deserto perduto

Rommel era la volpe del deserto, Giovanni la voce nel deserto. Nel deserto la voce corre forse il rischio di non trovare ascoltatori, ma a chi è presente essa fa un effetto sconvolgente, perché si espande come dal centro di un infinito silenzio.

Al contrario, oggi, da noi le voci quasi aleggiano al di sopra di masse immense, però hanno perduto la capacità di colpire al cuore, essendosi ormai moltiplicate all’infinito. Dovendosi poi le voci d’oggi consegnare a sofisticate apparecchiature tecniche, succede che si facciano largo non le voci migliori, quelle sagge, quelle vere e più ricche di valori, ma banalmente quelle più tecnologicamente ‘dotate’. Il brusìo mediatico ci frastorna, la marmellata mediatica ci impantana. Chi più grida, meglio vende! Qui Dio risulta, incredibilmente, perdente. Lui che come un giocoliere fa vorticare sole, luna, terra e astri nel più assoluto silenzio si vede rubata l’attenzione e la scena dal passaggio di un motorino fracassone!

L’orecchio e la bocca

Tocca a noi il compito di ascoltare la Voce di Dio. E il piacere sarà assicurato! Un piacere vitale, capace cioè di generare vita nelle nostre giornate buie. La Voce di Dio è flebile e in aggiunta, a prima vista, è fin troppo impegnativa. Eppure ha la forza di spianare le strade della nostra vita, di indicare passo passo la meta e di procurarci la forza per camminare!

Oggi ogni voce si carica del suono adulatore delle mitiche Sirene, annuncia ogni starnuto come un grande evento. Dio, al contrario, fa grandi cose sottovoce. Si tratta di formarci un orecchio buono, di difendere a gomitate il silenzio intorno e soprattutto dentro di noi. Possiamo anche farci ‘ripetitori’ del tenue segnale evangelico. "Sali su un alto monte e… alza la voce con forza, …non temere!" ci incoraggia Isaia.

Il messaggio

La voce ha un solo scopo: comunicare un messaggio. Mai messaggio fu più straordinario di questo di Giovanni: nella folla indica l’Unico! La voce-Giovanni individua nell’universalità del creato il suo… "centro di gravità permanente"(Battiato), la sua sorgente. La voce segnala, nella baraonda della storia umana, chi la ordina in un prima e un dopo. Il Cristo, il ‘Santo di Dio’, "Colui che battezza in Spirito Santo e fuoco"(Marco). ‘L’atteso delle genti’, benché inconsapevoli. Il nocciolo del messaggio è Lui, Gesù Cristo. Questo è il kerigma. A questo proposito papa Paolo VI ebbe a dire: "L’essenziale è che il messaggio arrivi. Se per farlo arrivare dovremo cambiare la predicazione, la catechesi, la teologia, la liturgia, … cambieremo!". Naturalmente, di conseguenza, bisognerà poi comportarsi in modo adeguato e quindi… "nel deserto preparate la via al Signore, appianate la strada per il nostro Dio"(Isaia)!  Ma i nostri doveri morali sono solo una conseguenza! La morale cristiana è sempre secondaria rispetto all’annuncio che c’è un ‘Dio con noi’. Il nostro agire bene è da intendere come la risposta minima dovuta di fronte alla sconvolgente iniziativa d’amore del nostro Dio. "Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, cercate d’essere senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace" (Pietro).

Lo scandalo di un Dio troppo piccolo

Giovanni il Battista non ha ancora completato il suo compito. In fondo l’avere additato in quell’uomo chino nell’acqua del Giordano il fulcro dell’umanità può avere generato pure delusione! Chissà le volte che ho imprecato nella preghiera: "Qui tutti cercano di farsi grandi, anche a furia di zeppe, e tu, Signore Gesù, che grande lo sei davvero, ti sei fatto piccolo e insignificante! Che servizio credi di aver fatto a noi, tuoi discepoli?!". La venuta di Gesù fatto addirittura bambino ci spiazza di sicuro. Esige una conversione decisa per i nostri cuori intestarditi nella venerazione dei potenti! Per aiutarci a vincere lo scandalo del Natale, in cui arriva sì Dio, ma un Dio fattosi troppo piccolo per i nostri gusti, oggi Pietro ci ricorda qual è la nostra attesa definitiva: "E poi, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia". Cieli e terra nuovi! Nientedimeno! Chi ha creato può ricreare. E se non è potenza questa, a superamento del nostro scandalizzarci!

Armando Cattaneo, parroco

V  DOMENICA DI AVVENTO AMBROSIANO. III  DI AVVENTO ROMANO. ANNO B

LIBERTA’: LA PIU’ PAZZA INVENZIONE DI DIO

Liberi nello Spirito (ovvero: chi più ama, più osa)

Il protagonista oggi è lo Spirito di Cristo. Protagonista femminile la Libertà, che poi è sua figlia.

Si tratta anche delle libertà elencate nella Dichiarazione dei Diritti dell’uomo: "Lo spirito del Signore Dio… mi ha mandato a proclamare la libertà degli schiavi" ci assicura oggi Isaia. Ma si tratta ancora meglio di quella libertà d’animo che è a rischio di estinzione e che solo lo spirito di Dio appunto genera e dona. "Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie": così oggi Paolo ammonisce i Tessalonicesi e noi. La libertà nello Spirito ci fa notai impeccabili, esecutori scrupolosi di ordini o invece profeti fiammeggianti? Essa ha come motto "In medio stat virtus", "Aurea mediocritas" o non piuttosto "Ama et fac quod vis"?   La libertà nello Spirito spinge a rischiare, a tentare vie nuove per annunciare il Vangelo e spinge anche a pagare di persona. E’ libero solo chi osa. Giovanni Battista ha osato con la folla, ha scommesso su Gesù, benché in seguito sia andato in crisi ("Sei tu il Cristo o ne dobbiamo aspettare un altro?"). Gesù ha osato, ha infranto il sabato, ha sfidato la casta sacerdotale per liberare noi poveri dai pesi di tutti i farisei della storia… ed è andato in crisi anche Lui, sulla croce!

Io quanto mi espongo di mio? Quanto oso "per amore del mio popolo?"  Sant’Ambrogio visse la sua libertà nello Spirito al massimo grado proprio nei rapporti con i potenti! Rapporti spesso burrascosi e mai accomodanti.

Liberi nella Chiesa

Non è solo nei campi di rieducazione della Cina che il Vangelo chiede coraggio.  Persino nella Chiesa occorre osare. Nella piccola cerchia delle nostre Parrocchie.

Urge una sana libertà anche nella pur prudente sperimentazione pastorale, nei confronti di quel 80 / 90 percento di cristiani non praticanti, nell’esprimere con rispettosa franchezza le nostre convinzioni ai ‘superiori’ di turno… Temo si soffra oggi nella Chiesa di una ricerca teologica frenata, di scarsa profezia. Dove sono oggi i ‘profeti’ nella Chiesa? Oggi siamo ricchi di molti nuovi santi ma chi conosce audaci profeti?

Chiese sorelle

Liberi nella Chiesa significa anche accogliere nel nostro orizzonte di credenti in Cristo le Chiese autentiche della Riforma e dell’Oriente, ormai ben presenti nelle nostre città.

A proposito: all’Unità serve più la verità o la libertà? Si è sempre risposto: "la verità". Eppure i passi maggiori si fanno da dopo quel Concilio Vaticano II che ha ricuperato il dono della libertà dato dal Padre alla Chiesa e al cristiano! La verità cristiana non fa mai a meno della libertà!

E le nostre parrocchie sono in relazione ordinaria e strutturale con Comunità Cristiane del Sud del mondo? Esse sono spesso alle loro prime generazioni di cristiani e quindi straordinariamente simili alla Chiesa Apostolica delle Origini, modello di ogni Chiesa! Che non siano alcune delle attuali Chiese del Sud del mondo la fotografia del ‘Big Bang’ dell’Universo Cristiano? Abbiamo la libertà spirituale di imparare da loro o tutto si limita a donazioni in denaro?

Liberi perché essenziali

Nella Chiesa la vita e i fatti vengono prima delle regole e delle forme! L’amore per il Signore, per la Chiesa, per l’uomo spinge a tentare, a studiare, a ricercare, a creare, a osare, a scommettere! Se faccio il passacarte, alla fine anche la Bibbia sarà ridotta a una ‘carta’! Se invece mi metto in gioco, ‘arrivo’.

Libertà è rischio nell’amore. E’ scommessa… e per scommettere ci vuol talento. Nella parabola di Matteo infatti è chi ha poco talento, anzi uno solo, che lo va a nascondere! Quando il ritmo di una comunità si esaurisce nella ripetizione delle celebrazioni, resta poco tempo e nessuna energia per raggiungere la gente là dov’è. E anche la vita interna di questi ambienti, in assenza di un’impresa missionaria comune, rischia di immiserirsi in piccoli screzi e mediocri preoccupazioni.

Sono sempre colpito dalla libertà interiore della Chiesa delle origini, della prima generazione cristiana: sono stati capaci di scrivere quattro Vangeli e non uno solo! Nonostante il fascino, l’imponenza, la vicinanza e l’autorità della persona di Gesù, gli evangelisti non si sono limitati a ripetere le sue ‘stessissime’ parole, magari tra virgolette; l’hanno riespresso con straordinaria libertà nell’ ‘Evangelo Quadriforme’ come lo chiamava S. Ireneo. Stupefacente libertà!

Lo spirito e la materia

Oggi non si fa più ‘industria pesante’, non si fa più magazzino, non si spostano più neanche i soldi! Tutto è più ‘leggero’ (purtroppo anche il …pensiero!). L’epoca del virtuale è anche l’epoca della leggerezza, dell’immaterialità. Resteremo solo noi parrocchie a continuare nella logica ‘pesante’ delle strutture e dei muri da costruire? Organi senza organisti, teatri parrocchiali senza attori, centri giovanili senza affascinatori, scuole senza ‘maestri’, opere parrocchiali come scatoloni vuoti! Aspettiamo Gesù bambino: più ‘leggero’ di lui! La libertà dello Spirito non ci spinge a vedere nella nostra epoca della Comunicazione Globale, un’icona della rivincita della ‘leggerezza’ dello Spirito sulla ‘pesantezza’ della materia?  Proprio noi, gli uomini dello spirito, siamo rimasti così attaccati alla materia? Urge ‘metterci in rete’ cioè aprirci e superare ogni forma di autarchia, con strutture snelle, collegate fra loro, veloci nel comunicare reciprocamente, sburocratizzate… leggere! 

Armando Cattaneo, parroco

VI  DOMENICA DI AVVENTO AMBROSIANO. IV  DI AVVENTO ROMANO. ANNO B

MARIA, UNA MAMMA ‘BORDER LINE’

Il mistero svelato

E’ suggestiva la constatazione di Paolo: "Il mistero taciuto per secoli ora è rivelato".

L’uomo è per natura un ricercatore, un esploratore, uno scopritore, uno svelatore di misteri. Queste sono le figure di punta nella nostra comune considerazione. Gli scienziati dedicano energie intellettuali e finanziarie enormi alla ricerca di tracce anche minime in ogni campo del sapere. Spesso si mette in antagonismo questa ricerca pure nobilissima con la religione e la fede. Che errore! E pensare che i massimi geni dell’umanità si sono dedicati oltre che all’infinitamente grande e  all’infinitamente piccolo, soprattutto alla ricerca dell’infinito in sè, cioè di Dio. E nella storia di ogni civiltà i personaggi più carismatici e mistici non hanno spiegato al popolo né astri né atomi, ma l’Assoluto e le loro intuizioni su di Lui (Confucio, Buddha, Abramo, Mosè, Paolo, Maometto… Non metto Gesù nell’elenco, perché credo che gli stia stretto ogni elenco!).

L’asso nella manica di Dio

Paolo, riflettendo a posteriori sull’intera vicenda di Gesù, si rende conto che proprio Gesù, che noi aspettiamo ormai a giorni, è l’asso nella manica di Dio. Nella sua partita con il mondo e con l’uomo Gesù è la sua carta vincente. Dio Padre non ha tenuto niente per sé. A nostro vantaggio ha deciso di giocarsi tutto, persino l’ultima carta, suo Figlio! E questi giorni sono il momento in cui la gioca!

Per fortuna la nostra cara ‘nuova Europa’ con i suoi tabù su fede e morale, sui segni del sacro e sul ruolo delle convinzioni religiose in politica è un’eccezione nel panorama contemporaneo mondiale! Già, l’Europa della modernità e della post-modernità: tanto grande nella scoperta e difesa del ruolo della laicità, quanto patetica nel suo timore del sacro! Che peccato!

L’annunciazione

Il luogo e le circostanze in cui quel mistero secolare è stato rivelato è narrato nell’Annunciazione.

C’è da non crederci! Un tugurio, una ragazzetta da nulla, un giorno imprecisato, un luogo sperduto … Signore, ti informo che Nazareth, ora come allora, è circondata da splendide capitali nel raggio di poche centinaia di chilometri: Damasco, Bagdad, Gerusalemme, Amman, Il Cairo, Atene, Roma… quanto di meglio sia mai stato costruito al mondo! Perché Nazareth?

E in quanto a donne, non tocca a me darti consigli ma, secolo più secolo meno, si poteva pensare a Cleopatra o a Zenobia…

Invece no. A te è bastata Maria di Nazareth. E hai avuto ragione tu. "Tutte le genti mi chiameranno beata" (Luca) e noi, con la nostra devozione a Maria tua Madre, siamo qui a riconoscere che hai avuto ragione. Maria, una di noi, una ‘ultima’ tra noi. Grazie, Signore, per Maria tua Madre.

Sul proscenio

A giorni, quando il bambino Gesù sarà appena nato, come succede in ogni casa, anche noi avremo occhi e attenzioni solo per lui. Saggiamente quindi la Chiesa oggi concentra tutta la nostra attenzione sulla Madre in procinto di partorire! Visto che ancora il bimbo non c’è, stiamo un po’ con la mamma!  Con un’immagine un po’ teatrale diremmo che i fari che a Natale saranno puntati sul Bambino Gesù oggi sono tutti puntati su Maria, la madre.

Maternità a rischio

Maternità sicuramente a rischio, quella della giovane Maria! Intendo brutalmente a ‘rischio cassonetto’! E’ rimasta gravida senza che avesse il suo uomo. E’ stata ripudiata, almeno inizialmente. Il paese era piccolo e la gente mormorava. Che ci fossero anche questi nell’elenco dei motivi che la spinsero a  passare tre o quattro mesi di gravidanza lontano da casa, presso la cugina Elisabetta? Poi Giuseppe, uomo per bene, l’aveva accolta e tutto sembrava sistemato. Ma proprio ora che la gravidanza è a termine esce un Editto che la fa piangere di sfinimento: bisogna partire subito per farsi registrare nel villaggio di origine. Quello di Giuseppe era Betlemme, almeno 120 Km più a sud. Bisognava aggregarsi alla prima carovana di passaggio.  Dopo una settimana lei e Giuseppe arrivano e il bambino rischia di nascerle per strada. Oggi, mentre noi la festeggiamo, lei, la festeggiata, nella realtà storica era in cammino, gravida di nove mesi. Dimmi tu: che cosa manca perché non sia una delle povere, disgraziatissime mamme con il bimbo da cassonetto?!

Maria, ti voglio pregare

Non voglio che la nostra festa a Maria risulti oleografica, intimistica, sterile. Ti voglio affidare, madre coraggiosa, quei miliardi di donne per le quali la maternità è un peso, una preoccupazione, un rischio. E quelle che partoriscono il segno dello stupro. Quelle che stanno svezzando un figlio che sarà presto tra i ‘ragazzi di strada’. Tu le capisci bene, anche se tu questo non l’avresti mai fatto.

Ti voglio affidare anche le mamme mancate; quelle che puntano al figlio ad ogni costo, anche a costo di fecondare decine di embrioni che poi butteranno; le mamme che con l’aborto si sono tolte il figlio: subito dalla vista e mai dal cuore. Ti affido le mamme mancate per le incredibili vicende della vita e quelle che trovano più affettuoso il cagnolino...

Armando Cattaneo, parroco

NATALE 2005

PRESEPE ‘SENZA PAROLE’

Quando una vignetta è fin troppo chiara, ci si scrive sotto: "Senza parole". Il Presepe è come una di queste vignette, perché il Natale di Gesù è un fatto che parla da solo, attraverso i suoi personaggi! Ascolta il silenzio più eloquente della storia!

Cesare Augusto

Echeggiano anzitutto gli ordini di Cesare Augusto, l’imperatore di Roma. Comanda di registrare tutti e tutto. Vuole avere sotto controllo ogni cosa. E’ potente o prepotente? Esiste un confine tra potenza e prepotenza?

Anche oggi il mondo pullula di capi che non si chiedono mai quale sia il bene della gente, ma contano gli uomini a mazzette, confondendoli con il proprio conto in banca. Spie, satelliti-spia, Echelon, ‘Scudo stellare’… E’ il progresso, mio caro! E così quante guerre, quanti poveri! Certi ‘grandi’ sono ingombranti, pesanti, oppressivi, convitati di pietra. Misera grandezza! Basta col trattare poveracci e bambini come numeri! Tot milioni muoiono di fame, tot lavorano da schiavi, tot fanno la guerra… Basta! Dio oggi insegna che è veramente grande chi sa farsi piccolo per non schiacciare nessuno.

Ti prego, Signore, per i governanti…"affinché guidino il mondo nella giustizia e nella pace", che significa: "Affinché prendano le loro decisioni dopo aver ascoltato più gli ultimi che i soliti primi".

Giuseppe

All’opposto dell’imperatore c’è un uomo silenzioso e ‘bellissimo’. E’ Giuseppe. Sta vicino alla sua sposa e dice tutto con lo sguardo che passa instancabile su e giù, dal viso  del bambino appena nato a quello della sua Maria, mammina fresca fresca.

Esprime una nobiltà che moltissimi uomini, di ogni popolo della terra, hanno nel cuore. Sembra dire: "Potete contare su di me, voi due; io ce la metto tutta e saprò darvi una casa, un piatto sulla tavola, sicurezza e protezione. Non mi pesa lavorare, vorrei solo poterlo avere un lavoro! Sono onesto, chiedo il giusto e so dare a chi è più in difficoltà di me. Ho fiducia in te, moglie mia, e insieme supereremo i guai della vita!" In mille e mille Centri Caritas padri di famiglia allungano la mano per il riso e il latte, conservando in volto la dignità!

Maria

Anche sua moglie Maria è di poche parole, ma è insieme dolcissima e forte. E’ stanca per il lungo viaggio e ancora di più per il parto, ma è anche pazza di gioia per quel bimbo, che solo lei sa chi è! Tiene fra le braccia il Figlio di Dio, pur senza capire bene cosa voglia dire di preciso! Lei che lo ha partorito purtroppo lo vedrà anche morire condannato a morte. Ma novità assoluta- lo incontrerà appena risorto. Adesso vive per sempre con Lui nella gioia e ci aspetta.

Che donna, Maria! Serva si, ma solo di Dio. Di nessun altro! Fiera delle grandi cose che Dio ha fatto in lei! Dio vuole fare grandi cose pure in me. Sono pronto o a me bastano le mezze misure? Ti chiediamo il coraggio, Maria, di essere cristiani d’un pezzo; veglia tu sulle nostre famiglie, su ogni bimbo e su ogni malato.

I pastori

Ma cos’è sta puzza?! Una, due, tre… cento pecore ci passano accanto, grosse, umide, sporche. Non sono bianche e belle come nei disegni dei bimbi! Subito dietro ci sono i pastori. Sono uomini un po’ rozzi, e neanche tutti proprio ‘brava gente’! Ma concreti. Ora hanno capito che è successo qualcosa di grosso. Seguiamoli! E’ curioso vedere questi omoni, con le mani deformi per i calli, farsi piccoli, rispettosi e affettuosi verso un bambino appena nato e sconosciuto. Si inginocchiano,  per la prima volta nella vita. Loro, che a stento ricordano le preghiere, fiutano nell’aria l’odore della sua divina grandezza. Nessuna meraviglia: non è scritto che Dio rivela ai ‘piccoli’ i suoi segreti più grandi? Hanno lasciato laggiù il gregge e ora, nella notte fredda,  fanno il giro dei bivacchi e delle grotte abitate della zona a raccontare di quel bambino, uguale a tutti gli altri eppure così speciale!

E’ chiaro, Signore, che tu non hai letteralmente- la puzza sotto il naso. Se hai voluto vicino loro, qualche speranza rimane anche a noi...

Gli angeli

Nel presepe, lo sappiamo, tutto è molto semplice, eppure un ‘effetto speciale’ c’è: sono gli Angeli che volano, annunciano e illuminano cielo e terra -o almeno un pezzettino di terra!-. Loro sì che parlano, anzi cantano. E che dicono? "Gloria a Dio in cielo e pace agli uomini in terra". La storia è piena di gente che prima ha separato le due parti dell’inno degli angeli e poi ha tentato o di lodare Dio senza fare pace tra gli uomini o di camminare su vie di pace senza dare gloria a Dio. Hanno fallito tutti! In effetti da una parte è presuntuoso voler mettere pace senza Dio! D’altra parte quale gloria mai si può dare a Dio senza prima aver fatto pace coi fratelli?

La ‘mangiatoia’

Gli angeli danno un segno ai pastori: quel Bambino divino lo troverete in una mangiatoia. Ancora oggi Gesù sta in una mangiatoia, anzi due! La prima è l’altare, che è una tavola, cioè appunto la ‘mangiatoia’ per noi uomini! Il presepe dopo le feste si toglie. L’altare in chiesa resta sempre. Dunque io non posso correre a messa stanotte e non tornarci più! Gesù è sempre là, vuole essere consumato. E vuole che anche tu ed io ci consumiamo per gli altri: è la seconda ‘mangiatoia’, la tavola quotidiana condivisa. Una mangiatoia sacra ed una profana; quella di Betlemme assomigliava di più alla seconda.

I Magi

La lezione del consumarsi per gli altri i Magi la conoscono bene: hanno lasciato i loro comodi, hanno fatto un gran viaggio, hanno donato roba pregiatissima… eppure ci hanno guadagnato loro, perché hanno trovato il Signore del mondo. Il presepe è multietnico fin dalla sua prima edizione! E l’unica lingua universale, che tutti capiscono senza scuola è quella del dono. Oggi ci sono ‘Magi’ dappertutto e non ce n’accorgiamo. Non vale commuoverci per Gesù Bambino e tenere lontani i suoi fratelli, neppure quelli arabi e neri. A proposito: chissà perché gli arabi e i neri a qualcuno piacciono solo quando stanno nel presepio!

Erode

Non dovremmo temere di più certi bianchi? Nel buio della notte echeggia una voce feroce: "Cercate il Bambino, uccidetelo!". Erode non si mette mai nel presepe, eppure la sua figura vi aleggia minacciosa. E’ odioso perché colpisce i bambini. Lo è di meno chi parte dall’Europa, dall’Italia, dalle nostre città per il ‘turismo sessuale’? C’è un impressionante ‘sommerso’ di violenza verso i piccoli, e gli stessi palloni di cuoio dei nostri oratori spesso sono sporchi del sangue dei bimbi che li cuciono. Per non parlare del rifiuto -ostinatamente ribadito- di concedere farmaci salvavita ai bimbi del Sud del mondo senza il costo dei brevetti! Ancora oggi i potenti provano a uccidere nella culla creature promettenti: organizzazioni, progetti, movimenti, chiese… persone fisiche.

Gesù Bambino

Alla fine, l’intero presepe si concentra su Gesù Bambino. Senza di lui il resto non esisterebbe. Ormai è chiaro: il presepe è il mondo e senza Gesù il mondo scolora. Anzi diventa ridicolo, come sono ridicole le statuine girate verso la mangiatoia ancora vuota, prima che vi si metta dentro il Bambinello! Chi vive senza Gesù riduce la vita a un teatrino finto, in cui ogni statuina pretende la parte del protagonista, col risultato di una recita sconclusionata! Non è l’esatta descrizione del nostro tempo?

E’ Natale: rimettiamo Gesù al centro del ‘presepio’ della nostra società e tutto girerà miracolosamente meglio! Torniamo ad impastare leggi, trattati e rapporti con farina del sacco di Gesù (il Vangelo) e vedremo crescere la…"civiltà dell’amore"! (Paolo VI). Torniamo semplicemente a dire le preghiere la sera e vedremo le nostre case tornare più ‘calde’. E’ un Augurio. E’ una certezza. Buon Natale!

Armando Cattaneo

Supplemento n. 2 a Famiglia Cristiana n. 47 del 19 novembre 2006

E' vicina la vostra Liberazione. Avvento 2006

1° Dom. di avvento

Immagine Madonna del prato. Raffaello Sanzio

 

E’ sera. La sera del sabato. Da due millenni quest’ora segna l’inizio del Giorno del Signore. Il tempo ora si è fermato. Anche il Creatore stasera si è fermato, non lavora più. E’ la sera del sesto giorno. Tutto è compiuto. Il momento è alto, emozionante!

E’ una fortuna che tu ora stia vegliando. E’ una fortuna che tu adesso non sia sprofondato sul divano, davanti alla tv. Che ne sa, la tv, delle vibrazioni che percorrono a quest’ora il creato? Le discoteche straboccano di gente. Che peccato! Proprio stasera! Ragazzo mio, ci puoi andare di venerdì, di giovedì, di mercoledì… in discoteca, ma tieni il sabato sera per te, il tuo amore (se ce l’hai) e il tuo Signore! Questa è una notte di Veglia, è sacra, non lo senti? 

E’ così ogni sabato sera.

Ma non basta: questo per noi cristiani è un sabato sera speciale. E’ l’inizio della grande Attesa. Si perché abbiamo tutto, eppure non siamo soddisfatti. Ci manca forse il meglio. Abbiamo passato il pomeriggio a fare shopping: un classico nelle nostre città. Abbiamo preso una ‘cosina bella’. Lo facciamo ogni volta. Già, ci proviamo sempre a tamponare il vuoto dentro… Ma stasera ce lo diciamo chiaro: quel vuoto è nostalgia per il grande Atteso del nostro cuore.  E stasera la Chiesa ci dice che Lui si è rimesso in viaggio. Ha deciso di tornare da noi. Via, è partito, si è rimesso in cammino. Anche per Lui tornare da noi è un’avventura. Rischiosa… Noi lo sappiamo già.

Questo momento che tu stai vivendo forse con qualche persona cara o forse tutto solo non è un rito, è vita. Questa Veglia è vivere la realtà più vera. E’ vibrare con la creazione, che pure aspetta la sua liberazione. E’ ascoltare il battito accelerato del cuore di Dio Padre che lascia partire il Figlio. E’ veder partire il Dio Figlio che, testardo e innamorato degli uomini, vuol tornare da noi. E’ condividere l’emozione di Maria che già sente scalciare in pancia il Figlio di Dio Creatore.

Maria non dorme ancora, si alza, accende una luce, la mette al centro della stanza.

Le vuoi fare compagnia? Ti propongo questo ‘segno’: alzati, accendi anche tu un cero. Mettilo in una stanza senza la tv accesa. E leggi qui sotto quella Parola che domani ascolterai nella grande Assemblea Eucaristica. In tanti lo stiamo facendo, proprio ora. Anch’io con te.

 

 

Supplemento n. 1-7 a Famiglia Cristiana n. 10 del 5/3/2006
Nel mistero della croce. Quaresima 06

QUARESIMA E PASQUA 2006. ANNO B rito romano

 

PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA: "La mia vita è tutta una lotta"

 

In due righe la ‘guerra dei mondi’

Leggi il brano di Marco di oggi: Gesù va nel deserto, ma ‘sospinto’ dallo Spirito (cosa vorrà sottintendere? Che ci va di malavoglia?). Vi rimase quaranta giorni (d’inferno, letteralmente, in quanto…) in lotta con satana. Stava con le fiere: è un fatto, non c’è altro nel deserto, eppure era misteriosamente servito dagli angeli (che voleva mai dire?)... Brutale semplicità dei fatti e insieme misteriosa sublimità dei sottintesi! Anche la nostra lotta quotidiana è sostenuta da delicate presenze divine che non sempre apprezziamo.

In queste due righe di Marco c’è la descrizione forse più bella di tutta la letteratura mondiale dello scontro diretto tra il bene e il male. Gesù combatte il male fuori ma soprattutto dentro di sé; ne è trapassato da parte a parte. Mai il gelo satanico del Male ha sfiorato così da vicino il calore divino del Bene. Cielo e terra non si sono mai scontrati così direttamente: angeli e diavoli, fiere e Spirito; …addirittura il Gesù Uomo contro il Gesù Dio? E’ veramente la ‘guerra dei mondi’! Così inizia la Quaresima, come ogni anno. Caro amico, non c’è tempo per studiare l’avversario. Non c’è tempo per ‘azioni diversive’. Si lotta furiosamente dal primo round.

 

La vera tentazione è di non lottare

Ma già hai intuito che, se persino Gesù accetta la lotta, allora essa ha un valore! Ci tocca lottare su tanti fronti: il collega scorbutico, la nonna all’ospedale, lo stipendio che non tira la fine del mese, i figli che contestano, il nostro stesso caratteraccio… Ce ne lamentiamo, eppure la sentiamo una lotta sana e necessaria, quella contro il male che si annida in noi con i famosi sette vizi capitali, e quella contro le ingiustizie e certi vuoti di valori che ci fanno mancare il fiato, come in aereo i vuoti d’aria. 

Che cosa stai biascicando tra te e te? Che vuoi un armistizio? Che dopotutto con satanasso si può sempre trovare un accordo? Che?! Che tu sei un pacifista?! …Che non hai ancora smaltito il Carnevale? Che poi il bene è così noioso e il male così divertente che non hai ancora scelto da che parte stare? Che i preti sono fissati e vedono il male dappertutto? Anzi, peggio, che i preti vedono il male esattamente dove non dovrebbero: nel sesso, nei soldi e nel successo?… Che comunque sia, ammesso che la battaglia sia da fare, le probabilità di ‘vincita’ non ti sembrano affatto buone?

 

Dichiarazione di guerra

Rinunciare a lottare: esattamente questa è la tentazione, per noi come anche per Gesù!

La guerra è già stata dichiarata e ognuno è arruolato nel momento stesso in cui nasce. Non si tratta di una scommessa al tavolo verde, bellezza! Questa è l’infinita battaglia tra il bene e il  male. Ci siamo dentro tutti e non puoi fare a meno di decidere da che parte stare.

Non è la quaresima a dichiarare questa guerra. Essa è solo l’occasione per riprendersi dallo stordimento, per evitare il ‘trans’ della nostra società opulenta, per sfuggire alla ‘insostenibile leggerezza dell’essere’.

Il Vangelo di oggi, cioè la buona notizia della giornata, non è che la lotta è finita, ma è che è sceso in campo nientemeno che Gesù stesso col suo esercito di angeli.

Anzi per ora, laggiù nel deserto, non si tratta che di scaramucce.  <<Lo scontro finale, titanico, è annunciato per Pasqua, appena fuori dalle mura di Gerusalemme: Vita e morte si scontreranno e la Vita si lascerà ghermire dalla morte. Ma si dice in giro- solo per tre giorni! Lo raccontano i Vangeli da duemila anni. Lo ha raccontato anche il regista Scorsese nel suo film Lultima tentazione di Cristo, nella scena forse più bella, che non a caso ha il suo continuo nel momento dell’agonia di Gesù nell’orto del Getsemani, all’inizio della Passione.>> (da www.jesus1.it).

 

Ma non gridare "Al lupo!"

Ora mi preme metterti in guardia dalla voglia, così di moda oggi, di voler etichettare qualcuno o qualcosa come il diavolo. I fanatici religiosi sono in prima fila, si arrogano il diritto di additare al mondo intero le incarnazioni di satana. Ogni integralista trova satana perfettamente mascherato nelle fazioni avverse: quando i fondamentalisti sono musulmani indicano come satana l’Occidente, Israele, gli USA e i loro sostenitori. Quando i fanatici sono leghisti e i ‘neocons’ rovesciano la frittata sugli islamici, giusto per pareggiare.

Cristo, che pure è il Santo di Dio, combatte il male in se stesso, ne fa una lotta tutta interiore! Nessuno mai potrà appellarsi a Cristo per scatenare le sue personali crociate. Nessun signore della guerra; non chi manda i kamikaze con le cinture esplosive e neanche Bush. 

 

Armando Cattaneo

parroco e direttore del portale www.jesus1.it

 

 

SECONDA DOMENICA DI QUARESIMA:          "Questo mondo è una vergogna"

 

Lo scandalo del male

"Non ci bastano gli infiniti orrori mostrati ogni giorno dai TG? Anche venendo in chiesa ci leggete brani feroci come questo di Abramo pronto ad ammazzare il figlio per dare gloria a Dio?". Così mi attaccò un parrocchiano, finita ‘questa’ messa, qualche anno fa.

Va ammesso: viviamo in una civiltà che puzza di morte. Nascondiamo la sofferenza dei nostri cari negli ospedali, ma poi subiamo la nostra razione quotidiana di sangue umano in tv.

Le vetrine scintillanti non ce la fanno a squarciare il buio delle solitudini che camminano sui marciapiedi delle città. La sofferenza è una componente della vita che non riusciamo a eliminare.

<<Mentre il male che sta dentro di noi (vedi domenica scorsa) può essere affrontato, il male dell’umanità dolente e crudele ci fa sentire impotenti e mette in crisi la fede. "Se Dio esiste, il mondo è la sua riserva di caccia" esclama un ateo in un romanzo di Luigi Santucci. Nietzsche e Stendhal rincarano: "Per Dio la sola scusa è che non esiste". Qualcuno sostiene che il vero, unico mistero è proprio il male. Perché non ha nessuna logica, è mancanza di senso. Un male che abbia un perché è già un po’ meno un male!>> (da www.jesus1.it).

Non ti aspettare che adesso io ti dia la formuletta con il potere di toglierti immediatamente dall’angoscia. Gesù stesso non ce la dà, la suddetta formula magica! Anzi lui stesso morì con quest’urlo in gola: "Perché?".  "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?"

 

Un padre che sacrifica il figlio

"Coloro che facevano sacrifici umani non erano dei barbari ma dei mistici. Avevano capito tutto". Potrebbe suonare così la provocazione necessaria a penetrare almeno un poco la Parola di Dio che ci offre oggi la Chiesa.

In effetti appena l’uomo, nella sua crescita religiosa sviluppatasi per millenni, arrivò a cogliere la divinità come l’Assoluto, sentì il bisogno di rivolgersi a Lui con un dono altrettanto assoluto! Gli uomini più intensamente ‘catturati’ dalla grandezza di Dio, come Abramo, si guardavano in giro alla ricerca di un dono degno e trovavano scolorito e inadeguato qualsiasi oggetto su cui posassero lo sguardo. Ecco allora balenare il pensiero di donare a Dio quanto di più caro e prezioso si aveva: il primogenito.

Poi la cultura ha saputo sublimare il sacrificio umano in mille modi. Tuttavia noi cristiani crediamo che Dio Padre non ha affatto sublimato il sacrificio in croce di suo Figlio Gesù, che invece è un fatto storico cruento e realissimo.

Abramo è figura di Dio Padre e suo figlio Isacco figura di Gesù. Ma qui parrebbe che la cultura sia andata a ritroso: Abramo si sente chiamato da Dio a salvare il figlio e a sgozzare un ariete; 1850 anni dopo quello stesso Dio non salva il figlio suo e lo lascia in croce fino a fagli squarciare il petto. Dove sta la logica?

 

Un senso solo nell’amore

Già. La vita non sembra seguire alcuna logica: dolore e sofferenza irrompono spesso come ospiti inaspettati, con l’effetto di mandare in tilt la fede. Se Dio è Padre perché questa morte prematura, questo amore tradito, questa ingiustizia sul lavoro, questo incidente stradale? Nessuno è al riparo dalla prova-dolore: manco il Papa! Ecco perché davanti alle crisi di chi ha subito una disgrazia ti devi almeno risparmiare il tono scandalizzato di chi non ammette cedimenti nella fede altrui! E’ così umano invece il fatto che Gesù in persona sulla croce sospettò che il Padre se ne fosse andato! E noi pretendiamo di essere più granitici di Gesù nella fede?

Forse il male è inspiegabile anche per Dio. Ma lui non si preoccupa di spiegarlo, lui lo vince!

Trasfigurazione: prova generale della Risurrezione.

Il vangelo di questa domenica è luminosissimo e racconta la Trasfigurazione di Gesù che è una meravigliosa anticipazione della sua Risurrezione. Qui Gesù tenta una ‘missione impossibile’: spinge i suoi discepoli oltre la barriera della morte, per predisporli all’idea di risurrezione. Impagabile la pennellata di Marco che centra perfettamente il problema: "Ed essi si domandavano però che cosa volesse dire risuscitare dai morti"! Già. Che cosa vuol dire risuscitare? I discepoli dovettero persino inventarsi i verbi adatti per dire una cosa che non capita mai e che però stava per accadere proprio al loro Maestro.

Gesù non ebbe risposta verbale né logica al suo atroce urlo in croce. La risposta fu tutta nel fatto della risurrezione, oltre il confine della sua morte. Lui si è fidato di suo Padre. Non resta altro da fare anche a noi. "Signore, aumenta la nostra fede!".

Armando Cattaneo

parroco e direttore del portale www.jesus1.it

TERZA DOMENICA DI QUARESIMA:

"Ce n’è almeno uno che faccia osservare le regole?" (Gesù s’arrabbia con i mercanti)

La forma e la sostanza

Chi ha detto che "La forma è sostanza"? Non sono d’accordo. Chiedetelo a un innocente condannato in modo formalmente impeccabile!

Il furore divorante di Gesù che si fabbrica una frusta e caccia tutti fuori dal Tempio è assolutamente scorretto nella forma, ma di quanta sostanza è carico! E personalmente non mi impaura, mi infiamma invece! Lo trovo affascinante, anche se non escluderei la possibilità di essere io stesso uno di quei venditori frustati e scacciati! Lo trovo un furore benefico e in qualche modo amico.

Mi ghiacciano il sangue invece quei Giudei, imperturbabili  e incapaci di mettersi in discussione: "Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: ‘Quale segno ci mostri per fare queste cose?’ ".  Come a dire: "Hai un mandato? Se tu l’avessi non sarebbe un problema prendere a frustate chicchessia!… Noi facciamo ben di peggio. Ma con le carte bollate in regola!". Feroci nel loro ‘politically correct’!

Richiesto di un segno, Gesù non cerca lontano da sé, offre il suo corpo come segno ormai estremo, mette in palio la sua vita: "Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere… Egli parlava del tempio del suo corpo". I Giudei dirottano il discorso sui tempi tecnici di distruzione e di ricostruzione: sono imbecilli o sarcastici?! Una cosa è certa, afferrano il segno offerto da Gesù e, detto fatto,  distruggono di lì a pochi giorni il ‘tempio del suo corpo’.

Così però offrono a Gesù la possibilità di risuscitarlo (‘ricostruirlo’), quel suo corpo, in tre giorni!

A questo punto che direbbero gli impeccabili cultori della forma? Potrebbero assai devotamente pregare così: "Signore, la sostanza della risurrezione c’è tutta. Se però tu avessi curato un tantino pure la forma! Suvvia, per risorgere dovevi proprio morire a quel modo! Non sta bene!…"

Gesù, legislatore a rovescio

<<Ogni legislatore, a partire da Hammurapi fino allo stesso Mosè, aggiunge legge a legge. Parrebbe normale. Non parliamo poi dei nostri legislatori attuali, in assoluto i più prolifici facitori di leggi del mondo! Qualcuno sarcasticamente mi ha spiegato che non occorre più neanche scriverle, oggi, le leggi: si accende il computer e si usa il ‘copia e incolla’!

Gesù no. Lui, il ‘legislatore sommo’, non ha scritto nessunissima legge nuova. Come si meritò dunque il titolo? Facendo il contrario e cioè riducendo tutte le leggi divine a un solo comandamento, il comandamento dell’amore: "Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore e ama il prossimo tuo come te stesso"… anzi di più, "Come io ho amato voi!".

Sei anche tu uno di quei fedeli cristiani che si lamentano del carico di ‘dogmi e di obblighi’ che il cristianesimo imporrebbe? Uno di quei fedeli, ben catechizzato ma anche fortunatamente arguto, mi fece la contropredica qualche tempo fa, fuori di messa: "Un solo Dio, due nature in Gesù Cristo, tre Persone nella SS. Trinità, quattro virtù cardinali, cinque precetti generali della Chiesa, sette sacramenti, otto beatitudini, dieci comandamenti, dodici apostoli, su su fino ai quaranta giorni di Quaresima e ai cinquanta di Pentecoste… Preti, siete troppo complicati per noi uomini del XXI secolo! Noi siamo snelli e fulminei anche nei contenuti, tutti rigorosamente in formato SMS". L’osservazione di quel papà in carriera, pur nella sua ironia, merita attenzione. Tuttavia può valere contro noi preti, che spesso moltiplichiamo gli obblighi, non certo contro Gesù, che è invece il semplificatore per eccellenza!>> (da www.jesus1.it). 

La sostanza è l’amore

Gesù si spinge ancora più avanti: addirittura pensiona la legge e sostituisce la legge con la fede. Lo capì per primo san Paolo: "Questo solo io vorrei sapere da voi: è per le opere della legge che avete ricevuto lo Spirito o per l’ascolto di fede?"(Gal. 3,2). "Non rendete vana la croce di Cristo" (1Cor.1,1) con la pretesa di una salvezza comprata con le vostre buone opere!

La fede cristiana è la più semplice che ci sia: Credo in Gesù morto per amore nostro e risorto perché è Dio! Stop! Ecco il nocciolo. Ma il papà minimalista di cui sopra non s’accontenta e insiste: "Ma conta di più la fede o l’amore?". Nel Vangelo fede e amore non sono due cose troppo diverse. Se classicamente l’amore è quello che noi riusciamo a donare agli altri, la fede è riconoscere l’amore che Dio ha per noi, prima di tutto e nonostante tutto.

Alla domanda del titolo va infine risposto che no, non c’è nessuno che faccia osservare le regole! Il cristianesimo non è un sistema fondato sulla legge e la forza, non è un regime di polizia. Il cristiano si fonda sul Crocifisso. Il cristiano segue uno che sa quel che c’è nel cuore di ogni uomo, quindi prova ad amare e poi fa quel che vuole, come consigliava l’esperto s. Agostino.

Armando Cattaneo

parroco e direttore del portale www.jesus1.it

QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA:

"Io faccio quello che voglio!" (Dio fa alleanze, l’uomo le tradisce)

La pretesa dell’età adulta

Le prime battute del brano delle Cronache sembrano descrivere il bambino capriccioso che c’è in noi.

Noi uomini con Dio siamo capricciosi, non c’è dubbio. Fin dal primo uomo e dal primo giorno noi vogliamo fare di testa nostra, irresponsabilmente, perenni bambini che giocano col fuoco.

"Che male c’è a fare di testa nostra?".  Quando un ragazzone è cresciuto nel fisico ma non altrettanto nella responsabilità, combina tanti guai. E’ quanto succede in prevalenza oggi.

<<Noi uomini ‘moderni’ abbiamo rivendicato la nostra età adulta, non dipendiamo più da Dio, vecchio ‘padre-padrone’. Abbiamo dichiarato la nostra autosufficienza per bocca di alcuni grandi filosofi dell’Ottocento: Hegel, Marx, Nietzche. Abbiamo lasciato che si dicesse in giro che la religione è ‘l’oppio dei popoli’, che possiamo benissimo vivere ‘come se Dio non ci fosse’, che ‘Dio è morto’ e senza neanche aggiungere "…ma poi è risorto" come invece fecero Guccini e i Nomadi nella loro bellissima canzone.>> (da www.jesus1.it).

La delicatezza dell’orso in cristalleria

Coerentemente avremmo dovuto dar prova, a livello planetario, della nostra acquisita maturità.

Invece l’uomo, appena proclamatosi adulto, nel secolo scorso ha prodotto due guerre mondiali, i lager nazisti,  i gulag staliniani, la ‘rivoluzione culturale’ alla Mao, la capacità atomica di autodistruggersi qualche migliaio di volte…  Poi abbiamo fatto credere di aver messo la testa a posto e abbiamo ‘significativamente’ ridotto la capacità di distruggere l’intera umanità a sole (!) 500 volte, abbiamo sostituito alle guerre mondiali alcune decine di guerre ‘locali’ in contemporanea, abbiamo seminato nei campi di manioca, di riso e di mais del sud del mondo svariati milioni di mine di ogni tipo: anticarro, antiuomo, a grappolo, mimetiche, a forma di giocattolo … Potremmo descrivere la storia del secolo passato, il secolo dell’uomo emancipatosi da Dio, con l’immagine dell’orso inferocito che si muove nel mondo come in una cristalleria…

Ora siamo arrivati alla globalizzazione, un’opportunità unica per dimostrare l’effettiva maturità raggiunta dall’uomo contemporaneo che si relaziona e si confronta a livello appunto ‘globale’. Se non che l’abbiamo affidata guarda un po- alle multinazionali, celebri per il loro spiccato senso del bene comune(!). Per salvare la faccia le poche famiglie di padroni del mondo indossano maschere malmesse: Banca Mondiale, WTO (Organizzazione Mondiale del commercio), governi democratici e persino guerre con democrazia da esportazione incorporata.

La responsabilità rifiutata

"Che c’entriamo noi in tutto questo?" Eh no! Non si può vantare l’età adulta e poi scaricarsi di ogni responsabilità nelle scelte pesanti! "Io faccio quel che voglio!"è forse la frase più espressiva dell’età contemporanea. Benissimo! Basta poi assumersene le responsabilità! Abbiamo tutta una serie di peccati ‘globali’ sulla nostra coscienza ‘adulta’ e nuova di zecca perché mai usata: continuiamo a pensare in piccolo; lasciamo la politica alle lobby di pressione; ci piace ‘distrarci’ facendo pagare a miliardi di altri esseri umani le nostre ‘distrazioni’; accettiamo come sempre più normali le menzogne e la corruzione di chi decide sulle sorti dei popoli… In realtà, chi racconta frottole è un imbroglione, e certe frottole sono assassine. Ma chi le ascolta e sta zitto è un vile! "Non temo la crudeltà dei cattivi, ma il silenzio dei buoni!". Oggi l’omertà sembra esportata dai quartieri della mafia al mondo intero! Se non mi sdegno per un’ingiustizia, faccio peccato! Se non mi batto a favore di chi riceve ingiustizia, faccio peccato! E quando compro cose inutili o di multinazionali che sfruttano i bambini, l’ambiente e anche me che compro, faccio peccato!

‘Nuovi’ peccati

Poi c’è tutta una serie di ‘nuovi’ peccati ‘sociali’ e non politici: quando guido dopo aver bevuto, o a 180 all’ora, o badando al telefonino e senza cinture, faccio peccato! Quando lavoro senza le protezioni salvavita, quando ‘tiro sera’ da lavoratore stipendiato o quando non pago il giusto salario a chi lavora per me, faccio peccato! Quanto dovremmo continuare?

C’è infine tutta la classe dei peccati tradizionali che però sembrano essere spariti dalle coscienze contemporanee: se tradisco mia moglie non sono un furbo, neanche se la faccio franca, sono un adultero infedele! E se non onoro Dio con la messa domenicale sono un cristiano incoerente. Se penso solo ai soldi sono un avaro, e se non aiuto il vicino sono un egoista, e se mi comporto così pur andando in chiesa, raddoppio: sono pure ipocrita!…

Armando Cattaneo

parroco e direttore del portale www.jesus1.it

QUINTA DOMENICA DI QUARESIMA:

"E che?… non mi sarò messo con un perdente?!" (Gesù è il chicco di grano che deve morire)

Il chicco-Gesù muore soffocato

<<Gesù sulla croce parlò molto, secondo la tradizione sette volte. Parole memorabili: ‘Padre, perdonali’. ‘Ho sete’ (ora diventato il ‘logo’ di madre Teresa di Calcutta). ‘Oggi sarai con me in paradiso’… Ma neppure da lassù Gesù fu capito e dovette portare una croce speciale, la Croce dell’incomprensione. Temo che il chicco-Gesù sia morto soffocato: non solo fisicamente per effetto della croce, ma anche moralmente, per effetto dell’incomprensione. Una incomprensione multipla:

-degli avversari che lo deridono: proprio non capiscono cosa prova un uomo in quelle condizioni di sofferenza estrema! Uno sulla croce avrebbe diritto al massimo rispetto anche dal suo peggior nemico!

-dai suoi discepoli che lo mollano, per viltà, ma anche perché vanno in crisi e non capiscono che diavolo stia succedendo: Lui, che ha dominato sui demoni e sui malati, sulle tempeste e sulla morte… ora non si decide a scendere da quella croce!

-Pazzesco ma vero, Gesù in croce non si sente capito neanche da Dio Padre!  "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". Questo è l’urlo scandaloso che la Via Crucis illustra terribilmente! Perché questa asfissia anche morale? Le scelte d’amore non aspettano approvazione, valgono per se stesse!

-L’unica che, inerme e impotente, sembra capirlo è la madre, Maria! >> (da www.jesus1.it).

La croce dell’incomprensione

L’incomprensione è una ‘croce’ che entra quotidianamente nella nostra vita. Non ci deve scandalizzare, è la regola, purtroppo, dal momento che nei rapporti prevale spesso la diffidenza, che fa vedere il lato peggiore negli altri. Ognuno di noi vive quasi da ‘pregiudicato’ ed ha ogni giorno l’onere della prova di essere invece uomo onesto, buono, serio, positivo, benintenzionato.

Ci capita di non capirci tra estranei, ma anche tra conoscenti, tra parenti, tra familiari, tra coniugi!! Capita di non capirsi in un convento e in una parrocchia… E più stretto è il legame che ci unisce e più profonda è la ferita che ne riportiamo!

L’incomprensione è la croce più diffusa tra noi uomini e donne sulla faccia della terra. Sottolineo questo aspetto del ‘mal comune’ per medicare e lenire almeno un po’ le ferite che l’incomprensione apre, per aiutare a sdrammatizzare! Essa è dovuta ai limiti delle nostre capacità. Non che non sappiamo capire, piuttosto non sappiamo ascoltare. Sorvoliamo su ciò che l’altro sta vivendo, provando e soffrendo. Di regola si parte da punti di vista diversi. Ed è logico, siamo persone diverse! Ma perché fermarci al punto di partenza? Certo, costa mettersi nei panni altrui! Eppure lo sforzo merita, perché è straordinario quando scopriamo una sintonia, un’intesa! La fatica della meta ne aumenta la gioia!

Una croce fatta in casa, con il kit di montaggio

Con tutto questo, l’incomprensione è una croce che ci costruiamo noi, non è legata a fattori esterni che ci accadono, non è ineluttabile come la malattia o una disgrazia! Noi ce la montiamo e noi possiamo smontarla, vincerla e distruggerla!  O almeno alleggerirla. Anziché sdegnarci per non essere capiti, costruiamo con pazienza e umiltà un punto di vista condiviso, apprezziamo la visuale dell’altra persona! Oppure battiamoci per essere ascoltati, sforziamoci di esprimerci meglio e con maggiore rispetto. Soprattutto dedichiamo tempo e gusto al mondo dell’altro che entra in contatto con noi: è un tesoro, è un riassunto di valori e di vita! E’ amato dal Signore e questo basti per riuscire prezioso ai nostri occhi!

Si smonta l’incomprensione anche facendoci un esame di coscienza, riconoscendo gli sbagli e chiedendo perdono. Molto dignitosamente. A Dio e agli uomini.

Infine si smonta questa croce dell’incomprensione evitando di lasciarci deprimere, in particolare quando è stata montata da altri e non abbiamo in casa nostra né i ferri né lo schema per lo smontaggio. Quando poi la nostra coscienza, anche saggiamente consigliata, non ci rimprovera granché, dobbiamo mantenere calma e serenità, evitare di prendercela troppo! Se persino Gesù non era capito, che pretendiamo noi? Di essere meglio del Maestro?

Gesù, oltre alla croce di legno, per le strette viuzze di Gerusalemme sentiva pure il sibilo di tante frasi velenose a suo riguardo. Il bene vince il male, sempre! Ma di solito sulla lunga distanza!

Armando Cattaneo

parroco e direttore del portale www.jesus1.it

DOMENICA DELLE PALME

"E no!… Questo non si ferma neanche davanti alla morte!" (Racconto della passione di Gesù)

La ‘Settimana santa’, storia di amore e di morte

Con la Domenica delle Palme inizia la Settimana Santa: guardiamola nel suo insieme!

-In quella splendida mattina di primavera, a Gerusalemme la gente era tanta e tutta acclamava Gesù. Lui attraversò il podere dell’Orto degli Ulivi con migliaia di persone intorno! Giorni di gloria!

-Il giovedì sera però, alla sua ultima cena, rimasero solo i suoi Apostoli … e neanche quelli eran tutti affidabili: ricordi Giuda? Gesù ritornò nel medesimo Orto del Getsemani, ma era ormai solo. Mai era stato tanto solo. Gli Apostoli, i suoi migliori amici, non se ne rendevano conto e si addormentarono senza fargli compagnia. Notte di tradimento!

-il venerdì, per gli Ebrei era la vigilia di Pasqua, la folla tornò in piazza… ma non era più per Gesù. I potenti l’avevano imbambolata e tirata dalla loro.  Popolo bue!

-la domenica mattina seguente, la mattina di Pasqua per noi cristiani, solo un gruppetto di donne pensava ancora a Lui e si affrettava verso il suo sepolcro!

Eppure, mentre ancora tutti dormivano, Gesù -che i potenti credevano di avere addormentato per sempre- si rialzò! Risuscitò! E quella fu la mattina della morte fatta a pezzi, una volta per tutte. La mattina della Nuova Creazione, del Mondo Nuovo!

Oggi con Lui e venerdì contro di Lui!

Che succederà nella Settimana Santa di quest’anno 2006? Si ripeterà la medesima sequenza?

+Anche oggi nelle chiese noi cristiani siamo tanti e pieni di entusiasmo: proprio come a Gerusalemme, quella mattina di sole!

+Vorrei tanto che giovedì sera nelle chiese non si ritrovino i soliti ‘fedelissimi’, gli ‘abbonati’…

+Venerdì, già lo so, torneremo ad essere in molti nella chiesa. Affascinati dal Cristo così innamorato di noi che non lo ferma nessuno, neanche la morte? Intenti ad ascoltare insieme il racconto della Passione? Oppure solo per il rito di un bacio alla croce, per una devozione personale, perché così si usa, perché così fan tutti?

+ La notte di Pasqua, infine, dove saremo? "Sa, reverendo, il viaggio, i parenti, la cena. Domenica la gita fuori porta… Tanto già lo sappiamo come va a finire. In fondo, la sua morte ci commuove, ma che Cristo sia risorto, a noi…"

‘Religione di massa’

Già! <<Questa è la ‘religione di massa’! Assomiglia alle ‘offerte’ del supermercato: ognuno prende quel che gli pare: la Croce si, la Risurrezione no o viceversa; il battesimo per il figlio si, il matrimonio in chiesa per noi due no; l’elemosina si, il saluto all’extra comunitario no; Cristo si, la Chiesa no…

Questa è la ‘religione di massa’: si può credere per convenienza economica (molti poveri nelle chiese trovano pane) o sociale (molti vi trovano un ruolo e un rango, specie alle processioni del Venerdì Santo!) o persino convenienza politica (la Chiesa è sempre la Chiesa!). Magari si crede per un fatto di convenienza ‘eterna’ (leggi: assicurazione contro il rischio-inferno!).>> (da www.jesus1.it). 

Spero che senta anche tu la stonatura! C’è una sfasatura forte tra quello che Gesù ci sta per donare (se stesso, la sua vita) e quello che molti di noi si aspettano da Lui!

<<Signore, perché ti disturbi con la tua tremenda Passione (che oltretutto mi spaventa)? Io m’accontento di un po’ di salute! E gradirei quella grazia che tu sai, ben più della tua Risurrezione! Questa… dove la metto?… Non ho più spazio in casa per i soprammobili!" >> (da www.jesus1.it). 

Religiosità in crescita e fede in calo

Oggi tutta la folla fa festa a Gesù, ma lui è silenzioso, pensieroso. Non è capito: lui, re di pace, ha scelto apposta un asinello (nessuno mai ha fatto la guerra con gli asini!) eppure la gente lo esalta come condottiero contro i Romani! E’ brutto non essere capiti! Si rischia di finire in croce… Ma lui non lo ferma nessuno, neanche la morte.

Gli Apostoli vanno in crisi e va in crisi, nell’impatto con il mondo, la fede ‘da processione’ e quella ‘da calendario scolastico’ (rigorosamente niente messa né ‘opere buone’ durante le vacanze, di Natale, di Pasqua o estive che siano)…

Per disgrazia o per fortuna noi cristiani siamo ora un ‘piccolo gregge’. Continuare a pensarci in una società a prevalenza cristiana ci fa bastare una religiosità superficiale che non punta ad una forte identità personale e di  Comunità; ci fa aspettare sempre l’aiuto di leggi civili favorevoli e convive con una ignoranza imbarazzante sulla propria fede.

Armando Cattaneo

parroco e direttore del portale www.jesus1.it

PASQUA  2006           "Che forza! Complimenti!" (Racconto della Risurrezione di Gesù)

Rischiare

Pasqua vuol dire letteralmente ‘passaggio’. Non parliamo però di calcio e il ‘passaggio’ non è quello raffinato di Totti o Del Piero. Pasqua è il passaggio di Gesù attraverso le zanne della morte.

E’ stato un passaggio duro. Nei film d’avventura c’è sempre un passaggio pericolosissimo, estremo, dove l’eroe si gioca tutto attraversando un fiume o un burrone vertiginoso sotto il fuoco nemico. In alpinismo la difficoltà estrema è detta di ‘sesto grado superiore’. Gesù ha superato il suo sesto grado superiore e può onestamente dire a ciascuno di noi: "Tu vali la mia vita! Io ho dato la vita per te!".

Il nocciolo del Cristianesimo, cioè la Pasqua, non è conservare qualcosa, ma rischiare tutto.

Gli Ebrei rischiarono lanciandosi nel Mar Rosso. Gesù rischiò tutto sulla croce. A noi tocca rischiare su Gesù. Il cristiano è un uomo dinamico, uno che si mette in gioco, un pioniere, un giocatore d’azzardo!

Gesù ha messo al sicuro, in un luogo irraggiungibile per il diavolo, la nostra salvezza; l’ha blindata e nessuno più gliela strapperà. "Chi strapperà la preda all’uomo forte?" si chiede il Salmista. L’uomo forte è Gesù e la sua preda siamo noi: per noi ha lottato, per noi ha vinto! Ha superato i ‘passaggi’ più difficili! Questo vuol dire che Gesù "ha fatto pasqua".

Una Pasqua ‘laica’

Ora tocca a noi affrontare il nostro passaggio tra gli scogli del quotidiano. Volentieri o controvoglia tutti stiamo facendo "pasqua", perché il solo fatto di vivere è "compiere un passaggio". La festa di Pasqua spiega una realtà che fa parte dell’esistenza ed è quindi comune a tutti, credenti e laici!

Con noi, a fare pasqua (e cioè a lottare per superare i passaggi stretti della vita) c’è il mio vicino di casa che non è qui in chiesa perché ha preferito le Seycelles. C’è anche l’altro mio vicino che non è qui per un motivo più proletario: "Sgobbo tutti i giorni e a Pasqua voglio dormire". Anche una vacanza e dormire e anche bere e persino drogarsi, in fondo, sono tentativi di ‘passare’ tra i guai della vita. Dunque anche loro stanno facendo Pasqua con noi! Certo, va ammesso: fare Pasqua da cristiani è meglio: sai che cosa vuol dire avere una Guida sicura sul passaggio difficile? Avere chi mi prende e mi carica in spalla quando mi vede terrorizzato dal vuoto della vita, o sfinito dalla stanchezza, o smontato dall’essermi perso? La parabola della pecora smarrita è pasquale e racconta di me.

Il Risorto è ‘avanti’, troppo ‘avanti’

<<Dire "Gesù è risorto!" è raccontare in tre parole il fatto centrale della storia umana. Questa notizia squassa il mondo e costringe a rivedere le idee correnti.

* Se Cristo è risorto, quelli che sono contro la vita sono vecchi, superati, battuti! Chi è a favore dell’aborto è battuto, chi vuole la pena di morte o l’eutanasia è da retroguardia! Chi vuol avere un bambino da un embrione selezionato tra molti (fecondazione assistita) è fuori gioco. Cristo è vita per tutti, non solo per i selezionati! Chi alza i prezzi (dei farmaci salvavita poi!), chi spreca l’acqua, chi inquina, chi butta via pane e vestiti… fa parte di un mondo antiquato, è rimasto indietro, non ha fatto il passaggio!

Da quando Cristo è risorto è così. La Pasqua fa di colpo superati proprio quei progressisti che giudicano sorpassata la morale cristiana!

* Se Cristo è risorto, i pessimisti, i catastrofisti, tutti i profeti di sventure sono demodé, perché con la Pasqua di Cristo la vita vince. Tra vita e morte ormai non c’è più gioco, da quando è sceso in campo lui, la partita è già vinta: Gesù fa la differenza.

* Se Cristo è risorto, gli egoisti sono patetici. Si sa già che ha prevalso l’amore, cioè l’opposto dell’egoismo. Se loro non lo sanno, andateglielo a dire. Ma è così…anche quando non sembra!>> (da  www.jesus1.it).

"Lui ci crede davvero!"

A tutta questa gente, che comprende anche me e te, bisogna solo aprire gli occhi! Occorre che qualcuno e sempre  ricominci a fare come gli Apostoli dopo che avevano visto il Signore risorto: correvano per il mondo a dirlo a tutti. Duemila anni fa, anzi stanotte, Uno è risorto. Io lo conosco e Lui mi conosce. Lui conosce anche te. Ha sofferto perché ti vuole bene.

Perché non ne tiriamo le conseguenze?

E’ ora di cambiare vita, di fare un ‘passaggio’ deciso. "Buon Passaggio a tutti!" Allora sarà Buona Pasqua. Evitiamo la gaffe di quel papà che manda il bimbo a scuola dalle suore e a Pasqua si lamenta con il parroco: "Gli hanno spiegato così bene che Gesù è risorto che adesso lui ci crede davvero!".

Ti auguro di essere come il bambino, non come il papà! Buona Pasqua, Cristo è risorto! E’ veramente risorto! E’ cominciato il mondo nuovo. 

Armando Cattaneo

parroco e direttore del portale www.jesus1.it

Supplemento n. 1 a Famiglia Cristiana n. 7 del 12/2/2006

VERSO IL CONVEGNO DI VERONA

TESTIMONI DI GESU’ RISORTO, SPERANZA DEL MONDO.

Come la speranza cristiana oggi si fa vita      

Il travaglio del parto

"Caro Riccardo, tu devi sapere che non sei qui per caso. Ricordo il giorno in cui il dottore mi disse che diagnosticava ancora un tumore all’inguine. La mia reazione fu quella di ripetere più volte: "Sono incinta! Sono incinta! Ma io, dottore, sono incinta!". Mi opposi con tutte le mie forze al rinunciare a te. Riccardo, sei un dono per noi. In quella sera, in macchina di ritorno dall’ospedale, ricordo che ti muovesti per la prima volta; sembrava che mi dicessi: "Grazie mamma che mi vuoi bene!". (da Maria Cristina Cella Mocellin  ‘Una vita donata’ Cinisello Balsamo 2005).

Cristina è una mamma di tre bambini della mia parrocchia, morta a 26 anni per un tumore che aveva sì voluto curare, purché non venisse danneggiato il bambino che portava in grembo. Ha lasciato un diario bellissimo da cui ho tratto queste righe.

Cristina non è semplicemente una ‘mamma coraggio’, è una testimone della speranza, una di quelle che ha preso sul serio quanto Pietro scrisse: "…pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi."(1 Pt. 3,15).

E se fosse che sempre la speranza cristiana è come un parto e dunque un infuso di attesa e di gioia ma filtrato dal dolore? Se fossero proprio questi i suoi ingredienti naturali? Certo non posso indurre da una esperienza singola come quella ora citata una legge universale! Me lo fa sospettare però san Paolo quando spiega ai Romani: "Sappiamo, infatti, che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto" (Rm. 8,22).

Questa intuizione forse motiva lo smarrimento della speranza nelle nostre civiltà opulente: se fosse che abbiamo paura proprio di quel ‘dolore da parto’ che sempre la speranza porta con sé? La speranza comporta coraggio, slancio, un ‘buttare il cuore oltre la siepe’. Se fosse che ci manca proprio questa voglia di far nascere un ‘nuovo cielo e una nuova terra’? Se la speranza assomiglia ad un parto, perché stupirci che non abiti più le case dei molti tra noi che ormai fa vita da vecchio?

"Lasciateci sognare"

Eppure la speranza cristiana non conosce età. Fu meraviglioso il card. Martini quando celebrò il suo 70° compleanno rivendicando una sorta di nuovo diritto per il Terzo Millennio che si profilava all’orizzonte: "Lasciateci sognare!".  Questo grido "…vuole appunto esprimere la speranza che può venire da una visione di futuro che lasci spazio alla potenza di Dio e alla forza costruttiva delle beatitudini evangeliche, non da un ripiegamento ossessivo e analitico sui nostri mali. Si chiede dunque di ispirarsi a progetti positivi; di dare spazio allo Spirito il quale farà sì che negli ‘ultimi giorni’  (lo sono anche i nostri) "i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno dei sogni" (At 2, 17)".

E’ chiaro anche da queste righe che la Speranza cristiana è ben altro che ottimismo! E’ una sorgente che sta in Dio e non secca mai, ma ristora solo chi arrischia sogni e ‘dolori del parto’.

I cristiani, anima del mondo

A volte mi immagino il Sud del mondo come un serbatoio di speranza ad alta pressione, mentre noi del Nord come un contenitore sfiatato. Se la speranza riesce poco, in questo passaggio della storia, a lievitare la nostra civiltà occidentale, noi cristiani non siamo esenti da colpe! Personalmente non smetto di stupirmi di quel tipo di presenza ‘politica’ dei cristiani nel mondo descritto dalla Lettera a Diogneto, risalente a 200 anni dopo Cristo: "I cristiani… non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale... Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale… Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto… Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano." (Lettera a Diogneto, cap. V).

Si può ancora oggi vivere così? Certo che si! Ogni parroco lo potrebbe documentare con un vasto dossier!

Grandi storie…

E non solo i parroci. Ormai fanno tendenza i giornalisti anche celebri che pubblicano raccolte di ‘storie di speranza’: Candido Cannavò, lasciata la direzione della Gazzetta dello Sport, il celebre ‘vangelo rosa’,  ha raccolto tracce di Vangelo vivo ed ha appena dato alle stampe ‘E li chiamano disabili’, che segue a ruota il fortunato ‘Libertà dietro le sbarre’. Tutte storie di rinascita, di nuovi parti, di speranza quindi! Prima di lui Luigi Accattoli, vaticanista storico del Corriere della Sera, aveva raccolto, in ‘Nuovi Martiri’, 393 storie di cristiani d’oggi che hanno vissuto l’esperienza del ‘secondo parto’: morti per amore. Non a caso i primi cristiani chiamavano ‘dies natalis’ il giorno della morte dei martiri! Famiglia Cristiana, per restare in casa nostra, ha una rubrica fissa ‘L’angolo della speranza’ e per tanti anni su Telenova, l’emittente lombarda di ispirazione cristiana, Mimma Russo ha presentato infinite storie e persone di speranza.

…E fioretti, ovvero storie di ordinaria speranza

Quando la speranza cristiana si fa vita, inevitabilmente si traduce in una serie di ‘fioretti’. Se tu li osservi da vicino, ognuno è una bella storia e niente di più. Se te ne allontani solo un po’ t’accorgi che tutti insieme formano una gran macchia di colore che ha la forza di mutare il paesaggio all’intorno. Anche le piccole storie di quartiere, tracce di speranza vissuta, collegate fra loro, cambiano la società. Ci puoi scommettere! Eccone alcune:

-Papà Daniele e mamma Carla, laureati, con due bambini, studiano lo spagnolo, chiedono l’aspettativa dal lavoro  e partono per Huacho, angolo sperduto del Perù. Lavorano tre anni nella Missione cattolica e tornano… con un terzo figlio.

-Nel chiostro della parrocchia è esposta la mostra missionaria. Un marocchino in fila per ricevere vestiti usati osserva la foto di una capanna di latta e mormora: anche mia moglie, i miei due bambini ed io non abbiamo casa, ma stiamo in un alberghetto pagato dal comune e ringrazio Dio cento volte ogni giorno.

-I preti sono sempre meno e ne siamo tutti preoccupati. Ma anni fa il vescovo di Milano e quello di Treviri (Germania) in vena di confidenze, si sussurrano l’un l’altro che spesso le parrocchie con meno preti si ritrovano ad essere più vivaci e più coralmente impegnate! Quanti nuovi papà e mamme impegnati al posto di un prete!

-Il marito lascia la moglie per un’altra donna, più giovane e brillante. Dopo vent’anni si ammala e viene cacciato dalla sua seconda donna. Dove si rifugia? Dalla prima! Che lo riaccoglie in casa, vive con lui come sorella con fratello, lo cura e lo accompagna alla morte. E’ successo tre anni fa nel mio quartiere.

-Quando a sfasciarsi è una giovane famiglia da sempre impegnata in parrocchia, proprio tra i ‘fedelissimi’ le malelingue si sprecano. Eppure conosco Comunità parrocchiali ‘belle’, decise a mettere da parte giudizi e pregiudizi per farsi intensamente accoglienti verso sposi ‘falliti’ e giovani omosessuali. Si sono date un criterio: "I princìpi contano prima del danno. A cosa fatta contano solo le persone". Vangelo allo stato puro.

-Non è molto che ho celebrato il funerale di Teresa che visitava i malati ancora a novant’anni. No, non era dottoressa, lo faceva solo per offrire e trovare compagnia. Troppo poco?!

-Da noi andare di casa in casa è una scelta. Ma non tanto dei preti. Ci sono più di cento ‘visitatori’ che, a due a due come i discepoli che Gesù inviava davanti a sé, visitano almeno tre volte l’anno ognuna delle 4.500 famiglie della parrocchia. E si creano conoscenze, legami, persone di riferimento anche con quel 90% di famiglie che in chiesa non ci viene mai. In una visita da madre a madre spesso ‘passa’ di più che da prete a fedele!

-Manuela è una giovane sposa che non passa inosservata. Il sabato notte è la voce solista in discoteca, la domenica mattina guida i canti in chiesa. Lavora, balla… Poi si è iscritta alla Scuola di teologia per laici e ne è rimasta conquistata. Vi ha sacrificato tutto… Marito escluso!

Sono microracconti a cui ogni parroco potrebbe aggiungere i suoi. E’ l’affiorare della speranza che il cuore di Dio Padre pompa giorno e notte nelle vene di questo nostro corpo sociale spesso dato già per spacciato!

E potrei raccontarti non solo di vene, ma pure di capillari che fanno scorrere speranza:

*I ‘Centri di ascolto della Parola di Dio’ e i ‘Centri’ che ascoltato i bisogni degli uomini (Caritas). *tre ergastolani a un funerale (quello del papà).  *Settembre: Serena va in convento e Matteo in seminario.  *La clandestina che, già cacciata di casa per morosità, continua a pagare l’affitto arretrato a piccole rate. *Il kamikaze palestinese pentito e rifugiato. *Il terrorista BR omicida che chiede in parrocchia un computer per lavorare. *L’aspirante modella che ‘lascia’ un dito della mano destra in oratorio, causa incidente mentre fa giocare i bambini, si cura e torna a farli giocare…

Lo Spirito di Cristo è al lavoro

A generare speranza… "E’ la convinzione che lo Spirito c’è, anche oggi, come al tempo di Gesù e degli Apostoli: c’è e sta operando, arriva prima di noi, lavora più di noi e meglio di noi; a noi non tocca né seminarlo né svegliarlo, ma anzitutto riconoscerlo, accoglierlo, assecondarlo, fargli strada, andargli dietro. C’è e non si è mai perso d’animo rispetto al nostro tempo; al contrario sorride, danza, penetra, investe, avvolge, arriva anche là dove mai avremmo immaginato. Di fronte alla crisi nodale della nostra epoca che è… la crisi del senso di Dio, lo Spirito sta giocando, nell’invisibilità e nella piccolezza, la sua partita vittoriosa." (C.M. Martini, Tre Racconti dello Spirito). Il fatto è che la speranza cristiana si appoggia su un fatto già avvenuto: la risurrezione di Gesù. E’ da quel mattino di Pasqua che lo Spirito di Cristo ‘danza, penetra, investe, avvolge’…

Testimoni di speranza del ‘900

Mi occorrono tutte le pagine di una guida del telefono! Dunque: cominciamo con tutti i papi. Ah, i papi non valgono? E neppure i santi né i beati? Meglio perché abbiamo finito lo spazio: Madeleine Delbrel, Dag Hammarskjold (Segretario generale dell’ONU), Annalena Tonelli, Helder Camara, Oscar Romero, padre Puglisi, madre Teresa di Calcutta e mille suore come lei, l’Abbé Pierre, Charles de Foucault, Arturo Paoli, Giuseppe Dossetti, Giuseppe Lazzati… le centinaia di missionari uccisi. Scrivo d’un fiato, a casaccio, solo per ‘sparare nel mucchio’. Saranno santi? Non lo so. Certo hanno dato ragione della speranza che era in loro.

Armando Cattaneo, parroco

Per contattare l’autore, entra nel portale da lui curato tutto su Gesù e sui ‘poveri cristi’   www.jesus1.it

Supplemento n. 1 a Famiglia Cristiana n. 8 del 25/02/07

Verso la Pasqua. Quaresima 2007

Il passaggio dal Carnevale alla Quaresima è brutale. Dalla follia festivaliera al ‘ricordati che sei cenere’! E da un giorno all’altro! ‘Troppo’ ti viene subito da pensare e così provvedi in automatico a stemperare il contrasto. Come? Ben difficilmente decidi di limitare gli eccessi del Carnevale, è molto più istintiva la scelta di ignorare almeno per un po’ di giorni (o settimane!) le esigenze della Quaresima! ‘Dopotutto non c’è fretta, sono sempre in tempo a ricordarmi di essere polvere’, ti viene da pensare.

La Chiesa invece no, non aspetta. Ti piazza le Ceneri all’indomani del Carnevale! Sembra tenerci al contrasto e, almeno in questa occasione, alle maniere forti e sembra suggerire che  "Il toro va preso per le corna". E il toro è ciascuno di noi, con vizi e difetti.

In questo, devi riconoscere, la Chiesa è molto moderna, anzi post-moderna, perché si sa che questa nostra è l’epoca dei contrasti, degli accostamenti forti, dei sapori marcati, delle tesi contrapposte e urlate. Carnevale Quaresima: che botta!

Il segno che connota questa prima settimana è obbligato, assurge addirittura alla nobiltà di segno liturgico: è l’imposizione delle ceneri. La materia è poverissima: cenere  ricavata dai rami d’ulivo della Domenica delle Palme dell’anno scorso. Come poverissima è la materia di tutti i segni liturgici: acqua, olio, pane sottile, vino, fuoco, fumo e profumo. Il gesto è tra i più suggestivi: un pizzico di cenere sparsa in forma di croce sulla testa dei fedeli, ancora impomatata di Carnevale, sopra uno sguardo ancora strapazzato dalla nottata e insieme consapevolmente pensieroso ormai. Le parole che accompagnano sono audaci: "Ricordati che sei polvere e che polvere tornerai!". Chi si permettesse di affrontare in questo modo il suo collega o il vicino di casa, si beccherebbe un brutto segno scaramantico contro lo iettatore. C’è anche una formula più conciliare, ma a sua volta decisamente perentoria, senza scampo: "Convertiti e credi al Vangelo!".

E’ data anche una terza via: compiere il gesto in assoluto silenzio, senza canti di sottofondo. Null’altro che il frusciare lento dei passi dei penitenti in processione che si accostano al celebrante. L’effetto è straordinario: ti pare di sentire lo sbriciolarsi del pugnetto di cenere e il suo peso sui capelli. Percepisci il tuo radicale essere di passaggio, la brevissima distanza che passa tra quel che sei e quella polvere impalpabile. Qualcuno se la scuote via in fretta e sbagli se credi che sia solo per ricuperare la sua presentabilità sociale; lo fa per paura; non vuole pensare a quel che quella cenere rappresenta. La morte è un tabù da nascondere! E non sto accusando proprio nessuno: lo sperimento in prima persona! La morte spaventa persino nei suoi più piccoli preannunci. Scuotere la cenere dalla testa per rimuovere la morte dai pensieri!

In realtà forse mai la morte ha ingombrato i pensieri della gente quanto oggi. La morte ingolfa i tg e le pagine più lette dei quotidiani. Puzzano di morte gli infiniti casi di pessimismo esistenziale, di depressione, di isolamento coatto o volontario. Si spande come fetido alito mortale l’umor nero che promana dalle facce di chi affolla la metropolitana, specie il lunedì mattina. E’ già come ferito a morte da un attentato chi diffida di ogni volto straniero, peggio se arabeggiante.

Da questo punto di vista, il segno delle ceneri da solo non basta più. Non ha più la forza di indicare all’uomo d’oggi la strada del vangelo. Nonostante le roboanti apparenze infatti, gli uomini oggi sanno fin troppo bene di essere polvere, ancora meglio lo sanno uomini e donne di successo. Sperimentano che nulla è tanto effimero quanto l’ambitissima fama. Accanto alla cenere bisognerebbe versare sul capo una goccia di preziosissimo profumo, con questa frase o una simile: "Ricordati che tu vali. Agli occhi del Signore vali molto. Gli sei prezioso! Gli costi sudore e sangue!"

Armando Cattaneo, parroco e direttore di www.jesus1.it

TRASFIGURAZIONE

II  DOMENICA SAMARITANA

L’immagine che ti accoglie, qui di lato, è la Crocifissione secondo Edward Munch. Quello del famoso ‘Urlo’, la tela rubata e recentemente ricuperata a Oslo. Basta poco per notare che Gesù in croce ha lo stesso urlo. Ma allora l’uomo dell’urlo più celebre della pittura mondiale è lui stesso, Gesù! E se partiamo alla ricerca dell’autore, non ci ritroviamo nella ‘cattolicissima Spagna’, né nell’Italia papalina, ma nella compassata e glaciale Norvegia. Alla faccia di chi non vede ragioni per riconoscere all’Europa radici cristiane!

Il discorso non cambia affatto quando ti spiegano che l’uomo dell’urlo è una sorta di monumento pittorico a tutti i disperati, che raffigura, forse senza averne mai neppure sentito parlare, gli internati dei campi nazisti e dei gulag sovietici. Dove credi che sia stato il Signore Gesù, dopo la ‘parata’ della sua ascensione alla destra del Padre? Dove se non nelle baracche di quei campi, nel secolo XX, e adesso nelle baracche di Korogocho, la montagna di rifiuti e liquami alla periferia di Nairobi?

Lo sai, vero, che cosa successe quando, davanti al palco di una impiccagione pubblica di una sfilza di innocenti sul piazzale del campo di Auschwitz, si alzò una voce a urlare disperata: "Dov’è Dio adesso?". Protetta dall’anonimato creato dalle mille e mille schiere di prigionieri costretti allo spettacolo, un’altra voce di alzò: "Non lo vedi? E’ lassù, impiccato fra gli impiccati". Ma torneremo sul tema dell’urlo di Gesù in croce, forse il Venerdì santo.

Come per la scorsa domenica, anche stavolta il segno è d’obbligo: il digiuno e la penitenza. Costituiscono addirittura uno de ‘I cinque precetti generali della Chiesa’. Non ne hai neppure mai sentito parlare? O ti sembrano un antico ricordo pre-conciliare?

Rimediamo subito! Te li propongo nella versione classica, anche perché non conosco una formulazione in un linguaggio meno ‘datato’. I cinque precetti generali della Chiesa sono:

1° Udire la Messa la domenica e le altre feste comandate.

2° Santificare i giorni di penitenza secondo le disposizioni della Chiesa.

3° Confessarsi almeno una volta all'anno, e comunicarsi almeno a Pasqua.

4 ° Soccorrere alle necessità della Chiesa, contribuendo secondo le leggi e le usanze.

5 ° Non celebrare solennemente le nozze nei tempi proibiti.

Perché mai mi è stato chiesto- neppure il Papa parla più dei ‘cinque precetti generali della Chiesa’? Non lo so, ma forse perché, considerata l’ignoranza e l’inosservanza persino dei ben più decisivi 10 comandamenti, la Chiesa pensa bene di mettersi in coda e di aspettare il suo turno, lasciando la precedenza a Dio Padre e ai suoi comandamenti. In realtà non è neanche così, perché la Chiesa non ha nessun potere di creare e di imporre altri doveri oltre quelli ricevuti da Dio. E infatti i 5 precetti altro non sono che indicazioni pratiche su qualcuno dei più celebri e cogenti 10 Comandamenti.

Il nostro segno, digiuno e penitenza, un classico della Quaresima, si riferisce esattamente al secondo precetto. La motivazione è invitare a muovere i primi passi di quel cammino che punta su Dio, passando dal cuore vero di noi stessi. La penitenza è un pezzo di strada in contromano. La conversione è una ‘inversione a u’ in piena autostrada. Lo so: è una manovra pericolosissima. Eppure è l’unica via d’uscita da una vita che ormai è troppo simile ad un incolonnamento permanente. Non si può accettare di vivere in colonna per tutta la vita! Oggi stai in colonna per andare al lavoro… e passi: si tratta del lavoro! Poi stai in colonna per tornare dal lavoro. E passi: è per rivedere moglie e figli! Ma non basta! Nei giorni di riposo, stiamo in colonna davanti alla cassa per spendere tutti allo stesso modo e negli stessi posti i soldi guadagnati nell’intervallo tra le due colonne di tutti i giorni lavorativi! E questo è troppo! Eppure è solo un’immagine dell’intruppamento globale in cui siamo finiti. La penitenza è innestare la retromarcia, è cercare un percorso di vita alternativo, è fendere la folla e scegliere di andare controcorrente, è la premessa per capire e gustare, un giorno, chissà, le pazze beatitudini di Gesù.

Armando Cattaneo, parroco e direttore di www.jesus1.it

STRAGI E FICO STERILE                   III DOMENICA                          ABRAMO

Vertigini. Se non ci hai mai pensato, guardando questa Crocifissione di Dalì capisci che Gesù sulla croce ha sofferto non solo per le terribili ferite dei chiodi, non solo per la progressiva asfissia dovuta all’impossibilità di respirare. Gesù sulla croce soffrì anche di vertigini, così issato sopra le follie degli uomini. Non a caso lui stesso predisse: "Quando sarò ‘innalzato’ sulla croce…". In verità la croce fisica era alta forse solo tre o quattro metri. Ma questa croce ‘metafisica’ di Dalì rivela la vera dimensione del valore della morte di Gesù: "…attirerò tutti a me." E anche "…per voi e per tutti!". Gesù disteso sulla croce sembra abbracciare il mondo intero, proiettato ben oltre l’orizzonte delle mura di Gerusalemme. Le mura di tutte le nostre città non lo contengono. Non sono riusciti a imbrigliare gli effetti della croce di Cristo le ‘cortine’ di ferro e di bambù del secolo XX, che recintavano URSSS e Cina di Mao. Non ce l’hanno fatta i fili spinati di Auschwitz percorsi dalla corrente, né gli strapiombi di roccia viva di Mauthausen. Non rinchiuderanno questo Cristo in croce neanche i nuovi vergognosi muri in costruzione tra Israele e Palestina, tra USA e Messico, tra Corea del Nord e del Sud…

Ma non basta: questo Crocifisso si innalza non solo ad abbracciare popoli e generazioni di uomini, ha pure una prospettiva da "terra vista dallo spazio" ante litteram, cioè decenni prima della conquista stessa dello spazio! Forse banalmente potremmo dire che proprio qui, sulla croce, Gesù riconquista la visuale che gli è propria: quella divina! Gesù ritorna al Padre servendosi di questa impensabile navicella, la croce. Ed è un ‘ritornare’ che non comporta nessun ‘lasciare’. Torna al Padre, senza lasciare noi uomini. Lui in croce è il legame indissolubile tra il Padre e noi figli.

Queste suggestioni possono essere preziose nel disporci a compiere il ‘segno’ suggerito in questa Veglia: la Via Crucis. In ogni chiesa trovi le classiche quattordici ‘stazioni’. Sono dette ‘stazioni’ perché indicano una sosta, dove ci si ferma a prendere fiato e a meditare, perché si tratta di una ‘via’, che quindi esige un cammino. Certo si tratta di un cammino interiore, in cordata con lo Spirito di Gesù che guida, e quindi lo si può percorrere anche stando seduti e con un libretto in mano. Ma non a caso il ‘segno’ non è una lettura in poltrona, bensì un percorso, anche fisico, lungo le navate della chiesa o, come accade a Lourdes per esempio, salendo faticosamente un monte. Allora si condivide con Gesù che sale il suo monte, il Calvario, almeno il fiatone e lo si imita un po’, anche senza arrivare ad imitarlo fino alle stimmate di san Francesco e di san Padre Pio, né fino al passo barcollante di papa Giovanni Paolo II.

Se provi a fare la Via Crucis una volta e poi magari a rifarla la settimana dopo, piano piano i vari personaggi che incontri alle stazioni ti aiuteranno a leggerti dentro, inavvertitamente prenderai il loro posto e ti sentirai il Pilato che tanto spesso se ne lava le mani, ma spero anche il Cireneo che pur controvoglia porta per un pezzo il procione pesante di Gesù. Ti scoprirai con le lacrime agli occhi come le donne che lui saluta passando e persino, te lo auguro, come la Veronica che si fa avanti coraggiosa, scegliendo la parte più scomoda, quella di stare dalla parte di un condannato, mentre di solito tutti saltano sul carro del vincitore…

Personalmente una Via Crucis l’ho anche ‘fatta’, nel senso di commissionata, realizzata e installata. E’ un’opera del 2000 e ho scelto quindi un artista con quel mix di fede e di sensibilità tipica del 2000. Aveva dipinto a New York i primi ‘trans’ venuti alla ribalta e una Madonna con la grinta e la classe di una Naomi Campbell. Ho avuto la fortuna di seguire la pittura di una stazione dopo l’altra e di condividere il percorso interiore dell’artista: dal viaggio in Israele per respirare l’aria che fu di Gesù fino alla composizione del pannello della Crocifissione che non voleva proprio ‘venire’. Ora l’opera c’è: è la Via Crucis di chi sta sulla soglia della fede. Forse è adatta a te o forse a tuo figlio o a tua marito… vedi in www.jesus1.it area Luca.

Armando Cattaneo, parroco e direttore di www.jesus1.it

FIGLIO SPENDACCIONE            IV DOMENICA                CIECO NATO

Siamo ormai a metà Quaresima, ci avviciniamo alla ‘domenica in rosa’. Quando la Quaresima era vissuta sul serio, anche con asprezze fisiche per noi oggi impensabili, era necessario tirare il fiato a metà strada. Così il viola della penitenza violenta si stemperava nel rosa di un sobrietà più comprensiva e accondiscendente verso i penitenti.

E’ anche un po’ per giocare sulla tavolozza dei colori che in questa Veglia ti proponiamo la ‘Crocifissione Gialla’ di Chagall. Il colore giallo rievoca l’oro, che a sua volta fa pensare alla gloria. Questo Crocifisso è già preannuncio della Risurrezione! Ancora c’è da salire, ma ormai si scorge la vetta, dove ogni fatica si trasforma in soddisfazione. La vetta della croce non è la morte, ma la risurrezione! Questo è il nocciolo della teologia cristiana e chissà se Chagall ne aveva piena consapevolezza. Certo è che a noi fa bene la sua teologia senza parole, fatta tutta con il colore!

Il segno di questa settimana può apparire inusuale, come i colori dei paramenti rosa o quelli sul giallo del dipinto di Chagall. Perché mai proporti di abbonarti ad una rivista o comunque spendere energie per ‘conoscere da cristiani’? Perché la penitenza meno accettata dai cristiani contemporanei è quella di leggere sulla propria fede e di essere credenti consapevoli. In verità tu stai già usando questo fascicolo e quindi già alzi il grado di cultura media dei cristiani italiani sulla propria fede(!). I dati sono pesantemente negativi: pochi cristiani, specie in Italia, dedicano tempo e anche un briciolo di denaro, per approfondire la loro fede, per reggere il confronto con chi la pensa diversamente, per offrire una seria possibilità di dialogo a chi è in ricerca.

Molti si dichiarano cristiani senza essere in grado di cogliere nemmeno il nocciolo di questa appartenenza. Stasera ti propongo di investire in conoscenza, di dotarti di uno strumento tale da qualificare la tua professione di fede. Le opportunità non mancano di sicuro, manca chi ne approfitti! Infatti gli strumenti di conoscenza oggi lasciano solo l’imbarazzo della scelta. E tuttavia temo che sia proprio la troppa scelta a scoraggiare spesso chi tenta l’abbordaggio a una fede cristiana consapevole. Amichevolmente ti vorrei dare solo qualche suggerimento: un libro serve per affrontare un argomento preciso, ma se desideri un libro che scrive di Gesù, fatti consigliare, per evitare cantonate tipo ‘Codice da Vinci’! Una rivista è più adatta per accompagnarti nel tempo e sostiene una sensibilità che già hai, un certo tuo filone di interessi: attualità, sociale, missionario, biblico, liturgico… Una conferenza e la partecipazione ad una o più serate ha il pregio di favorire l’incontro con persone con cui condividere valori e impegno. Frequentare un cineforum può coltivare un certo livello di gusto e propiziare chiacchierate fruttuose con una serie di persone, colleghi, amici.

Insieme con questi strumenti di conoscenza classici, oggi vengono proposti anche molti prodotti audio e video di grande qualità, normalmente molto migliori anche dei programmi tv meglio riusciti. Infatti la tv è costretta a ritmi produttivi forsennati che non permettono gran cura del prodotto finito! Decidere per un gruppo di ascolto in parrocchia può farti scoprire pagine bibliche affascinanti e può toccare la tua vita da vicino. Infine la proposta più audace: partecipare ad uno o più giorni di ritiro spirituale faciliterà una intimità con il Signore Gesù che può dare una svolta alla tua vita…

La carità inizia dalla conoscenza, dall’interessarsi agli altri. Il beato don Alberione, che 75 anni fa fondò questa rivista, la chiamava: ‘la carità della verità’. Noi preferiamo di gran lunga non sapere niente di chi ci chiede qualcosa, cercare in tasca una moneta qualsiasi e liberarci del fastidio di chi mette in discussione il nostro benessere fin troppo smaccato. Oppure ci esimiamo pure da questo con la scusa, ostentata, dei fondi deviati dalle corrette destinazioni di cui si parla sui media di tanto in tanto. No. Conoscere è la premessa per amare. Più su ancora del conoscere c’è l’operare nel sociale e nel politico. ‘La politica è la forma nobile della carità’, provocava Paolo VI. Figli spendaccioni e ciechi nati siamo un po’ tutti, ai nostri giorni. Spendessimo almeno bene! Come l’Italia spende troppo poco in ricerca, così noi italiani spendiamo troppo poco in cultura e… in fede! 

Armando Cattaneo, parroco e direttore di www.jesus1.it

L’ADULTERA V  DOMENICA LAZZARO

Conosco un nonno che a ottantasei anni suonati ha condotto una trattativa serrata con il nuovo amministratore del suo condominio: doveva assolutamente ‘vincere l’appalto’ per la raccolta dei rifiuti del suo palazzo. Doveva essere lui insomma l’omino che raduna i sacchi, li divide secondo i criteri comunali della raccolta differenziata e li porta in strada per il camion raccoglitore. Motivazione: "Ho 16 nipoti da mantenere". E non dice bugie: sei sono figli dei suoi figli, gli altri dieci sono bambini etiopi adottati a distanza e che lui da anni mantiene e fa studiare. In casa la schiera delle foto dei suoi sedici nipoti fa invidia a tutti i vicini e riempie tutte le ante di vetro dei mobili. "Il nuovo amministratore voleva risparmiare  e contenere le spese condominiali proprio tagliando il mio emolumento. ‘Tu affami dei bambini africani’, gli ho detto! …Senza questo lavoro non saprei davvero come mantenerli"

In parrocchia qui da me sono centinaia i bambini adottati a distanza. Così abbiamo pensato di farli uscire per un pò dalle cornici portafotografie e di inserirli in comunità, alla pari con gli altri nostri bambini. Ne abbiamo fatto tante sagome di compensato, una per ciascun bambino adottato a distanza e li abbiamo affidati ai loro genitori adottivi perché li vestissero e li accompagnassero. Dove? Dov’era giusto che andassero: e cioè a scuola, messi accanto al banco dei loro fratellini italiani; in chiesa alla Messa della domenica, tra le panche affollate di bambini in carne e ossa; alle partite di calcio (ma solo come spettatori!) e anche al supermercato. Avevano il difetto di stare sempre in piedi, non potevano sedersi mai(!), ma avevano tantissimi pregi: primo fra tutti che non chiacchieravano, non disturbavano mai e stavano ubbidienti esattamente dove li mettevi!

Sono due esempi veri, anche se un po’ provocatori forse, per illustrare il segno che ti propongo in questa Veglia. Ci aiutano a capire che un’adozione a distanza non è un’offerta come le altre. Genera relazioni, una nuova socialità, arricchisce la famiglia e ancora di più l’intera comunità. Forse sono un passaggio dolce dalla semplice offerta a quell’agire sociale che coinvolge e cambia i modi di pensare e di fare. Naturalmente bisogna sempre cercare di avere contatti non solo affidati ad un bollettino postale! Tra le molte scelte possibili è bene affidarsi a persone precise, o a organizzazioni conosciute. La parrocchia può sopperire all’impossibilità di conoscere direttamente le situazioni e si fa a sua volta garante. Ricordo la frase perentoria dell’economista Roberto Panizza, ispiratore della Campagna per la Remissione del Debito lanciata dal Papa nel 2000: "Il mondo l’ho girato tante volte, sono stato e ancora sono consulente di decine di Governi del nord e del Sud del mondo: delle organizzazioni di preti e suore potete fidarvi a occhi chiusi! Non di molti altri."

Certo la carità è ben altro che l’adozione a distanza o altre pur meritevoli forme di ‘elemosina’, elemosina che tra l’altro ‘copre una moltitudine di peccati’ come ricorda la Scrittura. Una forma di carità di cui poco si parla è quella dell’intercessione, che merita ben altro spazio, ma di cui un esempio meraviglioso è dato dal vangelo dell’Adultera. Chi intercede ‘si mette di mezzo’ fra due nemici e fa da mediatore. Gesù viene messo di mezzo proprio da chi stava per lapidare la donna colta in flagranza di adulterio. Viene richiesto di un parere da chi in realtà aveva già sentenziato sulla colpevolezza della donna e lui che fa? Si, certo, proclama la celebre frase: "Chi è senza peccato scagli la prima pietra!", ma pochi notano che Gesù fa precedere alla frase un lungo silenzio, mentre se ne sta accovacciato accanto all’adultera (posizione disdicevole!) e scarabocchia per terra. Come a dire: "Io sto con lei. Chi colpisce lei colpirà anche me. Chi ammazza lei, ammazzerà anche me. La mia sorte è legata alla sua!".

Lui ha legato la sua sorte a quella di tutti noi e ce l’ha dimostrato definitivamente sul Monte Calvario. L’opera che puoi ammirare qui accanto è appunto ‘Il monte Calvario’ di William H. Johnson. L'opera proviene dalla tradizione cristiana delle comunità nere d'America e rende le figure bibliche per l'appunto nere, come erano italiane negli artisti fiorentini e germaniche nei fiamminghi.

Armando Cattaneo, parroco e direttore di www.jesus1.it

L’ASINO DI GESU’ DOMENICA DELLE PALME CENA A BETANIA

C’è un test per scoprire se i fedeli di una parrocchia sono solo molto religiosi o se sono invece cristiani, che è tutt’altra cosa. Infatti essere molto religiosi non basta per essere cristiani! La religiosità è un elemento naturale dell’essere umano, tant’è vero che una corrente di psicologia sociale statunitense considera il ‘religious’ come uno degli elementi costitutivi dell’uomo, al pari dell’intelligenza e della volontà. E per essere cristiani non basta assecondare l’innato bisogno di rivolgersi a Dio e lasciarsi commuovere da qualche disgrazia altrui, occorre invece il riferimento preciso a Cristo!

Abborracciata questa premessa, come si fa a sapere se in una comunità prevale la vera fede cristiana o una generica religiosità?  I segni in verità sono moltissimi: se san Padre Pio batte la Madonna in quantità di ceri accesi, già questo dice qualcosa; se l’acqua santa è più desiderata del pane eucaristico, pure dice qualcosa… Ma il test decisivo è se la Domenica della Palme raccoglie più fedeli in parrocchia della Pasqua! Se la Domenica delle Palme la Chiesa è piena, sia ringraziato Iddio, sia ben chiaro! Ma se poi la domenica di Pasqua che la segue di otto giorni sfigura al confronto, il nostro povero Signore avrebbe pure il diritto di arrabbiarsi. Arrabbiamoci almeno noi per Lui!

"Sono un buon cristiano e non potevo correre il rischio di restare senza il ramo d’ulivo in casa!", mi spiega un ingegnere della RAI, alle sette e mezza del mattino della Domenica delle Palme di qualche anno fa. Lo rividi al funerale di un parente qualche mese dopo e, riprendendo il discorso gli chiesi: "…E un buon cristiano può restare senza il Cristo Risorto a Pasqua e in tante altre feste comandate?". Mi rispose che comunque, lui, il rametto lo aveva ancora e ben conservato(!). Già.

Caro amico che ti stai preparando con questa Veglia alla Domenica delle Palme, avrai capito che ho voluto prendere il segno dell’ulivo come emblema di tutta una serie di oggetti e gesti legati alla religione che devono essere costantemente tenuti sotto controllo per evitare distorsioni. C’è chi fonda la sua fede sul numero di ceri che accende, chi invece sulla benedizione di casa, auto, crocetta al collo, indumenti per i malati e via dicendo. C’è chi fa migliaia di chilometri per tornare ogni anno in un certo luogo o santuario, chi ricomincia daccapo il rosario se salta una sola avemaria, chi prenota il posto di anno in anno alla processione del santo… Quante azioni in sè buone, ma a rischio distorsione! Ogni oggetto o azione o formula o devozione deve essere costantemente riferita al Signore Gesù, a qualche episodio evangelico e comunque deve mantenere il suo limitato valore di ‘segno’ che rimanda alla realtà vera, che sta oltre. Quando qualcuna di queste cose diventa, nella coscienza di un fedele, decisiva, ineliminabile, vitale, non è più segno di fede, ma di superstizione!

So di aver toccato un argomento assolutamente impopolare, ma non mi posso esimere!

Poiché tutti questi sono segni e non è da essi che scaturisce la forza del cielo, si può anche farne a meno! Senza che crolli la fede nel Signore Gesù o vada in crisi il rapporto con la Chiesa. Quante incomprensioni tra questo tipo di fedeli e i buoni sacerdoti che vorrebbero guidare la loro gente verso l’essenzialità evangelica, verso un più alto tasso di autenticità, verso il superamento degli eccessi di esteriorità, che svuotano anche i segni più belli e autentici. I segni del sacro sono necessari per noi poveri uomini impastati di carne e nessuno li mette in discussione. Gesù stesso si è fatto, tutto quanto, un segno ‘carnale’!  Ben vengano dunque, purché rigorosamente riferiti a Lui e al suo stile di vita. Altrimenti facciamo come certi indios del Sudamerica che mescolano il Cristo e la Pacha Mama. Dopo tanta filippica, goditi l’ulivo, limpido segno evangelico di questa domenica! 

Cristo è tutto per me, scrisse sant’Ambrogio. Contempla questo volto del Cristo morto del Mantegna,  usalo per meditare, ma non trasformarlo a sua volta in oggetto sacro!

Armando Cattaneo, parroco e direttore di www.jesus1.it

PASSIO DI GIOVANNI VENERDI’ SANTO PASSIO DI MATTEO

Mi immagino che tu stia leggendo queste righe nella notte tra il Giovedì Santo e il Venerdì Santo. Forse sei appena tornato dalla ‘Missa in Coena Domini’, la messa cioè che ha ripetuto, anche come orario, l’Ultima Cena di Gesù, con tanto di Lavanda dei piedi, con il tabernacolo lasciato vuoto, con il Signore riposto in quello che, almeno una volta, si chiamava ‘il sepolcro di Gesù’ oppure ‘lo scurolo’.

Se è proprio così, devi sentire che questa notte sacra è sublime e tremenda insieme. In questa notte Gesù non ha chiuso occhio. Era passato direttamente dal Cenacolo all’Orto degli ulivi detto Getzemani. Era rimasto solo. Neanche i tre discepoli prediletti, i più maturi, avevano retto e s’erano addormentati. Gesù affronta la decisione più spaventosa della storia. Il momento supremo della tentazione non fu nel deserto all’inizio della sua missione pubblica, fu stanotte. Quella notte, come adesso, Gesù decide di affrontare la croce. Aveva sperato fino all’ultimo che ci fosse una via di fuga per non ‘bere il calice’. In un’agonia che in realtà fu il coinvolgimento di un essere umano, Gesù, nel confronto tra due persone divine, il Padre e il Figlio, l’amore pazzesco di Dio per noi uomini arrivò alla decisione suprema: il Figlio di Dio sarebbe morto d’amore per noi!

Tu in questa notte puoi contare i tuoi battiti e sentire accanto ai tuoi i respiri affannosi di Gesù stramazzato a terra in dialogo con suo Padre, Dio Padre. Susanna Tamaro ebbe a dire recentemente: "Gerusalemme è tanto piena di Dio che non si riesce a respirare". Vale, magari solo per stanotte, anche per la tua città, ovunque tu stia vivendo queste ore.

Il cristianesimo lo si distingue da qualsiasi altra esperienza, per nobile che possa essere, per quella decisione d’amore. Irripetibile. Il Venerdì Santo, è il giorno più grande e strepitoso e felice che ci sia! Non diciamolo a nessuno, perché la macchina dello shopping lo prenderebbe subito d’assalto. Lasciamolo giorno lavorativo! Lasciamo persino che qualche sprovveduto Dirigente Scolastico richiami a scuola i ragazzi per far loro ricuperare i troppi giorni di vacanza concessi a carnevale! Teniamocelo così. Ma anche così, feriale e di basso profilo, è stato capace di affascinare persino le masse di metalmeccanici degli sessanta e settanta del secolo scorso, che mentre si dichiaravano miscredenti e atei, pretendevano che alle tre del pomeriggio di quel venerdì suonassero le sirene di tutte le fabbriche. In quel momento, strana vittoria di Cristo, la ‘Stalingrado d’Italia’, Sesto san Giovanni, diventava la città più fedele d’Italia, con le sue cento e cento sirene che squarciavano l’aria in contemporanea. Sembrava davvero che un’altra volta il ‘velo del tempio si era squarciato da cima a fondo’, come racconta l’evangelista.

Forse, solo vegliando questa notte insieme a Gesù si può capire perché bisogna andare a confessarsi! Non perché ‘si è violata la legge di Dio’. Ma quale legge! L’approccio giuridico mi suona male, perché è minimalista. Io mi vado a confessare perché ho intuito fino a che punto il Padre e suo Figlio Gesù mi hanno amato e non reggo più la mia banalità, i miei calcoli meschini, non reggo più la mia risposta fredda, calcolata, pidocchiosa.  Mi confesso perché ho captato certi segnali d’amore del mio Dio e mi scoppia il cuore dalla gioia e dalla riconoscenza. Mi confesso perché riconoscermi piccolo è il primo passo di una cammino di liberazione da me stesso che mi porta alla vera grandezza!

E mi confesso proprio davanti a un prete. Il prete ci vuole, perché deve dirmi, con autorità, che è proprio vero: quel Dio che stanotte decide di morire, non lo fa genericamente per l’umanità. Lo fa anche precisamente per me. Me lo voglio proprio far dire! Non mi basta ‘pensare’ tra me e me che si, Dio mi avrà perdonato. Proprio come non mi basta solo ‘pensare’ che la donna della mia vita non è più arrabbiata! Le telefono, glielo voglio sentire dire dalla sua viva voce! E la sua voce tornata dolce mi riempie di gioia e di nuovo slancio. Ecco: il prete, nella confessione, è il telefonino che mi ripete la viva voce di Dio: "Ti sono perdonati i tuoi peccati. Va e non farlo più." I preti non si offendano: non è poco essere paragonati al telefonino di Dio! 

Armando Cattaneo, parroco e direttore di www.jesus1.it


MADDALENA, PIETRO E GIOVANNI PASQUA MADDALENA E GIARDINIERE

Che ore sono? Spero che tu mi stia leggendo nel pomeriggio del Sabato Santo. Prima di partecipare alla Veglia di Pasqua. Perché parteciperai, vero, alla Veglia di Pasqua?! Non te la puoi assolutamente perdere! Non rinunciare a vivere il vertice di millenni di storia, il punto d’arrivo della storia tra Dio e gli uomini! Nulla al mondo ti potrebbe ripagare! Lo so che c’è il problema di capire. Ma non è un problema di testa, è un problema di cuore! Ora vorrei aiutare il tuo cuore.

Pasqua aiuta prima di tutto a vedere le cose dalla parte giusta. Tra qualche ora verrà proclamato: ‘Cristo Signore è Risorto!’. Come ce lo immaginiamo noi il Risorto? Come se ritornasse qui da noi dopo un periodo di assenza? Io credo proprio di no!  Risorgere vuol dire passare dentro il cunicolo stretto della morte e uscirne fuori, ma non indietro, di qua dove stiamo noi, bensì uscire fuori in avanti, di là, oltre questo tipo di vita! Quelli che assomigliano di più a Cristo che risorge credo siano i bambini che nascono, quando sgusciano fuori dal ventre della mamma. Gesù risorge sgusciando fuori dal ventre nero della terra, della morte, del male, verso la luce infinita. Ma mentre noi aspettiamo il bimbo che nasce dalla parte giusta, cioè lo aspettiamo dalla parte della luce rispetto al buio del grembo materno, Gesù non lo possiamo aspettare dalla parte giusta, perché noi siamo rimasti qui, in questa vita, che è il buio rispetto alla vita risorta di Gesù che è la luce vera e definitiva!

Tutti i nostri dubbi e problemi di fede nascono forse da qui: per quanto Gesù e il Padre e lo Spirito Santo ci stiano vicini, loro sono comunque ‘oltre’ il nostro punto di vista, oltre la nostra vita, ‘nell’aldilà’ si diceva una volta. E la fede nel Risorto è proprio lo strumento con cui cerchiamo confusamente di cambiare punto di vista e cominciare ad osservare le cose e i fatti della vita e del mondo come si vedrebbero dalla parte sua, del Risorto appunto! Vi dico questo mistero affascinante con le parole di don Tonino Bello: "La Pasqua ci faccia vedere le tristezze, le malattie, i soprusi e perfino la morte, dal versante giusto: quello del ‘terzo giorno’. Da quel versante, le croci sembreranno antenne, piazzate per farci udire la musica del cielo. Le sofferenze del mondo non saranno per noi i rantoli dell'agonia, ma i travagli del parto. E le stigmate, lasciate dai chiodi nelle nostre mani crocifisse, saranno le feritoie attraverso le quali scorgeremo fin d'ora le luci di un mondo nuovo."

In questa Quaresima ho riflettuto un pò sulle nostre paure e su come tenerle almeno sotto controllo con l’aiuto della fede nella Risurrezione. Una cosa è certa: Pasqua è il punto di vista di Gesù sulla morte, che è originalissimo, ma lui lo propone a tutti noi cristiani.

Tento di spiegarmi con un piccolo racconto. Immagina la sala di attesa di un medico ginecologo, affollata di mammine gravide. Che fanno? Chiacchierano! Immagina che possano chiacchierare anche i loro bimbi nella pancia; si direbbero l’un l’altro:

-Ciao! Non ti conosco, è la prima volta che vieni qui?

-Si. Sono di due mesi.

-Beato te che sei giovane! Io sono Gianni e sono avanti: ho sei mesi.

E altri, sottovoce:

-Se n’è andato anche Luca! Era vecchio, aveva già otto mesi!

-Non c’è più neppure Giorgia! Tra un po’ toccherà anche a me. Che paura nascere! Non ci voglio pensare!

-Anch’io ormai sono vecchio: ho otto mesi e mezzo! Che brutta cosa la nascita!

E sicuramente, nell’attesa della visita, aggiungerebbero che si dice che il mondo ‘fuori’ sia bello, ma che nessuno mai è tornato indietro (cioè ‘dentro’) a raccontarlo… E che la voce della mamma dice che lei non ci lascia, ci aspetta ‘di là’, ma è meglio non fidarsi…

Invece è proprio tutto vero: il meglio della vita è fuori! 

Ecco: questo vale anche per quel che noi chiamiamo ‘morte’! Il bello è oltre quella!

Prova a emozionarti! Gesù ha sfondato la barriera della morte per l’intero genere umano! Proprio come il primo dei gemellini sfonda le strettoie della vagina della mamma, a vantaggio degli altri.

E’ Pasqua: oggi festeggiamo Gesù che ha compiuto la più grande impresa della storia! Che non è né la conquista di Imperi, né la conquista dello spazio o degli abissi… è appunto la vittoria sulla morte.

Armando Cattaneo, parroco e direttore di www.jesus1.it

 

 

Alcuni testi del Papa su Gesù:

1. Eros: l’amore di Dio per noi è ‘agape’ ma anche ‘eros’

Messaggio di Benedetto XVI per la Quaresima 2007

Cari fratelli e sorelle!

… Sul tema dell' amore mi sono soffermato nell' enciclica Deus caritas est, mettendo in rilievo le sue due forme fondamentali: l'agape e l'eros.

L'amore di Dio: agape ed eros

Il termine agape, molte volte presente nel Nuovo Testamento, indica l'amore oblativo di chi ricerca esclusivamente il bene dell' altro; la parola eros denota invece l'amore di chi desidera possedere ciò che gli manca ed anela all'unione con l'amato. L’amore di cui Dio ci circonda è senz'altro agape. In effetti, può l'uomo dare a Dio qualcosa di buono che Egli già non possegga? Tutto ciò che l'umana creatura è ed ha è dono divino: è dunque la creatura ad aver bisogno di Dio in tutto.

Ma l'amore di Dio è anche eros

Nell'Antico Testamento il Creatore dell'universo mostra verso il popolo che si è scelto una predilezione che trascende ogni umana motivazione. Il profeta Osea esprime questa passione divina con immagini audaci come quella dell' amore di un uomo per una donna adultera (cfr 3,1-3); Ezechiele, per parte sua, parlando del rapporto di Dio con il popolo di Israele, non teme di utilizzare un linguaggio ardente e appassionato (cfr 16,122). Questi testi biblici indicano che l’eros fa parte del cuore stesso di Dio: l'Onnipotente attende il «sì» delle sue creature come un giovane sposo quello della sua sposa.

Purtroppo fin dalle sue origini l'umanità, sedotta dalle menzogne del Maligno, si è chiusa all' amore di Dio, nell'illusione di una impossibile autosufficienza (cfr Gn. 3,1-7). Ripiegandosi su se stesso, Adamo si è allontanato da quella fonte della vita che è Dio stesso, ed è diventato il primo di «quelli che per timore della morte erano tenuti in schiavitù per tutta la vita» (Eb 2,15). Dio, però, non si è dato per vinto, anzi il «no» dell'uomo è stato come la spinta decisiva che l'ha indotto a manifestare il suo amore in tutta la sua forza redentrice.

La Croce rivela la pienezza dell'amore di Dio

È nel mistero della Croce che si rivela appieno la potenza incontenibile della misericordia del Padre celeste. Per riconquistare l'amore della sua creatura, Egli ha accettato di pagare un prezzo altissimo:

il sangue del suo Unigenito Figlio. La morte, che per il primo Adamo era segno estremo di solitudine e di Impotenza, si è così trasformata nel supremo atto d'amore e di libertà del nuovo Adamo. Ben si può allora affermare, con san Massimo il Confessore, che «Cristo fiorì, se così si può dire, divinamente, poiché morì liberamente» (Ambigua, 91, 1956). Nella Croce si manifesta l'eros di Dio per noi. Eros è infatti - come si esprime lo Pseudo Dionigi - quella forza «che non permette all' amante di rimanere in se stesso, ma lo spinge a unirsi all' amato» (De divinis nominibus, IV; 13: PG 3, 712). Quale più «folle eros!» (N. Cabasilas, Vita in Cristo, 648) di quello che ha portato il Figlio di Dio ad unirsi a noi fino al punto di soffrire come proprie le conseguenze dei nostri delitti?

«Colui che hanno trafitto»

Cari fratelli e sorelle, guardiamo a Cristo trafitto in Croce!

È Lui la rivelazione più sconvolgente dell' amore di Dio, un amore in cui eros e agape, lungi dal contrapporsi, si illuminano a vicenda. Sulla Croce è Dio stesso che mendica l'amore della sua creatura: Egli ha sete dell'amore di ognuno di noi. L’apostolo Tommaso riconobbe Gesù come «Signore e Dio» quando mise la mano nella ferita del suo costato. Non sorprende che, tra i santi, molti abbiano trovato nel Cuore di Gesù l'espressione più commovente di questo mistero di amore. Si potrebbe addirittura dire che la rivelazione dell' eros di Dio verso l'uomo è, in realtà, l'espressione suprema della sua agape. In verità, solo l'amore in cui si uniscono il dono gratuito di sé e il desiderio appassionato di reciprocità infonde un'ebbrezza che rende leggeri i sacrifici più pesanti.

Gesù ha detto: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). La risposta che il Signore ardentemente desidera da noi è innanzitutto che noi accogliamo il suo amore e ci lasciamo attrarre da Lui. Accettare il suo amore, però, non basta. Occorre corrispondere a tale amore ed impegnarsi poi a comunicarlo agli altri: Cristo «mi attira a sé» per unirsi a me, perché impari ad amare i fratelli con il suo stesso amore.

2. Papa Benedetto XVI, nell'incontro con la Congregazione per la Diffusione della fede del marzo 2006, ha definito Gesù:

«La stella polare della libertà umana: senza di Lui essa perde il suo orientamento, poiché senza la conoscenza della verità la libertà si snatura, si isola e si riduce a sterile arbitrio. Con lui, la libertà si ritrova, si riconosce fatta per il bene e si esprime in azioni e comportamenti di carità».

 

Gesù: in lui Dio ha reso breve la sua Parola, l’ha abbreviata

Dall’omelia di papa Benedetto XVI nella messa della notte di Natale 2006

Il segno di Dio è la semplicità. Il segno di Dio è il bambino. Il segno di Dio è che Egli si fa piccolo per noi. È questo il suo modo di regnare. Egli non viene con potenza e grandiosità esterne. Egli viene come bambino - inerme e bisognoso del nostro aiuto. Non vuole sopraffarei con la forza. Ci toglie la paura della sua grandezza. Egli chiede il nostro amore: perciò si fa bambino. Nient'altro vuole da noi se non il nostro amore, mediante il quale impariamo spontaneamente a entrare nei suoi sentimenti, nel suo pensiero e nella sua volontà - impariamo a vivere con Lui e a praticare con Lui anche l'umiltà della rinuncia che fa parte dell'essenza dell'amore. Dio si è fatto piccolo affinché noi potessimo comprenderLo, accoglierLo, amarLo.

I Padri della Chiesa, nella loro traduzione greca dell'Antico Testamento, trovavano una parola del profeta Isaia che anche Paolo cita per mostrare come le vie nuove di Dio fossero già preannunciate nell'Antico Testamento. Lì si leggeva: «Dio ha reso breve la sua Parola, l'ha abbreviata» (Is 10, 23; Rm 9,28). I Padri lo interpretavano in un duplice senso. Il Figlio stesso è la Parola, il Logos; la Parola eterna si è fatta piccola - così piccola da entrare in una mangiatoia. Si è fatta bambino, affinché la Parola diventi per noi afferrabile. Così Dio ci insegna ad amare i piccoli. Ci insegna così ad amare i deboli. Ci insegna in questo modo il rispetto di fronte ai bambini. Il bambino di Betlemme dirige il nostro sguardo verso tutti i bambini sofferenti e abusati nel mondo, i nati come i non nati. [...]

Con ciò siamo arrivati al secondo significato che i Padri hanno trovato nella frase:

«Dio ha abbreviato la sua Parola». La Parola che Dio ci comunica nei libri della Sacra Scrittura era, nel corso dei tempi, diventata lunga. Lunga e complicata non solo per la gente semplice e analfabeta, ma addirittura ancora di più per i conoscitori della Sacra Scrittura, per i dotti che, chiaramente, s'impigliavano nei particolari e nei rispettivi problemi, non riuscendo quasi più a trovare una visione d'insieme. Gesù ha "reso breve" la Parola - ci ha fatto rivedere la sua più profonda semplicità e unità. Tutto ciò che ci insegnano la Legge e i Profeti è riassunto - dice - nella parola: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente... Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Mt22, 37-40).

Questo è tutto -l'intera fede si risolve in quest'unico atto d'amore che abbraccia Dio e gli uomini. Ma subito riemergono delle domande: come possiamo amare Dio con tutta la nostra mente, se stentiamo a trovarlo con la nostra capacità mentale? Come amarlo con tutto il nostro cuore e la nostra anima, se questo cuore arriva a intravederlo solo da lontano e percepisce tante cose contraddittorie nel mondo che velano il suo volto davanti a noi? A questo punto i due modi con cui Dio ha fatto ‘breve’ la sua Parola s'incontrano. Egli non è più lontano. Non è più sconosciuto. Non è più irraggiungibile per il nostro cuore. Si è fatto bambino per noi e ha dileguato con ciò ogni ambiguità. Si è fatto nostro prossimo, ristabilendo in tal modo anche l'immagine dell'uomo che, spesso, ci appare così poco amabile. Dio, per noi, si è fatto dono. Ha donato sé stesso. Si prende tempo per noi. Egli, l'Eterno che è al di sopra del tempo, ha assunto il tempo, ha tratto in alto il nostro tempo presso di sé. Natale è diventato la festa dei doni per imitare Dio che ha donato sé stesso a noi. Lasciamo che il nostro cuore, la nostra anima e la nostra mente siano toccati da questo fatto! [...]

Così si schiude infine ancora un terzo significato dell'affermazione sulla Parola diventata ‘breve’ e ‘piccola’. Ai pastori era stato detto che avrebbero trovato il bambino in una mangiatoia per gli animali, che erano i veri abitanti della stalla. Leggendo Isaia ( l, 3), i Padri hanno dedotto che presso la mangiatoia di Betlemme c'erano un bue e un asino. Al contempo hanno interpretato il testo nel senso che in ciò vi sarebbe un simbolo dei giudei e dei pagani quindi dell'umanità intera - i quali abbisognano, gli uni e gli altri a modo loro, di un salvatore: di quel Dio che si è fatto bambino. L'uomo, per vivere, ha bisogno del pane, del frutto della terra e del suo lavoro. Ma non vive di solo pane. Ha bisogno di nutrimento per la sua anima: ha bisogno di un senso che riempia la sua vita. Così, per i Padri, la mangiatoia degli animali è diventata il simbolo dell'altare, sul quale giace il pane che è Cristo stesso: il vero cibo per i nostri cuori. E vediamo ancora una volta, come Egli si sia fatto piccolo: nell'umile apparenza dell' ostia, di un pezzettino di pane, Egli ci dona sé stesso.

Di tutto ciò parla il segno che fu dato ai pastori e che vien dato a noi: il bambino che ci è stato donato; il bambino in cui Dio si è fatto piccolo per noi. Preghiamo il Signore di donarci la grazia di guardare in questa notte il presepe con la semplicità dei pastori per ricevere così la gioia con la quale essi tornarono a casa (cfr. Lc 2,20). PreghiamoLo di darci l'umiltà e la fede con cui san Giuseppe guardò il bambino che Maria aveva concepito dallo Spirito Santo. Preghiamo che ci doni di guardarLo con quell'amore, con cui Maria L'ha osservato. E preghiamo che così la luce, che i pastori videro, illumini anche noi e che si compia in tutto il mondo ciò che gli angeli cantarono in quella notte: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama». Amen!

L'Arcivescovo di Milano si confessa e racconta il personale itinerario di conoscenza e di approfondimento della figura centrale della sua vita. Un viaggio misterioso e affascinante tra stupore, domande, ricerche, per arrivare alla fede.Parlare sulla figura di Gesù. Lo considero come una sfida, come uno stimolo a ripensare, alla soglia dei miei settant'anni, a che cosa è stata per me la figura del Signore, a partire dagli inizi, a come si è svolta l’avventura del mio cammino con Gesù Cristo, con quali tappe, con quali oscurità e con quali luci…

La figura di Gesù

di Carlo Maria Martini. Intervista al Corriere della Sera.

1. La mia avventura alla scoperta di Gesù Cristo

Parlare sulla figura di Gesù. Lo considero come una sfida, come uno stimolo a ripensare, alla soglia dei miei settant'anni, a che cosa è stata per me la figura del Signore, a partire dagli inizi, a come si è svolta l'avventura del mio cammino con Gesù Cristo, con quali tappe, con quali oscurità e con quali luci. Ritengo infatti assai difficile parlare della figura di Gesù in astratto, in maniera distaccata. E' tipico della figura di Gesù di coinvolgere chiunque le si avvicini. Quando si parla di lui ci si sente interpellati in prima persona, si è portati a iniziare un dialogo, a entrare in un'avventura. Se, nel mio intervento, restassi sul piano puramente teorico, avrei l'impressione di dire ciò che non sento e di non esprimere ciò che sento. Mi pare più vero il mettermi sul piano personale, descrivendo un cammino concreto di conoscenza della figura di Gesù attraverso alcune tappe e alcuni momenti successivi. Lo farò narrando una sorta di autobiografia, quasi raccontando un viaggio, mescolando ma senza confonderli elementi soggettivi e oggettivi. Quelli oggettivi sono i dati storici, fattuali riguardanti la vita di Gesù; quelli soggettivi sono i miei cammini, spesso faticosi, mediante i quali sono venuto a conoscere e a valutare questi dati, a scontrarmi con essi e ad integrarli nella mia intelligenza e nelle scelte di vita.

Parlo dunque in terza e in prima persona, singolare e plurale («io» e. «noi»), esprimo qualcosa di mio che può essere di ciascuno, racconto un'avventura che potrebbe essere emblematica e, lo spero, far pensare o "aiutare a rispondere". Un avventura che si può ritmare secondo dei tempi.. Parafrasando un romanzo usato recentemente e già molto discusso "Anima mundi» di Susanna Tamaro che parla di tre fasi della vita umana: Fuoco, Terra. Vento - il tempo della crescita, il tempo del discernere, il tempo del riapprodare a sé - e richiamandomi liberamente anche alla teofania presso il Monte Oreb al profeta Elia cui la presenza di Dio si manifesta misteriosamente nel fuoco, nel terremoto e poi nel mormorio di un'aura leggera, distinguerò il mio racconto in cinque fasi. Mi servirò di cinque simboli: il fioco, la terra, il vento, il terremoto e il leggero sussurro di un silenzio.

2. Il tempo della fascinazione o del fuoco

Il viaggio ha avuto inizio per me molto presto nella fanciullezza, nella mia prima adolescenza. E' la storia di un ragazzo che ha conosciuto Gesù - nell'educazione familiare, scolastica, negli ambienti di vita - e ne è stato grandemente affascinato se ne è innamorato. Ha avvertito subito che con una figura così non è possibile scherzare: o si prende tutto o si rifiuta tutto. E' un tempo di conoscenza crescente ed entusiasta. Il tempo del fuoco. Uno impara a prendere in mano i vangeli, a stupirsi della incisività delle parole, della ricchezza dei contenuti, della forza delle decisioni, della intrepidezza delle scelte, della coerenza della testimonianza di Gesù. Tutto appare originale, sorgivo, nuovo, imprevisto, lucido, esigente, semplice e a portata di mano e insieme ricco di promesse ulteriori.

Si esperimenta quella parola di André Gide, "Ascolto la tua parola perché è bella, bella al di sopra di ogni parola umana".

3. Il tempo delle domande dei dubbi o della terra

Questo primo tempo felice non dura molto però. Segue un secondo momento che potremmo chiamare la tappa delle domande o dei dubbi. La tappa della terra.

Incominciano gli interrogativi, prima appena accennati. poi più insistenti: ma sarà proprio così? come facciamo a sapere che i vangeli ci dicono il vero? che le cose sono andate in questo modo? qual è il fondamento storico di ciò che questi libri narrano di Gesù? perché queste pagine sono credibili? non rischiamo forse di costruire una figura a partire dalla fantasia di alcuni fanatici del passato? Tutto quello che si dice su Gesù è molto bello, ma avrà un fondamento?

Il ragazzo decide allora di leggere quanto può trovare sui fondamenti storici della figura di Gesù. Fruga nelle biblioteche, ascolta chi sembra saperne di più. Tuttavia c'è sempre una qualche insoddisfazione, una qualche delusione. Dalle risposte nascono interrogativi nuovi. Si ha come l'impressione che coloro che rispondono alle domande sul fondamento storico della figura di Gesù lo facciano con una certa faciloneria, con una certa supponenza, come per sottrarsi alte domande importune di un ragazzino o che vogliano difendere una causa. già decisa, per partito preso. E le soluzioni un po' scontate non soddisfano fino in fondo.
Si può quindi qualificare la seconda tappa delle domande e dei dubbi anche come il tempo delle risposte troppo facili, superficiali, evasive, mentre intanto il mistero della figura di Gesù si fa più denso con il moltiplicarsi degli interrogativi.

4. Il tempo dell'accanimento o del vento gagliardo

Giunge allora - ed è stato il caso fortunato della mia vita verso i venticinque anni - il tempo dell'accanimento, il tempo del vento gagliardo di cui parla il Libro dei Re: «Un vento fortissimo che spaccava la montagna e fracassava la roccia" (1 Re 19,11).

La volontà di scoprite fino in fondo la verità su Gesù si incontra per provvidenziali circostanze di tempo e di luogo con la possibilità di dedicarsi per intero allo studio scientifico delle origini cristiane: lo studio delle lingue in cui furono scritti i libri della Bibbia (ebraico, aramaico, greco), la frequentazione dei papiri e dei codici antichi, la conoscenza dell'archeologia e delle culture dove si sono inseriti i fatti narrati dai vangeli ecc. E' un lavoro senza soste, una esplorazione che pare non finire mai: ci vuole una forte volontà, quella appunto di un vento gagliardo, per non arrendersi di fronte alla moltitudine dei dati. Ma il lavoro paga. Perché dal tempo che chiamiamo dell'accanimento, del vento insistente, uno ricava molte nozioni, ricava la capacità di orientarsi su tante cose, di darsi numerose risposte. Tuttavia l'avventura non si chiude qui.

5. Il tempo della prova o del terremoto

Il terzo tempo mi aveva messo in contatto con una moltitudine di testi, di memorie antiche che permettono di fondare più attentamente e scientificamente quanto si può dire di Gesù. E tali ricerche continuano, pur se io non ho più il tempo di seguirle da vicino. Di recente molte sono state le discussioni sulla retrodatazione di alcuni papiri, ma esse mostra, ma esse mostrano in ogni caso che oggi ci si orienta meglio che nel passato a riconoscere la grande autenticità dei vangeli. Il dato è importante e qui mi discosto un po' da quanto si sostiene da talune parti, cioè che oggi si cerca non tanto l'autenticizzazione della storia, il documento, quanto la profezia. E' necessaria la profezia, ma guai a noi se mancasse la storia, se il documento non ci permettesse di andare anche alla roccia dei fatti. Naturalmente il documento da solo non basa. Tutto deve passare a un vaglio ancora più severo. Il tempo dell'accanimento doveva essere accompagnato da quello della prova, della messa in questione. Viene alla mente la parola di Gesù a Pietro «Simone, ecco Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano» (Lc22,32). Il vaglio non è un incidente di percorso, è un momento provvidenziale, il momento del terremoto, secondo l'evocazione del Libro dei Re sempre a proposito di Elia (1 Re 19,I1), è il tempo in cui la fede è scossa e messa alla prova.

Tale vaglio è avvenuto per me nel modo seguente. La studio delle fonti e delle testimonianze antiche su Gesù comportava anche lo studio delle interpretazioni antiche e moderne su di lui, soprattutto su quelle dal 1700 ad oggi, dal sorgere della critica storica, dell'illuminismo e del positivismo storico fino ai nostri giorni. Mi misi a leggere tutti i libri e le interpretazioni, le divoravo, le scrutavo, le soppesavo. Volevo vedere chi aveva ragione. Più volte, in questa fatica, si entra nella notte dello spirito, anche nell'ansia, si passano giorni, settimane e mesi in forte tensione interiore, e sorge il sospetto: ci sarà una via di uscita dal tunnel del dubbio critico, della messa in questione sistematica di tutti i dati?

Desidero tuttavia esprimere un grazie, esprimere la mia riconoscenza a tutti i più illustri ed esigenti fautori del razionalismo critico, a tutto i «maestri del sospetto» del secolo scorso e di questo secolo, per avermi posto direttamente a contatto con tutte le possibili obiezioni sulla figura di Gesù, fino alle più estreme: l'ipotesi sulla non esistenza storica di Gesù, le negazioni riguardanti i diversi punti della narrazione degli evangelisti, la proclamazione dell'impossibilità di scrivere, oggi una vita di Gesù, la critica alle pretese ricostruzioni delle sue parole e delle sue azioni, i dubbi sui punti fondamentali della sua vita, ecc. È stato per me l'esercizio più fruttuoso e più stimolante: quello di non sfuggire a nessuna contestazione critica e di lasciarmi interrogare e mettere in questione da tutti i tentativi di ridurre ad evanescenza o a creazione mitica o fantastica la figura di Gesù, oppure di ridurla a evocazioni successive e tardive.

Si dice che la fede di un cristiano del XX secolo dovrebbe poter sottoporre senza timore le sue domande al fuoco della critica, per constatare che vi resistono. Sono pienamente d'accordo. La mia è stata una sistematica, crocifiggente, e insieme salutare esposizione al dubbio, nella inermità di una coscienza alla ricerca de! vero. Era come ricercare continuamente l'equilibrio su una superficie esposta al terremoto.

Fuori di metafora, la domanda fondamentale a cui rispondere era: questa parola questo fatto della vita di Gesù, questi atteggiamenti sono originari, suoi, o sono frutto di una elaborazione posteriore dell'entusiasmo o del fanatismo di ammiratori, di seguaci o della forza creativa delle prime comunità? E se si deve ammettere, e non si può non ammettere, un'attività prima orale e poi scritta delle comunità nel tramandare detti e fatti di Gesù, fino a quale punto è ancora possibile sapere ciò che Gesù ha, veramente voluto, detto e fatto?
Ho trascorso diversi anni in tale lavoro di lettura, di confronto, di interpretazione, con fatiche e lacerazioni, poiché venivo messo di fronte a interrogativi radicali per la mia vita. Andavo in cerca delle obiezioni più acute e fondate, delle contestazioni più pertinaci, per non risparmiarmi nessuna difficoltà seria ed essere sicuro di non aver trascurato nessun argomento contrario. Ero entrato, insomma, in quello che Paul Ricoeur ha chiamato il «conflitto delle interpretazioni».

A poco a poco facevo una sorprendente esperienza: il senso di incertezza, di perplessità che mi lasciavano le difese d'ufficio sulla storicità di Gesù e le risposte facili di tanti apologeti, svaniva di fronte alle chiarezze che via via emergevano in me davanti alle argomentazioni serrate della critica. Cercando di valutare uno per uno gli argomenti contrari e confrontandoli con i testi, e i reperti antichi si rafforzava in me, in maniera sempre più chiara, la coscienza che non si può eludere la fondatezza sostanziale di quanto possiamo sapere di Gesù, che non si può ricondurne la figura a contorni evanescenti o irraggiungibili senza smentirsi, senza entrare in una qualche contraddizione con i presupposti di una ricerca seria.

Il primo presupposto è che si deve cercare la ragione sufficiente per il sorgere di una testimonianza soprattutto se vicina ai fatti. E, se tale ragione non è data, in modo sufficiente, né dall'ipotesi della creatività posteriore né da quella del fanatismo, né da quella dell'inganno, mentre al contrario la testimonianza bene si adatta al suo ambiente originario, presenta caratteristiche di discontinuità con esso così da apparire inedita e sorgiva, allora l'ipotesi seria che rimane è che questa testimonianza deriva da un fatto reale e vi corrisponde. E se ciò avviene non una, ma dieci, cento volte, in maniera indipendente, l'ipotesi diviene seria base scientifica di lavoro.

Venivo sperimentando, in altre parole, come un approccio esaustivo alle fonti antiche su Gesù non possa - senza contraddirsi nelle sue premesse scientifiche - non riconoscere che vi sono detti ed eventi significativi e decisivi della sua vita ineliminabili da qualunque critica, per guanto corrosiva, inspiegabili dalla creatività delle comunità successive. O rinunciare a spiegare i dati così come sono e chiudere la ricerca, o ammettere che' da essi emerge la fondatezza di un numero rilevante di fatti, parole e gesti di Gesù che sono più che sufficienti per fare di lui una figura che ci interpella nel profondo della coscienza.

Per me l'avere scoperto tutto questo nella fatica quotidiana, nello sforzo di prendere sul serio ogni possibile obiezione, è stato di grandissimo aiuto. Certamente dobbiamo ammettere che le parole e i gesti di Gesù sono passati attraverso un processo di tradizione orale, sono stati ordinati e interpretati dai suoi, che non è stata scritta di lui una biografia vera e propria e i vangeli vanno riletti con l'ausilio della critica storica e letteraria. Ma, alla fine di tutto questo vaglio, di questo terremoto della critica, tante e tante parole e gesti significativi di Gesù "stanno là, davanti a noi e ci interpellano, con domande coinvolgenti.

Così si scopre, per esempio, la forza dirompente delle sue parabole, enigmatiche e incisive insieme; l'inquietudine suscitata dalla paradossalità delle beatitudini; la sua critica serrata alla religiosità di quel tempo; i suoi contrasti con l'istituzione; la, sua proclamazione del perdono senza limiti, urtando contro opinioni correnti di tipo giustizialista; la sua attenzione agli ultimi e agli esclusi della società, la sua attenzione ai peccatori fino a creare scandalo; a sua predilezione per i malati e i suoi gesti di guarigione che suscitano entusiasmi e invidia attorno a lui; il suo coraggio e insieme la sua paura di fronte alla prospettiva della morte; la certezza indomabile dei suoi, di averlo incontrato vivo dopo la sua deposizione nel sepolcro. Sono fatti e parole che nessuna critica, per quanto corrosiva e radicale, non solo non riesce a scalfire, ma anzi (ed era la mia esperienza) contribuisce a mettere in luce quale unica spiegazione ragionevole di ciò che è accaduto e di come i documenti su di lui hanno potuto avere origine. Ci troviamo di fronte a una figura di Gesù che è storicamente singolare e inedita, che resiste ad ogni facile tentativo di omologazione a tipologie precostituite. E' una personalità forte e inerme, accessibile e tagliente, modesta e con pretese inaudite, insignificante nel senso delle misure umane di grandezza storica e politica e insieme capace di far tremare i potenti. È la figura di uno che è passato come una meteora (al massimo due o tre anni di attività pubblica, appena il tempo di farsi conoscete), che ha concluso la sua opera in maniera fallimentare, scaricato e abbandonato da tutti quelli che avevano potere, emarginato ed eliminato come un essere nocivo per il consorzio umano. Eppure è una figura ineliminabile e presente nella storia del suo tempo, che sa suscitare entusiasmo e paura, riconosciuta ben presto da alcuni come profetica, santa, saggia, di riformatore e da altri come figura di un pericoloso sovvertitore.

Gesù appare capace di dare senso e riscatto alle umiliazioni del suo popolo, capace di aprire orizzonti religiosi imprevisti e nello stesso tempo capace di urtare, di rompere con le idee ricevute, di suscitare divisione. Sembra dire cose nuove e sconvolgenti, e però si colloca in continuità col linguaggio della sua gente. E' tutta questa serie di dati e di altri simili presenti nei vangeli, che rimangono dopo ogni tentativo di riduzione critica, dopo che ci si è esercitati in un sistematico riduzionismo.

È dunque il tempo del vaglio, della prova, del terremoto, del passaggio attraverso il filo spinato delle esigenze critiche. Esso dà soddisfazione a molte domande, pone a proprio la agio nel considerare la figura di Gesù. Tuttavia pone di fronte a domande ancora più ardue e difficili, a una quinta tappa.

Prima di parlare della quinta, cioè della tappa della lotta o delle domande di senso o del «sussurro di un'aura leggera», vorrei ricordare un'altra esperienza del tempo del vaglio, perché mi è stata di grande aiuto nella conoscenza storica di Gesù e mi è servita come ulteriore conferma del processo critico cui ho sopra accennato.
Per molti anni (dal 1965 e in qualche modo ancora oggi) ho avuto la possibilità e la fortuna di far parte di un piccolo gruppo internazionale e interconfessionale di studiosi del testo greco del Nuovo Testamento, che lavoravano insieme alla ricostruzione del testo critico, ossia del testo originale più antico ed affidabile dei Vangeli.
Ci radunavamo ogni anno per due settimane, in qualche luogo remoto, e là sottoponevamo ad esame, per otto ore al giorno, parola dopo parola, frase dopo frase, tutto il testo del Nuovo Testamento per confrontarlo con i testi dei papiri più antichi, dei codici manoscritti e con le diverse interpretazioni moderne.

Era un lavoro in cui, partendo da culture e mentalità diverse (cinque persone: un tedesco, un inglese, due americani più il sottoscritto), si mettevano insieme le conoscenze filologiche, storiche, paleografiche, esegetiche che potessero servire per determinare l'autenticità di una parola, di un testo. Lavoro affascinante, che obbligava a rituffarsi ogni' giorno nei tempi delle origini cristiane e faceva anch'esso risaltare la fondatezza della tradizione manoscritta evangelica, più solida di qualunque altra opera letteraria dell'antichità. Per me era una conferma in più rispetto alle ansiose domande dell'adolescenza e della giovinezza.

Semplicità del Natale

del cardinale Carlo Maria Martini

Gerusalemme dicembre 2006

Il presepio è qualcosa di molto semplice, che tutti i bambini capiscono. E’ composto magari di molte figurine disparate, di diversa grandezza e misura: ma l'essenziale è che tutti in qualche modo tendono e guardano allo stesso punto, alla capanna dove Maria e Giuseppe, con il bue e l'asino, attendono la nascita di Gesù o lo adorano nei primi momenti dopo la sua nascita.

Come il presepio, tutto il mistero del Natale, della nascita di Gesù a Betlemme, è estremamente semplice, e per questo è accompagnato dalla povertà e dalla gioia. Non è facile spiegare razionalmente come le tre cose stiano insieme. Ma cerchiamo di provarci.

Il mistero del Natale è certamente un mistero di povertà e di impoverimento: Cristo, da ricco che era, si fece povero per noi, per farsi simile a noi, per amore nostro e soprattutto per amore dei più poveri.

Tutto qui è povero, semplice e umile, e per questo non è difficile da comprendere per chi ha l'occhio della fede: la fede del bambino, a cui appartiene il Regno dei cieli. Come ha detto Gesù: «Se il tuo occhio è semplice anche il tuo corpo è tutto nella luce» (Mt6, 22).

La semplicità della fede illumina tutta la vita e ci fa accettare con docilità le grandi cose di Dio. La fede nasce dall'amore, è la nuova capacità di sguardo che viene dal sentirsi molto amati da Dio.

Il frutto di tutto ciò si ha nella parola dell'evangelista Giovanni nella sua prima lettera, quando descrive quella che è stata l'esperienza di Maria e di Giuseppe nel presepio: «Abbiamo veduto con i nostri occhi, abbiamo contemplato, toccato con le nostre mani il Verbo della vita, perché la vita si è fatta visibile». E tutto questo è avvenuto perché la nostra gioia sia perfetta. Tutto è dunque per la nostra gioia, per una gioia piena (cfr. 1 Gv l, 1- 3). Questa gioia non era solo dei contemporanei di Gesù, ma è anche nostra: anche oggi questo Verbo della vita si rende visibile e tangibile nella nostra vita quotidiana, nel prossimo da amare, nella via della Croce, nella preghiera e nell'eucaristia, in particolare nell' eucaristia di Natale, e ci riempie di gioia.

Povertà, semplicità, gioia: sono parole semplicissime, elementari, ma di cui abbiamo paura e quasi vergogna. Ci sembra che la gioia perfetta non vada bene, perché sono sempre tante le cose per cui preoccuparsi, sono tante le situazioni sbagliate, ingiuste. Come potremmo di fronte a ciò godere di vera gioia? Ma anche la semplicità non va bene, perché sono anche tante le cose di cui diffidare, le cose complicate, difficili da capire, sono tanti gli enigmi della vita: come potremmo di fronte a tutto ciò godere del dono della semplicità? E la povertà non è forse una condizione da combattere e da estirpare dalla terra?

Ma gioia profonda non vuol dire non condividere il dolore per l'ingiustizia, per la fame del mondo, per le tante sofferenze delle persone. Vuol dire semplicemente fidarsi di Dio, sapere che Dio sa tutte queste cose, che ha cura di noi e che susciterà in noi e negli altri quei doni che la storia richiede. Ed è così che nasce lo spirito di povertà: nel fidarsi in tutto di Dio. In Lui noi possiamo godere di una gioia piena, perché abbiamo toccato il Verbo della vita che risana da ogni malattia, povertà, ingiustizia, morte.

Se tutto è in qualche modo così semplice, deve poter essere semplice anche il crederci. Sentiamo spesso dire oggi che credere è difficile in un mondo così, che la fede rischia di naufragare nel mare dell'indifferenza e del relativismo odierno o di essere emarginata dai grandi discorsi scientifici sull'uomo e sul cosmo. Non si può negare che può essere oggi più laborioso mostrare con argomenti razionali la possibilità di credere, in un mondo così.

Ma dobbiamo ricordare la parola di san Paolo: per credere bastano il cuore e la bocca. Quando il cuore, mosso dal tocco dello Spirito datoci in abbondanza (cfr. Rm 5,5; Gv 3,34), crede che Dio ha risuscitato dai morti Gesù e la bocca lo proclama, siamo salvi (cfr. Rm l0, 8-12). Tutte le complicazioni, tutti gli approfondimenti che talora ci confondono, tutto ciò che è stato sovrimposto attraverso il pensiero orientale e occidentale, attraverso la teologia e la filosofia, sono riflessioni buone, ma non ci devono far dimenticare che credere è in fondo un gesto semplice, un gesto del cuore che si butta e una parola che proclama: Gesù è risorto, Gesù è Signore! E un atto talmente semplice che non distingue fra dotti e ignoranti, tra persone che hanno compiuto un cammino di purificazione o che devono ancora compierlo. Il Signore è di tutti, è ricco di amore verso tutti coloro che lo invocano.

Giustamente noi cerchiamo di approfondire il mistero della fede, cerchiamo di leggerlo in tutte le pagine della Scrittura, lo abbiamo declinato lungo vie talora tortuose. Ma la fede, ripeto, è semplice, è un atto di abbandono, di fiducia, e dobbiamo ritrovare questa semplicità. Essa illumina tutte le cose e permette di affrontare la complessità della vita senza troppe preoccupazioni o paure.

Per credere non si richiede molto. Ci vuole il dono dello Spirito Santo che egli non fa mancare ai nostri cuori e da parte nostra occorre fare attenzione a pochi segni ben collocati. Guardiamo a ciò che successe accanto al sepolcro vuoto di Gesù: Maria Maddalena diceva con affanno e pianto: «Hanno portato via il Signore e non sappiamo dove l'hanno posto». Pietro entra nel sepolcro, vede le bende e il sudario piegato in un luogo a parte e ancora non capisce. Capisce però l'altro discepolo, più intuitivo e semplice, quello che Gesù amava. Egli «vide e credette», riferisce il Vangelo, perché i piccoli segni presenti nel sepolcro fecero nascere in lui la certezza che il Signore era risorto. Non ha avuto bisogno di un trattato di teologia, non ha scritto migliaia di pagine sull'evento. Ha visto piccoli segni, piccoli come quelli del presepio, ma è stato sufficiente perché il suo cuore era già preparato a comprendere il mistero dell'amore infinito di Dio.

Talora noi siamo alla ricerca di segni complicati, e va anche bene. Ma può bastare poco per credere se il cuore è disponibile e se si dà ascolto allo Spirito che infonde fiducia e gioia nel credere, senso di soddisfazione e di pienezza. Se siamo così semplici e disponibili alla grazia, entriamo nel numero di coloro cui è donato di proclamare quelle verità essenziali che illuminano l'esistenza e ci permettono di toccare con mano il mistero manifestato dal Verbo fatto carne. Sperimentiamo come la gioia perfetta è possibile anche in questo mondo, nonostante le sofferenze e i dolori di ogni giorno.

 

IL VOLTO DI GESU' NEL CONFLITTO DELLE INTERPRETAZIONI

 

 

Mons. Franco Giulio Brambilla, Vescovo, Vicario per la cultura della Diocesi di Milano

Monza, 2 ottobre 2007

Alla ricerca del volto di Gesù. Il volto è ad un tempo l’identità di una persona e il varco aperto sul suo segreto. Nel volto la persona ti guarda e chiede di essere riconosciuta. Il volto è il luogo dove la persona comunica quando vuole aprirsi e rendersi accessibile, il volto è il cristallo trasparente dove brilla l’interiorità della vita o diventa uno schermo quando la persona vuole nascondersi e sottrarsi ad uno sguardo invadente e indagatore. "Ricerca" e "volto", allora vedete, vanno insieme: un volto va cercato, un volto non può essere posseduto, o meglio può essere posseduto solo nella forma dell’affidamento. È consegnandomi ai suoi segni, alle sue indicazioni, alla sua mimica, che entro nel mistero dell’altro. E’ solo perché lo lascio essere, che l’altro mi viene incontro, e l’altro ha bisogno che il suo volto sia riconosciuto (sempre da capo) da uno che lo lascia essere, che entra in un legame di fiducia, che apre lo spazio di una relazione di fede e di fedeltà. Attenzione: non è questa una realtà che ha scoperto l’antropologia. E’ una realtà che è iscritta nella nostra carne: il bimbo si scopre nello specchio del volto della madre, mentre la prima volta che si riflette nello specchio di casa si spaventa, teme di vedersi per così dire raddoppiato. Il proprio volto, la propria identità scaturisce dallo sguardo di un altro, della madre che ti offre lo sguardo così come ti dona la sua vita. Non ci è mai concesso di vedere neppure da grandi il nostro volto, lo vediamo solo riflesso nello specchio, possiamo vederlo soltanto lasciandoci guardare, possiamo identificarlo solo lasciandoci riconoscere. E lasciandoci chiamare... Il volto è insieme allora il luogo del legame all’altro e della propria identità. Già solo da questo breve accenno si vede che "volto" "ricerca" "fede" vanno insieme. Ma, diciamolo subito sin dallinizio, il volto sfocia in un appello, lo sguardo invita a un legame, la fede richiede fedeltà. Per questo il tema della "ricerca del volto di Gesù" implica subito anche che si sia disposti a mettere in gioco i nostri legami (con gli altri, con se stessi e con il proprio destino) e a mettere in moto la nostra identità. Dentro una storia e un racconto.

Partiamo da un dato sconcertante e sorprendente. Nella storia della coscienza di fede della Chiesa è facile notare un contrasto paradossale: da una parte, i quattro vangeli e tutta la testimonianza del NT non hanno indugiato sulla nostra naturale curiosità di conoscere i tratti del volto di Gesù, dall’altro, la storia della fede è costellata nell’iconografia e nell’arte musiva, nella pittura e nella scultura, ma anche nella liturgia e nella teologia, nelle immagini della letteratura, filosofia e filmografia da una galleria impressionante di volti e figure del Cristo. Potremmo dire che alla prudenza, starei per dire alla reticenza, del NT nel disegnare i tratti somatici e fisionomici di Cristo corrisponde l’affanno e, a tratti, la concitazione con cui la vicenda storica ha riflesso come in un’infinita galleria di specchi la luce abbagliante e inaccessibile dell’Unico che è l’"Immagine" del Dio invisibile. Sarebbe bello fare una visita ideale alla storia delle immagini e delle figure di Gesù, forse la visita più affascinante che possiamo pensare per conoscere la storia degli uomini e dei loro desideri, ma anche la nostalgia di Dio, o di qualcosa che si avvicini a Lui. Questo paradosso però contiene già le traiettorie della nostra ricerca.

Lo sguardo di Gesù

 

Il paradosso ricordato non comporta che il NT sia silente sul volto di Gesù. C’è un aspetto del volto che il racconto evangelico predilige ed è il suo sguardo, lo sguardo di Gesù. Potremmo dire che se il NT non ci dice nulla sul colore dei suoi occhi, sulla forma dei suoi capelli, sulla configurazione del volto, sull’inflessione della voce, sulla mimica del suo viso, come avrebbe fatto ogni buon biografo e narratore appena all’altezza del suo compito, è stato invece sorprendentemente fulminante nel descrivere lo sguardo di Gesù. Lo sguardo è forse la parte più interiore del volto di Gesù, ma si potrebbe dire è anche l’aspetto più estroverso della sua persona, il più mobile, il tratto che muta continuamente, che indica ad un tempo il segreto degli affetti, dei pensieri e dei desideri e l’invito suadente, l’approccio tenerissimo o la presa di distanza tagliente nei confronti dell’interlocutore. Lo sguardo s’accompagna alla voce, e anche la voce di Gesù, si coniuga con la tonalità variegatissima della parole pronunciate da Gesù. Gli evangeli non hanno un’attenzione per così dire psicologica alla differenza di tonalità e di parola, ma ognun s’avvede che non può dire tutte le parole di Gesù con lo stesso tono: alcune sono solenni, altre persuasive, alcune sono durissime, altre suadenti; qualche volta egli usa il linguaggio tagliente dei profeti e dei riformatori, qualche altra volta la lingua trasognata dei poeti e dei mistici. La voce di Gesù fa corpo con la sua parola, è proprio il caso di dirlo: è la sua parola che si fa carne nella voce dalle infinite sfumature. Come per il suo sguardo. Lasciamoci guardare dallo sguardo di Gesù. La nostra ricerca del Volto parte da questo sguardo, si colloca dentro l’irradiazione della sua luce. Così mi piace iniziare il nostro cammino. Così desidero anche per voi. E per far questo vi offro brevemente tre immagini: lo sguardo di Gesù che chiama e perdona, lo sguardo di Gesù sulla realtà, lo sguardo di Gesù sul Padre.

Lo sguardo di Gesù che chiama e perdona è quello che più s’è impresso nell’esistenza delle persone. Come non ricordare lo sguardo fisso che ama il giovane ricco: «Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: "Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi"». (Mc 10,21). Credo che la vicenda spirituale di molti credenti, da Antonio in avanti, non avrebbero seguito l’invito pressante di Gesù se non fosse accompagnato, in ogni stagione della vita e in ogni epoca della storia, da quello sguardo penetrante e struggente. Eppure nessuno fa mai notare il paradosso di questo testo: lo sguardo di Gesù che è andato incontro all’insuccesso è stato il paradigma di un’ininterrotta storie di chiamate, che hanno voluto quasi sostituirsi nel luogo di quello sguardo senza risposta. Molti credenti hanno seguitato a leggere il brano sentendo che l’invito era rivolto a loro. Pochi versetti dopo leggiamo: «Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: "Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!"». Per sentire concludere l’evangelista: «Ma Gesù, guardandoli, disse: "Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio"» (Mc 10,23.27). La chiamata può essere ascoltata solo dentro uno sguardo, o meglio nasce da un lasciarsi guardare e amare. E come non sentire lo sguardo di Gesù che perdona, quando incontra Pietro nel cortile del sommo sacerdote: «Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: "Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte"» (Lc 22,61). Il Signore va diritto per la sua strada verso la croce, ma prima si volta verso Pietro, perché si ricordi che nessuno, anche quando la paura o il compromesso ci fa nascondere prima a noi stessi che a Lui, resta escluso dallo sguardo di Gesù. Solo così si può avere il coraggio di passare a vita nuova.

Lo sguardo di Gesù sulla realtà e sul mondo è ancora più sconvolgente. Dopo anni in cui liquidavo il testo di Matteo sui gigli del campo e sugli uccelli del cielo (Mt 6,25-34 // Lc 12,22-30) come un brano di troppo facile poesia, a un certo punto mi ha colpito la profondità di questo brano evangelico. Mi è brillato davanti agli occhi lo sguardo di Gesù, che m’invitava ad uno sguardo nuovo sul mondo: «Guardate gli uccelli del cielo… Osservate come crescono i gigli del campo… » (vv. 26.28). Gesù guarda la realtà e spinge ad osservarla con i suoi stessi occhi. Gesù riprende lo sguardo di Dio di Genesi («E Dio vide che ogni cosa era buona») e ci incalza a guardare/osservare. Ora il suo invito è rivolto agli ascoltatori (discepoli/folla): essi possono "vedere" la creazione mediante il "suo" sguardo. Lo sguardo di Gesù rivela il mondo non come gettato-là, ma come donato. L’incanto di queste parole affascinanti di Gesù chiede di accendere uno sguardo nuovo e insieme antico sul mondo, ricuperando la meraviglia originaria (il thaumázein degli antichi). Lo sguardo di Gesù ci fa procedere oltre: «eppure il Padre vostro celeste li nutre!» (v. 26), «Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro!» (v. 29). Il mondo rivela una cura amorevole e lo splendore di una gloria che fa porre la domanda sulle sue origini. E’ solo ripartendo dallo stupore e dall’esclamazione, dal debito impensato da cui sorge il nostro essere-nel-mondo, che è possibile far sorgere l’interrogativo: perché c’è qualcosa? Anzi Gesù precisa questa domanda: essa non riguarda la questione del "perché c’è qualcosa piuttosto che il nulla" (Leibniz-Heidegger). Questa è una formula che ha inaridito lo stupore iniziale, anche se resta la domanda delle domande! Gesù ci dice che bisogna portare alla parola lo splendore che "veste" il mondo e la cura amorevole del Padre vostro che lo "nutre". Non è un caso che i due verbi siano quelli della "nutrizione" e del "vestire", in cui bisogna riconoscere "di più" del cibo e del vestito materiale, ma la cura e lo splendore del "Padre" nostro («eppure il Padre vostro!), che "Gesù" ci comunica in modo definitivo(eppure io vi dico!»). L’appello di Gesù al Padre nostro che nutre gli uccelli del cielo, e ancor di più il "ma io vi dico" di Gesù che "Dio veste così i gigli e l’erba del campo" con uno splendore e una sapienza maggiore a quella di Salomone accendono anche uno sguardo nuovo sul mondo come "creazione". Se lo "sguardo" di Gesù ci fa risalire allo splendore della cura del Padre per il mondo, ancora di più alla fine del brano matteano la parola di Gesù rappresenta il verticedella "visione" di Gesù: «Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,32-33). La maniera con cui i pagani si occupano del mondo così, sottoponendolo ad essere la riserva di uno sfruttamento indiscriminato che assoggetta l’uomo al suo lavoro, è contrapposta da Gesù alla cura preveniente di Dio: «il Padre vostro celeste sa che ne avete bisogno…». Tuttavia questo atteggiamento non rende l’uomo passivo, quasi un fannullone in attesa di un intervento provvidenzialista. Il fatto che Dio "sa che ne avete bisogno…" libera il cuore e la mano dell’uomo per la "ricerca del Regno e della sua giustizia", nella cui luce il mondo ("tutte queste cose") ci viene dato in aggiunta, vale a dire donato in sovrabbondanza. Gesù porta alla Parola è Gesù che rivela il senso radicale del suo "sguardo" il criterio con cui il mondo perviene al dono che fin dallinizio porta con sé come promessa. Occorre "cercare il Regno e la sua giustizia", cioè bisogna affidarsi al senso del mondo che è quello di condurci a scoprirne il Donatore, e ad abitare la relazione con Lui. Anche lo sguardo di Gesù sulla realtà ci dice l’importanza della nostra ricerca del volto di Gesù. Vedremo che il brano parallelo di Luca (Lc 12,22-32) sarà al centro del nostro cammino.

Infine, lo sguardo di Gesù sul Padre. Non abbiamo comprensibilmente molti squarci su questo aspetto, ma tutti sono decisivi. Mi piace immaginare Gesù che alzando gli occhi al cielo (Matteo ha un incipit generico; Luca: «In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo») proclami il suo inno di giubilo: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,25-27). La piena rivelazione del mistero del Figlio e del Padre è cresciuta lungamente dentro lo sguardo della preghiera, che gli evangelisti ricordano moltissime volte. Giovanni lo afferma esplicitamente con la sua espressione caratteristica:«Gesù, alzati gli occhi al cielo, disse: "Padre, è giunta l’ora, glorifica il tuo Figlio» (Gv 17,1, ma anche 11,41). Lo sguardo sul mistero del Padre è la sorgente segreta a cui si alimenta lo sguardo di Gesù che chiama e perdona, lo sguardo di Gesù sulle cose, sui gesti e sul cuore degli uomini (cf l’episodio dell’obolo della vedova: Lc 21,1-4: …vide alcuni ricchi, …vide anche una vedova povera).

L’unico volto e le molte immagini

 

Lo sguardo di Gesù è dunque il primo luogo di accesso al suo volto. Eppure dicevano del paradosso tra la mancanza di un volto certo di Gesù e del proliferare dei molti volti lungo la storia della fede e della cultura. Bisogna che sostiamo un po’ su questo paradosso. Le immagini con cui si è rappresentato il Cristo sono praticamente incalcolabili: la sua effigie ha preso il volto dell’umano ideale di ogni tempo. La proiezione su Gesù di esperienze, idee e persino di filosofie, tipiche di un epoca, colpisce in modo sorprendente. Basti ricordare, da un lato, il Cristo glorioso degli orientali, rivestito con gli abiti dell’imperatore; e, dall’altro, il Cristo scarnificato e trucidato delle acqueforti di Rouault, con il volto sfigurato. Si pensi all’intensità del Cristo di Giotto, alla trasparenza di quello del Beato Angelico, alla vivacità di quello di Masaccio, all’impassibile bellezza dei cristi di Raffaello (niente meno dell’immagine di un signore del Rinascimento), all’umano morente nella serena Pietà romana di Michelangelo o al sublime non finito della Pietà Rondinini. O, infine, alla potenza espressiva del Cristo giudice, ancora con le piaghe del Crocifisso, della cappella Sistina. E poi si scorra la letteratura: Dante, Petrarca su su fino a Dostoievskj, Pasternack, per giungere ai nostri Caproni, Pomilio, Luzi, ecc. Mille immagini, mille figure, in cui si esprime insieme la proiezione del desiderio umano e la ricerca del volto autentico di Cristo. Le stesse teologie sottendono immagini diverse di Cristo. E’ una esperienza affascinante anche solo una scorsa ai ritratti più importanti di questa galleria storica. Ireneo, Origene, Agostino, Leone, Tommaso, Francesco. E poi ancora Cusano, Erasmo, Lutero, Pascal, Barth, Bonhoeffer, Guardini, Rahner, von Balthasar. Bisognerebbe anche ricordare il contrasto tra il fascino che Cristo ha prodotto negli ultimi secoli e il risultato ottenuto, spesso così arbitrario e sognante. Tutti i nomi più noti del pensiero fanno passerella: Spinoza, Rousseau, Lessing, Kant, Hegel, Schleiermacher, Feuerbach, Marx, Kierkegaard, Proudhon, Strauss, Renan, Nietzsche. E poi nel Novecento gli accostamenti tormentati e i silenzi espressivi di Heidegger, Bergson, Blondel, Sartre, Jaspers, Weil, Marcel, Bloch e la lunga teoria dei marxisti incontro a Cristo.[1]

Questo ci può sconcertare: l’assenza del volto di Cristo ha portato la storia quasi a farlo scomporre in una miriade di figure. Appare chiaramente che la figura di Cristo si dà nel prisma delle attese umane. È evidente come esperienza, tradizione, arte e pensiero rappresentino come un enorme gioco di proiezione sul Cristo dei desideri, delle attese e dei progetti di ogni uomo, gruppo o epoca storica. La proiezione non è subito un fatto sconveniente, perché non si può esprimere l’oggetto della esperienza e conoscenza che a partire dal proprio mondo di immagini, valori e idee. L’esperienza cristiana, con tutto il suo complesso di devozione, arte, pensiero, ha mantenuto vivo il ricordo promettente di e su Gesù. Il nostro stesso linguaggio e l’immaginario attuale sarebbero impensabili senza collocarli nel grande fiume di questa tradizione. Si scopre qui un aspetto inevitabile del nostro rapporto con Cristo: ogni generazione si appropria in forme sempre nuove del ricordo di Cristo, come qualcosa di vitale, di irrinunciabile, di decisivo per la propria vicenda e per la storia degli uomini. E perciò lo esprime in immagini!

Il volto autentico e il vangelo quadriforme

Il gioco incrociato delle proiezioni sembra porci una domanda pressante: «qual è l’immagine autentica di Gesù?». Occorre dire con chiarezza che è un’illusione pensare di poter saltare tutta la tradizione per andare a distillare, come in provetta, il Gesù autentico. La questione dell’immagine autentica di Gesù è una questione delicata: qui voglio solo evitare l’ingenuità di chi pensa che prendendo in mano il vangelo si possa sfilare quasi in filigrana una sorta di quintessenza del Cristo "autentico", con la stessa facilità con cui la bimbe sfilano le loro bambole dal vestito. Tutta la ricerca sul Gesù storico, giustamente necessaria per dire che questi quattro libretti ci parlano di una storia e non di un idea o di un simbolo, ci mostra anche la sua radicale insufficienza.[2] La verità di Gesù (il suo volto!) non ci è accessibile come vedremo anche nel Vangelo di Luca che attraverso il prisma della risposta credente, di quei credenti della prima ora, Marco, Luca, Matteo, Giovanni, e poi di quelli che sono seguiti, tra cui svetta Paolo. Il documento incontestabile di questo fatto è che Gesù di Nazaret ci è dato in un vangelo quadriforme. Quello che viene ritenuto uno svantaggio, per le differenze e talvolta le incoerenze che vi sono tra i testi, mi sembra che sia anzitutto un "caso singolare" della letteratura mondiale: dell’unica storia, della stessa vicenda si danno ben quattro attestazioni, convergenti sui tratti essenziali. Ormai oltre duecento anni di critica storica hanno certificato la solidità di questa conclusione, non come si dice nonostante le differenze dei testi, ma proprio attraverso di esse.

Tutto ciò però ci lascia ancora con la nostra domanda sul volto "autentico" di Gesù. Trovo, allora, quasi un segno nel fatto che nessun vangelo ce ne descriva l’aspetto esteriore, perché nessuno, né oggi né domani, possa afferrarlo come sua proprietà. Allora, preferisco farmi accompagnare dagli amici di Gesù. Dietro questa decisione, c’è una scelta teorica che spiego brevemente. Essi non hanno avuto paura di raccontare ciascuno "secondo" il suo racconto (di Marco, di Luca, di Matteo e di Giovanni) l’unico volto del Signore. Dopo la prima stesura (che di solito si fa risalire a Marco), gli altri avrebbero potuto solo proporre delle aggiunte, dei materiali nuovi, dei racconti inediti. Nulla di tutto ciò. E anche in presenza di una racconto già concluso (Matteo e Luca conoscevano almeno una stesura del vangelo di Marco), essi hanno incominciato da capo un racconto completo, con la coscienza che ciascuno (cf Lc 1,3: «così ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teofilo») dovesse narrare di nuovo l’unico volto di Gesù. Perché tutto questo? Qual è la sapienza teologale che vi si nasconde? La risposta più semplice è gia stata anticipata sopra. L’identità di un volto si dà dentro molti legami. L’identità di Gesù avviene nella risposta credente dei suoi discepoli. Come Gesù non ha lasciato nulla di scritto se non i labili segni sulla sabbia davanti alla donna peccatrice, perché ciò che egli ha detto è stato scritto dalla penna di coloro che lo hanno conosciuto e lo hanno seguito, così non ha lasciato tracce del suo volto, né di quello esteriore, né di quello interiore (anche quello della Sindone ne è un…negativo), se non attraverso l’attestazione quadruplice degli evangelisti. Se, come abbiamo detto, c’è una stretta connessione tra "volto", "ricerca" e "fede", questo non è solo la "realtà" che cerchiamo, ma anche il "modo " con cui la raggiungiamo. O, meglio, con cui anche oggi possiamo affidarci a Lui. Trovo sorprendente forse la forma di credibilità più alta che questo "cammino" (questo "metodo") sia anche il principio generatore del vangelo: la ricerca di Gesù non è solo un tema del Vangelo, ma ne è anche il suo motore segreto. Come il vangelo è nato, così è stato scritto e così va anche letto, perché ogni lettore futuro possa viverlo come la ricerca del volto di Gesù!

 

[1] X. Tilliette, Filosofi davanti a Cristo [1989], Queriniana, Brescia 21991, pp. 544.

[2] Anche l’ultimo decennio registra imponenti ricerche in questa direzione: G. Theissen - A. Merz, Der historischen Jesu, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1996; tr. it., Il Gesù storico. Un manuale, Queriniana, Brescia 1999; J.P. Meier, Un Ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico (= BTC 117.120. 125), Queriniana, Brescia, 2001.20002.2003; G. Barbaglio, Gesù l’ebreo, Dehoniane, Bologna 2002.

 

 

GESU' DI NAZARET: UNA STORIA DI RIVELAZIONE

Monza, 16 ottobre 2007

 

Don Roberto Vignolo, docente di Teologia biblica nella Facoltà Teologica dell'Italia settentrionale

 

Sul tema di questa sera Jos. Ratzinger Benedetto XVI ha scritto il suo Gesù di Nazaret nel quale sostanzialmente afferma due tesi principali:

1) I Vangeli sono "fonti affidabili".

2) Alla domanda: "Che cosa ci dà Gesù?", il papa risponde: "Gesù ci dà Dio".

La prima parte del suo libro offre una lettura "canonica" del Vangelo, che rispetta la "sostanza storica" della rivelazione di Gesù, circoscrivendo la sua analisi al periodo tra il battesimo del Salvatore e la sua trasfigurazione sul Tabor. Il resto sarà presentato nel secondo volume.

Quello del papa è un tentativo di coniugare la riflessione storico-critica con quella più specificamente teologica, operando una sintesi di storia e rivelazione. E’ quello che cercherò stasera di mettere a fuoco. Sul piano metodologico avrei voluto rovesciare l’ordine dei fattori: parlare prima dell’imponenza del fenomeno e quindi dei quattro Vangeli e poi trattare della testimonianza dei Vangeli e del suo valore sul piano letterario e canonico:  vale a dire che tipo di lettore emerge dalla lettura dei Vangeli? Quattro lettori per quattro Vangeli, quattro Vangeli per quattro lettori. E’ questo il passo preventivo consigliato per una lettura storico-critica del Vangelo.

Le dimensioni dei Vangeli

Nei quattro Vangeli si incrociano tre dimensioni:

a) una testimonianza di tipo narrativo,

b) una testimonianza di tipo storico,

c) una dimensione di tipo teologico.

La prima dimensione vuole indicare semplicemente che i quattro vangeli sono quattro narrazioni, quattro "racconti", che costituiscono tuttavia un "genere letterario" unico, anche se vi sono altre narrazioni simili nel patrimonio biblico (storia di Mosè, di Giuseppe, di Elia, di Davide…).

I quattro Vangeli tuttavia hanno delle proprie specificità: il Vangelo di Marco, il più antico, è certamente un "Vangelo kerygmatico", un Vangelo "pugno nello stomaco", un "thriller", fatto per capire e far capire al catecumeno che l’oggetto della fede è "infinitamente più grande" di ogni comprensione. Un racconto in cui in ogni episodio la rivelazione "trafigge" la storia e la fede si trova continuamente spiazzata.

Molto diverso è il Vangelo di Matteo, un racconto per un lettore saldamente fondato sulla Chiesa, in una comunità che riconosce in Gesù "il compimento della legge e delle scritture". E’ il Vangelo della sicurezza: "Io sono con voi fino alla fine dei secoli" (Mt. 28, 20, conclusione del Vangelo).

Il Vangelo di Luca tende a sottolineare la dimensione storica: la storia come luogo della rivelazione, di una rivelazione graduale e progressiva che si adatta con pazienza ai limiti e alle capacità del lettore.

Infine, la narrazione di Giovanni si presenta come il "Vangelo testimoniale", il Vangelo della memoria.

Il primo atteggiamento del lettore è quello del "rispetto" del testo e del taglio specifico di ogni Vangelo.

Questi racconti hanno un "nocciolo storico" affidabile e accertabile, con un grado di certezza vario ma sempre degno di fede. E’ questo lo scopo di ogni lettura storico-critica della vicenda di Gesù che viene inquadrata nel contesto contemporaneo, anche se poi Gesù non si integra completamente nel contesto della società del suo tempo. Il Gesù presentato dai Vangeli è un evento "storico" che, tuttavia, non si presta a offrire fondamenti storici sufficientemente validi alla terza dimensione, quella teologico rivelativa.

Sia attraverso la logica narrativa, sia attraverso la logica dei fatti i Vangeli ci offrono i contenuti della rivelazione come testimonianza teologica della fede nel Gesù annunciato.

Il fattore narrativo è il "medio", il "ponte" originario che serve a unire il momento storico e il momento teologico. Occorre sempre tener presente che i Vangeli sono in primo luogo una "testimonianza di fede"; non vogliono essere un semplice "archivio storico" ma suppongono l’evento storico. Purtroppo, a partire dall’illuminismo si è sempre più allargata la distinzione tra il Gesù della storia e il Gesù della fede fino a diventare, nei tempi più recenti, una vera e propria opposizione. Il principale fattore di discontinuità e di frattura è costituito dalla Pasqua di resurrezione.

Prima della Pasqua (Passione Resurrezione) Gesù è annunciatore del Regno. Dopo la Pasqua è Lui che diventa l’Annunciato. La distinzione "prima e dopo la Pasqua" s’impone come discriminante ma essa non giustifica alcuna frattura o, peggio, opposizione tra Gesù prima e Gesù dopo la Pasqua. Un errore simile di interpretazione dei racconti evangelici non è correggibile. Una lettura corretta di tali racconti esige distinzione ma nello stesso tempo unità delle tre dimensioni, senza opposizioni e senza fratture. Occorre distinguere per unire, secondo una corretta metodologia euristica.

Naturalmente ciò è possibile in un contesto e in un orizzonte culturale capace di recepire questa unità. In un contesto in cui prevale la logica della contrapposizione tale unità diventa impossibile.

 

Lettura "consenziente" e lettura "resistente"

Una prima conseguenza di quanto detto dovrebbe essere la seguente: una lettura corretta dei Vangeli esige che essi vengano accettati come racconti accostati con "consenso", vale a dire attraverso una "lettura consenziente" che permette di passare dalla lettura all’accettazione del messaggio annunciato, che "si lascia istruire" dal testo stesso, e  di acquisire la novità del messaggio affidata al testo letto.

Affinché il lettore sia guidato a questo genere di lettura il narratore "adatta il testo" alla comprensione del lettore. E così Marco, ad esempio, si premura di tradurre le varie espressioni aramaiche che egli cita nel testo: "talità qumi", "fanciulla alzati", "eloì, eloì, lemà sabactani", "Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?", "Abbà", "Padre", tutte parole del Maestro.

C’è poi da tener presente una "udienza narrativa", nel senso che il testo vuole modificare la vita di chi lo accosta. Marco con la sua narrazione spiazza continuamente il lettore. Nel suo racconto Gesù è sempre "altrove", passa continuamente da un luogo ad un altro, si fa continuamente "cercare". Significativa la "giornata di Cafarnao": prima è nella Sinagoga; quindi guarisce la suocera di Pietro e poi, al tramonto (prima non era possibile per l’ordinanza del sabato), molti fra gli ammalati che gli portano, non tutti; il giorno dopo è irreperibile: prima dell’alba era andato "a pregare in un luogo deserto", e a Pietro e agli altri che lo cercavano dice: "Andiamocene altrove", "devo predicare agli altri; sono venuto per questo" (cfr. Mc. cap.I). Sarà lo stile di Gesù per il resto del Vangelo di Marco, uno stile "missionario".

Diverso è il taglio del Vangelo di Giovanni ben riassunto nella prima conclusione: "Molti altri segni ha compiuto Gesù davanti ai suoi discepoli che non sono scritti in questo libro. Questi sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, Figlio di Dio, e credendo abbiate la vita nel suo nome" (Gv. 20, 30-31). I segni sono stati scritti per essere tramandati "nella fede" e per la fede. Su questo punto il Papa presenta un passaggio che non ritengo "perfetto" (d’altra parte nella prefazione è Benedetto XVI che invita ad avanzare critiche alla sua "ricerca personale"). Il Pontefice afferma che il Vangelo di Giovanni è stato scritto principalmente per dirci "chi era Gesù", ma io ritengo, con tutto il rispetto filiale, che il Vangelo di Giovanni ci dica "chi è Gesù" e che è stato scritto "perché crediate (…) e abbiate la vita". Il rapporto tra conoscenza e fede si presenta rovesciato: la conoscenza di Gesù avviene nella fede, non può essere una semplice idea; Gesù è un’identità la cui storia coincide con la rivelazione. E’ questo l’effetto di una "lettura consenziente".

Ma è possibile anche una "lettura resistente", per cui ci si domanda: "Davvero Pietro ha camminato sulle onde?" (Mt.14). Certo la dimensione di Gesù guaritore, l’importanza del miracolo-segno, il "lavoro" di esorcista, sono elementi caratterizzanti la figura di Gesù, ma tutto va considerato in maniera armonica; non si può considerare il tutto come un ammasso informe.

 

Criteri di affidabilità storica

a) Criterio della molteplice attestazione

 

Ci sono criteri che ci attestano l’affidabilità storica dei Vangeli e dei singoli episodi: ad esempio, la convergenza delle fonti. Il 90% del Vangelo di Marco è presente in quello di Matteo. A giudizio degli storici Marco costituisce "la fonte" (il testo "Q" dei critici tedeschi) sia di Matteo che di Luca; abbiamo poi fonti indipendenti per Giovanni, Luca, Paolo e lo stesso Matteo. Se un episodio o un elemento è attestato da due fonti convergenti e autonome, si presenta storicamente affidabile. Se invece è presentato solo da un autore può anche essere storicamente vero ma rimane il dubbio che attraverso la chiave narrativa l’autore abbia voluto presentare qualche aspetto della figura del Maestro o anche dare una certa idea di Gesù alla propria comunità. E così, ad esempio, mentre la moltiplicazione dei pani e dei pesci ci si presenta sufficientemente attestata, pur con qualche aspetto poco chiaro, l’episodio di Pietro che cammina sulle acque ci è attestato solo da Matteo, sia pure con molti particolari, per cui sorge il dubbio: non vorrà per caso Matteo presentare attraverso quell’episodio una situazione particolare della comunità alla quale è indirizzato il proprio Vangelo? L’orizzonte storico di Gesù e quello dell’evangelista, pur rimanendo distinti, tendono tuttavia a convergere e a fondersi, e questo si avverte di più in Matteo e in Luca, che cronologicamente sono più distanti da Gesù. Luca, ad esempio, chiama Gesù molto spesso "il Signore" e questo indica chiaramente che la prospettiva in cui opera Luca è quella della Pasqua e della Resurrezione, che è poi la prospettiva propria dell’annuncio dei quattro evangelisti.

Al riguardo una lettura che voglia prescindere da questa prospettiva rende problematica la figura di Gesù. E’ il problema di una lettura "laica" del Gesù storico. Oggi quasi nessuno dubita dell’esistenza e della figura storica di Gesù di Nazaret, che è attestato dalle fonti rabbiniche, il Talmud, che lo presentano come "corruttore delle famiglie" e come "mago", da Giuseppe Flavio, storico molto attendibile, da Svetonio e Tacito e, naturalmente, dalle quattro narrazioni evangeliche che, pur nella loro differenza, si presentano come narrazioni storiche di rivelazione: quattro racconti diversi per ambiente, per autore, per cronologia, che prospettano "la stessa rivelazione"; questo storicamente è un dato molto rilevante, anzi è un "unicum" in tutta la storia delle religioni.

Adolf von Harnack, esponente del "cristianesimo liberale" protestante, forse il più grande studioso di questo problema, ha una pagina bellissima in cui si sostiene appunto che non ci sono in tutta la storia delle religioni quattro narrazioni storiche diverse che ci facciano accedere alla medesima rivelazione: un unico fondatore e quattro racconti diversi.

Nel secondo secolo Taziano, di fronte alle differenze dei quattro racconti degli evangelisti, che potevano ingenerare incertezze, aveva tentato una "concordia", raccogliendo solo i "testi concordanti" ed eliminano il resto. Venne così redatto il "Diatéssaron", una sintesi dei quattro Vangeli, che ebbe molta fortuna nei primi secoli. Ma la Chiesa non lo riconobbe mai, anzi a un certo momento esso venne ritirato perché impoveriva il messaggio e la figura di Gesù. La quadruplice narrazione se da una parte può generare qualche perplessità, dall’altra rivela una maggiore ricchezza della rivelazione vista da prospettive differenti. I quattro Vangeli costituiscono una prova importante, forse la più importante, di "molteplice attestazione" di un evento storico. Naturalmente i Vangeli non sono stati scritti per lasciarci una "biografia" di Gesù, nel senso che oggi si dà a questo genere letterario; lo stile estremamente sobrio con cui sono scritti indirizza il lettore a contenuti che vanno al di là di una semplice descrizione, tanto che si parla di "narrativa casta", sobria, propria di una testimonianza affidabile, quale era quella degli apostoli e degli evangelisti.

 

b)Criterio di imbarazzo

 

Tale "affidabilità" è resa più evidente quando vengono tramandati fatti, o particolari, che sarebbe stato più conveniente tacere o nascondere. Ad esempio, il battesimo di Gesù, attestato in tutti e quattro i Vangeli, per la Chiesa primitiva costituì una spina nel fianco, perché Giovanni il battista è l’unico personaggio del turbolento giudaismo di quel tempo a cui si appoggia Gesù per iniziare la sua missione. Nel mondo giudaico la figura e il movimento di Giovanni erano molto diffusi e riconosciuti sia prima che dopo la vicenda storica di Gesù. Il battesimo di Gesù rappresenta un atto di sottomissione, un riconoscimento della "superiorità" di Giovanni battista. La Chiesa primitiva ebbe molta difficoltà a far riconoscere in ambito giudaico che il Cristo era Gesù e non Giovanni e questo proprio in grazia di quel "battesimo", che dagli evangelisti viene presentato come la "rivelazione del Messia" sia da parte di Giovanni ("Non sono degno di sciogliere i legacci dei calzari"), sia da parte del Padre ("Ecco il mio Figlio prediletto…").

Un discorso simile può essere fatto per il "tradimento" di uno dei "dodici", per l’abbandono di "tutti i dodici", per il "rinnegamento di Pietro": sono episodi che in poche ore scardinano il piccolo gruppo dei seguaci di Gesù ma che vengono tramandati e testimoniati senza reticenze a conferma della onestà dei testimoni. E’ forse questo il punto nevralgico della verità storica ma anche "salvifica" della rivelazione e del messaggio di Cristo attestata da testimoni "affidabili e onesti", anche se fragili e inadeguati. Testimonianza autentica da parte di chi ha il coraggio di confessare: "Nnon c’eravamo, siamo fuggiti…", che conferma quello che viene presentato come "criterio dell’imbarazzo" ("Io vengo a testimoniare un fatto che si ritorce contro di me").

 

c) Criterio di discontinuità

 

Altro criterio che emerge è quello che viene chiamato "criterio di discontinuità". E’ storico ciò che non può essere attribuito né al giudaismo dell’epoca, né alla comunità primitiva. Ad esempio, il cartello, che, secondo Giovanni, Pilato fa apporre sulla croce, reca scritto: "Re dei giudei" che non è espressione del mondo giudaico, difatti viene attribuita a Pilato, pagano. Essa ricorre in Matteo una sola volta in bocca ai Magi, anch’essi pagani: "Dov’è il neonato re dei giudei?". Quel cartello è un frammento storico indubitabile e "imponente": è la sua figura a imporsi come figura messianica. Cosa che si impone nella maniera di parlare di Gesù. Ai demoni ordina: "Esci da costui", non dice: "In nome di Dio…". Non parla come i profeti: "Così dice il Signore…", ma dice: "Amen dico vobis…", "In verità vi dico…", "Ve lo dico Io…". Non è l’Amen della risposta ("Così sia") ma dell’affermazione della verità annunciata. Nell’Antico Testamento nessuno iniziava il discorso con l’ Amen, è solo Gesù nel Nuovo Testamento che inizia i suoi discorsi con l’Amen, oppure dicendo: "Avete letto (o sentito) che…ma Io vi dico…". Sono tutti "elementi di discontinuità" col mondo giudaico, che caratterizzano la differenza di Gesù, la novità del suo annuncio. In particolare l’Amen di Gesù è una novità nel senso che Gesù sposta l’Amen dalla fine del discorso, come assenso, all’inizio come principio e fine della verità, affermando così la propria identità col Padre.

In modo analogo viene affermata la storicità della Croce e della Crocifissione. L’unica differenza è data dalla cronologia dei sinottici che differisce di un giorno rispetto alla cronologia giovannea, differenza che nella narrativa dell’antichità è considerata assolutamente trascurabile, soprattutto considerando che i fatti sono narrati a distanza di alcuni decenni dall’evento. Una riflessione particolare esige l’evento della Resurrezione. I quattro evangelisti non presentano in alcuna maniera una narrazione diretta. Solo il vangelo di Pietro (apocrifo) riempie questo vuoto narrativo. Matteo fa scendere un angelo a ribaltare la pietra del sepolcro, sfiorando così il momento della resurrezione, che rimane un gesto misterioso del Padre, il quale "rialza Gesù dalla morte", perché "nessuno conosce il Figlio se non il Padre". Della resurrezione non c’è (e non ci può essere) nessun "testimone oculare". Ci saranno, invece, e numerosi, i testimoni diretti dell’incontro con il Risorto e la loro narrazione fa parte integrante dell’annuncio evangelico.

 

Valore storico della Resurrezione

 

Una domanda conclusiva: che valore storico può avere l’evento e l’annuncio della resurrezione? Per rispondere notiamo due fattori di discontinuità: uno è costituito dalla Croce, che ha polverizzato il gruppo dei dodici e dei discepoli. L’altro è il fatto che dopo la Pasqua il gruppo si ricompatta, gli undici diventano nuovamente dodici (più Paolo in seguito) e, soprattutto, acquistano una coscienza di sé e una forza propulsiva di annuncio, assolutamente insospettabile. Lo storico onesto deve domandarsi che cosa c’è di mezzo fra i due momenti, che ha trasformato radicalmente il gruppo dei dodici e dei discepoli. Ciascuno di essi ha certamente fatto un’esperienza che in grado di trasfiguare completamente la propria vita. Il Vangelo (tutti e quattro) dice: "HANNO INCONTRATO IL RISORTO", e questo ovviamente implica un atto di fede, non una fede cieca e priva di fondamento ma una fede che implica disponibilità ad accogliere nella propria esistenza la rivelazione divina, che si dispiega nella storia.

 

[1] Appunti non rivisti dall’autore. Ci scusiamo per eventuali errori e omissioni.

 

 

L'INCONTRO CON GESU' DI NAZARET

Monza, 23 ottobre 2007

 

Don Raimondo Riva, già docente di Esegesi Biblica nella Pontificia Università Gregoriana di Roma

L’INCONTRO CON GESU' DI NAZARET,

guidato da J.Ratzinger-Benedetto XVI

Il Papa, nell’introduzione, enuncia la situazione, in cui si colloca il suo libro. È la situazione dell’esegesi e dell’ermeneutica biblica caratterizzata dalla frattura tra "il Gesù della storia" e "il Cristo della fede". L’espressione è il titolo dell’opera di David Friedrich Strauss, Der Chistus des Glaubens und der Jesus der Geschichte. Eine Kritik des Schleiermacherschen Lebens Jesu, [Il cristo della fede e il Gesù della storia. Una critica della Vita di Gesù di Schleirmacher]Berlin 1865. Ritorna nel titolo dell’opera di Martin Kähler, Der sogennante historische Jesus und der geschichtliche, bibliche Cristus, [Il cosìdetto Gesù della storia e il Cristo storico biblico] Leipzig 1892. Questa concezione è presente, con preminenza diversa, nelle ermeneutiche successive, specialmente nella produzione di lingua tedesca. Dopo la seconda guerra mondiale influisce anche sulle ermeneutiche d’altre espressioni linguistiche. Quanto la formulazione della frattura esprima un problema fondamentale nella comprensione delle narrazioni evangeliche, si nota anche da una voluminosa pubblicazione collettiva di contributi per la comprensione di Cristo nella ricerca e nella predicazione, di protestanti e cattolici, pubblicati a Berlino, 1962, da Helmut Ristow e Karl Matthiae, che ha per titolo: Der historische Jesus und der kerigmatische Christus, [Il Gesù storico e il Cristo del cherigma] . La persistenza di questo problema appare dall’introduzione al libro del Papa. Alcuni metodi dell’esegesi moderna sono i presupposti dell’ermeneutica espressa nel libro.

L’esposizione di questa sera si svolge in tre momenti: l’ermeneutica della frattura tra il Gesù della storia e il Cristo della fede. Il Gesù della storia e la storia evangelica di Gesù. La lettura dei vangeli fatta da Ratzinger e la presentazione di Gesù di Nazaret figlio del Padre.

 

Ermeneutica della frattura fra il Gesù della storia e il Cristo della fede

Il problema della frattura sorge nell’esegesi biblica moderna, i cui principi e metodi affondano le radici nell’umanesimo e nel rinascimento. Una caratteristica del Rinascimento fu la considerazione dell’uomo nella sua storia e nei testi di questa storia. I testi antichi non solo s’interpretavano, bensì s’incominciò a studiarli come eventi storici, fattori della storia dell’uomo. Così, dal secolo XVII, s’intraprese a leggere anche la Bibbia. Con l’esposizione del contenuto, si ricercò l’origine, lo sviluppo, la trasmissione dei libri della S.Scrittura: la critica letteraria, esercitata nell’individuazione dei diversi stili e orientamenti ideologici presenti un uno stesso scritto, le differenti scelte grammaticali e lessicali; sono gli indizi della storia di formazione del testo. La critica letteraria, così intesa, cercò di determinare i rapporti di formazione dei quattro vangeli e la storia di formazione di ciascuno. Gli elementi indicativi della formazione del testo, erano anche espressione di eventuali differenti concezioni del passato narrato. Si esercita allora la critica "storica" nella conoscenza del passato. La scienza storica, accanto alle altre scienze, si diede i suoi metodi al fine di conoscere il passato "così come è avvenuto". I vangeli sono considerati i documenti della vita di Gesù e sottoposti a critica, come ogni altro scritto antico, per la biografia di Gesù. Si ricerca il Gesù della storia, così come egli è stato in realtà. Egli fu uomo di un’intensissima esperienza religiosa, nella storia dei grandi uomini "illuminati", con tratti caratteristici eminenti ed eccezionali. La sua predicazione attesta la sua esperienza del divino ed è insegnamento per l’umanità. I vangeli narrano anche eventi straordinari, per i quali la ricerca storica, secondo i suoi criteri metodologici, può e deve solo costatare l’attendibilità dei racconti. La natura degli eventi narrati, infatti, per la coerenza metodologica, è di pertinenza di un’altra possibilità di conoscenza della realtà dell’uomo. Ma l’urgenza del metodo, che garantisce alla ricerca storica la sicurezza di "scienza" per la conoscenza degli eventi della vicenda umana, pretende di spiegare anche l’evento straordinario; però questo lo può fare solo con un’interpretazione delle circostanze dell’evento straordinario, finalizzata alla loro riduzione nei rapporti delle causalità storiche. A questo scopo i racconti evangelici sono confrontati con racconti di fatti straordinari nella vita di "illuminati" o del così detto "uomo divino" conosciuti dalla storia delle religioni; non si riconosce, allora, la straordinarietà propria delle opere di Gesù, trascurando non solo la loro relazione alla sua parola, ma la loro funzione caratteristica in tutto il suo ministero. Un’altra interpretazione dei racconti evangelici, per spiegarli nel rapporto delle cause riconosciute dalla scienza storica, suppone la concezione che esclude gli interventi di Dio nella storia come causa degli eventi straordinari, e quindi ritenuti soprannaturali. Infatti, Dio o neppure c’è, o se c’è, non opera in discrepanza con quanto egli stesso ha creato, rendendosi presente nella storia da lui lasciata alla libertà dell’uomo e su cui sovrasta nella sua alterità trascendente. I racconti evangelici non sono attestazioni storiche della reale vita di Gesù; i vari strati, che si ritiene di individuare nella formazione e redazione dei testi, sono attestazioni dello sviluppo della fede dei suoi discepoli nella divinità di Gesù. Vi è dunque il Gesù della storia, di cui poco si conosce e il Cristo della fede, figlio di Dio, operatore di miracoli. Quest’interpretazione diventa, a volte, un elemento della concezione della vera fede salvifica. La storia è la vicenda dell’uomo segnata dal peccato, i cui eventi non sono mai salvifici; perciò non ha nessuna importanza se Gesù ha compiuto o no le opere straordinarie che sono narrate nei vangeli; che importa è la fede espressa nei racconti, che sono la Parola divina sempre presente, rivelazione in Gesù dell’amore di Dio che si dona fino alla morte, cui credendo si è salvati. Il linguaggio dei racconti evangelici è simile a quello dei racconti mitici, espressione di una concezione del mondo mutata dalla nostra conoscenza attuale.

Il papa, allora, si interroga: che cosa può significare la fede in Gesù il Cristo, in Gesù il Figlio del Dio vivente, quando proprio l’uomo Gesù era così del tutto diverso da come i vangeli lo presentano e da come la Chiesa lo annuncia a partire dai vangeli. In questa situazione drammatica per la fede egli scrive il suo "Gesù di Nazaret": confrontandosi con le affermazioni dell’esegesi presente, dichiara: "voglio tentare di rappresentare il Gesù dei vangeli come il Gesu reale, il "Gesù storico" nel vero senso",p.20. perché "se da questa convinzione di fede (quella dei vangeli) si leggono i testi con i metodi storici e con la loro apertura per quanto è più grande, essi si aprono e si mostra un cammino e una figura che sono credibili", p.21-22.

 

Il Gesù della storia e la storia evangelica di Gesù.

 

La separazione tra il Gesù della storia e il Cristo della fede esige una determinazione di quanto si intende per "Gesù della storia". Il Gesù della storia è l’uomo che è nato in un certo anno, in un certo luogo, da genitori conosciuti, che l’anno elevato ed educato in un certo modo; aveva un certo aspetto, ecc.: è la persona nelle circostanze reali di tempo e di spazio di tutta la sua vita fino alla morte: la persona nella sua realtà storica. Di questa persona se ne può fare una rappresentazione, se ne scrive la storia, che ne conserva il ricordo in coloro che l’hanno conosciuta e la fanno conoscere ad estranei. La storia più completa e più fedele non è mai la realtà nella sua compiutezza di evento storico. Le biografie, anche le più fedeli alla realtà storica, sono sempre diverse e tuttavia "vere" nella inevitabile "interpretazione", che è ogni narrazione, purché l’evento non sia solo il pretesto per dare concretezza di realtà ad una propria idea. I vangeli sono la storia di Gesù, non come biografia, bensì come testimonianza di coloro che ne hanno condiviso la realtà della vita. La testimonianza narra l’evento in modo che se ne manifesti la sua vera realtà nell’intreccio delle circostanze. Un cronista può fare la storia di un bacio tra due innamorati, narrando anche tutte le circostanze reali dell’evento; un amico fedele, che voglia rendere testimonianza dell’amore dei due innamorati, ne farà una narrazione ben diversa da quella del cronista, ma che è pure storia vera dell’evento del bacio, anche se sono trascurate circostanze, che il cronista, proprio perché tale e non partecipe della storia, ha dovuto narrare. Il giudizio sulla verità storica della testimonianza non si limita all’esame critico delle circostanze narrate, bensì esamina la credibilità dei testimoni e della loro testimonianza.

I vangeli, narrazione-testimonianza di un’esperienza di vita condivisa, hanno la loro origine nella predicazione apostolica, dunque in ricordi proclamati per suscitare la fede in Gesù. Il Gesù predicato è l’annuncio della esperienza reale del Gesù predicatore e proclamatore della presenza del regno di Dio in tutta la sua attività. Si formano le tradizioni degli eventi della passione e risurrezione, del suo ministero, completate da ricordi particolari della sua infanzia. Le tradizioni, che sono il contenuto della predicazione, si fissano anche in scritti. In Palestina si costituiscono due racconti paralleli e una raccolta di "detti" del Signore. Un’altra tradizione si formerà negli ambienti legati all’attività di Giovanni il Battista, dalla cui cerchia erano venuti i primi discepoli di Gesù; questa confluirà nella tradizione dell’ambiente costituitosi attorno al discepolo Giovanni. Le due tradizioni palestinesi sono tramandate una soprattutto nel vangelo di Matteo, l’altra in quello di Marco. Da una redazione di questi vangeli dipende Luca, che incorpora anche la tradizione dei detti, come avviene anche nel vangelo di Matteo. La tradizione giovannea si trova nel vangelo di Giovanni.

L’intenzione di predicare e tramandare non solo le circostanze degli eventi del ministero di Gesù, bensì la verità degli eventi stessi, appare prima di tutto dalle caratteristiche delle narrazioni, che non sono esposizione di un sistema di dottrina, bensì racconti di fatti, azioni e insegnamenti. Questa intenzione si manifesta anche dal fatto letterario, che la tradizione dei "detti" del Signore non si è conservata nella comunità credente come unità letteraria a se stante, quasi di trattato dottrinario, ma è diventata parte integrante della narrazione degli eventi del ministero di Gesù. L’intenzione di predicare Gesù narrando il suo ministero è anche dichiarata: quando si deve scegliere chi debba prendere il posto di Giuda, che è mancato come testimone perché ha tradito; il criterio fondamentale è che lo scelto sia stato testimone dall’inizio del ministero di Gesù, dal suo battesimo da parte di Giovanni fino alle sue apparizioni di risorto, cf. At 1,15-26. Luca inizia il suo vangelo dichiarando la sua intenzione nei primi quattro versetti del suo scritto: è l’intenzione espressa anche dagli storici pagani e in termini che ricorrono anche in Tucidite e Dionigi di Alicarnasso. Per questo intento lo stile stesso del seguito cambia, per la fedeltà alle sue fonti. È ancora questa intenzione che è espressa proprio nel linguaggio teologico all’inizio della prima epistola di Giovanni, cf. 1Gv 1,1-3. La ragione di questa testimonianza della realtà umana storica di Gesù la si legge ancora nella 1Gv 4,1-3, perché come si legge a conclusione del vangelo di Gv: chi crede al Gesù che ha compiuto i segni narrati ha la pienezza della vita, cf. Gv 20,30-31.

Questa conoscenza della formazione delle tradizioni evangeliche e dei quattro vangeli è risultato delle attestazioni di scrittoi antichi e della stessa critica secondo i metodi della ricerca storica. Questa ha formulato anche una criteriologia per valutare l’attendibilità storica dei racconti antichi. Quando la ricerca storica è fedele ai suoi principi, riconosce la realtà storica di una persona unica nel corso della vicenda umana, la cui piena comprensione può avvenire con altre conoscenze oltre la ricerca storica. A queste altre conoscenze proprio la ricerca storica indirizza, quando non pretenda di determinare quello che può o non può accadere, per preconcette concezioni del mondo. Nella considerazione di tutte queste ricerche, il Papa afferma: "penso che proprio questo Gesù, quello dei vangeli, è una figura ben comprensibile e coerente dal punto di vista della storia", p.21.

 

La lettura dei vangeli fatta da Ratzinger e la presentazione di Gesù di Nazaret  figlio del Padre.

La lettura che il papa fa dei vangeli e l’esposizione della figura storica di Gesù sottende sempre il confronto critico con le interpretazioni della attuale ricerca storica e teologica. Spesso quest’attenzione critica si manifesta nella stessa formulazione dell’interpretazione, come nell’introduzione al racconto del battesimo, nel confronto tra il racconto delle tentazioni in Mc e in Mt e Lc., nell’interpretazione della confessione di Pietro, nella valutazione della testimonianza del vangelo di Gv. Riguardo a questo vangelo vi è il lungo primo paragrafo dell’ottavo capitolo, che tratta in modo espresso la questione del suo valore storico. Un’attenzione critica particolare è dedicata alla storia dell’interpretazione delle parabole.

La concezione storica e teologica dell’inconsistenza critica della frattura tra il Gesù della storia e il Cristo della fede è a fondamento di tutto lo sviluppo dello scritto del papa. Egli introduce la sua esposizione richiamando la figura di Mosè, che come mediatore e profeta nella storia d’Israele, suscita la speranza, formulata nel Dt 18, 15-19, di un profeta che come Mosè sia la parola che rivela Dio, di cui Mosé ha avuto esperienza come tra amico e amico: Gesù è la figura storica che è in questa storia protesa al suo compimento. La presentazione di Gesù segue l’impianto storico dei vangeli: il battesimo, le tentazioni la predicazione del regno. L’annuncio di Gesù è il compimento dell’attesa di Israele, che inaugura i tempi nuovi preannunciati dai profeti. Seguono i capitoli che presentano gli eventi della novità che è Gesù: il discorso sul monte, la preghiera di Gesù, la costituzione dei discepoli, che con Lui vivono e sono chiamati a partecipare alla sua missione, le parabole che sono la parola della situazione nuova che sta compiendosi. Dopo il linguaggio figurato sul Regno, il linguaggio figurato del vangelo di Gv riguarda in modo immediato la persona di Gesù; si continua con la confessione di Pietro, la trasfigurazione e le espressioni di autorivelazione di Gesù. Questo sviluppo manifesta la coerenza della narrazione credibile dello svolgimento del ministero di Gesù nella situazione reale del momento della storia del suo popolo.

La considerazione della vita di Gesù nella storia del suo popolo e la lettura delle narrazioni evangeliche nell’unità di tutta la tradizione biblica è criterio ermeneutico per la comprensione dei singoli testi. I vangeli sono interpretati nella continuità di eventi prefigurativi e testi dell’A.T. Si può esprimere questo principio ermeneutico con l’espressione medievale "verbun abbreviatun". Gesù è la Parola una e unificante di tutte le parole della rivelazione. I vangeli si comprendono in unità con tutti i testi biblici e in quest’unità si rivela anche la realtà di Gesù come colui che compie il passato di attesa. Il compimento è avvenimento di continuità e novità. Il papa dà un particolare sviluppo a quest’aspetto della vita di Gesù, interpretando la "Torah del Messia", secondo le sue parole nel cap. 4, soprattutto l’insegnamento sul sabato, e sulla famiglia. La novità di Gesù, come compimento della Parola antica, si rivela nel confronto molto istruttivo, con l’interpretazione del Rabbi J.Neusner. nel libro"A Rabbi talks wuith Jesus". Così si comprende anche la novità della confessione messianica di Pietro, gli appellativi che Gesù stesso si dà: Figlio dell’uomo, Il Figlio. In tutto il libro l’ermeneutica dei singoli testi ne manifesta sempre il senso cristologico. L’espressione stessa di Gesù "io sono" è interpretata ricollegandola alla rivelazione di Dio a Mosè: l’attribuzione che Gesù se ne fa è il culmine della rivelazione di Dio nel Figlio uno con il Padre. L’interpretazione di quest’affermazione di Gesù è nell’ultimo paragrafo del libro; vi è, dunque, un richiamo dell’inizio, che presenta Mosè, il mediatore, il profeta, l’amico di Dio; si ha quasi il procedimento stilistico dell’inclusione, che dà compattezza a tutta l’esposizione del libro.

Un altro criterio ermeneutico ispira la lettura dei vangeli fatta dal papa; lo esprimo con una frase di S: Agostino: la S. Scrittura parla del Christus totus: caput et membra. I testi evangelici, proprio perché cristologici, sono anche ecclesiali. La parola ispirata della storia del passato ha valore permanente anche per il presente. Sono le interpretazioni che si possono dire "attualizzanti" dei testi. Queste non seguono il criterio della pluralità dei sensi, che ispirava l’esegesi patristica e medievale, ed espresso nel distico: litera gesta docet, quid credas allegoria,// moralis quid agas, quid credas anagogia. Il "più di senso" in relazione alla vita dei discepoli nella comunità credente e nel mondo è l’esplicitazione del senso stesso del testo nel suo valore cristologico, che, appunto, è il fondamento della fede, che indirizza poi la vita del discepolo di Gesu. L’ermeneutica del racconto del battesimo di Gesù si estende nell’attenzione al battesimo del discepolo; le tentazioni di Gesù ispirano anche la vita del discepolo nel mondo; la radicalità della torà di Gesù non è la rivoluzione di un politico, bensì la novità di vita che riguarda la nostra situazione presente nella storia nella tensione al suo compimento. Anche l’interpretazione delle parabole espone il senso in relazione al momento storico del ministero di Gesù, mostrando come l’evento soprannaturale del regno di Dio per Gesù e in Gesù è evento della storia , è "incarnazione", sicché si può esprimere paragonandolo ad eventi normali della vita e con le parole che dicono i fatti della vita. Allora la parola di quel passato è sempre la parola della realtà del regno nel presente della storia.

Il Libro del papa non è di un esegeta, e tuttavia è scritto nel confronto, implicito o dichiarato, con le interpretazioni dell’ermeneutica presente. È scritto da un teologo, ma non è il trattato del professore. È però uno scritto "teologico", perché è "il dire presente" nella continuità della vita del "theo-logos": la Parola ispirata biblica, rivelazione di chi è il Verbum abbreviatum, il Logos nell’unità con il Padre, fatto uomo nella fragilità della carne, Gesù di Nazaret, pienezza della grazia e della verità. Dio mai nessuno lo ha veduto, eppure noi contempliamo la sua gloria di Unigenito Dio: Egli è la rivelazione .

IL REGNO DEI CIELI È SIMILE A…

 

Monza, 6 novembre 2007

 

Mons. Franco Giulio Brambilla, Vescovo, Vicario per la cultura della Diocesi di Milano

 

IL REGNO DEI CIELI È SIMILE A…

LE PARABOLE DEL PADRE

(Lc 15, 11-32)

 

Portale

La misericordia del Padre e la riconciliazione degli uomini: due temi e un’unica esperienza che accompagnano il cammino del discepolo con Gesù. È possibile percorrerne l’ampio territorio, prendendo come canovaccio la parabola per eccellenza della misericordia di Dio (Lc 15,11-32). Mentre seguiamo il filo della parabola, cercheremo di entrare in ciò che si può chiamare la difficile riconciliazione. La riconciliazione è oggi "difficile" in rapporto a tre contesti: in relazione alle forme della coscienza contemporanea, dove il senso del peccato è in caduta libera; in rapporto alla figura di Dio, come Padre, che attende il figlio prodigo, che anzi previene il suo ritorno e che risulta incomprensibile al figlio maggiore; e, infine, in rapporto all’evidenza del sacramento della penitenza e della vita cristiana/ecclesiale come riconciliazione. Quando avviene questa difficile "riconciliazione", il credente rinnova la sua alleanza con Dio e con la chiesa che è inizio e strumento di riconciliazione per la società e per il mondo. Leggiamo la parabola nel contesto del capitolo 15 del vangelo di Luca.

La parabola è come uno stupendo tempio della riconciliazione. Osserviamo, anzitutto, il portale d’ingresso. Vi scorgiamo tre elementi:

lo sfondo: Gesù, i pubblicani e le prostitute, i farisei (Lc 15,1-3).La parabola è raccontata per rispondere alla mormorazione dei farisei che contestano l’atteggiamento di Gesù che riceve e accoglie nella comunione di mensa i pubblicani e le prostitute: «I farisei e gli scribi mormoravano: "Costui riceve i peccatori e mangia con loro"». Allora Luca racconta che Gesù rispose, narrando una parabola. In realtà seguono tre racconti (Lc 15,4-7.8-10.11-32). Luca collega insieme due parabole gemelle e una più ampia, perché esse sono tutte insieme un’illustrazione dell’incomprensibile agire di Gesù che "riceve" e "mangia" con i peccatori;

gli attori: il padre, i due figli, i servi. Gli attori della parabola sono un padre, due figli, i servi. Il padre apre e chiude la parabola: il suo spazio è contrassegnato dall’atmosfera della casa. I figli si muovono in rapporto allo spazio della casa: l’uno esce e poi vi ritorna, l’altro rimane ma, quando ritorna il fratello, non vuole più rientrare. I servi sono chiamati in causa in relazione ai due figli: per accogliere il figlio minore che è ritornato e per attestare di fronte al maggiore la salvezza del fratello giovane ritrovato;

i simboli: la casa, l’eredità, la festa. Essi sono gli indicatori della narrazione che delineano il dipanarsi dell’azione. La casa indica la relazione paterna, lo spazio affettivo dell’esperienza del padre di fronte al quale i due figli si dispongono in maniera diversa. L’eredità indica il senso del rapporto con il padre, che è dono per tutti e due i figli, ma che il figlio prodigo reclama come "diritto"(«Il più giovane disse al padre: "Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta"», v. 12), mentre il maggiore usa come "oggetto" di risentimento contro il padre nei confronti del fratello («tu non mi hai dato mai un capretto… questo tuo figlio che ha divorato i tuoi "averi"», vv. 29b-30). La festa, preparata dai servi su invito del padre, è evento gioioso alla fine della prima parte della parabola; mentre, al termine della parabola, è invito e sfida per il fratello maggiore che si nasconde dentro di noi.

 

Lc 15, 1Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2 I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro». 3 Allora egli disse loro questa parabola:

 

4«Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? 5Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. 7Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.

 

8 O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? 9 E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dracma che avevo perduta. 10 Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».

11 Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12 Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. 13 Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. 14 Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. 17 Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; 19 non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. 20Partì e si incamminò verso suo padre.

Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21 Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. 22 Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. 23 Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.

25 Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26 chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. 27 Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. 28 Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. 29 Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. 31 Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32 ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».

 

Dopo aver ammirato il meraviglioso portale d’ingresso, possiamo entrare nel grande spazio del tempio della riconciliazione, seguendo l’azione narrata. Essa si dipana attorno ai gesti dei due figli, che rappresentano due forme della relazione al padre, due aspetti che forse portiamo dentro in ciascuno di noi fusi in maniera diversa. Il padre apre e chiude il racconto, ma qui sembra passivo: all’inizio subisce l’azione del figlio minore; alla fine è disarmato dinanzi all’atteggiamento del figlio maggiore. Invece, al centro è il polo di attrazione di entrambe le parti della parabola: il padre va incontro al figlio minore quando è ancora lontano; il padre esce verso il figlio maggiore per pregarlo affinché rientri. L’amore "preveniente" e l’amore "insistente" sono il magnete che scioglie l’azione parabolica. Dobbiamo ora considerare le azioni dei due figli.

 

1. IL FIGLIO GIOVANE: LA LIBERTÀ FUGGITIVA

1.1 La prima figura del peccato: fuggire dalla dipendenza per credersi liberi

 

La parabola prende avvio con l’azione del figlio giovane di pretendere (dammi!) l’eredità che gli spetta. Il padre divide tra i due figli le sue sostanze (dice il testo originale: tòn bíon = la vita). La pretesa del figlio e la risposta del padre sono descritte con essenzialità. Si osservi il tocco finissimo dell’evangelista: il padre divide tra i figli la "vita". L’azione del figlio "giovane" parte da una interpretazione del dono della vita del padre come (sua) pretesa. Ciò che egli riceve in dono è un suo diritto. Così nasce la fuga dalla libertà…

 

1.1.1 Il peccato come allontanamento

 

In rapidi tratti si descrive in maniera oggettiva l’esperienza del peccato come fuga, allontanamento da Dio («il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano», v. 13), uscita dalla relazione paterna, emancipazione dal debito originario, libertà-da una dipendenza che non si percepisce più come dono. Essa è partenza senza meta, uscita senza traguardo, fuga indeterminata («partì per un paese lontano...»). È la figura della libertà adolescente (il figlio "giovane") che pensa di affermare se stessa, di realizzarsi, di raggiungere la sua autonomia, emancipandosi dal dono che la costituisce, dal riconoscimento della patria originaria, uscendo dalla casa-relazione, per entrare nello spazio indeterminato del "senza meta". Tratto di rara bellezza narrativa la partenza per un paese lontano, per una destinazione ignota, per un futuro da conquistare: sogno di ogni libertà che pensa di far perno su di sé, che non ha la pazienza di accettare il dono di se stessa e che pensa di inventarsi da capo… Libertà titanica che parte con uno stravolgimento delle cose e che trasforma il dono dell’origine in diritto acquisito («dammi la mia parte…»).

In una veloce sequenza viene descritta la vicenda della libertà-emancipazione che precipita nel baratro, fino a perdere tutto («là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto…», vv. 13b-14). Solo così comincia il cammino di percezione della perdita che comporta tale interpretazione e indeterminatezza della libertà. Il bisogno, la penuria, la degradazione, la perdita di "tutto", sperimentata come perdita di sé sono, però, anche l’inizio del ravvedimento. Sono il richiamo della realtà che viene a risvegliare la libertà dal suo delirio di onnipotenza, della volontà di disegnare da sé sola, fuori da ogni relazione, il proprio destino… Pochi testi hanno il tocco di drammaticità che ha la narrazione seguente:

egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava (vv. 14b-16).

La libertà precipita nell’abisso, nella relazione di servitù, nell’impurità della comunanza con i porci, nella devastante mancanza del pane e nella paralisi di se stessa. Non riesce neppure a procurarsi il cibo di fortuna… Il bisogno è risvegliato dalla drammaticità delle conseguenze della libertà fuggitiva e si iscrive nel suo corpo stesso, la rende serva, passiva, rinunciataria. La fuga della libertà, la libertà come emancipazione, diventa fuga dalla libertà! La figura del peccato come allontanamento/emancipazione dalla relazione paterna, dall’esperienza dell’intimità con il padre è dunque menzognera, è essa stessa contraffazione della libertà, maschera che la sfigura. Solo così può illudere, può apparire affascinante, perché si alimenta sul sospetto che Dio sia l’ant-agonista dell’uomo, che agisca contro di lui e gli rubi lo spazio e la vita.

La grande carestia e il bisogno sono però gravide di un interrogativo, la realtà che si sottrae alla presa della libertà onnipotente contiene un appello, un indizio e un inizio di ritorno. Fa rientrare la libertà in se stessa, la mette di fronte a sé, confrontando il sogno di onnipotenza e la realtà dell’indigenza, la rende propriamente nuda di fronte a sé, spogliata di tutto. La voce profetica che chiama «Adamo, dove sei?» si iscrive nella carne stessa, si incide come un marchio nel cuore della libertà…

 

1.1.2 Il triplice grado della "coscienza" del peccato

 

Da qui in avanti viene descritto il cammino di ravvedimento, che è in realtà un rientro della libertà in se stessa, è un ri-prendersi. Il ravvedimento della libertà è presentato come un rientro del figlio nella relazione paterna, che è insieme un ritorno al padre («andrò da mio padre») e una ri-presa di se stesso («rientrò in se stesso»).

Il peccato come disagio psicologico. In prima battuta, il peccato comincia ad apparire alla coscienza nella forma di un disagio («Allora rientrò in se stesso e disse: "Quanti salariati in casa di mio padre..."», v. 17), nel confronto con la condizione migliore dei servi (del padre), come constatazione dello svantaggio della libertà, rispetto agli stessi servi che sono rimasti nella relazione paterna («…in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!»). La porta di ingresso del ravvedimento è il bisogno, la sensazione di immaturità e di non realizzazione di sé, lo scarto tra il sogno sperato e la pienezza mancata, la fame insaziata di quel bene che si pensava di raggiungere, ma che è sfuggito precipitosamente.

Si può raffigurare qui una prima forma della difficoltà a percepire e a confessare il peccato nella sua figura propriamente teologale. Esso si presenta, anzitutto, come disagio psicologico, come immaturità, come senso di colpa di fronte a un bene fallito, senza che sia chiarificato nel suo contenuto morale. La distinzione tra il sentimento di colpa e la coscienza del peccato può diventare sovente una separazione. Talvolta si teme di alimentare le risonanze psicologiche di una situazione di peccato, si tende a rimuoverle, a considerarle di competenza di altri. Soprattutto nel caso di gravi comportamenti, si cerca una rassicurazione sulla propria situazione, si domanda più un processo di chiarificazione psicologica che un cammino di conversione. Così il credente si scusa di confessare il peccato in questo modo, cioè prestando credito alla risonanza psichica che esso ha avuto e continua ad avere in lui. Tuttavia il senso di colpa non dev’essere subito interpretato e fatto intendere quale immaturità psicologica. Il senso di colpa dice, sovente in modo ancora oscuro, di aver mancato in rapporto a ciò che si deve essere o si dovrebbe fare: si tratta di un sentimento che può essere la porta di ingresso alla coscienza del peccato. Esso, però, non matura fin quando non diventa riconoscimento nella fede di una distanza dal rapporto con Dio e dalla sua presenza misericordiosa. Il senso di colpa attende di diventare consapevole e libero riconoscimento (cioè "confessione") dinanzi a Dio. Occorre, dunque, non banalizzare il senso di colpa, perché, da un lato, si può rinforzarlo lasciandolo in balìa di un’incontrollata sensazione che non riesce ad essere elaborata personalmente o, dall’altro, si corre il rischio di esorcizzarlo sottovalutando uno dei momenti sintomatici della coscienza di peccato. Poiché non si sente nessuna colpa, non si sente il proprio agire come pericoloso per la propria identità e di fronte al comandamento di Dio.

Il peccato come incoerenza. Il secondo passaggio vede la libertà quasi ragionare con se stessa in un monologo con cui prefigura ancora da sola l’uscita dalla situazione, quasi si scusa e non osa neppure pensare di riprendere la condizione e la dignità filiale(«non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni», v. 19). Se osserviamo bene, questo monologo è già un’uscita da una pura considerazione del peccato come fallimento di sé, come disagio psichico. Esso si pone già dentro la considerazione del peccato come violazione della relazione, come rottura del rapporto con il padre (cf v. 18b). Tuttavia, prospetta il ritorno come un baratto, un aggiustamento che osa sperare per sé soltanto una condizione come quella dei servi salariati. Si tratta di un ritorno che mira a rimettere insieme i cocci ormai rotti, una sorta di bricolage della conversione che anticipa una figura dimezzata del rinnovamento della libertà. La libertà prospetta un ritorno al padre, secondo la logica del "fai-da-te": non ha ancora ritrovato la relazione con il padre, ma solo con un giudice severo, che è capace al massimo di retribuire un lavoro dipendente. Il figlio interpreta la dipendenza dal padre come un lavoro servile, come un rapporto da salariato, come una relazione di scambio. È ricuperato il desiderio della relazione, ma essa è pensata ancora in modo esteriore, come servitù retribuita, non come libertà donata. Anche in questo caso il ritorno sognato è infinitamente inferiore al ritorno reale, alla sorprendente accoglienza che il padre riserverà al figlio minore, alla restituzione della piena e gioiosa libertà filiale.

Si può collocare qui una seconda forma della coscienza del peccato. La percezione della colpa è sentita oggi come difetto umano, come incoerenza, come qualcosa che impedisce la realizzazione di sé, ma non come peccato contro Dio. La norma morale è percepita prevalentemente nella sua valenza umanistica, più che come norma religiosa. Il ritorno dell’etica, a volte enfatizzato, è inteso per rapporto ad un ideale di autonomia individuale, che sente come minaccioso per la propria identità ogni riferimento a lasciarsi normare da qualcosa che non sia esprimibile come realizzazione di sé. Si cerca nell’umanità dell’uomo la cifra sintetica di ogni valore morale. Così anche il credente fatica a capire il significato della predicazione ecclesiale se non in riferimento alla realizzazione di sé; gli sembra che le norme (cultuali e morali, in prevalenza sessuali) siano inesorabilmente lontane dalla sua situazione singola e non lo riguardino. Confessare il peccato diventa a volte riconoscimento di un errore in rapporto alla realizzazione di sé, e nasce quindi l’illusione che il comportamento possa essere corretto e migliorato quasi da soli. Lo stesso accompagnamento morale da parte del genitore, delleducatore e del sacerdote è sovente assai legato alla vicenda dell’individuo, attento ai suoi percorsi tortuosi, ma fatica ad aprirlo ai cammini obiettivi della fede, della parola, dei sacramenti, della comunità cristiana. Il giudizio morale, allora, diventa più un processo di chiarificazione personale che un cammino di introduzione alla vita cristiana.

       La difficile dimensione teologale del peccato. Il cammino del ritorno-conversione, tuttavia, non raggiunge la sua meta se non riconosce la qualità teologale del peccato («Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: "Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te"», v. 18). Il peccato tocca la relazione con Dio, non è solo un atto contro di sé o gli altri, ma è un gesto che offende Dio come dice tutta la tradizione è un’azione contro il Cielo. Non perché Dio si offenda, si adiri, stravolga il suo volto, ma perché la relazione violata può essere restituita solo mediante una ripresa e un faticoso ritorno a casa. Questo ri-conoscimento esige di levarsi (anastàs = mi leverò/risorgerò), di risorgere, di "dire" il peccato, per quanto ancora nella forma del monologo, per "dirsi" peccatore, di ritornare al padre in quanto "padre", di riconoscere che nel peccato contro di lui si è peccato contro il Cielo (Dio). Senza "confessare" che il peccato è contro Dio, senza dirlo e dirsi come peccatori dinanzi a Lui, non c’è propriamente ritorno al Padre. Senza riconoscere la qualità religiosa del peccato, non solo come trasgressione di fronte a una legge, non solo come disagio di fronte a sé, non solo come rottura del vincolo sociale o come fallimento di un una pienezza sperata, non è possibile alcun ritorno al Padre. Nel segreto della coscienza, nel monologo interiore, il "rientrare in se stesso" deve raggiungere questa profondità, cioè deve sorpassare se stessi, deve approdare e riposare sul cuore di Dio. La dimensione religiosa del peccato, la sua qualità propriamente morale e teologale non viene dopo, non è oltre la coscienza della colpa, ma ne è propriamente la sua comprensione radicale. Per raggiungerla è necessario confessare la misericordia di Dio, dire la colpa e dirsi peccatore di fronte al Padre; è necessario prendere la risoluzione di andare da Lui, di non rimanere ripiegati su di sé, perché la prima liberazione del/dal peccato è essere liberati dalla preoccupazione della salvezza, dalla pretesa di conquistare noi la relazione paterna. La libertà si dà nella forma della libertà liberata… guarita anche dal sogno di guadagnare se stessa.

 

1.2 L’esperienza della paternità preveniente

 

La confessione della colpa fa scoprire che il movimento del "ritorno al Padre" è in realtà un’attrazione («Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò», v. 20b), un muoversi dentro un campo gravitazionale che ci precede. "Andrò da mio padre" dice il figlio nel bisogno e nella disperazione ma il suo venire al padre è preceduto dalla "corsa incontro" del padre stesso («Quando era ancora lontano il padre… gli corse incontro»). Qui la parabola raggiunge il suo vertice emotivo, perché con una cascata di verbi si racconta la storia infinita dell’amore preveniente del Padre («lo vide, fu mosso a compassione, correndogli incontro, gli si gettò al collo, lo baciò»). Gesù è il testimone del volto di Dio come Abbà, riceve i peccatori e mangia con loro: la sua missione e passione si comprendono solo perché sono concentrate su questo volto, perché dicono e attualizzano nel gesto della comunione di mensa la regalità di Dio nell’amore. Di questo Dio si può narrare solo in parabole, si può agire in suo nome soltanto superando le barriere, azzerando le distanze, amando in modo incondizionato. La letteratura (si ricordi solo la pagina indimenticabile di Manzoni dell’incontro dell’Innominato con il card. Federigo, ordita sulla falsariga della parabola), la pittura e l’arte (si pensi al figliol prodigo di Rembrandt), il cinema hanno trovato ispirazione in questo squarcio sul volto liberante di Dio che si rivela e si comunica nel gesto di Gesù. Le parabole, i miracoli, la preghiera di Gesù lacerano il cielo e scardinano le maschere di Dio che noi abbiamo costruito: Gesù è colui che è pienamente dedito e consegnato al volto paterno, al di là del Dio della retribuzione e del bisogno. Il Dio di Gesù e il Gesù di Dio sono d’ora in avanti da sempre uniti, perché Gesù è colui che è "rivolto verso il seno del Padre", in dialogo perenne con lui, fino al momento e all’evento in cui sembra oscurarsi il padre delle nostre misure umane e dei nostri calcoli affettivi. Bisogna lasciarsi travolgere dalla cascata emotiva, dall’abbraccio travolgente di questo padre che corre incontro al figlio prodigo, che lo riceve sano e salvo, dopo tanta attesa, dopo grande tristezza, con il cuore ancora sanguinante dalla separazione. C’è un eccesso nell’amore del padre, v’è qualcosa di inatteso che sorprende il figlio minore, che lo trascina, che lo attira a sé, che quasi non gli lascia neppure pronunciare la confessione a lungo meditata e preparata. In un batter d’occhio il figlio diventa grande, ritorna con le ferite del peccato, della degradazione, con il volto emaciato dal lungo digiuno, ma soprattutto inaridito dalla distanza nella relazione paterna. La casa si è spalancata, il padre è corso incontro, le braccia al collo, con le viscere di misericordia del Dio dell’alleanza: la casa da cui il figlio "giovane" era fuggito è la casa a cui ritorna, con la porta aperta. Non è più uno spazio chiuso, soffocante, ma è vissuta come spazio grande, come relazione che fa maturare, come promozione all’età maggiorenne. Il figlio minore non ha più un brandello di eredità, ma ritrova il senso stesso dell’eredità, la casa del padre e la vita con il padre. Così vi ritorna sano e salvo. La "grande icona", forse l’unica vera grande immagine del Dio di Gesù, è anticipo della croce, dell’amore crocifisso. Gesù non baratta nulla con il volto di Dio che l’uomo non può né costruire, né sospettare, ma solo invocare, attendere e amare o, meglio, da cui deve lasciarsi amare.

 

1.3 Il ministero di una chiesa della riconciliazione

Appena il tempo di lasciar confessare al figlio la sua miseria quel dire il peccato che solo libera dal peccato ed ecco che il padre chiama in causa i servi («Ma il padre disse ai servi…», v. 22a), e li invita a preparare la festa:

Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa (vv. 22b-24).

C’è un senso di festa nelle parole del padre, una concitazione («Presto…»), un contagio della gioia, una premura, che quasi il padre vorrebbe lui stesso predisporre il banchetto. È la festa del perdono a cui vengono associati i servi/discepoli/chiesa. È difficile non vedere qui i tratti dei discepoli che son resi ministri della riconciliazione, della libertà ritrovata, del battesimo rinnovato («portate qui il vestito più bello e rivestitelo», v. 22b), della dignità filiale restituita («mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi», v. 22c), della sovrabbondanza del perdono e della festa celebrata («Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa. E cominciarono a far festa», vv. 23-24). Bisogna non solo accogliere, non solo perdonare, ma occorre "celebrare" il perdono. Non è certo per una mania allegorica che si può vedere qui la chiesa invitata a dar mano all’opera di Dio, a celebrare il perdono, a far ritrovare la pax cum Deo attraverso la pax cum ecclesia. In quel "facciamo festa" c’è la vicenda della chiesa, luogo del perdono e della festa, spazio dilatato della casa del Padre, cammino per riprendere la via del battesimo, per rivestire l’uomo nuovo, per ritrovare la dignità filiale, per riaccogliere il peccatore. È la festa vera, perché la libertà serva dell’uomo è diventata libertà rinnovata, perché la dignità filiale dell’anello al dito e dei calzari ai piedi trasmette un’emozione nuova al figlio perduto e ora ritrovato, all’uomo ferito a morte e ora ricondotto alla vita. Il fratello giovane sente il brivido della libertà filiale, dono perduto e riavuto in modo incalcolabile. La chiesa è testimone del gesto del perdono, lo media nella festa della pace, annuncia il "lasciatevi riconciliare con Dio" e predispone il banchetto della festa. Per questo la riconciliazione nella e con la chiesa è identicamente la riconciliazione con Dio. Il gesto della riconciliazione è il sacramento della gioia, della libertà ferita rivestita dallo splendore filiale: non è il giudizio né la retribuzione, ma la corsa tra le braccia del Padre, il ritorno a Dio, la comunione alla sua mensa, la relazione ritrovata, la casa riconquistata, la fraternità accogliente. Per questo c’è la chiesa, per essere il sacramento e lo strumento della riconciliazione, luogo della festa e del perdono. La fede della chiesa è quella di attestare l’amore del Padre che precorre e previene. Il compito della chiesa è quello di servire alla gioia della riconciliazione, mentre così facendo partecipa anchessa alla festa del perdono.

La consapevolezza che accompagna il Nuovo Testamento e la tradizione della chiesa è che Dio è fedele e misericordioso e chiama a "conversione" anche i battezzati peccatori. La cura del fratello, però, non è solo un fatto interno alla chiesa, ma è in se stessa annuncio della riconciliazione offerta a tutti gli uomini. Ciò che è un bene per lui, diventa proclamazione del bene per tutti: la lotta contro il male dentro le comunità cristiane, il rifiuto dell’ingiustizia tra i suoi membri, la riconciliazione dei rapporti tra le persone, le famiglie e i gruppi, la fattiva collaborazione nel servizio e nella dedizione agli altri, sono un modo con cui la chiesa annuncia che la pasqua di Gesù è reale riconciliazione seminata nel grembo della vicenda degli uomini e delle donne di oggi. Solo se fa così per sé e per il fratello riavuto sano e salvo la chiesa è fonte di vita, diventa annuncio per tutti. Scrive Giovanni nella sua prima lettera: «Vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1 Gv 2,1-2).

 

2. IL FIGLIO MAGGIORE: LA DIPENDENZA MERCENARIA

 

La seconda parte della parabola produce uno stacco voluto, spostando la scena sul figlio maggiore. Egli viene presentato come fedele esecutore degli ordini del padre, mentre nei campi custodisce l’eredità paterna. Anch’egli è sulla via del ritorno ma, quando sente la musica e le danze, alimenta il sospetto e lascia libero sfogo ai suoi pensieri. Forse non era consueto che quella casa risuonasse di allegria. La sua presenza è mercenaria e non può quindi diffondere gioia. Egli è il figlio maggiore, custode dell’eredità, che per il diritto ebraico come è noto gli è dovuta in misura doppia. Fedele guardiano, difende il patrimonio rimasto e teme che altri lo possa dilapidare. Già il fratello minore se n’era andato portandone via una fetta consistente. Per questo s’informa prima d’entrare, quasi addestrando le dita alla battaglia.

 

2.1 L’incomprensibilità dell’amore paterno

 

Il servo gli risponde dobbiamo suporre con trasporto: «È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso» (v. 27). Le due scarne notizie sono sufficienti a delineare narrativamente il mutamento di scena: il ritorno, la festa e, al centro, il padre che accoglie. Sulla bocca del servo/discepolo l’annuncio ha il tono del giubilo, di un incubo finito, di un’unità ritrovata, di un’attestazione dell’affidabilità del Padre. Senza smarginature, l’annuncio del servo, la proclamazione della chiesa sembra identificarsi pienamente con la figura paterna, è perfetta trasparenza del volto del Padre. Nel tripudio dell’annuncio c’è anche l’invito (…tuo fratello), c’è quasi la fretta perché il fratello maggiore si unisca alla gioia, condivida la festa, getti anche lui le braccia al collo del fratello, gli doni il bacio della pace. Sembra solo una notizia, ma è un invito! Sembra un preavviso, ma è una porta aperta! È sollecitazione ad entrare nella casa, a ritornarvi in modo nuovo, a riprendere la relazione al padre, a vivere la dipendenza fedele come libertà. Non possiamo far troppe supposizioni psicologiche sui sentimenti del figlio maggiore. La parabola non ci presenta a differenza del figlio più giovane nessun monologo interiore, nessuna descrizione dei pensieri, degli impuntamenti, del corruccio che attraversa la mente e il cuore del fratello più grande: l’eredità da dividere ancora, una presenza ingombrante, di nuovo un fratello di cui tener conto… Ne descrive solo l’esito, con lo scatto d’ira e il blocco di fronte alla casa aperta. L’amore del padre gli risulta incomprensibile. Il Dio giusto della retribuzione suscita approvazione; l’amore preveniente del Padre alimenta la collera, il risentimento, il rifiuto. È semplicemente inaccettabile! Diventa giudizio che fa escludere da sé soli dall’intimità di Dio, dalla comprensione del suo amore. Si può comprenderlo solo entrando di nuovo nella casa, solo abbandonandosi tra le sue braccia, altrimenti diventa muro inaccessibile, schermo impenetrabile, vallo incolmabile. Bisogna sentire tutta l’incomprensibilità dell’amore paterno, di questa figura del Padre, dell’Abbà, che Gesù ci fa incontrare, per abbandonarsi alla gioia evangelica, per non vederla semplicemente come il prolungamento del nostro perdonismo e buonismo a buon prezzo. La voce della chiesa che serve ha il compito di annunciare questo volto, lo deve testimoniare a tutti mentre accoglie il fratello peccatore, perché l’amore del padre è fonte di vita («perché lo ha riavuto sano e salvo», v. 27b). La chiesa c’è per questo, perché sia voce cristallina e trasparente che proclama l’incomprensibilità di Dio, del Padre. Perché il Dio che trapela dai gesti di Gesù non è un’alterità che schiaccia, ma è una presenza che consola, che ama, che riceve, che attira, che dona vita e gioia. Anche questo secondo intervento del discepolo-chiesa è tutto sotto il segno della gioia della riconciliazione, è pura partecipazione alla gioia del cielo, «dove vi dico, ci sarà più gioia… per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7).

 

2.2 La seconda figura del peccato: credersi giusti fino al risentimento

 

Il figlio maggiore reagisce con la collera e l’autoesclusione. Il rifiuto non sopporta nessun monologo interiore, ma esplode nell’alterco, nell’accusa, nell’indice puntato, nel risentimento contro il padre e contro tutti. Questi momenti, nella loro drammaticità, sono pure di grande efficacia per mettere in luce la dinamica di un’altra forma del peccato.

L’insopportabile peso del padre («Egli si arrabbiò, e non voleva entrare», v. 28). Il rifiuto dell’amore paterno diventa ira e blocco per il ritorno del figlio maggiore. Un padre così smaschera il suo volto, è arbitrario! Non solo è incomprensibile, ma addirittura insopportabile, è un peso che ingombra la casa, una presenza destabilizzante, obiettivamente ingiusto. La reazione del figlio maggiore suscita di nuovo l’azione del padre. Con frase lapidaria l’evangelista aggiunge: «Egli allora uscì a pregarlo» (v. 28b). Dio esce da se stesso, si fa incontro all’uomo che si crede giusto, che si è eretto a vestale dell’ordine, della giustizia, dell’obiettività, delle regole da lui costruite, dei confini innalzati in nome di Dio stesso. Non ha altro modo di farsi incontro, di uscire da casa, dallo spazio della relazione divina, che di abbassarsi, di umiliarsi. Egli è il Signore che si fa servo, perché il figlio mercenario diventi libero. È la parola creatrice che esce da sé e si fa preghiera, invocazione, supplica, invito, tende la mano. Dio ha un solo modo di vincere: quello di persuadere, di attrarre a sé, di presentarsi disarmato, di perdersi per noi… Dio ha il volto di Gesù, della sua libertà obbediente, che impara dalle cose patite: è un Dio "paziente", il cui pathos anche fuori della casa è spazio di libertà, è la pazienza del Padre, la pazienza dell’essere, che fa esistere, che dona luce, futuro e speranza. Questa pazienza di Dio che lascia essere la libertà dell’uomo esige tempo, il tempo interminabile del Signore che se ne va per un lungo viaggio, che lascia nelle mani i suoi talenti, col rischio di pensare che diventino nostri. Dio, però, non teme il tempo, perché non è il luogo della dispersione, dell’inarrestabile fluire delle cose, ma è l’atmosfera della libertà, è la promessa contenuta nelle persone, negli incontri, nei beni che ci pone accanto.

La difficoltà a nominare il peccato. La pazienza di Dio, il suo abbassamento, la sua kenosi si trovano dinanzi il rifiuto dell’uomo, ammantato persino di giustizia, di fedeltà alla legge, di obbedienza cieca al comandamento («Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando», v. 29a). C’è nella risposta del figlio maggiore tutta la superbia del fariseo che si annida in noi, che sta in piedi davanti a Dio che si è umiliato, che insegna a Dio la fedeltà («da tanti anni…») e la giustizia («non ho mai trasgredito…»). Il fariseo crede di dire il vero come laltro della parabola di Luca («Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo», Lc 18,12). Può persino vantarsi di eseguire opere non richieste, di grande impegno. Fa perno sul suo "io", ha dimenticato che anche l’obbedienza al comandamento è dono, e che non può essere eseguita con spirito mercenario di chi, avendo assolto il suo compito, si presenta per la giusta retribuzione. È secondo la definizione di Paolo luomo della káuchesis, cioè dell’autoglorificazione, di chi costruisce sul sistema della legge, dell’io che la esegue fedelmente e si allontana dal regime della grazia, dell’alleanza, della fede che si affida a Dio anche per rispondere al comandamento. L’obbedienza al comandamento non ha la figura dell’opera fatta dall’uomo, ma della risposta al dono di Dio. Dice il Concilio di Trento: «Dio ha voluto che fossero nostri meriti quelli che sono i suoi doni» (DS 1548: ut eorum velit esse merita, quae sunt ipsius dona). Sì, Dio rende possibile con la sua grazia l’obbedienza al comandamento, ci consente la fedeltà come un "ob-audire", un ascoltare dentro una relazione personale, un acconsentire rivolti verso di Lui.

Ne viene qui una terza forma dell’attuale difficoltà a dire il senso del peccato, che fa fatica a comprendere la funzione della legge, della norma morale: o la identifica con il bene, sostituendola a Dio, e poi la usa brandendola come "La Legge" contro di Lui; oppure la trasforma in valore generale, indeterminato, senza contenuto materiale. La fatica a dare un nome al peccato è spesso un esito del modo con cui è definita la norma morale. Da un lato, essa è presentata come norma (o legge morale) senza che sia illustrato il suo legame diretto con Dio; dall’altro, il rapporto con Dio è descritto senza valenza morale, o meglio secondo figure così generali, che non sono capaci di suggerire alla coscienza del credente il comportamento buono e la sua praticabilità in forme concrete di vita cristiana. La difficoltà sta nell’indicare il doppio legame della norma morale a Dio e alla coscienza e nella necessità che questo legame si traduca anche in indicazioni materiali, dove cioè le norme morali appaiano un bene praticabile per me oggi, una scelta buona e persuasiva per il cammino spirituale e morale. Quando viene chiarita questa incertezza si realizza quanto dice la Scrittura: solo la parola di Dio riesce a dare nome al peccato dell’uomo, perché nel riconoscerlo davanti a Dio (e non solo come trasgressione di una tavola di leggi o di valori generali), l’uomo scopre insieme la misericordia di Dio e il suo peccato («contro te, contro te solo ho peccato!», Sal 51,6). Confessare il peccato equivale a riconoscere la misericordia di Dio. I luoghi del deperimento del senso del peccato sono oggi molteplici: la perdita di trasparenza etica delle regole sociali del comportamento, la frammentazione dei singoli ambiti di vita civile, che hanno diverse regole di vita, ma delle quali non si è in grado di dire molto circa il loro valore morale in rapporto ai significati decisivi per la vita (cf il fenomeno dei differenti criteri con cui anche il credente si regola a seconda dei diversi contesti: l’ambiente di lavoro, la famiglia, il divertimento, ecc.); la predicazione (morale), che a volte corre il rischio di essere generica con il richiamo ai valori generali dell’amore del prossimo, del servizio agli ultimi, del perdono, della solidarietà, della giustizia, senza prestare attenzione al contesto civile in cui l’esercizio di questi valori accade.

La cecità del "risentimento". Il peccato del figlio maggiore («tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici», v. 29b) è dunque quello di chi pensa che il suo agire sia un merito di cui glorificarsi davanti a Dio, e non un dono che trasforma anche la nostra opera e la libera dalla preoccupazione di essere un’opera che "guadagna" il paradiso, che costruisce la salvezza. Anche l’agire e non solo l’essere dell’uomo ha bisogno di essere liberato dal rovello della salvezza, della realizzazione di sé, per diventare un’opera grata e fonte di gratitudine e non di risentimento. C’è nel j’accuse del figlio maggiore un risentimento montante, che diventa cecità: nei confronti del padre e del fratello. Egli accusa il padre di non aver "mai" ricevuto un capretto per far festa con gli amici. In questo "mai" appare proprio la figura del risentimento, di chi esagera, di chi generalizza, perché il figlio maggiore muove certamente un’accusa improbabile. Ma l’esagerazione è ad effetto e magari nasconde anche la puntigliosa difesa del patrimonio da parte di chi non ha avuto tempo di far festa con gli amici, perché l’animo mercenario lo teneva incatenato alle cose da ereditare. Ora stravolge in rimprovero la sua grettezza. Con il dito puntato rimuove sul padre l’accusa («tu non mi hai mai dato…»), perché il risentimento ti fa attribuire ad altri ciò che tu potevi fare, ma non hai voluto raggiungere. L’invidia è alimentata dal peccato di chi si crede giusto, di chi non ha nulla da rimproverarsi. Ma il risentimento è anche pena da se stesso, perché ci fa rodere dentro di noi, ci fa vittime della nostra stessa giustizia, ci rende accusatori ciechi. Anzi, ci rende persino ingiusti, perché fa calcare la mano…

La relazione fraterna pervertita. La figura del risentimento ha bisogno un oggetto su cui scaricarsi, da sfigurare, da stravolgere («questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute», v. 30). Il fratello diventa con disprezzo "questo tuo figlio". Il figlio maggiore esagera, perché sparla del fratello dicendo che è stato con le prostitute (cosa che non si diceva nella prima parte della parabola, ma si sa un piccolo tocco di pollice non fa mai male). Tuttavia di passaggio egli dice il vero, la sua verità, e si tradisce perché manifesta ciò che veramente gli sta a cuore: il fratello giovane «ha divorato gli "averi"» del padre. Stupisce vedere tanta abilità narrativa, tanta conoscenza del cuore dell’uomo nella penna di Luca. Ma non sorprende, perché la luce smagliante dell’amore del padre mette a nudo ogni sentimento e ogni ri-sentimento, rivela le ombre, smaschera i sottintesi, le reticenze, le gelosie, la mormorazione e, alla fine, la grettezza del cuore e della vita. Il figlio maggiore non vuole entrare nella casa del padre, ma così ha anche pervertito la relazione fraterna, non riconosce più il fratello come fratello, anzi, dicendo "questo tuo figlio", si disconosce come figlio del padre.

 

2.3 L’alleanza da rinnovare

 

La risposta del padre («Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo», v. 30) è speculare al j’accuse del figlio maggiore e ha la forma della supplica e dell’invito. È l’invocazione a ritrovare la relazione filiale e l’invito a rientrare nella festa della fraternità ritrovata. Alla reazione del figlio, il padre risponde con uno struggente «Figlio!», che ha il tono dell’invocazione suadente. Egli lo chiama con un nome che è insieme dono da accogliere e investitura filiale. È un vocativo che attende di diventare indicativo. Ha la stessa funzione del vestito bello di cui è rivestito il figlio minore. Poi, il padre pronuncia una formula misteriosa che riguarda l’essere e l’avere, che è certamente formula di alleanza. La fedeltà della presenza paterna, ad ogni costo e con ogni risposta, dev’essere il punto originario da cui partire e a cui ritornare. La relazione di intimità, il rapporto di alleanza va ritrovato e rinnovato per capire che "tutto ciò che è mio è tuo" e, rispettivamente si potrebbe dire "tutto ciò che è tuo è mio". Questo deve comprendere il fratello maggiore! Ci vuole la voce del padre per portare alla parola la promessa originaria, il vincolo di alleanza, che sono seminati nel gesto di ogni paternità e maternità di donare la vita. E con la vita ci viene regalato ogni bene, come dono che diventa impegno, come impegno che si deve alimentare al dono. La paternità e la maternità umane metafore assolute ricevono nella parabola la loro ultima verità. Così che dice la Scrittura «se anche tuo padre e tua madre ti abbandonassero, sappi che io non ti abbandonerò mai». La circolarità tra la paternità/maternità umana e quella di Dio trova così nei gesti, nelle parabole e nella vita di Gesù il suggello supremo: a quei gesti, a quelle parabole, a quella vita fino al segno supremo deve restare legata per sempre, se non vuole recidere la radice della sua linfa vitale. La risposta del padre al figlio maggiore è dunque invito a ritrovare e rinnovare l’alleanza, a riconoscere il vincolo che libera, a rientrare nella casa come figlio a sua volta liberato dal cuore mercenario. E contiene anche dell’altro…

 

2.4 La comunità luogo del perdono e della festa

 

La risposta del padre è anche invito, provocazione per rientrare nella relazione fraterna («bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato», v. 32). Al puntiglio del figlio maggiore che si era chiamato fuori dalla casa/relazione con il padre e aveva definito il fratello giovane "questo tuo figlio", il padre risponde donando l’essere filiale e invita a ritrovare la relazione fraterna. Il grande esegeta Dupont ha detto che la frase finale al di là della sua forma affermativa («bisognava far festa e rallegrarsi…») ha un senso obiettivamente performativo, imperativo. Essa dice la necessità, il bisogno del cuore del Padre. Tutto ciò è detto dinanzi al fratello maggiore, ma trascina nella sua orbita anche i servi/chiesa. Qui la parabola si spalanca, come la casa, sul futuro. Noi non sappiamo come sia andata a finire, se il figlio maggiore sia rientrato nella casa. Da duemila anni attendiamo di saperlo, perché per due millenni la parabola è stata un appello rivolto a quella parte di figlio maggiore che si annida dentro di noi. Noi osiamo sperare che il fratello maggiore sia entrato nella casa/relazione paterna, ma in ogni caso questo è un appello irresistibile per il lettore di ogni tempo che intende diventare discepolo. È chiamata ad accettare "questo tuo fratello": la relazione filiale fonda la relazione fraterna, l’accoglienza fraterna è segno reale della dignità filiale ritrovata e rinnovata. Il fratello morto è tornato in vita, il figlio perduto è stato ritrovato. Questa è la summa dell’evangelo: «il Figlio dell’uomo, infatti, è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10).

 

Qui, però, il vangelo appare come notizia "gioiosa", perché bisogna far festa, come il pastore per l’unica pecora perduta, come la donna per la dracma ritrovata. Non basta il perdono, non è sufficiente l’accoglienza: occorre che la comunità sia luogo della festa e del perdono. La parabola finisce come una parabola aperta, è come la casa del padre che resta un ambiente spalancato, non un recinto chiuso, ma uno spazio di relazione, che è invito e segno perché ciascuno di noi decida e si decida… La chiesa è luogo del perdono e della festa, è tempo della festa perché spazio del perdono, e non può essere città della gioia se non è anche tempio della pace e della riconciliazione! Di questo la chiesa è testimone: qui però dinanzi alla necessità divina dell’accogliere e del far festa (si noti che qui non intervengono i servi) anche la chiesa, come il fratello maggiore, è destinatario della proclamazione evangelica, prima che soggetto dell’annuncio ad altri. Se la chiesa non è e non continua ad essere luogo del perdono e della festa, non può dirlo ad altri; ma può annunciarlo a tutti quando e perché continua ad essere la Gerusalemme della pace. Il salmo delle ascensioni ci trasmette l’emozione dell’ingresso nella Gerusalemme della pace. Alla voce del solista che proclama: «Domandate pace per Gerusalemme: sia pace a coloro che ti amano, sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi» (Sal 122,6-7), ognuno sale alla santa città, cantando con lo struggente desiderio dell’esule e con il cuore che cerca la visione di Dio: «Quale gioia, quando mi dissero: "Andremo alla casa del Signore". E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme!» (Sal 122,1-2).


 

 

LA SOCIETA' CONTEMPORANEA DI FRONTE AL MESSAGGIO DI CRISTO

Monza, 13 novembre 2007

 

Prof. Ernesto Galli della Loggia, docente di Storia Contemporanea e Preside della Facoltà di Filosofia dell'Università Vita e Salute san Raffaele di Milano

 

LA SOCIETA’ CONTEMPORANEA DI FRONTE AL MESSAGGIO DI CRISTO

 

LA CHIESA, IL MESSAGGIO CRISTIANO, LA SOCIETA’

 

Il tema proposto evidentemente è molto vasto e, quindi, cercherò di tratteggiarlo in modo da focalizzare alcuni punti che in particolare interessano la realtà italiana.

Innanzi tutto è utile chiedersi cosa bisogna intendere per società contemporanea e come essa vada pensata. Direi che la società contemporanea è prima di tutto una "epoca", un arco cronologico segnato da fratture decisive nei confronti della realtà precedente; un’epoca con caratteristiche che non si erano mai riscontrate prima nella storia. La società contemporanea è una "epocalità assoluta". E qui ci domandiamo subito qual è il suo rapporto nei confronti del messaggio di Cristo. Il messaggio di Cristo può essere vissuto e analizzato in maniera molteplice per la sua tessa natura di messaggio rivolto a tutti e a ognuno. Esso implica un rapporto personale tra Maestro e discepolo, per cui non si può ipotizzare un’esperienza "standard" del messaggio di Cristo nella società contemporanea. Forse è più appropriato parlare di questo messaggio come è presentato alla società contemporanea dalla Chiesa e, più precisamente, dalla Chiesa cattolica. Una delle caratteristiche del cristianesimo è stata certamente la valorizzazione della soggettività personale. Fondamentale è l’interrogativo: "Tu chi credi che io sia?" e la risposta che ognuno dà a questo interrogativo. Ci troviamo di fronte all’affermazione di una soggettività assoluta di fronte alla figura di Cristo e al suo messaggio.

Esiste, invece, un’altra dimensione di questo messaggio: quello incarnato dalla Chiesa e dalla Chiesa cattolica in particolare, che è stata profondamente "ridisegnata" dall’epoca contemporanea. La prospettiva in cui si muoveva la Chiesa fino agli inizi dell’Ottocento è da noi, oggi, difficilmente immaginabile. Dall’avvento della modernità la Chiesa è uscita completamente cambiata e ancora oggi essa sta vivendo il travaglio di questo cambiamento.

 

IL CRISTIANESIMO "PARTE MINORITARIA" DELLA CONTEMPORANEITÀ

 

Cercherò di riassumere brevemente i tratti salienti di questo mutamento. Innanzi tutto la Chiesa s’è vista togliere qualsiasi direzione sulle dinamiche sociali. Fino all’Ottocento essa dirigeva le coscienze, la cultura e l’assistenza come unico soggetto: non ce n’erano altri nella società di quelle epoche. Dall’Ottocento in poi la Chiesa (e il cristianesimo) è stata progressivamente estromessa dai vari settori della vita sociale, diventando una "parte minoritaria" di essa, spesso in lotta contro le altre parti che non le riconoscono alcun diritto.. La contemporaneità ha significato il tentativo, in parti notevoli del continente europeo, di estirpare del tutto il cristianesimo. Si sono affermati regimi politici con un programma di completa e radicale scristianizzazione della società. Nella Russia sovietica il cristianesimo è stato completamente cancellato, mentre nella Germania nazista si era iniziato un processo analogo. Tali situazioni nell’Europa dell’Ottocento erano inimmaginabili.

Un’analogia non sempre presa in considerazione e adeguatamente esaminata dagli studiosi è quella tra lo sterminio degli ebrei e il processo di scristianizzazione: un vero e proprio programma di sterminio sia degli ebrei sia dei cristiani, che, a mio parere, andrebbe concettualizzato sotto una stessa categoria. A leggere i testi degli ideologi nazisti, si nota come lo sterminio del popolo ebraico sia inteso in senso anticristiano, contro l’ebreo Cristo.

 

Il laicato cattolico

L’idea di essere "parte minoritaria" della contemporaneità ha portato il cristianesimo verso un processo di politicizzazione, di ideologizzazione. Nell’Ottocento è nato un "partito cattolico", che ha visto crescere sempre di più il "ruolo del laicato". Prima dell’Ottocento nella società esistevano "i cattolici", non un "laicato cattolico"; quest’ultimo comincerà ad organizzarsi come interlocutore della gerarchia lungo tutto l’Ottocento ma, soprattutto, nel Novecento. Con la diffusione dell’alfabetizzazione e della cultura anche il laicato cattolico prende coscienza della propria identità all’interno sia della Chiesa, sia della società. La partecipazione dei laici alla vita sociale e politica del proprio paese porta la Chiesa a riconsiderare il ruolo del laicato all’interno della Chiesa stessa.  

Di tale cambiamento, sempre più significativo, sono segno visibile i vari movimenti religiosi che vedono come protagonisti laici e ecclesiatici. All’interno della Chiesa si assiste al diffondersi di un vero e proprio "policentrismo", alla nascita di "più cattolicesimi" e, di rimbalzo, ad un enorme rafforzamento della figura del Papa. Fino all’Ottocento la figura del Pontefice nella Chiesa, in quanto successore di Pietro, era caratterizzata dal "primato".

 

La funzione di "mediazione" della Chiesa

Il clima di lotta contro la Chiesa dell’Ottocento conferisce al Papa il compito del capo, del condottiero attorno a cui compattare le fila, con un rafforzamento del suo ruolo mai riscontrato prima. Così, ad esempio, Pio IX, dopo i moti del 1848 e, soprattutto, dopo l’occupazione di Roma (1870), diventa oggetto di devozione e meta di pellegrinaggi da ogni parte del mondo, destinatario di un "obolo di Pietro", capo effettivo e riconosciuto della Chiesa universale. Ruolo che si è progressivamente rafforzato fino ai nostri giorni, anche per l’affermarsi di quel policentrismo di cui si diceva sopra e che necessita della figura di un capo.

Questi cambiamenti tuttora in corso hanno mutato, in qualche modo, i rapporti della stessa gerarchia ecclesiastica sia all’interno che nei confronti dei fedeli e della società. Si è affermata sempre più la funzione di "mediazione" e sempre meno quella di "direzione", propria dei tempi passati. Oggi, non si sente più parlare, ad esempio, di "scomunica": la Chiesa non intende più esercitare alcun intervento di tipo autoritario e coercitivo. Tale situazione in Francia e in Germania si è verificata già nell’Ottocento, in Italia più tardi, praticamente nel Novecento, e attraverso vicissitudini apparentemente paradossali. In Italia, nell’Ottocento, i cattolici sono stati estromessi dal processo unitario e dalla vita politica, pur essendo la parte maggioritaria dello Stato e della società italiana; situazione paradossale che si rovesciò dopo il secondo conflitto con un altro paradosso: mezzo secolo di governo del Paese da parte dei cattolici e del loro partito.

In margine a tali eventi è necessario notare anche come la stessa Chiesa sia stata fortemente condizionata dagli avvenimenti italiani. La presenza e la funzione del Papa attraverso il Vaticano e le sue strutture sono state fortemente influenzate dagli eventi e dalla storia dell’Italia.

Quando nel 1870 venne proclamata la fine del potere temporale del Papa, furono in molti a pensare che con il potere temporale finisse anche la Chiesa cattolica e lo stesso cattolicesimo. L’affermarsi dello Stato laico e liberale decretava la fine di ogni superstizione e di ogni potere che non fosse quello dello Stato. Al cristianesimo cattolico, autoritario e dogmatico, sarebbe seguito il cristianesimo liberale dei paesi protestanti, libero da gerarchie, da autorità e da dogmatismi. Erano queste le previsioni degli studiosi di quell’epoca che sono state largamente smentite dalla storia successiva. Oggi il protestantesimo è in grave crisi negli stessi paesi d’origine, spiritualmente morto, mentre il cattolicesimo è "ancora lì", anche negli stessi paesi protestanti, ben "visibile", anzi ancora "più visibile" rispetto a cinquanta o sessant’anni fa; per certi versi è l’unico cristianesimo rimasto, insieme all’ortodossia orientale. Oggi, chi parla al mondo in nome del cristianesimo è il Papa di Roma. La portata mediatica mondiale della figura di Giovanni Paolo II è incomparabile con qualsiasi altra figura. Il rovescio della medaglia è che il Papa è diventato il bersaglio della critica anticristiana. Chi vuole criticare il cristianesimo oggi non se la prende contro l’arcivescovo di Canterbury o col Sinodo delle Chiese valdesi ma col Papa come simbolo dell’unico cristianesimo rimasto sulla scena del mondo.

 

I "fratelli maggiori" ebrei

E’ un rovesciamento straordinario della situazione a dimostrazione di quanto complesso sia il corso della storia. Accanto a questo cambiamento notiamo un’analoga modificazione dei rapporti con l’ebraismo. Dopo secoli di marginalizzazione e di discriminazione nei paesi e nelle società di tradizione cristiana, il popolo ebraico e la sua tradizione religiosa vengono riscoperti e rivalutati come la "radice" culturale e religiosa del cristianesimo. Significativa la visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma e la sua espressione "fratelli maggiori" rivolta agli ebrei, che costituiscono il segno di un completo rovesciamento di rapporti tra cattolici ed ebrei.

 

CRISTIANESIMO E SCIENZA: UNIVERSALISMI IN CONFLITTO

 

Uno dei punti di maggior attrito tra cristianesimo e società contemporanea è dato dalla rivoluzione scientifica e dalla sua ideologizzazione, propria di gran parte della cultura contemporanea. Oggi, i riflessi culturali e sociali del cristianesimo (non il messaggio religioso in quanto tale) sono messi in crisi dal "primato" della cultura scientifica. La cultura cristiana, che ha plasmato la letteratura, l’arte, l’antropologia, la morale della società europea, è contestata e messa con le spalle al muro da una trionfante cultura scientifica, diventata ideologia totalizzante. Sinceramente qualche anno fa (quando ero più giovane) non avrei immaginato che sarebbe stato possibile un simile scontro tra scienza e cristianesimo.

Oggi la scienza si è "ideologizzata", è diventata visione totalizzante dell’esistenza umana, racchiusa in maniera completa nell’orizzonte scientifico con esclusione di qualsiasi riferimento esterno o trascendente. Essa è diventata cultura e mentalità dominante, sostituendo in tutto o in parte il punto di vista religioso. Essa ha prodotto un nuovo punto di vista "disincantato", immanente ai fenomeni studiati, che non ha bisogno di riferimenti "trascendenti". Ciò che vediamo è tutto spiegabile attraverso elementi sperimentabili e verificabili secondo il metodo scientifico comune. Quello che per il momento non è scientificamente spiegabile lo sarà in un futuro più o meno prossimo. Non c’è bisogno di ricorrere al cielo. I cieli "sono vuoti".

Da queste premesse si è sviluppato un vero e proprio "ateismo scientista militante" in senso più specificamente anti-cristiano e anti-cattolico. Di qui le campagne contro "l’oscurantismo" della Chiesa e dei pontefici condotte in maniera quasi sistematica. Mi sono chiesto il perché di queste campagne e mi sono convinto che il vero motivo è che nella società contemporanea la Chiesa sia rimasta, dopo il crollo delle varie ideologie del Novecento, l’unica agenzia che coi suoi valori e con la sua visione universalistica è in grado di contrastare la visione, altrettanto universalistica, dell’ideologia scientista e della relativa antropologia che ne è seguita. Nella mentalità corrente, psicologia, psicoanalisi, deontologia, valori etici sono sempre più fondati sui risultati e sulla ricerca del metodo scientifico, concorrendo all’affermazione di una cultura laica in senso ateistico. Freud, in maniera particolare, ha contribuito a scardinare i valori tradizionali dando come fondamento nuovo, scientificamente verificabile, all’identità umana l’istintualità e la storicità, vale a dire il patrimonio individuale degli istinti primordiali e la figura dei genitori. In tal modo ha concorso a spezzare il legame della coscienza con i valori tradizionali della trascendenza per ancorarli agli elementi e all’orizzonte esclusivo della natura.

Una conseguenza immediata di questa mentalità è stata la "scoperta" del corpo, della sessualità, la valorizzazione della bellezza, dell’aspetto, dell’apparire. In greco questo fattore viene chiamato eidos da cui eidolon, cioè "idolo": si afferma sempre più una nuova "idolatria", quella dell’apparire.

 

IL PRIMATO DI UNA SCIENZA "CREATIVA" E "PRODUTTIVA"

 

Tornando al tema della contrapposizione tra scienza e religione, ci si può chiedere quale sia il motivo profondo di questa contrapposizione, oltre a quanto si è detto. A me sembra che un motivo sia da ricercare in un radicale cambiamento che si sta verificando all’interno dello stesso sapere scientifico. Al primato della matematica e della fisica si va gradualmente sostituendo il "primato della biologia", la scienza della vita. A una scienza intesa come conoscenza si va progressivamente sostituendo una scienza "creativa", intesa a "creare" la vita in laboratorio. A un sapere scientifico teorico si va sostituendo una scienza "produttiva" che muove un’enorme quantità di capitale pubblico e privato. La ricerca scientifica, e in particolare quella biologica, tende sempre più a modificare l’orizzonte umano in tutte le sue manifestazioni, quell’orizzonte che tradizionalmente è stato presidiato dalla religione. La scienza ritiene, quindi, suo compito principale, oggi, quello di eliminare quanto rimane di questo presidio della religione in campo antropologico.

Io non sono un credente; tuttavia qui sono in gioco fattori che non riguardano solamente i credenti ma che coinvolgono la vita e gli interessi di tutti indistintamente, credenti e non credenti: è in gioco l’immagine e la stessa identità della persona umana. Proprio ieri è stato clonato l’embrione di un primate, una creatura biologicamente molto vicina all’uomo e che prelude alla possibilità della clonazione di un embrione umano. Ora, penso che dinanzi a una tale prospettiva solo un soggetto religioso coi suoi valori di riferimento non negoziabili possa opporsi a simili tentativi di manipolazione dell’identità umana.

 

 

LA CHIESA: UNA "MINORANZA CRITICA"

 

Avviandomi alla conclusione, mi pongo la domanda: "Perché la Chiesa oggi nei confronti della società contemporanea si trova in così grave difficoltà?". Una risposta potrebbe essere: perché la Chiesa nel contesto contemporaneo ha ritenuto che fosse più importante difendere la verità piuttosto che la libertà, che la verità fosse prioritaria rispetto alla libertà, che il diritto di essere libero per l’individuo fosse un "diritto minore" rispetto alla verità,  facendo quindi sentire il soggetto limitato nella sua autodeterminazione.

Probabilmente la Chiesa si è accorta tardi del pericolo contenuto in questo atteggiamento. Solo nel Concilio Vaticano II è stato affermato con chiarezza il principio della intangibilità della libertà di coscienza come diritto della persona umana. Ma ormai il danno che la Chiesa aveva subito era stato fatto e la società e gli Stati per questo avevano estromesso la Chiesa dai loro ordinamenti che non ammettono che una verità religiosa possa compromettere le libertà costituzionali. La Chiesa è stata così esclusa dallo spazio pubblico, anche se in qualche modo essa non ha mai rinunciato a reclamare un diritto a favore della persona e della sua dignità. In tale linea si colloca forse un residuo della vecchia mentalità "maggioritaria" della Chiesa che la porta a interessarsi di problemi politici che abbiano attinenza coi valori morali. Io credo (e non solo io) che l’avvenire della Chiesa sia quello di prendere coscienza di essere una "minoranza critica" rispetto all’assetto sociale dominante. Oggi, di fatto il cristianesimo è una minoranza anche se talvolta forse si illude di non esserlo. L’allora card. Ratzinger affermava che "sarebbe tempo per il cristiano di prendere coscienza di appartenere a una minoranza e di essere spesso in contrasto con ciò che è ovvio, naturale e plausibile per la mentalità che il Nuovo Testamento chiama lo spirito del mondo".

L’avvenire del cristianesimo poggia su questa consapevolezza di essere minoranza, una consapevolezza critica verso ciò che si presenta come naturale e ovvio per la mentalità del mondo. Il mondo e la società contemporanea, hanno bisogno di un cristianesimo capace di svolgere questa missione. E’ interesse vitale della nostra cultura, della nostra civiltà e lo dico da non credente - che ci sia una forza, sia pure minoritaria ma con l’afflato di una grande religione qual è il cristianesimo, capace di questo grande compito.

 

 

RISPOSTE AI QUESITI DEI PARTECIPANTI

 

-Oggi la distinzione tra scienza e tecnica, specie nell’ambito biologico, tende a scomparire: teoria e prassi progrediscono di pari passo in modo quasi indistinguibile.

-La distinzione tra fede e sapere scientifico oggi non è più accettata da chi pone lo stesso sapere scientifico come valore assoluto che si autogiustifica. Chi tende a manipolare i "geni" che presiedono le funzioni vitali non distingue più il "come" (sapere scientifico) dal "perché" (sapere religioso). Il "senso ultimo" delle cose diventa un argomento astratto, privo di riferimenti concreti scientificamente dimostrabili. La fede viene relegata nel mondo delle superstizioni e delle favole, cui ognuno rimane libero di credere.

-A parte il contenzioso tra ebrei e cristiani nei tempi passati, è venuto di attualità il problema inerente la figura e l’opera di Pio XII. Al riguardo, faccio notare che subito dopo il conflitto molte personalità del mondo ebraico fecero conoscere l’opera del Pontefice a favore degli ebrei perseguitati. Dopo molti anni è nato "il caso Pio XII" sulle presunte colpe del Papa nei confronti degli ebrei. E’ un’operazione nata negli Stati Uniti e i cui autori sono ebrei americani che, in questo modo, hanno inteso e intendono forse sdebitarsi con la "Shoah". Essi, per non ostacolare la politica di Roosevelt, osservarono allora il più rigoroso silenzio sullo sterminio del popolo ebraico, affinché non si credesse che gli americani muovevano guerra alla Germania unicamente per salvare gli ebrei.

 

* Il testo non è stato rivisto dall’autore. Ci scusiamo per eventuali errori ed omissioni.

 

LA MEMORIA NARRATA NELLA PASQUA DI GESU'

 

Monza, 20 novembre 2007

 

Mons. Franco Giulio Brambilla, Vescovo, Vicario per la cultura della Diocesi di Milano

 

«PERCHÉ CERCATE TRA I MORTI COLUI CHE È IL VIVENTE?»(Lc 24,1-12)

LA RICERCA DI GESÙ DA PARTE "DEI SUOI" (LE DONNE) AL SEPOLCRO

 

Entrando nello spazio della passione la «ricerca» di Gesù sembra come scomparire. Il tema sembra assente o, meglio, cambia di segno: gli uomini cercano ancora Gesù, ma per consegnarlo. «I sommi sacerdoti e gli scribi cercavano di farlo perire e così anche i notabili del popolo; ma non sapevano come fare, perché tutto il popolo pendeva dalle sue parole» (Lc 19,47-48); «Gli scribi e i sommi sacerdoti cercarono allora di mettergli addosso le mani, ma ebbero paura del popolo» (Lc 20,19); «i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano come toglierlo di mezzo, poiché temevano il popolo» (Lc 22,2); «[Giuda] fu d’accordo e cercava l’occasione propizia per consegnarlo loro di nascosto dalla folla» (Lc 22,6); «Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano» (Lc 22,31). La ricerca di Gesù si trasforma nel tentativo degli uomini di sopprimerlo, di mettergli le mani addosso, di toglierlo di mezzo, è ricerca dell’occasione propizia per consegnarlo nelle mani dei peccatori, per tradirlo. Questa ricerca omicida che vuole sopprimere colui che viene a cercare l’uomo perduto introduce un elemento drammatico, senza del quale non è possibile comprendere la pasqua di Gesù. Dio che cerca l’uomo in Gesù si trova dinanzi il rifiuto dell’uomo, un rigetto in nome di un’immagine di Dio costruita a salvaguardia della propria religiosità. In realtà si tratta di una maschera di Dio. Gesù si lascia "consegnare nelle mani degli uomini" (si ricordi che Davide preferì consegnarsi nelle mani di Dio che nelle mani dei suoi nemici), di quegli uomini che "cercano" l’occasione propizia per consegnarlo, per tradirlo. Anche i suoi discepoli subiscono questa tentazione suprema: uno di loro lo tradisce, lo stesso Simone lo rinnega, gli altri se ne fuggono. Nell’ora delle tenebre, Satana viene e cerca di vagliarci come il grano… La ricerca di Gesù si tramuta nel tentativo violento di trovare un capro espiatorio: gli uomini tentano di addossare il peccato di tutti su di uno, perché «è meglio che un solo uomo muoia per il popolo» (Gv 18,24), per scaricare il loro desiderio violento sulla vittima innocente.

Mi si conceda qui un parallelo con Giovanni. Anche nel quarto evangelista, dove la ricerca di Gesù ha un’importanza decisiva, la passione inizia con una duplice domanda di Gesù, rivolta alla marmaglia capeggiata da Giuda: «"Chi cercate?". Gli risposero: "Gesù, il Nazareno". Disse loro Gesù: "Sono io!". Vi era là con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse "Sono io", indietreggiarono e caddero a terra. Domandò loro di nuovo: "Chi cercate?". Risposero: "Gesù, il Nazareno". Gesù replicò: "Vi ho detto che sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano". Perché s’adempisse la parola che egli aveva detto: "Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato"» (Gv 18,4-9). Alla ricerca sbagliata e aggressiva dei figli delle tenebre in armi, con torce e lanterne nella notte della luna piena (la pasqua cade sempre nel primo plenilunio di primavera), che "cercano" per togliere di mezzo Gesù di Nazaret, Giovanni fa risuonare per tre volte il nome santo di Dio (Sono io/Io sono). L’uomo indietreggia e cade, invece di prostrarsi per adorare, ma Gesù si lascia cercare anche in questo modo sbagliato («se cercate me…»), purché i suoi siano salvi («lasciate che questi se ne vadano»). E Giovanni con voce fuori campo ricorda in maniera rassicurante la parola di Gesù per il lettore: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato» (v. 9). Gesù è colui che non ci "perde" anche quando noi lo cerchiamo in modo sbagliato, quando gli andiamo incontro per sopprimerlo. Gesù non è solo "colui che è venuto per cercare e salvare", ma colui che "non ha perduto nessuno di quelli che [gli sono] stati dati". C’è un tratto di forte consolazione nel "non ho perduto nessuno", parola d’incrollabile speranza rivolta a tutti, anche a quelli che lo cercano per consegnarlo, anche ai suoi che lo stanno per rinnegare, abbandonare, che fuggono nell’ora delle tenebre, che si lasciano travolgere nel gioco delle consegne, che perdono la testa e il cuore nel momento della tentazione suprema. Parola d’amore misteriosamente rivolta anche a Giuda… che gli sta lì d’innanzi.

Occorre allora dimorare nella ricerca: è la ricerca di Gesù, colui che viene a "cercare e a salvare", colui che gli uomini "cercano per consegnare", colui che "non perde nessuno di coloro che gli sono affidati", colui che "cerca sempre" l’uomo, anche quando rifiuta l’amore incondizionato di Gesù che non vuol perdere l’uomo "perduto". Per questo forse la "ricerca da parte dell’uomo" resta come sospesa, fino a ricomparire il mattino di pasqua, ancora più smarrita, perché è una ricerca, non solo insicura, ma anche distorta, deformata, tradita, macchiata dall’abbandono, dal rinnegamento, dalla solitudine e dalla morte. Bisognerebbe percorrere tutto il racconto della passione, come il luogo dove la ricerca scompare, dove essa è sottoposta per così dire al suo venerdì santo. Il Crocifisso appare veramente come l’"altro" della ricerca, ciò che l’uomo non può neppure concepire, né attendere, ma che deve lasciare semplicemente venire incontro nella forma incondizionata dell’amore di Gesù. Fino alla fine.

 

A.Lectura Evangeli Lc 24,1-12 24,1-12

 

La ricerca riappare in modo prepotente il mattino di Pasqua, a Gerusalemme, il terzo giorno. È la ricerca da parte "dei suoi", delle donne, discepole di Gesù, che l’avevano seguito fin dalla Galilea. In questo arco si raccoglie tutto il nostro cammino, nel grembo e nel cuore di queste donne, che non smettono di cercare Gesù.

 

1. Il quadro del capitolo 24 di Luca. I racconti di risurrezione di Luca sono unificati nella cornice di una giornata: al mattino avviene l’episodio delle donne al sepolcro (24,1-12); durante "lo stesso giorno" ha luogo l’incontro di Gesù con i discepoli di Emmaus (24,13-34); e la sera, al ritorno dei due discepoli di Emmaus, Gesù "in persona stette in mezzo a loro" (24,36-53). Il primo e il secondo episodio sono legati dal filo rosso di Pietro, che va su indicazione delle donne al sepolcro vuoto (24,12) e che è gia stato oggetto di apparizione secondo la confessione di fede della comunità riunita ("veramente il Signore è risorto ed è apparso a Simone", 24,34). Il c. 24 di Luca è dunque il capitulum per eccellenza del vangelo, culmine a cui approda il racconto e ri-capitolazione di ciò che precede. Rappresenta il gesto con cui il lettore, giunto a questo punto prende il rotolo e lo riavvolge, per ripartire dall’inizio e per ri-capitolarlo! Il capitolo è come racchiuso tra due assenze di "Signore" Gesù, che diventa presente in modo nuovo: all’inizio l’assenza del corpo crocifisso che si ripresenta nel corpo sfolgorante del risorto, alla fine l’assenza del corpo risorto che si rende presente nello Spirito promesso che animerà il corpo della chiesa.

 

2. La struttura e il movimento narrativo dell’episodio delle donne al sepolcro. Il brano è contenuto in una grande inclusione dove Luca muta ad arte rispetto ai sinottici per creare un parallelismo chiastico tra l’inizio e la fine.

v. 1 : "(le donne) / A. sul sepolcro (epì tò mnéma) B. si recarono"

v. 12: "Pietro.../ B’ corse (epì tò mneméion) A’ sul sepolcro"

 

Così come accade che questi personaggi, poi si allontanano dal sepolcro. Il sepolcro "luogo del ricordo", anzitutto attira a sé, ma poi fa ripartire per la ricerca di "colui che è ricordato". Dentro questa cornice si stagliano i momenti del racconto. Ascoltiamolo.

A

Le donne al sepolcro

1Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato. 2Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; 3ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù. la pietra rotolata via dal sepolcro; 3ma, entrate, il corpo del Signore Gesù.

B

Apparizione angelica

4Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti. 5Essendosi le donne impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro:

C

Kerygma delle risurrezione alle donne

«Perché cercate tra i morti colui che è vivo? 6Non è qui, è risuscitato. Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea, 7dicendo che bisognava che il Figlio dell’uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno».

D.

Reazione delle donne

8Ed esse si ricordarono delle sue parole.

C’

Kerygma della risurrezione agli Undici e discepoli

9E, tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. 10Erano Maria di Magdala, Giovanna e Maria di Giacomo. Anche le altre che erano insieme lo raccontarono agli apostoli.

D’

Reazione degli Undici

11Quelle parole parvero loro come un vaneggiamento e non credettero ad esse.

A’

Pietro va al sepolcro

12Pietro tuttavia corse al sepolcro e chinatosi vide solo le bende. E tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto.

B’

Apparizione a Pietro

(ricordata più avanti) «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone».

 

Ne viene come abbiamo notato al capitolo 2 un movimento narrativo che alterna continuamente rivelazione e reazione: mancato ritrovamento al sepolcro (2-3), perplessità delle donne (4a); apparizione dei due angeli (4b), paura delle donne (5°); perché cercate? - "annuncio pasquale" - ricordate! (5b-7), ricordo e ritorno delle donne (8-10a); annuncio agli apostoli (10b), incredulità generale e corsa di Pietro al sepolcro (11-12a); Pietro vede solo le bende (12b), Pietro ritorna meravigliato per l’accaduto (12c).

 

3. Le donne al sepolcro.L’episodio inizia con l’indicazione temporale (il primo giorno della settimana) riportata in greco: "al (giorno ) uno dei sabati", l’ultimo giorno narrato nel vangelo di Luca, il terzo giorno, giorno del compimento. Siamo al mattino presto, alle prime luci del giorno, "sul far dell’alba" (diversamente da Giovanni per il quale era ancora buio). L’ambientazione è sul "luogo della memoria" (mnéma), e l’evangelista rimanda puntualmente a 23,53, con le indicazioni di tempo e luogo, per indicare appunto che solo il "posto della memoria" tiene il tenue filo tra la morte e la vita. Solo ora si vede snodarsi l’azione perché il soggetto è sottinteso, tanto è forte il legame con l’episodio precedente della sepoltura. Aveva scritto poco prima l’evangelista: «Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo secondo il comandamento.» (Lc 23,55-56). Le donne che tengono il filo con la Galilea, osservano anche con precisione il luogo della sepoltura. Perciò l’inizio del cap. 24 vede subito le donne muoversi, senza che vi sia bisogno di richiamare il soggetto: "si recarono" sul "luogo della memoria" "portando gli aromi che avevano preparato", eseguendo fedelmente quanto si dice in 53,56, per la purificazione, l’unzione e la profumazione del corpo di Gesù. Il lettore, stremato alla fine del racconto della passione, con il cuore confuso e la testa stordita, sente tra le sue mani l’ultima pagina del rotolo del libro, e si avvia anche lui con premurosa sollecitudine con le donne a compiere l’estremo rito, per compiere con le mani femminili, sul "luogo del ricordo" non solo i gesti dell’umana pietà, ma ricordare anche i momenti vissuti con lui fin dalla Galilea.

Nel nostro testo si dice che stavolta le donne trovano ciò che cercano, trovano anche già la pietra rotolata via (non c’è come in Marco la domanda retorica: "Chi ci rotolerà via il grande masso…?): essa sembra naturalmente aperta, parla già di un facile transito delle donne verso il sepolcro, il luogo della memoria. Il luogo dello sheol sembra già violato, non è più protetto. Osserviamo, dunque, il gioco del verbo "trovare", che qui precede il "cercare". Non c’è bisogno di cercare il luogo della memoria. Luca è stato rassicurante nel raccontare la precisione delle donne nel far memoria del luogo e perciò annota la facilità con cui le donna trovano il luogo della memoria! Le donne trovano una cosa che non si aspettano (la pietra rotolata) e non trovano, invece, una cosa che sia aspettavano di trovare con assoluta certezza (il corpo crocifisso). Anche se qui non c’è il verbo cercare, il lettore nota che il gioco linguistico non trovare-trovare (che si trova solo in Luca): esso suppone un cercare che trova ciò che non s’aspetta e non trova ciò che cerca.

Ecco la sorpresa su cui converge la prima scena: «entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù». Qui le donne e il lettore sono alla pari: sgomenti non trovano ciò che in ogni caso dovrebbe esserci, il corpo del Signore Gesù! Il Narratore aveva fatto notare prima così puntigliosamente che le donne avevano preso buona nota del luogo e come esse così speditamente erano arrivate al "luogo ricordato". Chi legge il testo in originale sente il contrasto tra tutto questo. E poi il lettore si meraviglia che Luca chiami il cadavere il corpo del Signore Gesù! Sia l’insistenza sul(la mancanza del) corpo del Signore che ritornerà nel brano dei discepoli di Emmaus (24,23 e poi ancora in 24,36-43), sia l’accenno pasquale al "Signore Gesù" rendono questa assenza meno trepida per il lettore, forse più enigmatica per le donne. Su questa assenza si chiude la prima scena con le donne sono incerte ("Mentre erano ancora incerte"): esse non sanno che strada prendere tra passato e futuro, sono senza direzione (a-porèo)… E con loro anche il lettore. Occorre fermarsi un momento su questa a-poria, sul groviglio di pensieri e di turbamenti che a questo punto toccano le donne e il lettore, la situazione di stallo e di confusione, senza via di uscita. Siamo di fronte al limite estremo della morte.

 

4. L’apparizione angelica e l’annuncio della risurrezione. L’attacco del versetto 4 mette sull’avviso che sta avvenendo qualcosa di importante "E avvenne, e accadde…". L’inaspettato accade, irrompe dall’alto, anche se prende forma umana: "due uomini apparire-sopra (ep-istemi)" (è il verbo che Luca usa per indicare l’angelo che sta sopra ai pastori, e dopo in Lc 24,23 i discepoli di Emmaus narreranno che "le donne son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli"). Sono due uomini/angeli (sono due perché sono testimoni della risurrezione) che si pongono sopra/accanto alle donne per aiutarle nel loro cammino di ricerca: all’inizio del cammino gli angeli danno l’annuncio della Nascita, qui degli angeli/annunciatori danno l’annuncio della ri-nascita di Gesù (molti sono gli elementi comuni con l’apparizione natalizia). La scena è presentata con la coreografia di una teofania, con le vesti sfolgoranti, con la luce e con le parole che esprimono l’annuncio pasquale. E segue la tipica reazione alla teofania, con il timore paura che proviene dall’entrare in contatto con la sfera del divino e l’atteggiamento di adorazione che fa prostrare il volto a terra.

L’annuncio della risurrezione si presenta in modo ritmico, quasi a ricordare un testo facile da mandare a memoria e tante volto proclamato, attualizzato, ripresentato sul "luogo della memoria" (forse addirittura in occasione di una celebrazione sui luoghi santi), per dire che l’"avvenne" irrompe dall’alto è ha la forma di un annuncio oracolare:

Perché cercate il Vivente A B.tra i morti?

Non è qui, B Ama [è] risuscitato!

 

E’ l’evangelo della risurrezione! Con la disposizione in forma chiastica, possiamo immaginarlo come un dialogo, con domanda e risposta, rivolto alle donne/lettore: si viene a creare una situazione a triangolo. Uno dei due uomini/domanda "perché cercate il Vivente tra i morti?", e allo stupore timoroso delle donne e del lettore risponde l’altro uomo in veste di angelus interpres: "Non è qui, ma è (stato) risuscitato (da Dio! passivo divino)". Così l’evangelista coniuga nella domanda e risposta il duplice linguaggio: l’uno tradizionale dell’annuncio pasquale (è stato risuscitato il terzo giorno secondo le scritture cf 1Cor 15,4); l’altro singolare che è tipico di Luca, forse per spiegare la risurrezione anche ai cristiani di cultura greca: tuttavia, il "Vivente" (tòn Zónta) richiama la famosa formula biblica che Dio è il Dio dei viventi e non dei morti (meglio ancora la dizione "il Dio vivente" [Theòs zôn], cf Gs 3,10). Ma ciò che è singolare è che il Kerygma delle risurrezione è collegato con il verbo "cercare". E’ l’ultima apparizione tematica della "ricerca" nel Vangelo di Lc (se si esclude l’accenno dei discepoli di Emmaus). Non bisogna cercare più tra i morti, non bisogna inseguire dice il Narratore/sulla bocca dei due uomini la muta traccia del corpo gelido e trapassato (non è qui!), non bisogna ricercare Gesù sul "luogo del ricordo" che gli uomini predispongono per non perdere la traccia degli affetti e delle immagini dei loro cari, ma bisogna cercare in un’altra direzione. Si noti che la negazione della ricerca nella direzione dei morti non può essere più evidente: perché cercate… tra i morti? Non è qui! La ricerca deve mutare direzione, non deve cercare la vita tra la morte, neppure nel ricordo della vita nella morte (il sepolcro). L’interrogativo che sembra retorico (perché non si può cercare la vita tra i morti….) in realtà contiene un effetto stupendo: meno ancora si può cercare "il Vivente" tra i morti, "Colui che continua a vivere", anzi "Colui che dà la vita" (il "Dio vivente" diventa qui "il Vivente" riferito a Gesù). S questa interrogazione apparentemente retorica irrompe l’affermazione, anzi la proclamazione del Kerygma.

L’annuncio pasquale viene dall’alto, come l’annuncio di Natale, portato dall’angelo, anche ora, portato dalla testimonianza di due uomini/annunciatori. È dono che proviene dal regno della vita, "non è qui", "non va cercato qui" nel regno della morte. Non una tomba vuota parla della vita che viene da Dio, essa al più è segno, non prova della risurrezione, è segno dell’assenza, anzi di quest’assenza. La tomba vuota non va banalizzata, non va trascurata, essa indica la nostra ferita, il nostro bisogno di cercare il luogo del ricordo e insieme la nostalgia di non perdere la memoria Iesu. Per questo l’evangelista ci dice che la ricerca del Vivente deve prendere un orientamento nuovo, l’ultimo e definitivo sguardo sul volto di Gesù. Da un lato, essa va accolta dall’alto, dai due uomini che annunciano un messaggio che non viene né dalla carne né dal sangue, ma dalla voce degli annunciatori pasquali (la chiesa) che Luca disseminerà nel suo secondo Libro, a partire da Pietro a Pentecoste e che lo Spirito continuerà a far risorgere dalle ceneri di coloro che, come Paolo a Damasco, vogliono cercare e trovare nella direzione sbagliata. Dall’altro, questa ricerca comporta di "ricordare" (a differenza degli altri evangelisti non dice "andate"). Luca è molto preoccupato di un ricordo che non sia solo una memoria cronachistica, ma "racconto che fa memoria", anzi che si lascia continuamente illuminare i fatti da Gesù l’ultimo e primo angelus interpres, come illustrerà stupendamente nel successivo episodio dei discepoli di Emmaus. Così Luca ci rimanda alle parole di Gesù, riprende e sigilla il nostro cammino di ricerca percorso dalla Galilea a Gerusalemme: «Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea, dicendo che bisognava (deî) che il Figlio dell’uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno». Il "luogo della memoria" non è il sepolcro, esso è un luogo che non parla, o forse meglio dice una mancanza della parola, ricorda la nostalgia della parola che interpreta il nostro cercare.

La parola di Gesù che viene ricordata rimanda esplicitamente agli annunci della pasqua fin dalla Galilea, rispettivamente di 9,22 e 9,44-45: anzi il primo annuncio di 9,22 è speculare al nostro di 24,7-8, mentre il secondo contiene il motivo dell’incomprensione (9,45) che lascia aperto gli annunci ad una successiva ripresa. I due annunci galilaici incorniciano l’episodio della trasfigurazione, mentre qui per così dire abbiamo l’annuncio della risurrezione che trasfigura il ricordo di quegli annunci incompresi e oscuri agli orecchi dei discepoli/lettore. Ugualmente il terzo annuncio in Lc 18, 31-34, contiene il richiamo alla non comprensione, all’oscurità di questa parola che richiede una successiva ripresa. Questi annunci sembrano tutti prefigurati nelle parole di Gesù dodicenne al tempio, con la menzione di Gerusalemme, la Pasqua, il tema dell’incomprensione e in più la spiegazione della ricerca offerta da Gesù stesso: "Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo (deî) essere nelle (mani?) del Padre mio". Ma essi non compresero la parola che aveva detto loro». Qui l’inclusione è perfetta, perché è richiamato narrativamente il tema della ricerca, mentre giunge a compimento il tema del piano salvifico (deî), della consegna di Gesù nella mani del Padre e degli uomini, che è però diventa la sua stessa autoconsegna, io devo essere nella casa, io devo portare il buon annuncio, io devo andare per la strada, io devo rimanere a casa tua, il figlio dell’uomo deve essere consegnato nelle mani dei peccatori…. Con le donne il lettore riavvolge ora il rotolo che va dall’inizio alla fine. Perché mi cercavate … Gesù dice ai suoi (genitori); perché mi cercate… (dicono i due annunciatori) ai suoi (le donne), e il lettore che vuole essere dei suoi, ripercorre il filo rosso prezioso che vede il disegno divino del Padre e l’agire degli uomini che si fondono nella autoconsegna di Gesù al Padre e agli uomini: è l’ultimo tratto del volto di Gesù, che il lettore raccoglie. Ma esso non è solo il tratto del volto di Gesù in croce, ma è l’ultima tessera del Crocifisso Risorto! Anzi è il Vivente, colui che da ora è per sempre è la Vita donata, perché è la vita filiale continuamente ricevuta dal Padre e donata agli uomini (peccatori)! Questo è l’evangelo di Pasqua, ma questa è anche la pasqua dell’evangelo, la sua Gerusalemme definitiva, quella celeste che scende dall’alto! Mancherebbe solo una cosa che le donne (e il lettore) forse s’attendono: che sia proprio Gesù che sul cammino sia l’ultimo e definitivo annunciatore dello splendore della sua gloria crocifissa, perché ne è stato anche il primo interprete nel tempio. Ma l’evangelista rinvia questo all’episodio successivo, perché anche il discepolo di "seconda mano", il lettore futuro, possa trovare la sua via di accesso al Vivente.

5. La reazione delle donne e l’annuncio agli Undici. Il v. 8 «Ed esse si ricordarono delle sue parole», riprende il tema della memoria (cf il ricordarsi da parte di Pietro del suo rinnegamento, 22,61): nel luogo della memoria esse devono cambiare la direzione del ricordo, non nel luogo della morte, ma nella direzione della parola di Gesù, non cercando il corpo morto, ma ricercandolo nella parola viva di Lui, non chiedono altro agli annunciatori, ma devono ripercorre il racconto di Gesù, e invitano il lettore a riavvolgere il rotolo, per rileggere, ma l’evangelista lo mostrerà in forma esemplare nell’episodio dei discepoli di Emmaus, come si fa a ripercorrere e riconfigurare il racconto evangelico alla luce della parola, del corpo eucaristico e della comunità pasquale. Il corpo del Crocifisso risorto ha ora la forma corporea della parola narrata, del pane eucaristico spezzato e della comunità riunita. Questo è esattamente il contenuto e la dinamica dell’annuncio (in Luca le donne non ricevono un mandato di annunciare agli Unici): ma esse vanno del tutto naturalmente ad annunciare il ritrovamento/ricordo del corpo del Signore Gesù! «E, tornate dal sepolcro, annunziarono tutto questo agli Undici e a tutti gli altri. Erano Maria di Magdala, Giovanna e Maria di Giacomo. Anche le altre che erano insieme lo raccontarono agli apostoli» (Lc  24,9-10). Le donne dicono "tutto a tutti", ormai questa è la legge dell’annuncio, questa e lo slancio del racconto. Tutta la "vera famiglia" di Gesù (Lc 8,2-3) riparte per ridiventare la famiglia di Gesù che annovera una moltitudine infinita di fratelli. Prima lo annunciano e poi lo raccontano, l’annuncio chiede racconto, il racconto riprende l’annuncio come memoria Iesu. Il kerygma chiede racconto, dice Ricoeur. Proprio mentre il racconto evangelico sta terminando, Luca ne rivela il motore che continuamente lo produce. L’annuncio cristiano non è solo comunicazione di dottrine, neppure solo della "verità vera" della risurrezione, ma chiede racconto, all’indietro e in avanti: all’indietro per ricuperare la memoria viva e vitale di Gesù e secondo Gesù, in avanti per creare sempre da capo il racconto cristiano. Da due mila anni fino all’oggi del lettore. Il suo paradigma è l’episodio che segue dei discepoli di Emmaus. I versetti che seguono sulla incomprensione dei discepoli di fronte all’annuncio (delle donne) e della corsa di Pietro al sepolcro saranno stupendamente ripresi e sciolti nei due brani che chiudono il capitolo 24.

 

B.Auditus fidei: Il volto del Vivente

 

La ricerca riprende. Il corpo del crocifisso è ricercato per essere onorato e custodito. Le donne che l’avevano seguito fin dalla Galilea, Maria che aveva versato in anticipo il vaso di nardo profumato, la "vera famiglia" di Gesù in gruppo, con gli occhi della tenerezza e le mani della premura, vanno a cercare il corpo di Gesù, per ungerlo con il gesto dell’affetto e della devozione. Tenue filo che collega la fine del Maestro e l’attesa della risurrezione futura. La speranza della risurrezione, riposta nel cuore dell’uomo, è rinviata alla fine dei tempi quando Dio, fedele al giusto martire, lo farà sorgere dalla terra e suggellerà la sua alleanza. Per ora l’uomo può solo attendere e la mano femminile porta i vasi degli oli, quasi per custodire i brandelli della memoria, più che per anticipare la risurrezione. Le lacrime del Venerdì santo, lo strazio di quel Sabato vuoto e lacerante non possono stare in una situazione di stallo. Il vuoto è riempito con l’affetto, ultimo rifugio del cuore umano, germe prezioso per non soffocare la speranza. L’affetto ha volto e mani di donna e si mette alla "ricerca".

 

1. La ricerca ripresa e il luogo della memoria

La ricerca "dei suoi", delle donne, come per i genitori di Gesù era stata un ritorno suoi propri passi a Gerusalemme, è un andare al luogo doveva avevano lasciato Gesù morto. Al sepolcro, scrupolosamente registrato nella memoria, per ritrovarlo e portare gli oli profumati per la purificazione e l’ultimo gesto di affetto e devozione le donna vanno di mattino presto. La ricerca ritorna sul luogo della tomba, luogo della memoria e segno dell’assenza, anzi segno di quest’assenza, della dipartita di Gesù. Cerca il corpo esanime, per lavarne le ferite, per ungerne il costato, per avvolgerlo in lini preziosi, sempre pronti per onorare la sepoltura.

Per gli altri, il morì e fu sepolto indica la fine della carriera del protagonista della vicenda. Gli uomini consegnano, mandano a morte e chiudono le tombe, pensando che il loro gesto ponga fine all’agire di Dio. Essi controllano il perimetro della storia, e qualche volta credono che il loro "potere" sia sufficiente a determinare il corso degli eventi. Per loro la storia esaurisce la realtà, la cronaca ch’essi inscenano è ciò che effettivamente esiste, gli eventi ch’essi misurano e iscrivono nel calendario sono la trama del tempo. Ormai per loro la vicenda di Gesù è finita, l’obiettivo è raggiunto, la bocca che diceva parole che vengono da lontano è chiusa nella rigidità della morte. Gli uomini possono comminare tremenda possibilità la pena capitale per far tacere la voce dell’aldilà delle cose. Addirittura mettono sigilli, perché nessuno possa sfondare la dura corazza del tempo, la prova empirica della pietra che seppellisce ogni cosa. E fanno la guardia alla misura delle cose che hanno stabilito con diritto e giustizia, secondo la prova della ragione che non vede dentro e al di là delle cose, per non dover credere a quell’"oltre" che sempre minaccia le loro verità necessarie, i fatti empiricamente accertati.

Per le donne il sepolcro è segno dell’affetto, è custodia della memoria, è intuizione dell’amore. La sepoltura secondo il costume giudaico è cura del frammento di vita contenuto anche nella morte, è grembo che può generare speranza. Per questo Gesù dice ai discepoli, a proposito del gesto della donna di Betania, che sciupa il salario di un anno e versa spreco inconcepibile il profumo gelosamente tenuto per la cura di sé: «Lasciatela stare; perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona; i poveri, infatti, li avrete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avrete sempre. Essa ha fatto ciò ch’era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità vi dico che dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto» (Mc 14,6-9). Questa è la potenza della donna, con gli occhi dell’amore e il cuore della tenerezza. Dice Gesù: "lasciatela stare, lasciatela fare!" Non importunate le donne che vanno al sepolcro, a raccogliere il filo sottile che collega la morte e la vita, il visibile e l’invisibile, la carne e lo spirito, il vedere e il credere, il sapere e l’amare. E poi aggiunge una profezia: «In verità vi dico che dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto». La parola di Gesù a Betania è profezia di futuro, perché è sguardo sul presente: il gesto della donna "dovunque" e "in tutto il mondo" sarà "raccontato come vangelo", perché, al centro del vangelo e alla pasqua di Gesù, sarà da ora e per sempre collegato lo sguardo della donna e la mano che versa l’olio preziosissimo, quasi lente d’ingrandimento e teca preziosa che custodiscono il Crocifisso. Perciò altre donne, all’alba di Pasqua, sono alla "ricerca" con passo svelto nell’aria tersa del mattino. L’amore che custodisce tiene vivi il cuore e la mente, aguzza la vista e l’ingegno, sa dove andare, non smette di cercare. E corre al sepolcro, al "luogo della memoria" dove è custodita l’ultima traccia del passato di Gesù.

 

2. Il corpo sottratto e la conversione della speranza

La speranza della risurrezione in tutte le culture ha la forma del culto dei morti, della venerazione del "luogo della memoria". Anzi i reperti archeologici del culto dei morti sono uno dei segni caratteristici della vita culturale e sociale. La speranza della vita oltre la vita ha i tratti del prolungamento dell’esistenza terrena, della sopravvivenza del passato e del presente di là dalla morte, del ritorno in una forma d’esistenza simile alla nostra o, in talune culture, dell’immortalità dell’anima, della permanenza della componente più intima e personale dell’uomo. La speranza della risurrezione è un impulso e un’attesa irresistibile, ma il suo immaginario è incerto e vario alle diverse latitudini culturali, colorato dai sogni terreni con cui ci s’immagina Dio e il futuro dell’uomo. E anche quando, come nella nostra società moderna, la speranza della risurrezione sembra oscurarsi, allora la morte è rimossa e nascosta prima di tutto a se stessi e si traduce nell’attivismo sfrenato e nella società della gratificazione istantanea. La cosmesi della morte abbiamo visto sopra è il surrogato dell’attesa di vita tutta raccolta nell’attimo fuggente e nel frammento da possedere. Anche qui l’attesa rimane irresistibile, anche se mascherata e sepolta sotto la rincorsa della vita. Il lettore, dopo gli episodi della passione, se ne sta con lo scoramento che lo tiene in ansia e osserva la ripresa della ricerca delle donne. Ma scuote il capo, vorrebbe che ritrovassero Gesù, ma sente che stavolta la pietra tombale non può risollevarsi per far rinascere la vita. Sa già dall’inizio del vangelo che "i suoi" lo sanno ritrovare, ma sente che è solo il gesto della pietà e dell’affetto, dice con distacco che è la parte irrazionale dell’uomo che non vuole rassegnasi all’evidenza delle cose e della fine di Gesù.

E la ricerca dei suoi riparte, nella forma della memoria ripercorsa, dell’amore che custodisce il luogo della memoria, il segno dell’assenza che custodisce il corpo morto di Gesù. Il lettore ha imparato che la ricerca non si muove subito nella giusta direzione. Essa va nell’unica direzione che conosce, rivolta verso il passato, non si rassegna al fatto che sia un ieri "passato". E il lettore di ogni tempo sta ad osservare perplesso, qui più che altrove il suo punto di vista sembra dissociato dai personaggi. Gli sembra che l’ultimo lembo del rotolo non possa riservare sorprese al racconto. Sarà una conclusione banale, non solo di una storia, ma di un’opera incompiuta. Ma il narratore sta in agguato…

Nell’aria frizzante del mattino primaverile, dopo il sabato osservato secondo il comandamento (Lc 23,56), le donne vanno al sepolcro. La strada è vuota e all’orizzonte appare il sole luminosissimo del mattino di Gerusalemme. Il luogo è conosciuto, perché poco prima Luca ha rassicurato il lettore: «Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati» (Lc 23,54-55). L’evangelista Marco aggiunge un interrogativo retorico di grande effetto: «Esse dicevano tra loro: "Chi ci rotolerà via il masso dall’ingresso del sepolcro?"» (Mc 16,3). La pietra tombale che gli uomini hanno posto per chiudere la carriera di Gesù diventa in Marco un masso opprimente. Gli uomini uccidono e seppelliscono, stabiliscono i tempi del successo e la fine delle fortune umane. Essi fanno la storia, ma gli occhi dell’amore e della meraviglia corrono al sepolcro per onorare un passato che non si lascia rinchiudere nel tempo trascorso. A loro sembra forse l’ultimo atto dovuto del cuore e della tenerezza femminile. Non sanno ch’esso contiene già in germe l’attesa della risurrezione. Il loro gesto è rivolto al passato, ma la loro corsa e la ricerca del corpo di Gesù anticipa il futuro. Credono di sapere che cosa cercare, ma dovranno scoprire che bisogna cercare "oltre" ciò che desiderano. E il lettore tiene dietro a loro, col passo incerto, non vorrebbe più seguire, ma teme di perdere qualcosa d’importante. Sulla pagina il racconto non è finito con la fine di Gesù. Il lettore si nasconde ogni volta che le donne sembrano sbirciare le ombre che le inseguono in questa sfida con il muro della morte.

Arrivate al sepolcro, «trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; ma, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù» (v. 2). La sottrazione del corpo è il primo momento dell’esperienza pasquale. Le donne non trovano più il corpo del Signore Gesù. Esso cercano il corpo crocifisso, martoriato, piagato, che porta ancora tutti i signa passionis. Vorrebbero lenirne le ferite, lì sulla carne che non teme più l’offesa. Non possono più ritrovarlo come un corpo passato, come un cadavere gelido e muto. Non debbono più cercarlo così, debbono spingersi "oltre" la loro ricerca, debbono disorientare il loro desiderio che vuole onorare il corpo di Gesù come si unge e s’imbalsama una vicenda "passata". La traccia del corpo di Gesù è sottratta, e con lui sembra scomparire la memoria intensa del suo sguardo, delle carezze, della voce, del parlare alla folla, dello stare tra i suoi discepoli, del muovere i passi con decisione verso Gerusalemme. La memoria di Gesù non può essere un ricordo passato, il luogo della memoria non può essere (solo) un sepolcro! E il corpo, crocefisso e sfigurato, che ne è l’icona e la traccia, non è più lì, perché sia cercato in modo distorto. Onorare la memoria di Gesù non può esaurirsi nell’ungere il suo corpo, per quanto nel gesto d’amore delle donne vi sia un frammento dell’autentica memoria Jesu. Gesù a Betania aveva detto del gesto della donna/chiesa: "lasciatela stare". Ora la figura deve cedere il passo alla verità del riconoscimento e all’unica possibilità di ricuperare la storia di Gesù, come memoria interpretata, come ricordo "presente" e non come storia passata. Il lettore è ancora dietro l’angolo, dissociato tra la presunta evidenza della ragione e l’irrazionalità del gesto delle donne. Il Narratore, l’evangelista Luca, scriba della tenerezza e della misericordia, gli fa brillare la prima luce. Le donne cercano il corpo morto, ma lui ritrascrive "del Signore Gesù".  Sembra una luce di riflesso, è un titolo pasquale, ch’egli ha ascoltato dall’angelo del Natale, dalla parola iniziale sulla grotta di Betlemme. Come può trattarsi del corpo del Signore, se è il corpo trafitto, se è lo spettacolo della croce che aveva commosso le folle (cf 23,48)! Il primo passo è ancora negativo, descrive la trasformazione del desiderio, la conversione della ricerca che passa dalla meraviglia allo stupore. Si tratta di riscattare il cuore da una meraviglia incredula che si affida alle verosimiglianze della storia per aprirla allo stupore che vede la storia come il possibile luogo della verità di Dio. E’ il masso che le donne non riescono da sole a smuovere, se non viene qualcuno "dall’alto" a ribaltare la pietra dal sepolcro. Per il lettore è il velo opaco che opprime gli occhi e talvolta oscura anche lo sguardo della devozione e dell’amore. Le donne incerte trovano già tutta una serie di segni che richiedono di puntare "altrove" l’attenzione: la pietra rotolata via, il corpo assente e due uomini in vesti sfolgoranti, in figura di angeli interpreti. La meraviglia suscitata da ciò che trovano apre lo sguardo e il cuore all’ascolto.

 

3. Perché cercate tra i morti: non è qui!

La prima parola che viene da "altrove" è parola che interpreta la "ricerca" delle donne: «Perché cercate tra i morti il Vivente? Non è qui…» (vv. 5-6). L’annuncio dei due personaggi in vesti sfolgoranti vuole distogliere le donne dal cercare tra le cose passate, tra gli eventi terminati e conchiusi ("tra i morti"), per aprirla verso un’altra direzione, verso un "oltre" insospettato: quello della vita presso Dio. All’inizio si tratta di un dis-orientamento del desiderio, di una dirottamento della ricerca. E’ impossibile ritrovare Gesù solo nella linea del prolungamento delle proprie attese, della speranza di una vita che si prolunghi al di là della morte, della permanenza di una forma d’esistenza nelle regioni inferiori, del ricordo che lascia traccia nel vissuto di coloro che hanno conosciuto Gesù. Il profeta crocifisso non va cercato tra i morti, non è lì! Bisogna cercare da un’altra parte. Se questa voce, però, non viene da altrove, se non scende dall’alto in vesti sfolgoranti, se essa non suscita un risveglio dello sguardo e del cuore non può incontrare il Vivente.

Vengono alla mente le icone orientali che raffigurano la risurrezione di Gesù, come un descensus ad infer(n)os, una discesa negli inferi del Risorto vivente. Il Cristo in veste sfolgorante, di bianco luminosissimo orlato d’oro, scende come un angelo dal cielo, e disegna con la tunica svolazzante quasi la scia d’una meteora che viene dall’alto. Toccando terra il Risorto scardina le porte dell’Ade che si sollevano in forma di croce sotto i suoi piedi: è la vittoria sulla morte intesa come vita senza speranza, è la vittoria della carità di Gesù attraverso la sua morte crocifissa. I segni e strumenti della passione che sono raffigurati presso le porte degli inferi la ricordano. Gesù, toccando terra, afferra le mani di Adamo ed Eva, che s’avvinghiano a Lui, per essere strappati dal regno dei morti. Il primo Adamo e la Madre dei viventi sono così estratti dagli inferi da Colui che è il Nuovo Adamo e il Vivente. Sullo sfondo del panorama si staglia il gruppo formato da Abele, Mosé, Davide, Salomone, il Battista, da un lato, e altre figure di profeti che rendono testimonianza alla venuta del Risorto, dall’altro. L’attesa degli uomini d’ogni tempo, fin dal primo uomo, è orientata al Cristo risorto, è risollevata dal regno della morte, è innalzata dalle braccia del Vivente. L’uomo abbandona le regioni della morte, il luogo dove non brilla la fedeltà di Dio, per ascoltare l’annuncio angelico: «non cercate tra i morti, non è qui»! Il desiderio dell’uomo s’attende proprio questo, ma da solo non può raggiungere la vita in pienezza, se non irrompe dall’alto l’annuncio della risurrezione. È la parola che sta "oltre" il desiderio, pur compiendone la segreta attesa. Allora, vedere il volto di Dio nel vivente Risorto corrisponde all’attesa di ogni uomo, ma non è nella sua possibilità passare dalla tomba all’incontro con Lui. In mezzo ci sta l’annuncio inaspettato e insospettato della risurrezione! In mezzo occorre raccogliere con cura preziosa tutte le tessere del Volto di Gesù, che abbiamo pazientemente raccolto dalla sua voce, perché si saldino e si fondano nell’unica parola che tutte le comprende e le sigilla come un marchio di fuoco che s’incide nel cuore e nel corpo del lettore: la dedizione incondizionata di Gesù al Padre e agli uomini. Occorre ricordare la parola di Gesù per comprendere la nuova vita del Risorto. Solo la mano del Risorto, segno della fedeltà senza pentimenti di Dio, può gettare un ponte tra il desiderio dell’uomo e la visione di Dio.

 

4. Il Vivente è il Crocifisso!

Seguitiamo a leggere l’episodio lucano delle donne al sepolcro, in cerca del corpo crocifisso e martoriato, la cui ricerca viene ri-orientata verso il Vivente. Esplode l’annuncio della risurrezione: «Non è qui, è risorto!». Il Vivente non va cercato tra i morti, ma va accolto come colui che offre la sua vita per noi. Anzi come colui che dona la sua vita anche a coloro che non vogliono riconoscerla e accoglierla, che passa attraverso le mani omicide che crocifiggono il suo corpo e versano il suo sangue. La dedizione di Gesù è senza condizioni, porta impresse le piaghe del crocefisso che restano nel Risorto fino al Cristo Giudice. È introdotto ora il momento positivo del riconoscimento del Vivente come risorto, l’ultima tessera del nostro cammino di ricerca, o meglio il disegno sintetico, la luce degli occhi di quel Volto che con i discepoli abbiamo cercato in modo insonne, lungo il nostro cammino: l’identità del Risorto con il Crocifisso, l’incontro con il Risorto come colui che da ora e per sempre offre la sua vita per noi! Risuona l’annuncio come lo squillo di tromba che lacera il silenzio del Sabato santo, rimbalza come una notizia inarrestabile che proietta i suoi discepoli nel mondo sino agli estremi confini della terra. Cantano gli annunciatori: «Non è qui, è (stato) risuscitato (dal Padre suo)!».

Il Padre è colui che dona la vita, colui che "lascia essere", colui che "lascia andare" il Figlio nel mondo della perdizione, nell’abisso del peccato, nella tenebra del male, sulla strada pericolosa di Gerico. Il Figlio è colui che "riceve l’essere", che si "lascia mandare", che accoglie la volontà del Padre, che si lascia plasmare la sua libera obbedienza tutte le tessere dell’"io devo" con cui abbiamo composto pazientemente il Volto del Gesù della ricerca come forma dell’amore incondizionato. E lo Spirito reca la volontà del Padre come mozione interna della libertà filiale di Gesù, perché è lo Spirito che persuade della verità tutta intera, che effonde il suo interminabile trabocco (egli è la charitas divina) nel cuore dell’umanità per sanarla e trasfigurarla. Gesù sa con gli occhi semplici del figlio/piccolo/bambino che il male dell’uomo può essere guarito solo portandolo, può essere curato solo guarendolo, può essere cambiato solo subendolo, può essere trasfigurato solo lasciandosi sfigurare: può essere il corpo glorioso del Signore Gesù solo se non si rimarginano le piaghe del Crocifisso. Questi è il Risorto, questi è il Vivente, questa è la luce abbagliante che squarcia la tenebra della storia, il Giudice giudicato, il Samaritano sanguinante, il Pastore che è l’agnello crocifisso! Questa è la prima e l’ultima parola del cristianesimo: l’amore disarmato e disarmante del nemico, lo splendore del Crocifisso risorto. Il lettore sente vibrare, in questa pasqua mattutina, l’annuncio del Risorto. Non lo vede ancora nello splendore del suo corpo trasfigurato, ne sente solo l’irradiazione nella parola dei due annunciatori: non è qui, è risorto! Vorrebbe vedere la piena rivelazione, dimorare nella sua gloria, salire con Gesù sul monte e vedere il volto del Padre ed esserne illuminato e a sua volta trasfigurato.

Per ora, l’annuncio della risurrezione chiede una ripresa della memoria Jesu: «Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea, dicendo che bisognava (deî)che il Figlio dell’uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno» (Lc 24,6-7). L’evangelista Luca insiste molto sul tema del ricordo, della memoria di Gesù alla luce della risurrezione: non è solo una ripresa del passato, ma è un passato al "presente", riletto alla luce degli angeli interpreti, che invitano a riascoltare la parola di Gesù circa la "necessità" della sua consegna, della morte di croce e della risurrezione. Questo è l’ultimo deî, semplicemente ribadito nell’episodio dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35), quando Gesù in persona, l’ultimo e definitivo angelus interpres, lo consegnerà al lettore futuro. Questo al sepolcro è per i suoi, per le donne e i discepoli che l’hanno seguito sin qui, perché ripercorrano a ritroso tutta la ricerca del vangelo, è la configurino nel racconto, la raccolgano sul rotolo, il corpo della parola viva da consegnare al lettore futuro. L’altro sul cammino è per il lettore futuro, per tutti noi, per te, perché impari a riconoscere nel corpo del racconto narrato e nel corpo del pane condiviso la duplice mensa a cui si alimenta la Chiesa. E la fa il corpo vivente di Cristo che parte sempre da Gerusalemme per le strade del mondo.

La "necessità della consegna del Figlio dell’uomo nelle mani dei peccatori" annunciata dai messaggeri divini sarà ripresa da Gesù poco più avanti: «non "bisognava" che il Cristo patisse per entrare nella sua gloria?» (v. 26a). Gesù formula la domanda circa la "necessità" della sua morte. È l’interrogativo che attraversa ogni generazione cristiana, che si mette dinanzi alla morte di croce. Occorre riconoscere che il Risorto è il Crocifisso, ma non si può comprenderlo se non affidandosi alla parola di Gesù che ne stabilisce l’identità. Qui la fede è sottoposta effettivamente al suo punto di massima tensione. Deve accogliere la verità del volto di Dio che Gesù comunica nella sua morte di croce. Dobbiamo distaccarci dall’immagine di un Dio costruito a nostra misura, come il Dio potente che fa scendere dalla croce il suo Messia, che baratta la sfida dell’uomo, il suo rifiuto di Dio, per risparmiare il Figlio suo. Così è la croce di Gesù:il messaggero è rifiutato perché sia respinto anche il suo messaggio. Questa è la "necessità" della morte di croce, non una meccanica legge che si imporrebbe anche a Dio e al suo Cristo, ma l’insondabile gratuità dell’amore che si dilata per far spazio all’uomo, per creare i tratti della sua libertà credente, e per ricrearli quando egli si rinchiude nell’onnipotenza del suo io. Ciò è possibile solo se è risorto il Crocifisso, e se il Risorto è colui che ha finito i suoi giorni sulla croce. L’annuncio del Risorto ci rimanda alla croce, la croce è la sostanza vivente della vita del risorto. La prima la risurrezione senza la memoria Iesu che culmina nella croce sarebbe un mito; la seconda, la croce, senza la vita di dio sarebbe il terribile patibolo che gli uomini innalzano per sacrificare uno al posto di tutti, meccanismo vittimario, per lavarsi le mani con una grazia a buon prezzo. Nell’annuncio pasquale croce e risurrezione sono inestricabilmente unite: la vita di Dio si comunica ai discepoli e lo sguardo dell’uomo si converte alla memoria del Vivente. E il lettore futuro no n potrà che tornare sempre a gerusalemme, al mattino di Pasqua, per ricercare il corpo del Signore Gesù e per ricordare con "i suoi" l’"io devo" di Gesù che l’ha condotto sin qui.

 

[1] Ho sviluppato questo aspetto nel mio testo sul mistero pasquale: Alla ricerca di Gesù. «Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte» (= Il Simbolo Apostolico 5), Cinisello Balsamo, San Paolo, 2001.

 

GESU' E LE DONNE

Dott. Lidia Maggi, Pastora Battista nelle comunità di Milano e di Lodi e delegata all'ecumenismo e al dialogo interreligioso.

 

Gesù e le donne

 

Una premessa: il titolo fa riferimento alle donne che Gesù incontra nei vangeli ma anche a quelle che, successivamente, riflettono su Gesù e con Gesù.

Partiamo da queste ultime, dalle loro domande poste al testo biblico, dall’interpretazione da loro avanzata a proposito della fede cristiana. Il riferimento è alla cosiddetta "teologia femminista", che ha sollevato questioni ineludibili a proposito della modalità dell’annuncio del messaggio cristiano. Se Dio è maschio, allora il Maschio è Dio. Con questa affermazione Mary Daly, una teologa cattolica americana, annunciava la sua fuoriuscita dal cristianesimo nel suo libro Al di là di Dio Padre (1973). Le donne, da tempo, avevano preso coscienza dei lori diritti: era in atto una vera rivoluzione culturale. Il contesto storico è importante per capire cosa avviene anche nel dibattito teologico. Qualche anno prima, nel 1968, Mary Daly aveva sollevato un acceso dibattito con la pubblicazione de La chiesa e il secondo sesso (titolo che fa volutamente eco al testo del 1949 di Simone de Beauvoir Il secondo sesso dove, in un capitolo dedicato alla fede cristiana, la filosofa denunciava i legami tra patriarcato, oppressione delle donne e sistema religioso).

La questione "femminista" non nasce con la rivoluzione culturale del ’68: ha un’origine più remota. Un secolo prima un gruppo di donne nordamericane, radunate intorno alla figura di Elisabeth Cady Stanton, iniziarono a commentare la Bibbia, e in particolar modo tutti quei passi che avevano come protagoniste le donne. Nacque così la Womens’ Bible: un commento alla Scrittura che assume, nella riflessione delle donne, la stessa forza simbolica che Lutero ha per la Riforma o il Vaticano II per l’odierna Chiesa Cattolica.

Qual’è la novità di questa bibbia delle donne? In essa non solo si riconosce che la Scrittura e la fede cristiana che sorge dall’ascolto della Parola in essa attestata, è stata unicamente interpretata al maschile, ma si dichiara chiaramente che la Bibbia stessa si presenta come "libro sessista", radicato in una cultura patriarcale. Il metodo storico-critico, strumento indispensabile per una lettura scientifica del testo, conferma una tale acquisizione critica.

 

Oltre al riconoscimento del sessismo della Bibbia, le donne giungono ad evidenziare il carattere politicodel testo biblico per l’uso che se ne è fatto lungo i secoli: vera e propria arma politica contro l’emancipazione delle donne. Ne consegue la necessità di un percorso di interpretazione non sessista della Scrittura, in modo che anche le donne possano camminare per i sentieri di libertà da essa tracciati.

Questi accenni telegrafici, sommarie informazioni su un mondo ben più variegato e articolato, sono funzionali alla necessaria presa di consapevolezza che quando si parla di teologia femminista si parla di una teologia militante,appassionata, che denuncia e smaschera la subordinazione delle donne e ne annuncia la liberazione.

Una riflessione teologica che muove dall’esistenza, che nasce da una presa di coscienza. Opzione preferenziale per le più povere, per dirla con il linguaggio delle teologie della liberazione: le donne, cittadine di seconda classe nell’ambito della fede.

La teologia femminista non approda subito nel mondo accademico: in parte per una certa diffidenza da parte delle teologhe femministe nei confronti delle sedi istituzionali; in parte per le urgenze sociali su cui la spiritualità maturata indirizza quel movimento di donne cristiane, impegnate nelle loro comunità a favorire processo di liberazione delle donne sottomesse alle strutture di potere patriarcale. La teologia femminista non si contraddistingue, dunque, per la sistematicità che caratterizza la teologia accademica. E questo, almeno in prima battuta, vale anche per il tema cristologico. E’ una teologia contestuale, più narrativa che argomentativa. Le donne si raccontano, a partire da sé, e reinterpretano la fede dal proprio punto di vista, necessariamente parziale e frammentario. Le donne si chiedono: Il cristianesimo e la Bibbia insegnano davvero la subordinazione della donna all’uomo e la sua inferiorità? Per lungo tempo le chiese hanno interpretato la Scrittura in senso sfavorevole alla donna. "E’ giunto il momento per noi donne di leggere ed interpretare la Bibbia da noi stesse" (Mrs. Cutler alla convenzione americana per i diritti della donna, Philadelphia 1854).

Affermazione dolorosa, che fa necessariamente i conti con una certa lettura della Bibbia che ha segnato molti dei padri della chiesa.

Uno per tutti, Tertulliano:

Non sai che sei Eva? Tu sei la porta del diavolo, tu sei colei che per prima ha violato la legge divina; tu sei colei che ha persuaso colui che il diavolo non fu capace di attaccare; con quanta facilità hai fatto cadere l’uomo, l’immagine di Dio; per la pena da te meritata, cioè la morte, perfino il figlio di Dio dovette morire (de cultu feminarum PL 1,1418-1419).

Di qui la reazione delle donne:

E’ tempo che la Chiesa assolva le donne dal peccato di Eva, così come ha assolto gli ebrei dal loro delitto (Elisabeth Gould-Davis).

 

Dopo gli inizi, di carattere più "militante" che accademico, successivamente le domande delle donne hanno trovato accoglienza anche nel mondo dell’insegnamento istituzionale della teologia. Si è sempre più compreso che la posta in gioco non può essere ridotta alla pur giusta e prioritaria rivendicazione dei diritti delle donne (col linguaggio odierno: la rivendicazione delle quote rosa!). Si tratta, piuttosto, di restituire al Dio biblico un’immagine più poliedrica e meno "andromorfica". E così, la teologia femminista ha raggiunto in diversi ambiti accademici un riconoscimento ufficiale. In molte facoltà teologiche esistono dipartimenti di Womens’ studies.

Proviamo, ora, a declinare la domanda teologica, posta dalle donne, in termini cristologici: può un salvatore maschio salvare le donne?

Una domanda intenzionalmente provocatoria, con la quale si può sintetizzare un intenso dibattito che nei passati decenni ha portato le donne a riflettere sulla Scrittura, sulla cristologia e sul linguaggio con il quale si annuncia e si parla di Dio.

Come hanno risposto le teologie femministe a tale domanda? Può un salvatore maschio salvare le donne?

1. Mary Daly, in Al di là di Dio Padre, indica una risposta negativa, collocandosi conseguentemente al di là del cristianesimo. Se all’inizio la sua riflessione si era mossa per uscire dalle secche del discorso andromorfico sul Dio biblico e per metterne in luce l’autentica immagine antropomorfica, non più necessariamente sessuata al maschile, successivamente la teologa americana si muove alla ricerca di un linguaggio "gino-morfico" (si veda il suo scritto del 1978, Gin-Ecologia) che la colloca al di fuori del cristianesimo.

2. La risposta negativa alla domanda cristologica è condivisa da quelle donne che aderiscono alla cosiddetta "Religione della Dea". Al testo sopra accennato di Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, risponde Elizabeth Gould-Davis col suo scritto del 1971, Il primo sesso. Primo perché, storicamente, il matriarcato precede la cultura patriarcale. Si tratta di una ricerca che va nella direzione di movimenti post-cristiani di spiritualità femminista. Echi di tale corrente di pensiero emergono anche nel romanzo (del tutto inattendibile per la riflessione teologica ma significativo di una certa temperie culturale) Codice da Vinci di Dan Brown.

3. La terza corrente, la più consistente, quella più articolata e, a mio giudizio, più creativa, non rinnega le radici bibliche della fede ebraico-cristiana e pone a tema lo scandalo di un Dio incarnato al maschile.

È su questo filone di pensiero, peraltro diversamente articolato, che ci vogliamo soffermare per affrontare il rapporto tra Gesù e le donne. Non per questo, tuttavia, andrà dimenticata la posizione di quante, scandalizzate da contesti patriarcali, hanno provocatoriamente abbandonato la fede cristiana alla ricerca di altri spazi di libertà.

L’analisi, per forza di cose, si limiterà al nostro tema, attingendo al percorso cristologico di alcune autrici quali Letty Russel, Elizabeth Schusserl Fiorenza, Elisabeth Wendel-Moltmann, Phillis Trible.

 

 

Gesù e le donne: l’indagine biblica. Cosa dice la Scrittura a proposito del nostro tema? Pur sottoponendo il testo biblico ad un’ermeneutica del sospetto, ci poniamo innanzitutto la domanda: Chi è il Gesù testimoniato dagli autori biblici? Gli scritti neotestamentari ci presentano Gesù come un uomo. Più precisamente, un rabbi, marginale rispetto ai dottori della Legge ufficialmente riconosciuti, nato in una famiglia ebrea della Galilea, che intraprende un periodo di predicazione e di insegnamento pubblico, prima di essere arrestato, sommariamente processato ed ucciso. Gesù è anche presentato come il Figlio di Dio. Elizabeth S. Fiorenza, studiosa di Nuovo Testamento, nel suo testo In memoria di lei, ci offre una ricostruzione del movimento cristiano fondato da Gesù. Un movimento dalla duplice anima: palestinese ed ellenistica.

Essa identifica nel discepolato di uguali la caratteristica principale di quei due movimenti, uno nato in Galilea, l’altro dalla missione di Paolo in ambito ellenistico. Il testo di Galati 3, 28 (Non c'è né Giudeo né Greco, non c’è né schiavo né libero, non c'è né maschio né femmina, perché tutti siete uno in Cristo Gesù) non andrà, dunque, letto come la punta di diamante, aspirazione ultima di carattere utopico, bensì come base autentica per l’esperienza cristologica della fede (si veda anche il testo di Romani 16,1-16 dove Febe viene chiamata diacono, Prisca collaboratrice e Giunia apostolo).

 

Se la comunità radunata attorno alla memoria di Gesù, Maestro e Signore, viene presentata come koinonia nell’uguaglianza, in grado di superare le classiche divisioni che contraddistinguono gerarchicamente la società, una tale configurazione non può che essere l’esito, il frutto sorto dalla radice cristologica. Partiamo, dunque, dall’inizio. E più precisamente dalla genealogia di Gesù di Nazaret, secondo la narrazione di Matteo. L’attenzione del lettore non può non essere attirata dalla presenza di cinque donne, segnate da una storia del tutto singolare: Tamar, Rahab, Rut, Betsabea... e Maria. La regalità messianica viene presentata con lo strano biglietto da visita di una genealogia eterodossa. Nel mostrare Gesù quale discendente di Davide, Matteo non risparmia a chi legge l’ironia di un pedigree cristologico necessariamente contaminato. Dopo la presentazione del protagonista del racconto, la narrazione evangelica (soprattutto Luca) presta particolare attenzione alla madre. Una presenza intensa e discreta, soprattutto nella letteratura dell’infanzia. Caratterizzata sempre in riferimento al Figlio, di essa ci viene narrata la chiamata, il viaggio per raggiungere Elisabetta, l’iniziativa presa alle nozze di Cana, la sua presenza sotto la croce e all’interno della prima comunità cristiana.

Nel suo ministero pubblico, il rabbi della Galilea parla con una particolare intimità di Dio, usando metafore femminili per dire il divino. Dio è come un padre che ha due figli, ma anche come una donna che impasta il pane, che perde una moneta... Egli si paragona ad un buon pastore, ma anche ad una chioccia che custodisce i pulcini sotto le sue ali. Il linguaggio, soprattutto se collocato nel contesto patriarcale, risulta provocatorio.

Gesù non esita ad indicare figure femminili per insegnare cosa significhi amare Dio e donare a lui tutto: si pensi, emblematicamente, alla vedova nel tempio, a Marta e Maria...

Nell’analizzare le relazioni intessute da Gesù ed il linguaggio da Lui usato non si potrà evitare l’obiezione che verte sull’assenza di donne tra i dodici. In realtà tale argomentazione ha il difetto di leggere un dato simbolico (la raccolta d’Israele, per dirla con G. Lohfink) in modo (ingenuamente) letterale. Dodici è, infatti, numero simbolico, che rimanda a tutto Israele. Del resto, Gesù nel corso del suo ministero dimostra di voler superare il tabù che separava i Giudei dai samaritani; e tuttavia non un solo samaritano è tra i discepoli!

Quello che sappiamo è che, oltre ad elencare diverse donne tra coloro che accompagnano Gesù fin dall’inizio (Luca 8,1-3), gli evangeli ci dicono che Gesù ha amiche donne che lo accolgono e con le quali ama confrontarsi, com’è il caso di Maria e Marta. Gesù sembra particolarmente propenso ad apprendere dalle donne. Emblematico l’episodio della lavanda dei piedi. Tutte e quattro le narrazioni evangeliche attestano il gesto compiuto da una donna sconosciuta (Maria di Betania, secondo Giovanni; una peccatrice, secondo Luca). Gesto che Gesù compirà a sua volta lavando i piedi dei suoi discepoli.

Gesù, dunque, nel relazionarsi con le donne, da esse imparava, con esse discorreva, entrava nelle loro case, offriva loro spazi di libertà, infrangendo i rigidi confini del patriarcato.

Se le donne sono rimaste sino alla fine, stando sotto alla croce (e per il quarto evangelista quel "restare" riveste un particolare significato discepolare), questo avvenne anche perché erano incredule di fronte a quella morte. Da quella morte avevano tanto da perdere. Lui aveva aperto loro sentieri di libertà; ora, di nuovo, si ritrovavano nella terra di schiavitù del patriarcato. Forse, le donne sono rimaste non perché più fedeli, ma per il fatto che da Lui avevano ricevuto di più. Gesù le aveva accolte, ascoltate, guarite, perdonate e mandate in missione. Le aveva strappate all’anonimato, all’invisibilità; aveva ascoltato le loro istanze e da esse aveva anche imparato.

Si pensi alla donna cananea che aiuta Gesù a comprendere la portata universale della sua chiamata.

Alcune donne poi hanno una precisa funzione nella strategia narrativa del racconto evangelico, come quando si tratta di capire il significato profondo della vita e della morte di Gesù. E’ il caso della donna che unse il capo, gesto che in Marco introduce il racconto della Passione, offrendosi al lettore come chiave interpretativa della rivelazione cristologica di quel Gesù che è venuto per donare gratuitamente la sua vita (vero e proprio spreco agli occhi degli increduli!).

Constatata la significativa presenza femminile nella vita di Gesù e nella narrazione evangelica che ne consegna la memoria, ritorniamo alla domanda che ha mosso la nostra riflessione: può un salvatore maschio salvare le donne? Osservando a fondo la scena evangelica, appare con evidenza che la mascolinità del Messia è legata allo scandalo dell’incarnazione, rimanda cioè alla parzialità e al limite, intenzionalmente assunti.

Il Dio incarnato si spoglia (Filippesi 2) della propria universalità per condividere l’umano ingresso nel mondo, nascere da donna come soggetto sessuato, maschio. L’umanità la si può vivere solo attraverso questa specificità di genere. Il suo essere maschio può risultare problematico per le donne solo quando la connotazione sessuale diviene attributo divino (in questo caso vale l’allarme lanciato da alcune teologhe: se Dio è maschio allora il maschio è Dio!).Quando la sua umanità singolare viene usata per legittimare i maschi a sentirsi più simili a Dio delle donne, in quanto maschi come Gesù. Considerazioni simili varranno anche a proposito della paternità di Dio (ingiustamente letta da alcuni come assunzione del maschile nel divino, ulteriormente rafforzata con un incarnazione al maschile).

Le donne, anche grazie ad una lettura biblica che si è avvalsa di un’ermeneutica del sospetto, hanno riscoperto la trascendente alterità di Dio e la parzialità kenotica dell’incarnazione cristologica. Il Dio biblico salva entrando nella parzialità della storia umana: ciò che non è assunto non è salvato, secondo un antico adagio patristico. Il Salvatore salva efficacemente e risulta credibile proprio perché ha scelto di abitare la storia, di patirne la parzialità. E questo, coerentemente con il modo di agire di Dio narrato nella Bibbia. Dio quando parla agli esseri umani usa il linguaggio umano, diceva Agostino. E tuttavia, questo non potrà significare che il Dio biblico è totalmente alla nostra portata, ridotto ad idolo: Colui che è vicino rimane misterioso. Puoi udirne la voce ma non vederne il volto. Anche il Gesù biblico sfugge a chi lo vuole possedere (si pensi al Gesù di Marco, a cui corrisponde lungo l’intero racconto l’incomprensione dei discepoli, la quale non viene meno neppure all’annuncio della resurrezione: Mc 16,1-8).

In fondo, la riflessione cristologica operata dalle donne si presenta come un’attualizzazione della preoccupazione squisitamente biblica di non ridurre Dio ad idolo. Dietro la messa in guardia, provocatoriamente espressa nel sospetto che se Dio è maschio allora il maschio è Dio, si ripropone il divieto di farsi idoli. La voce delle donne si alza per restituire a Dio, al Cristo, quell’alterità necessaria perché la vicinanza non si trasformi in fusione e confusione, all’insegna di troppo facili proiezioni ed a scapito di un autentico ascolto dell’indicativo della Rivelazione e dell’imperativo della conversione.

 

 

Lidia Maggi, pastora battista.

 

 

 

Integrazione

Ci interessiamo di "Gesù e le donne" in un momento storico in cui sembra calare l’attenzione verso quella ricerca che nei decenni passati è stata in grado portare alla luce un mondo sommerso dall’oblio di una narrazione al maschile e di porre al centro della scena la presenza delle donne nella vita e nella missione del rabbi di Nazaret.

Oggi non va più di moda parlare di "Gesù e le donne". Si sono spenti i riflettori su quel movimento di presa di coscienza femminile che ha riempito le piazze del secolo scorso, rivendicando i diritti negati alle donne. Tuttavia, il calo di attenzione verso quel pensiero della differenza, che ha denunciato "l’insostenibile mascolinità del neutro universale", convive accanto ad un inaspettato interesse per il femminile nel territorio del sacro, capace di fare la fortuna di autori come Dan Brown.

Le riflessioni di genere sembrano vivere un periodo di stanca proprio mentre si riaccende l’interesse sul rapporto tra donne e divino. Interesse pericoloso poiché viziato dalla lente deformante del mito che, mentre sembra dare spazio e autorevolezza a figure sommerse come Maria di Magdala, le imprigiona nella sfera del fiabesco. Così Maria l’apostola viene trasformata nella consorte del Messia che, fuggita in Francia, darà vita alla discendenza regale. Questa tecnica che trasforma in mito un personaggio storico non è meno efficace dell’oblio patriarcale per rimuovere il problema della presenza femminile nella chiesa e nei vangeli.

In questa stagione di confusione, dove convivono l’interesse morboso e la totale indifferenza sul tema, osiamo, come rabdomanti, rimetterci alla ricerca di quelle tracce femminili capaci di far sgorgare una sorgente di acqua viva sotterranea nel deserto patriarcale.

Lo facciamo seguendo le mappe disegnate dagli studi del passato. Paghiamo un tributo a tutta quella produzione che, nei decenni trascorsi, ha saputo recuperare una lettura al femminile della Scrittura, e, nello specifico, della figura di Gesù, offrendo strumenti e metodi di analisi. Tali strumenti -come ad esempio quell’ermeneutica del sospetto che entra nelle storie bibliche con sguardo critico, capace di riconoscere non solo l’interpretazione al maschile di un testo, ma anche i tratti di una Scrittura fin dal suo sorgere deformata dall’inchiostro patriarcale di chi scrive- sono tutt’altro che datati e rappresentano punti di non ritorno. Non vanno cestinati o dimenticati, ma fanno da sfondo al nostro modo di leggere e interpretare la Parola. Del resto la presenza costante delle donne nel panorama evangelico è così forte che nemmeno la lente oscurante del patriarcato è riuscita a cancellare.

 

Ecco la brocca abbandonata della samaritana. Come le reti sulla spiaggia, è simbolo femminile della chiamata apostolica. Rappresenta quell'entusiasmo che ha scosso tutte coloro che in Gesù hanno trovato un tesoro prezioso per cui vale la pena vendere tutto. Fin dalla Galilea molte donne hanno seguito e servito quello strano rabbi itinerante, proprio come fanno i veri discepoli con il maestro. Insieme alla cerchia dei dodici, c’erano anche loro, le donne; e, seppur frettolosamente, vengono nominate nel gruppo (Luca 8,1-3). Tra queste emerge la figura di Maria di Magdala che, nella narrazione evangelica, non ha nulla a che vedere con la peccatrice pentita. Maria, come altre donne, ha conosciuto in Gesù la guarigione. E’ lui che l’ha liberata dai demoni del patriarcato per trasformarla nell’apostola degli apostoli. E’ una delle tante donne a cui è stato dato il privilegio di discutere con il Messia delle grandi cose di Dio.

Il Gesù dei vangeli, pur presentato come colui che costituisce i dodici, non concepisce la sua comunità come una cerchia separata di soli uomini. Le donne sembrano fare pienamente parte del gruppo. Con loro Gesù discute e si confronta, procurando non poco imbarazzo ai discepoli che faticano a capire quell’atteggiamento anticonformista del Messia. Certo, nella sua umanità Gesù rimane uomo del suo tempo, con i suoi pregiudizi culturali, messi brillantemente in luce nell'incontro con la donna Cananea. E se da una parte è difficile immaginarlo servire a tavola, dall’altra lo vediamo appropriarsi di gesti vicini al mondo femminile per esprimere il senso della sua vocazione.

Gesù osserva l’agire delle donne e da loro impara. E’ forse proprio dalla profonda umiltà delle donne che ha avuto l'intuizione di come doveva essere il discepolato: farsi servo di tutti, abbassarsi, come fa la donna quando lava i piedi al marito...

E’ dalla discussione appassionata con la donna Cananea che Gesù chiarifica il suo mandato e prende in considerazione la possibilità di estendere la sua missione oltre i confini di Israele.

Gesù accoglie le donne, le ascolta, le ammaestra, le perdona, le guarisce, le manda in missione. Ha dato loro tanto: ha infiammato i loro cuori, le ha fatte sentire importanti, ha fatto conoscere loro un Dio materno, vicino, che le ama senza considerarle, nel suo regno, cittadine di seconda classe.

Un Messia del genere non poteva non accendere la speranza di quante da sempre sono state relegate a ruoli subordinati. Presto la voce deve essersi diffusa: e le donne, come i poveri e gli schiavi, hanno aderito con gioia a quella fede capace di accogliere tutti con pari dignità.

Più concretamente si può affermare che Gesù abbia offerto alle donne qualcosa di cui difficilmente gli uomini necessitano: le ha aiutate ad uscire dall'invisibilità, dall'anonimato, dal chiuso delle loro case, aprendo loro prospettive più ampie. La speranza che egli dona non è una promessa di salvezza astratta e futura, ma esperienza concreta di liberazione nel quotidiano. Essa provoca necessariamente una ridefinizione dei ruoli sociali, interroga le strutture e sollecita il cambiamento. Egli annuncia loro che il mondo è più ampio dei confini patriarcali, delle mura di casa. 

Gesù ha dato tanto alle donne; ma da queste ha pure ricevuto molto. E’ proprio grazie alle donne che Gesù ha conosciuto l'amicizia più alta, quella incondizionata. Esse gli hanno aperto la porta della loro casa e quella del loro cuore. Quanto aiuto Gesù ha trovate nelle sue amiche: alcune finanziavano il suo ministero, altre gli offrivano ospitalità quando si sentiva stanco dopo un lungo viaggio. E quando la sua anima era oppressa dal peso della morte imminente, ecco una donna pronta ad ungerlo con olio prezioso, come fosse un re: lo profuma per farlo sentire meno solo e lo accompagna a morire. Le donne non si limitano a seguire il Maestro, rimangono con lui anche quando ogni speranza sembra ormai sepolta. Nella buona e nella cattiva sorte sono con Gesù. Nello stare sembra esserci un modo squisitamente femminile di vivere la chiamata evangelica. E’ a loro che verrà consegnato l’annuncio della resurrezione.

Qualcosa è successo nel corso dei secoli e le chiese hanno reinserito le donne nell’ordine patriarcale. La novità evangelica è stata emendata.

L’annuncio della fede affidato alle donne è diventato nucleo di una testimonianza apostolica tutta al maschile. E così Maria di Magdala si è trovata di nuovo posseduta dai demoni del patriarcato; mentre alla samaritana è stato chiesto di tornare indietro a riprendersi la brocca! Esiste, dunque, tra evangelo e storia un evidente scarto che le lettrici credenti continuamente denunciano.

Le difficoltà che le donne incontrano all’interno delle diverse chiese non facilitano un confronto sereno capace di uscire fuori dal registro rivendicativo. La riscoperta della presenza femminile nel vangelo rischia così, qualche volta, di essere appiattita a strumento per   rivendicare le quote rosa all’interno delle chiese: percorso legittimo, che dà voce all’altra metà del cielo, troppo spesso azzittita; ma che si circoscrive alla sola ricaduta ecclesiologica. Mentre la posta in gioco è ben più alta: custodire e difendere la rivelazione evangelica. Là dove l’evangelo non può funzionare solo come pezza giustificativa, come bandiera da brandire nel mezzo della battaglia! Le donne di questa generazione devono saper continuare a vigilare e lottare contro gli abusi del patriarcato e, contemporaneamente, tenere aperte le tensioni evangeliche: come coniugare la spinta emancipatoria con il rinnegare se stesse, con l’arte di un ascolto disinteressato? Come fare i conti con un Gesù amico ma singolare, che ci interpella con lieti annunci dalla insopportabile forza d’urto?

Sono questioni che interpellano il nostro percorso esistenziale e quello più squisitamente legato alla ricerca. Pongono domande di senso, ma anche di metodo.C’è un’eccedenza nel vangelo rispetto al nostro desiderio di essere valorizzate da Gesù. Eccedenza non vuol dire che il vangelo rema contro ma che va oltre, anche oltre il riconoscimento del ruolo delle donne.

In questa stagione di "riscoperta" del Gesù ebreo, del Gesù maschio illuminato, mi chiedo se, pur con le migliori intenzioni, non rischiamo di appiattire l’evangelo a verifica di una tesi generale costruita su di esso, ricercando così conferme alle nostre convinzioni che in realtà costituiscono il nostro vero credo. La parola evangelica, che dovrebbe continuamente destabilizzarci, in questa lettura conferma e rafforza le nostre attese senza davvero interrogarle. 

Ma il vangelo pretende di rimanere anche per le donne parola che stupisce e spiazza, mentre conferma e consola. Parola da leggere con uno sguardo illuminato dal desiderio di felicità e, nello stesso tempo, Parola che legge il nostro vissuto e lo sospinge verso terre sconosciute, verso identità inedite.

 

Lidia Maggi, pastora battista.

 

 

IL CRISTO-LOGOS VISTO DALLA FILOSOFIA

Monza, 11 dicembre 2007

 

 

Prof. Roberta De Monticelli, docente di Filosofia della persona presso la Facoltà di Filosofia Vita-Salute san Raffaele di Milano.

 

 

 

IL CRISTO-LOGOS VISTO DALLA FILOSOFIA

 

 


Il tema che mi è stato proposto è certamente molto elevato rispetto al semplice piano della filosofia e quindi lo tratterò insieme a voi "contemplando e divagando", partendo dalla materia che insegno nella facoltà di filosofia del S.Raffaele di Cesano Maderno, "Filosofia della persona", che non è proprio molto vicina alla teologia. Anzi, mi permetto di segnalarvi un volume appena uscito di una collana che sto curando presso l’editore Bruno Mondatori: La religione della ragione (quindi del Logos) di Marco Tannini. Tannini è forse il più noto studioso in Italia di mistica, specie medievale (su Meister Eckhart, 1260-1327 ca.). Mi permetto anche di segnalarvi un mio libretto, che mi ha fatto conoscere e avvicinare tanti nuovi amici, Sullo spirito e l’ideologia. Lettera ai cristiani (Baldini Castaldi Dalai editore).

Comincerò la conversazione in maniera poco usuale per un tema così arduo come quello di questa sera, leggendo in maniera fedele (secondo le mie possibilità) il Cantico di Frate Sole di Francesco d’Assisi.

 

Altissimu, onnipotente, bon Signore,

Tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione..

A Te solo, Altissimo, se konfano,

et nullu homo ène dignu Te mentovare.

 

Laudato sie, mi' Signore cum tucte le Tue creature,

spetialmente messor lo frate Sole,

lo qual’è iorno, et allumini noi per lui.

Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:

de Te, Altissimo, porta significatione.

 

Laudato si', mi’ Signore, per sora Luna e le stelle:

in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle.

 

Laudato si', mi' Signore, per frate Vento

et per aere et nubilo et sereno et onne tempo,

per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento.

 

Laudato si', mi’ Signore, per sor'Acqua.

la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.

 

Laudato si', mi’ Signore, per frate Focu,

per lo quale ennallumini la nocte:

ed ello è bello et jocundo et robustoso et forte.

 

Laudato si', mi’ Signore, per sora nostra matre Terra,

la quale ne sustenta et governa,

et produce diversi fructi con coloriti fior et herba.

 

Laudato si', mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo Tuo amore

et sostengo infermitate et tribulatione.

 

Beati quelli ke 'l sosterranno in pace,

ka da Te, Altissimo, sirano incoronati.

 

Laudato si' mi’ Signore, per sora nostra Morte corporale,

da la quale nullu homo vivente pò skappare:

guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali;

beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati,

ka la morte secunda no 'l farrà male.

 

Laudate e benedicete mi’ Signore et rengratiate

e serviateli cum grande humilitate.

 

E’ il primo canto della natura della nostra letteratura, il canto della bellezza di tutte le creature - a cominciare dalle più umili come l’acqua, la terra -, della bellezza del paesaggio e degli elementi che lo compongono, che vengono contemplati e presentati attraverso aggettivi che li illustrano in maniera vivace come "robustoso", "forte", "umile", "preziosa", ecc. Aggettivi e qualità che mettono in luce "la bellezza" delle creature, il loro splendore, il loro "valore", per cui esse sussistono dinanzi a Dio. Un valore "gratuito", indipendente dalla loro utilità nei nostri confronti, dato per la nostra gioia, per la nostra felicità. Le cose belle rendono felici "gratuitamente", per se stesse, per la loro stessa bellezza.

E’ proprio questo valore, la bellezza, che, nel contemplare ciò che ci sta dinanzi, ci fa andare non "contro" ma "oltre la ragione". Essa "fiorisce per fiorire, che tu la guardi o meno" (A. Silesio, 1624-1677). La bellezza fiorisce nelle cose "immotivatamente", senza dipendere dal nostro sguardo, "oltre ogni ragione e motivazione". I primi biografi di Francesco notavano che egli era particolarmente felice quando poteva fare qualcosa "contro o al di là del buon senso" comune. Era la felicità gratuita, "oltre la ragione", quella "perfetta letizia" per la quale - notava Tommaso da Celano (ca.1190-ca.1260), suo primo biografo i suoi frati non dovevano mai "mostrarsi tristi" in qualsiasi circostanza.

Tannini collega questa "perfetta letizia" alla "perfetta obbedienza", intesa sia come spoliazione del proprio egoismo, sia (e soprattutto) come "totale fiducia" nell’amore di Dio. Francesco ricorreva all’esempio del cadavere, che si lascia porre dappertutto senza fare alcuna osservazione, che sia coperto di porpora o di stracci non farà alcuna osservazione: "costui è il vero obbediente". Come si vede, Francesco sa usare anche l’arma dell’ironia e del paradosso.

 

Un’intelligenza nuova

Che cosa c’entra tutto questo col Cristo-Logos, il tema di questa sera? Ovviamente il termine logos ci ricorda lo sviluppo della filosofia greca e il suo influsso nel formarsi della prima teologia cristiana, ma soprattutto ci ricorda il mistero del "Logos fatto carne", ricordato da Benedetto XVI nel celebre discorso di Ratisbona come punto di un incontro tra messaggio cristiano e cultura greca. Per inciso, questo accostamento non mi trova completamente d’accordo perché il logos della cultura greca si trova sviluppato nella teologia delle altre due religioni abramitiche, l’ebraica e l’islamica, a indicare "l’oltre" rispetto alla ragione, la "trascendenza assoluta". Il "Logos cristiano" non è il logos di Aristotele, di Platone o dei neoplatonici. Già nei primi Padri viene affermata l’impossibilità di esprimere Dio con qualsiasi categoria razionale. Dio non può "essere compreso". "Solo l’empio può dire: Dio è un ente" - afferma Meister Eckhart - appunto perché Dio è sempre "oltre" rispetto a qualsiasi ente.

La trascendenza di Dio da Platone ad Anselmo d’Aosta, a Tommaso d’Aquino, a Kant impedisce alla ragione di parlare di Lui in maniera esaustiva. Quando parliamo di Dio, praticamente parliamo di noi stessi, diceva Gabriel Marcel (1889-1973). Quando parliamo di Logos secondo il pensiero greco, attribuendolo a Dio, parliamo di un "Pensiero dell’impensabile" che si accorda più alla teologia ebraica e islamica che a quella cristiana. Per questo non sono tanto d’accordo col discorso di Ratisbona.

Il messaggio cristiano ci presenta, invece, un Logos che si manifesta, si rivela, anzi "si incarna", diventa un volto, una persona. Ma con questo non si può dire che la trascendenza e il mistero vengano superati o eliminati, anzi la ragione rimane ancora più spiazzata. Qui ci viene in aiuto Francesco col suo Cantico col quale abbiamo iniziato la nostra riflessione. Esso ci rivela "un’intelligenza nuova" che si accosta alla natura, all’esistenza, al senso della vita, al mistero, con una sensibilità nuova, attraverso "la bellezza" e la gratuità con cui si entra in comunione con la realtà in se stessa, compreso il mistero divino. La fenomenologia, la corrente filosofica entro la quale mi muovo più a mio agio, sottolinea come Francesco rappresenti "un’intelligenza nuova", una spiritualità capace di penetrare "l’intelligenza dell’incarnazione", che è lo specifico dell’intelligenza cristiana, chiamata a superare il dualismo tra spirito e carne, con quel disprezzo della carne proprio delle correnti gnostiche, anche contemporanee, che contrappongono l’uomo e lo spirito al mondo e alla materia con una svalutazione completa di questi ultimi. Buona parte della filosofia moderna non ha valutato pienamente o ha guardato con sospetto tutto ciò che "cade sotto i sensi" e, di conseguenza, ogni esperienza sensoriale. Da Cartesio al razionalismo è stato questo l’atteggiamento prevalente nella filosofia moderna. Ancora oggi sono quasi prevalenti gli atteggiamenti filosofici tendenti a svalutare "ciò che appare" anche a costo di andare contro il comune "buon senso".

 

Bellezza e gratuità

Come fa un mistero a produrre "intelligenza nuova"? Come fa Francesco a guardare il mondo con "un’intelligenza nuova"? Questo tipo di intelligenza ancora oggi stenta a dare i suoi frutti; infatti, la cultura attuale ha difficoltà a superare i condizionamenti del "sospetto" nei confronti dell’esperienza della natura. Solo negli ultimi tempi si è affacciata nell’orizzonte della filosofia una corrente che intende valorizzare "ciò che appare". Ciò che viene accostato attraverso l’esperienza ci rivela un aspetto, una sfumatura, una qualità della realtà, un valore. E’ quanto sostiene la fenomenologia contemporanea. Essa mette in evidenza la varietà e la complessità dei valori e delle qualità della nostra esperienza: alcuni utili e strumentali, altri completamente "gratuiti", fruibili per se stessi, come i valori estetici, legati alla "bellezza" della natura e degli esseri, che devono essere contemplati per se stessi, senza una motivazione razionale, che vanno, cioè, "oltre la ragione". A questo punto ci si domanda se questi valori siano in grado di darci quella "intelligenza nuova" che ci faccia comprendere quanto di mistero comporti il mondo e la realtà. E’ la domanda che si poneva Simone Weil (1909-1943): "I misteri della fede non sono oggetto dell’intelligenza, non sono nell’ordine della verità, ma al di sopra di esso". La facoltà che ce li fa accostare è "l’amore soprannaturale" allo stesso modo che "una musica particolarmente bella" impone silenzio e comunica l’intelligenza di una verità, un mistero, altrimenti incomunicabile. Sono silenzi che "permettono all’anima di afferrare delle verità, che altrimenti rimarrebbero per sempre nascoste". "Ci sono delle verità che non possono essere accostate se non attraverso questo silenzio". E’ quello che Simone Weil chiama "l’intelligenza dell’amore" che opera "oltre" (non contro) la ragione.

Max Scheler (1874-1928), parlando di Francesco, in Essenze e forme della simpatia scrive che questo chiamare "fratello" e "sorella" gli elementi della natura costituisce "un’espansione dell’amore di Dio" a tutta la natura attraverso l’amore dell’uomo, che a sua volta eleva la natura verso la luce del soprannaturale. Queste affermazioni, continua Scheler, potevano allora sembrare "un’eresia", in un contesto culturale, anche teologico, dominato ancora dal dualismo tra spirito e materia, tra natura e soprannatura. Nel Cantico di Francesco Scheler vede "l’intelligenza nuova" dell’Amore, di cui parla Dante e che in seguito diventerà, sia pure molto lentamente, intelligenza comune, senso comune, sensibilità simbolica, senza la quale la nostra vita quotidiana si ridurrebbe a ben misera cosa. Abbiamo la fortuna di vivere in un ambiente segnato dalla bellezza, viviamo in una "foresta di simboli" che arricchisce non la nostra intelligenza concettuale ma "l’intelligenza dei nostri sensi". Con Francesco non c’è più bisogno di passare attraverso l’allegoria per dare valore al sensibile; la realtà sensibile manifesta per se stessa il soprannaturale: "de Te porta significatione" dice Francesco. Alano di Lilla (tra 1114 e 1128 1202), della scuola di Chartres diceva: "Omnis mundi creatura, quasi liber et pictura nobis est" (Ogni creatura del mondo per noi è come un libro e una pittura). Le creature costituiscono una continua "rivelazione". Siamo dinanzi a un’espressione di quella "teologia simbolica" di cui parlava nell’Alto Medioevo lo pseudo-Dionigi, secondo il quale, vista l’impossibilità di concettualizzare il divino, esiste una conoscenza di Dio più alta e perfetta, ottenuta per mezzo della "teologia negativa" (o teologia apofatica).

Del resto è Dio stesso che si rivela "facendosi carne" e volto umano. L’esperienza sensoriale e, in maniera privilegiata, l’esperienza estetica ci rivelano in maniera immediata quello che per la ragione è "indicibile", impossibile da esprimere in concetti, quello che per la ragione si colloca "oltre".

La fenomenologia contemporanea, la parte della filosofia che oggi cerca di studiare e valorizzare questa essenza, mi sembra il terreno nuovo in cui si cimenta la ragione e che può dare un contributo positivo anche alla teologia. Sono parecchi i teologi che vengono da questa scuola o che guardano ad essa con molto interesse. D’altra parte anche la teologia può arricchire con questa "intelligenza nuova" la filosofia contemporanea indipendentemente dalla fede e dalla sua accettazione.

 

Pensare a mani nude

L’ultima espressione del Cantico di Francesco è "humilitate". La cultura del rispetto, la cultura dell’umiltà (che la filosofia, purtroppo, non ha mai avuto), quel delicato sentimento" che "prolunga ogni cosa nell’invisibile" (sono ancora espressioni di Max Scheler) fanno parte di quell’esperienza che ci mette direttamente in contatto con il divino, con "l’oltre", con l’indicibile. "L’umiltà apre l’occhio dello spirito a tutti i valori del mondo", ci fa vedere come "tutto è dono" e non semplicemente "un dato". Per la filosofia si offre una nuova dimensione, quella della "estensione" sulla realtà, che la rispetta e la contempla prima di "parlarne". Occorre che il filosofo vesta "i panni della povertà" e che "ricominci da capo" a "pensare a mani nude". Ho iniziato con i versi di Francesco, termino con quelli di Dante su Francesco e madonna Povertà:

 

Ma perch’io non proceda troppo chiuso,

Francesco e Povertà per questi amanti

prendi oramai nel mio parlar diffuso.

La lor concordia e i lor lieti sembianti

amore e maraviglia e dolce sguardo

facieno cagion di pensier santi.

(Paradiso, Canto X)*

 

 

* Testo non rivisto dall’autore. Ci scusiamo per eventuali errori ed omissioni.

 

L' UNZIONE DI BETANIA

Monza, 30 ottobre 2007

 

 

Mons. Franco Giulio Brambilla, Vescovo, Vicario per la cultura della Diocesi di Milano

 

 

L’UNZIONE DI BETANIA

TRA KERYGMA E RACCONTO

 

 

 

Nell’episodio dell’unzione di Betania secondo Marco, si vede il funzionamento dell’intreccio tra kerygma e racconto (Mc 14,1-11). La collocazione strategica dell’episodio della misteriosa unzione da parte di una "donna" anonima nell’economia del racconto della passione è riconosciuta da molti[1], in perfetta inclusione con l’episodio dell’unzione (mancata) delle "donne" al sepolcro (Mc 15,40-16,1). Ciò che non riesce ad avvenire alla fine del racconto della passione a motivo dell’assenza di Gesù e dell’annuncio del kerygma pasquale («È risorto, non è qui!»), avviene in modo prefigurativo nell’imprevedibile unzione di Betania di Gesù, quando egli annuncia che tra poco non sarà più con i suoi («me non mi avete sempre!»). , in perfetta inclusione con l’episodio dell’unzione (mancata) delle "donne" al sepolcro ( 15,40-16,1). Ciò che non riesce ad avvenire alla fine del racconto della passione a motivo dell’assenza di Gesù e dell’annuncio del kerygma pasquale («È risorto, non è qui!»), avviene in modo prefigurativo nell’imprevedibile unzione di Betania di Gesù, quando egli annuncia che tra poco non sarà più con i suoi («me non mi avete sempre!»).

Inquadrata nella duplice cornice drammatica (14,1-2.10-11) delle trame perfide ordite dai sommi sacerdoti e dagli scribi («mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi», 14,1) e resa possibile dalla progettata consegna di Giuda («uno dei dodici», 14,10), l’unzione di Betania appare una sorta di racconto pasquale "in miniatura" (14,3-9), una mise en abyme[2] del grande racconto kerygmatico della passione mediante una sorta di "pasqua domestica", nella quale è anticipato ciò che avviene (o non riesce ad avvenire) successivamente: l’unzione del corpo di Gesù crocifisso («voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso!»), di cui non si ha più notizia se non per dire "non è qui"! del grande racconto kerygmatico della passione mediante una sorta di "pasqua domestica", nella quale è anticipato ciò che avviene (o non riesce ad avvenire) successivamente: l'unzione di Gesù crocifisso («voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso!»), di cui non si ha più notizia se non per dire "non è qui"!

L’unzione anticipata del corpo, attraverso il versamento del profumo di nardo preziosissimo, spreco inconcepibile di ciò che è propriamente femminile («con un vasetto di alabastro, pieno di nardo genuino di gran valore», 14,3), opera il ri-conoscimento della preziosità, che non si può non barattare, della donazione del corpo di Gesù: i trecento denari con cui è valutato il gesto/unzione della donna (14,5) è messo a confronto con l’irrisoria "promessa di denaro" fatta a Giuda (14,11). L’unzione della donna di Betania ri-conosce in anticipo il valore incommensurabile del corpo donato di Gesù, ma tale ri-conoscimento presente nel gesto della donna ha bisogno della parola di Gesù per svelarne pienamente significato e valore. Ciò che avviene a livello "episodico" è plasmato da ciò che è "configurato" nel racconto come senso dell’evento!

Il riconoscimento del significato/valore del gesto della donna passa attraverso una crisi narrativa, rappresentata in Marco da quegli "alcuni" che "si sdegnano fra di loro" (14,4) (che in Matteo diventeranno "i discepoli" e in Giovanni si concentreranno nella figura di "Giuda"). Lo sdegno è verbalizzato attraverso la sorda rivendicazione del valore messo in gioco della donna attraverso l’unzione, un prezzo barattato con il "servizio ai poveri": «Perché tutto questo spreco di olio profumato?» (14,4). Prima ancora che il baratto del corpo di Gesù per una promessa di (trenta) denari, il corpo donato di Gesù è messo in alternativa con il servizio ai poveri! La valutazione del valore sprecato, equivalente al salario di un anno di un bracciante palestinese (trecento danari!), accentua ancora di più la perdita inconcepibile della donna. E Marco ribadisce il fatto con l’espressione fortissima: «Ed erano infuriati contro di lei!» (14,5).

L’ostacolo dell’incomprensione da parte di alcuni/i discepoli/Giuda è superato dallo sguardo e dalla parola di Gesù (come per la vedova che aveva gettato due spiccioli nel tesoro del tempio, Mc 12,41-44). Anzitutto Gesù, definisce "opera buona" il gesto della donna: un’opera buona che assume tutto il suo valore nella opposizione temporale che Gesù istituisce tra la "presenza" interminabile dei poveri («sempre infatti i poveri li avete con voi», 14,7a) e l’"assenza" prossima di Gesù («me invece non sempre avete» 14,7b). L’opera buona è indicata nel gesto con cui la donna, seguendo l’intuizione delle sue capacità femminili («ciò che era in suo potere», 14,8), riconosce in anticipo (lo unge in modo sovrabbondante) il corpo di Gesù che sta per essere consegnato e donato.

La donna ha il "potere" di vedere e onorare in anticipo la donazione di sé di Gesù nel gioco delle consegne: il racconto della passione intreccia la consegna appartenente al disegno divino («il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi…» Mc 10,33) e la trama oscura delle azioni umane di tradimento, rinnegamento, abbandono, fuga («Ed egli cercava l’occasione opportuna per consegnarlo» Mc 14,11), collocando in esse l’autoconsegna di Gesù nella cena pasquale, preparata e voluta («Prendete, questo è il mio corpo», Mc 14,12.15.22).

È Gesù però che indica che cosa il gesto misterioso della donna può e opera («In verità io vi dico…»). La parola profetica di Gesù riconosce il gesto presente perché diventi memoria di lei nel racconto futuro e così manifesta insieme l’agire della donna, il suo valore e il suo effetto futuro. La parola rivelatrice, infatti, contiene il riconoscimento del gesto (unzione funeraria), la memoria della donna per ciò che ha fatto (il suo dono di grande valore) e il racconto interminabile e universale ("dovunque" e "in tutto il mondo si racconterà"): riconoscimento, memoria, racconto sono uniti insieme nel vangelo che «sarà annunciato» (il kerygma narrato in modo inarrestabile).

Questi tre aspetti brillano nella parola di Gesù che rivela il senso del gesto della donna, contestato e frainteso dai presenti: sguardo presente, gesto custodito nella memoria e profezia futura appartengono al racconto che annuncia e plasmano un kerygma in forma narrata: questo è nientemeno che il vangelo! Come in tre cerchi concentrici: riconoscimento del corpo donato, memoria del gesto della donna, annuncio narrato a memoria futura, spalancano il racconto per i presenti/lettori/ascoltatori delle generazioni a venire, perché a loro volta riconoscano il corpo, custodiscano la memoria, raccontino come un annuncio "ciò che ella ha fatto!".

Perciò la parola profetica di Gesù si apre e si chiude con due espressioni lapidarie: «Lasciatela stare!» e «in memoria di lei!». Nella donna-chiesa che viene "lasciata essere" la "memoria" del Crocifisso risorto è possibile riconoscere il corpo dato, ma il riconoscimento del corpo donato avviene attraverso la memoria di ciò che ella continua a custodire nel gesto inconcepibile e incommensurabile narrato nel kerygma. Quell’annuncio che nella misteriosa finale reticente del vangelo di Marco (16,8) è frustrato dal timore, silenzio e fuga delle donne che non hanno "potuto" onorare la sua sepoltura perché il Crocifisso è risorto, continua inarrestabile nella donna "lasciata andare" nel "racconto memoriale" del vangelo che riconosce il Risorto nel corpo donato e lo custodisce per sempre. Vangelo come riconoscimento del Risorto e vangelo come memoria del corpo donato del Crocifisso sono da ora e per sempre fusi nel racconto che annuncia (kerygma): dovunque, in tutto il mondo, è possibile riconoscere l’identità di Gesù il Signore!

 

 

Mc 14, 1-11

 

1 Mancavano intanto due giorni alla Pasqua e agli Azzimi e i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di impadronirsi di lui con inganno, per ucciderlo. 2 Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non succeda un tumulto di popolo».

 

3 Gesù si trovava a Betania nella casa di Simone il lebbroso. Mentre stava a mensa, giunse una donna con un vasetto di alabastro, pieno di olio profumato di nardo genuino di gran valore; ruppe il vasetto di alabastro e versò l’unguento sul suo capo. 4 Ci furono alcuni che si sdegnarono fra di loro: «Perché tutto questo spreco di olio profumato? 5 Si poteva benissimo vendere quest’olio a più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei.

6 Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona; 7 i poveri infatti li avete sempre con voi e potete beneficarli quando volete, me invece non mi avete sempre. 8Essa ha fatto ciò ch’era in suo potere, ungendo in anticipo il mio corpo per la sepoltura. 9 In verità vi dico che dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato il vangelo, si racconterà pure in suo ricordo ciò che ella ha fatto».

10 Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai sommi sacerdoti, per consegnare loro Gesù. 11 Quelli all’udirlo si rallegrarono e promisero di dargli denaro. Ed egli cercava l’occasione opportuna per consegnarlo.

 

 

[1] Sull’unzione di Betania: J. Delorme, «Parole, Evangile et Mémoire (Marc 14,3-9)», in D. Marguerat J. Zumstein (edd.), La Mémoire et Le Temps (= Le Monde de la Bible 23), Labor et fides, Génève 1991, 113-125. Cf oltre ai commentari: J. Jeremias, «Die Salbungsgeschichte Mk 14,3-9», ZNW 35 (1936) 75-82; R. Pesch, «Die Salbung Jesu in Bethanien (Mk 14,3-9). Eine Studie zur Passionsgeschichte», inP. Hoffmann N. Brox W. Pesch (Hrsg), Orientierung an Jesus, Herder, Freiburg 1973, 267-285; M. Sabbe, «The Anointing of Jesus in John (12, 1-8) and Its Synoptic Parallels», in F. Van Segbroeck C. M. Tuckett G. van Belle J. Verheyden (edd.), «The Four Gospels» (=BETL C), Peeters, Leuven 1992, vol. III, 2051-2082; Y. Simoens, «L’onction eucharistique et la cène nuptiale selon Mc 14, 1-31», in P. Bovati R. Meynet (curr.), Ouvrir les Ecritures (= Lectio Divina 162), Cerf, Paris 1995, 245-266; in prospettiva narrativa: B. van Iersel, Marco. La lettura e la risposta. Un commento, Queriniana, Brescia 2000 [or. 1998], 376-381; S. Lücking, Mimesis der Verachteten. Eine Studie zur Erzählungsweise von Mk 14,1-11 (= SBS 152), Katholisches Bibelwerk, Stuttgart 1993.

[2] L’espressione mise en abyme proviene dall’araldica e originariamente designa la ripresa miniaturizzata di un blasone al centro di uno scudo. Nell’analisi narrativa è reso anche con "racconto speculare" da L. Dällenbach, Il racconto speculare. Saggio sulla mise en abyme, Pratiche, Parma 1994: «È racconto speculare ogni inserto che intrattiene una relazione di somiglianza con l’opera che lo contiene», una sorta di discorso dell’opera su se stessa, un vangelo sul Vangelo. Convergono su questa identificazione per il nostro testo: J. Delorme, «Parole, Evangile et Mémoire (Marc 14,3-9)», 122; D. Marguerat Y. Bourquin, Per leggere i racconti biblici, Borla, Torino 2001, 113.

 

TRADIZIONE E CULTURA EBRAICA DI FRONTE ALLA FIGURA DI GESU'

Monza, 12 febbraio 2008

 

Prof. Paolo De Benedetti, docente di Giudaismo nella Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale e nelle Università di Urbino e Trento

 

Il tema di questa sera è semplicemente smisurato. Per quanto riguarda il passato mi limiterò a brevissimi cenni; mi soffermerò, invece, di più ad esaminare la cultura ebraica di oggi di fronte alla figura di Gesù.

 

Gesù nella tradizione rabbinica antica

Nella tradizione rabbinica antica Gesù è pressoché ignorato. Il motivo principale è dato dal fatto che dopo la distruzione della città e del Tempio di Gerusalemme ad opera di Adriano il centro della vita e della cultura ebraica superstite si sono trasferite in Babilonia, dove la comunità cristiana era poco presente. In Occidente, invece, sia nella parte romana che in quella bizantina, gli ebrei si trovavano in esigua minoranza ed erano visti sempre con sospetto. Negli scritti e nella tradizione rabbinica quasi mai si fa cenno a Gesù. Il motivo principale è quello della sicurezza. Per un ebreo il semplice nominare Gesù poteva giustificare l’accusa di bestemmia e la punizione con pene gravissime. Ad esempio, in Piemonte, fino all’arrivo della televisione, era in uso (come si verificava anche in altre regioni) un dialetto giudaico-piemontese e in esso il nome di Gesù non veniva mai pronunciato; al suo posto era pronunciato il termine odó, che è una storpiatura dell’ebraico otóh, che significa "quello". Era un residuo della misura prudenziale degli antichi giudei per non "avere guai". D’altra parte a livello popolare circolavano nell’ambiente ebraico "storielle di Gesù" (Toledoth Iesu), irrispettose o apertamente blasfeme, che tuttavia non furono mai accettate nella tradizione rabbinica. Di queste, naturalmente, non ci occupiamo minimamente.

In certe miniature ebraiche il futuro Messia è rappresentato a cavallo di un asino che sale sul monte degli ulivi preceduto da un suonatore di corno, che rappresenta il profeta Elia. E’ una coincidenza molto significativa con la figura e la vita di Gesù.

 

La cultura ebraica contemporanea di fronte a Gesù

Nella Chiesa cattolica la considerazione di "Gesù ebreo" è abbastanza recente. I documenti più importanti sono la costituzione conciliare Nostra aetate e le direttive della Congregazione "Orientamenti" e "Sussidi" per i rapporti con le istituzioni ebraiche. In questi ultimi si ribadisce esplicitamente che "Gesù è ebreo, e lo è per sempre". Anche "Gesù risorto" rimane "ebreo".

All’interesse della Chiesa verso il mondo ebraico corrisponde un uguale (e forse maggiore) interesse da parte ebraica verso la figura di Gesù. Naturalmente non c’erano più i rischi, nell’affrontare il tema, che si potevano correre nei tempi passati. Fin dagli inizi del Novecento compaiono studi approfonditi su questo tema (molto importante quello di Klausner) sia in America che in Europa. In Israele dal 1948 (anno dell’indipendenza) agli anni ’60 erano state pubblicate circa duecento opere su Gesù.

Questa sera vorrei soffermarmi su qualche testimonianza di autori ebrei contemporanei su Gesù. Naturalmente, sono testimonianze che partono dal contesto culturale ebraico caratterizzato da una grande pluralità interpretativa e da una completa assenza di riferimenti a una visione trinitaria di Dio.

Sono parecchi gli studi ebraici sulla figura di Gesù Messia. In questi studi non è raro trovare l’accettazione dei caratteri messianici in Gesù di Nazaret che attendono tuttavia "la conferma della seconda venuta". Non c’è una posizione ufficiale dell’ebraismo (non c’è mai stata) ma sono parecchi i rabbini disposti a riconoscere in Gesù il Messia quando "verrà nella gloria del Padre a giudicare il mondo". Si tratta di studi che hanno dato una svolta alla cristologia cristiana caratterizzata da una concezione di Gesù disincarnata dalle sue radici ebraiche. Uno studio particolarmente importante è Jesus (edito da Querininana) di David Flusser, un docente (recentemente scomparso) dell’università di Gerusalemme, che ho personalmente fatto tradurre e pubblicare, come ho fatto tradurre e pubblicare nella medesima collana Fratello Gesù di Shalom Ben Chorim. Nella prima opera citata la prefazione è opera di Martin Küng, un pastore protestante ginevrino, mio amico, morto prematuramente. Cito da questa prefazione. Parlando dell’espressione "figlio dell’uomo" nella cristologia cristiana, Küng l’accosta a quella "figlio prediletto" della Trasfigurazione e al "figlio unico prediletto", Isacco, destinato a essere sacrificato da Abramo sul monte Moriah. Gesù, quando si sente chiamare "figlio prediletto" dal Padre, acquista coscienza di essere predestinato al sacrificio. La coscienza ebraica si è molto soffermata (e spesso identificata) sulla figura di Gesù sofferente, fino a sentirsi "abbandonato da Dio" nel momento supremo della morte. Flusser lamenta una lettura superficiale della polemica antifarisaica che si riscontra nei Vangeli. Il mondo farisaico non era omogeneo; aveva al suo interno diverse correnti in polemica tra loro. Gli scritti rabbinici sono pieni di queste polemiche antifarisaiche. Venivano catalogate sette categorie di farisei, di cui solo una veniva accettata dalla letteratura talmudica. C’è, ad esempio, il "fariseo delle spalle", che carica i pesi sulle spalle degli altri; c’è il fariseo "dalla testa rotta", che per non guardare le donne cammina sempre a testa in giù e picchia la testa sui muri, e così per altre categorie. La polemica di Gesù viene, quindi, vista all’interno dell’orizzonte farisaico. L’ebreo Gesù, dice Flusser, opera nel contesto ebraico e non intende andare fuori di questo contesto. Anche Paolo conferma questa affermazione (cfr. Lettera ai Galati e Lettera ai Romani) secondo cui Gesù è stato inviato a coloro che erano sotto la legge (mosaica) e segnati dalla circoncisione per confermare le promesse fatte ai padri per mezzo dei profeti.

 

D. Flusser e la passione di Gesù

Per gli ebrei Gesù costituisce un grosso problema non nella sua vita e nella sua morte ma nella sua "resurrezione". Flusser si sofferma molto sulla passione di Gesù. Durante la cena della pasqua ebraica, venivano passati tra i commensali quattro calici, un quinto veniva riservato "per Elia". Quando Gesù dice di non bere più il calice fino a quando "lo berrà nuovo" nel Regno del Padre suo, ritiene Flusser che Gesù abbia passato i primi tre calici dopo aver pronunziato la frase: "Questo è il mio corpo […] questo è il mio sangue", facendo capire che avrebbe completato la "sua Pasqua" nel regno del Padre suo. Il "calice di Elia", per gli ebrei il calice del dolore e dell’amarezza, gli viene offerto nel Getsemani e resiste alla tentazione di rifiutarlo facendo sino in fondo la volontà del Padre, fino alla crocifissione.

Non può essere messo in dubbio, continua Flusser, che il crocifisso sia comparso a Pietro, a Giacomo e ai dodici, a più di cinquecento discepoli e a Paolo sulla via di Damasco. Gesù aveva solennemente detto al sommo sacerdote: "Da questo momento vedrete il figlio dell’uomo sedere alla destra di Dio". I testimoni del risorto praticamente lo confermano e, conclude sempre Flusser (ebreo, non si dimentichi): "Essi sono testimoni degni di fede".

Si pone a questo punto un interrogativo: fino a che punto possono camminare insieme ebrei e cristiani su Gesù? Lapide risponde: "Fino agli ultimi tre giorni prima della morte". Flusser, invece, afferma: "Fino alla resurrezione". La separazione coi cristiani si verifica con la dottrina trinitaria e l’affermazione della divinità di Gesù. Tuttavia, anche in questo campo ci potrebbe essere un punto di contatto, o almeno di riflessione. Nel prologo del Vangelo di Giovanni si afferma che "la Parola si fece carne e pose la tenda [=abitò] fra noi". Il termine "carne" sta ad indicare una "realtà concreta, terrena", mentre la "tenda", in greco skene, contiene le stesse lettere della shekinà predicata da Gesù. Praticamente lo stesso discorso che per ogni ebreo viene fatto a proposito della Torah: Dio presente attraverso la Sua legge la Sua parola, che Giovanni identifica con Gesù "fatto carne". Io penso che una lettura del Vangelo aiutati da Flusser ci aiuti a comprendere Gesù più che un trattato di cristologia.

 

Gli studi di Ben Chorim, Buber e Ben Horim

Vi segnalo anche la seguente opera di Shalom Ben Chorim, Fratello Gesù, edito da Morcelliana. Se volete fare una riflessione più approfondita durante la settimana santa leggete quest’opera. "Nell’ottica storica ebraica dice Ben Chorim la morte di Gesù costituisce un tragico errore e fallimento, che tuttavia non toglie nulla alla sua grandezza, neppure per quanto riguarda l’interpretazione storica ebraica […] Per amore d’Israele Dio talvolta accieca gli occhi dei saggi. Anche Gesù si sbagliò, anche i suoi occhi furono acciecati per amore d’Israele", perché sperava di essere accolto diversamente. Egli, sempre secondo Ben Chorim, acquista piena coscienza di sé e della sua missione nel battesimo di Giovanni, quando si aprono i cieli e viene consacrato "Figlio prediletto" dalla voce del Padre. La grandezza di Gesù non sta nella sua critica ad una certa morale farisaica, quanto nell’aver avvertito l’esigenza di un profondo mutamento nella spiritualità giudaica, una nuova sensibilità nella lettura della legge mosaica. Secondo questo e altri studiosi ebrei, Gesù fa operare un salto in avanti nell’interpretazione della legge e dei profeti, inserendosi così in una tradizione tipicamente ebraica di continuo aggiornamento interpretativo.

Anche Ben Chorim sottolinea che la polemica antifarisaica non è una controversia fra cristiani ed ebrei ma una polemica all’interno del mondo ebraico tra correnti diverse del fariseismo e delle varie sette: fra farisei, sadducei, zeloti, esseni e quelli che si chiameranno cristiani. Di tutti questi sopravvivranno i farisei, che daranno origine al giudaismo rabbinico, e i cristiani, che ricevono dal fariseismo la fede nell’immortalità e nella "vita eterna", nella "tradizione orale", nell’uguaglianza di tutti gli uomini e nella "parola più che nei sacrifici". I cristiani sono ebrei che hanno creduto in Gesù, investito dal Padre della missione messianica nel battesimo per opera di Giovanni (che deve essere considerato il "maestro di Gesù"), sepolto e "risorto" (Flusser), .

Osserva Martin Buber che l’insegnamento di Gesù si esprime in maniera piena e autentica nel "discorso della montagna" come voce divina, umana e "fraterna" e poi nelle parabole. Tra queste cita quella volgarmente indicata del "figliol prodigo", variamente interpretata nei diversi periodi: ad esempio, fratello maggiore=sinagoga, fratello minore=Gesù e chiesa dei pagani. Gesù viene visto come il figlio che si è allontanato da Israele e che viene atteso a braccia aperte.

Passando ad un’altra riflessione sulla figura di Gesù, vi suggerisco un altro piccolo volume scritto da Miriam Ben Horim: Verso l’uno, EDB, che presenta una meditazione approfondita della Passione di Gesù. Il Getsemani costituisce la vera fine di Gesù. Il Vangelo viene presentato come uno spazio di "incontro con Gesù". Sono pagine che insegnano qualcosa anche ai cristiani: "Ebrei e cristiani possono camminare insieme fino al venerdì santo, ma io penso che possano camminare insieme fino al lunedì di Pasqua, accettando la resurrezione anche da un punto di vista giudaico […] perché Gesù non è stato abbandonato da Dio […] quasi a confutazione del grido di Gesù sulla croce: "Mio Dio, perché mi hai abbandonato?".

 

CONCLUSIONE

Concludo la mia riflessione su queste citazioni con queste finalità:

- considerarle come un aiuto a ricostruire la figura di Gesù in maniera più approfondita come "fratello" al di là della stessa cristologia dogmatica;

- superare quella specie di anti-giudaismo che considera quasi un secondo peccato originale l’ebraismo, dimenticando che Dio ha fatto la prima promessa ad Israele, eletto come "suo popolo" e Dio "non si pente" della sua promessa. Israele è il popolo eletto da Dio e "lo è per sempre".*

BIBLIOGRAFIA

 

David Flusser, Jesus, ed. Morcelliana.

Shalom Ben Chorim, Fratello Gesù, ed. Morcelliana.

Pinchas Lapide-Jurgen Moltmann, Monoteismo ebraico, ed. Queriniana.

Miriam Ben Horim, Verso l’uno, EDB.

 

GESÚ NELLA LETTERATURA ISLAMICA POST-CORANICA

 

Monza, 19 febbraio 2008

 

Prof. Paolo Branca, docente di Islamistica all'Università Cattolica di Milano

 

Premessa

Parlare del profondo rapporto di continuità che sussiste fra islam e tradizione guidaico-cristiana, coi tempi che corrono, potrebbe sembrare strano e persino provocatorio. Eppure le tre grandi religiosi monoteistiche che si rifanno ad Abramo sono strettamente correlate tra loro, al punto che non sarebbe possibile comprendere molti passi del Corano senza avere una buona conoscenza non solo della Bibbia, ma più in generale della letteratura fiorita attorno ad essa. Del resto, è lo stesso Testo Sacro dell’islam a suggerire di far ricorso alle precedenti rivelazioni per chiarire eventuali incertezze: "E se tu sei in dubbio su qualcosa che ti abbiam rivelato, domandane a quelli che leggono la Scrittura antica" (10, 94); "... e domandatene, se non lo sapete, a quelli che prima ricevettero il Mònito" (16, 43). Così come anche un detto risalente al Profeta afferma che non c’è nulla di male nel rifarsi alle tradizioni dei figli di Israele ed è noto il ruolo avuto da alcuni convertiti di origine ebraica nella diffusione di tradizioni extra-canoniche sui profeti biblici. Il naturale desiderio di conoscere maggiori particolari circa le grandi figure del passato, cui il Corano si limita a far cenno, sta certamente alla base della fortuna di un intero genere letterario conosciuto col nome di Qisas al-anbiyâ’(Storie dei profeti), ma talvolta non ci troviamo di fronte soltanto a tale legittima aspirazione. Lo stile allusivo del Testo Sacro dell’islam fa supporre che talune vicende fossero ben presenti ai suoi destinatari, tanto da consentire alla "rivelazione" di richiamarle per sommi capi, persino saltando passaggi logici indispensabili alla consequenzialità della narrazione. Un esempio lampante è il modo in cui viene riproposto un celebre episodio della vita del re Davide: "Ti giunse mai notizia dei litiganti, quando scalaron il muro della sua stanza privata, / quando entrarono da David ed egli n'ebbe spavento e gli dissero: ‘Non temere! Siam due litiganti di cui l'uno all'altro fe' torto; or tu giudica fra noi secondo verità: non essere ingiusto e guidaci su via piana. / Or costui è mio fratello e aveva novantanove pecore e io una pecora sola e mi disse: ‘Affidala a me!’ e mi soverchiò nella disputa’. / Disse David: ‘Ei t'ha fatto ingiustizia chiedendoti la tua pecora per aggiungerla alle sue, e davvero molti associati in un affare si fanno torto gli uni con gli altri, eccetto coloro che credono e operano il bene, ma quanto son pochi!’ Ma s'avvide David che Noi l'avevam messo alla prova e chiese perdono al Suo Signore e cadde a terra prostrato, e si volse a Dio di nuovo" (38, 21-24). E’ evidente che soltanto chi abbia presente la storia del marito di Betsabea che fu inviato in prima linea da Davide affinché morisse e il re potesse così sposarne la vedova potrà comprendere la ragione del pentimento e della richiesta di perdono che chiude il racconto. Potremmo trovare altri esempi analoghi, ma quel che qui ci preme qui sottolineare è come, nell’epoca della globalizzazione - in cui un numero potenzialmente infinito d’informazioni dovrebbero essere a disposizione di tutti - e mentre i figli delle differenti tradizioni religiose si stanno sempre più trovando a convivere gli uni accanto agli altri, ben poche siano le iniziative che prendono le mosse da questo e altri simili presupposti, al fine di valorizzare gli spunti positivi di conoscenza e di rispetto reciproco che come si vede non mancano, piuttosto che attardarsi a ripercorrere le ben note e sciagurate vie che nel corso del tempo ci hanno portati ad ignorarci, disprezzarci e combatterci a vicenda.

Il ‘mistero’ di Cristo nell’islam

Tra i più grandi ‘profeti’ inviati da Dio all’umanità il Corano annovera anche Gesù (in arabo ‘Îsâ, che i cristiani arabofoni chiamano invece Yasû‘). E’ definito nel Corano "servo di Dio", "Spirito" da Lui proveniente, Suo "Verbo" nato dalla vergine Maria. Secondo i musulmani è l’ultimo ‘inviato’ di Dio precedente a Maometto ed è il più citato, dopo Mosè, nel Corano che gli attribuisce numerosi miracoli: come nei Vangeli apocrifi, ancora in fasce parla per difendere la madre dai calunniatori, guarisce gli infermi, ridona la vita ai morti, fa scendere sugli apostoli una tavola imbandita dal cielo (forse una interpretazione particolare dell’eucarestia)... sempre "col permesso di Dio", in quanto è soltanto l’Onnipotente che può operare miracoli, mentre i Suoi inviati sono semplicemente uomini, per quanto straordinari. Viene rifiutato quindi il dogma dell’incarnazione, così come quello della Trinità, concetto però poco chiaro nel Corano, dove sembra che sia Maria la terza figura venerata dai cristiani, dopo il Padre e il Figlio. Dice infatti il Corano: "O Gesù figlio di Maria! Sei tu che hai detto agli uomini: ‘Prendete me e mia madre come dèi oltre a Dio"?’ E rispose Gesù: ‘Gloria a Te! Come mai potrei dire ciò che non ho il diritto di dire? Se lo avessi detto Tu lo avresti saputo: Tu conosci ciò ch'è nell'intimo mio, e io non conosco ciò che è nell'intimo Tuo. Tu solo sei il fondo conoscitor degli arcani! / Io non dissi loro se non quello che Tu mi ordinasti di dire, cioè: ‘Adorate Iddio, mio Signore e Signor vostro’ e fui testimone contro di loro finché fui tra loro e, quando Tu mi chiamasti a Te, restasti Tu allora a spiarli, poiché Tu osservi ogni cosa." (5, 116-117). Si nega, inoltre, che sia stato crocifisso, essendo stato miracolosamente sostituito da un sosia che, secondo alcuni, sarebbe stato lo stesso Giuda, in tal modo punito per il suo tradimento. Gesù non sarebbe morto, ma asceso al cielo, per tornare nel mondo in futuro, all’approssimarsi della fine del mondo, quando sconfesserà quanti l’hanno voluto indebitamente divinizzare. La sua funzione messianica è dunque duplice: Messia rifiutato dagli ebrei, ma anche Mahdî, l’atteso dai musulmani sunniti (gli sciiti pensano che sarà invece uno dei loro imam) per la fine dei tempi. Sua madre Maria, in arabo Maryam, è l’unica donna che sia nominata nel Corano, mentre nessuno dei nomi delle mogli o delle figlie di Maometto vi compare né viene riportato alcun altro nome femminile. A lei è dedicata un’intera sura, la XII. La storia che vi è raccontata riguarda l’annunciazione e la natività di Gesù, ancora una volta con toni e particolari molto simili a quelli dei Vangeli apocrifi, ma si rifiuta chiaramente l'idea che Cristo fosse "figlio di Dio" poiché: "tutti coloro che sono nei cieli e sulla terra, tutti s'accostano al Misericordioso come servi al Signore" (19, 93). Consacrata dalla madre a Dio ancor prima della sua nascita, Maria fu destinata al servizio nel Tempio ove riceveva miracolosamente il cibo dal Signore. Avuto da un angelo l’annuncio del concepimento di Gesù, che diede alla luce, restò tuttavia vergine e come tale è ricordata e venerata dai musulmani, i quali tra l’altro credono che solo due esseri umani siano nati senza il "segno di Satana" (da non confondersi però col peccato originale): Maria e suo figlio, cosa che invece non sarebbe successa neppure a Maometto.

L’evoluzione post-coranica ‘classica’

Oltre al Corano, com’è noto, gli insegnamenti fondamentali dell’islam sono raccolti nella Sunna, o tradizione del Profeta e dei suoi compagni. Molti di questi ‘detti’ riguardano Gesù, ma sono solamente quelli che ne definiscono il ruolo escatologico ad essere stati ritenuti nelle raccolte ufficiali. Gli altri, più legati alla sua predicazione e alla sua attività taumaturgica, sopravvivono in opere devozionali che risalgono già alla fine dell’VIII secolo. Vi figurano soprattutto echi del Vangelo di Matteo: "Voi siete il sale della terra" (5, 13), "Guardate agli uccelli del cielo" (6, 26), "Quando digiuni, ungiti il capo" (6, 17), "Non sappia la destra ciò che fa la sinistra" (6, 3), "Accumulate tesori nel Cielo" (6, 19), "Imparate da me che sono mite ed umile di cuore" (12, 29); e di Luca "Beato il grembo che ti ha concepito" (11, 27-28).

E’ purtroppo un fatto innegabile, tuttavia, che la letteratura islamica successiva abbia piuttosto sviluppato temi apologetici e polemici nei quali si insistite soprattutto sulle differenze tra il Gesù coranico e quello dei Vangeli. Se in un primo tempo, infatti, era prevalsa l’esigenza di porre il messaggio dell’islam in continuità con le precedenti rivelazioni ebraica e cristiana in chiave anti-pagana, con l’espansione della nuova fede in terre di antica cristianizzazione fu inevitabile che i musulmani si concepissero soprattutto come alternativi piuttosto che come eredi delle altre due fedi monoteistiche che si rifanno ad Abramo.

Innumerevoli sono gli autori che si sono impegnati in tal senso: già ‘Alî ibn Sahl ibn Rabbân al-Tabarî (m. 855) in una confutazione del cristianesimo illustrava i punti essenziali del contenzioso islamo-cristiano (monoteismo imperfetto dovuto alla Trinità, impossibilità che Dio possa soffrire e morire, se era uomo come poteva essere anche Dio?…) ripresi poi da al-Jâhiz (m. 869), Ibn al-Munajjim (m. 888), Abû ‘Isâ al-Warrâq (m. 909), ‘Abd al-Jabbâr (m. 1025), Ibn Hazm (m. 1064), al-Juwaynî (m. 1085), al-Ghazâlî (m. 1111) e Ibn Taymiyya (m. 1328), per citarne solo alcuni tra i più noti e influenti.

Accanto a questa letteratura per così dire dottrinale, ne esiste un’altra di tipo più spirituale quella dei sufi o mistici dell’islam nella quale è possibile riscontrare spesso una sorta di fascinazione che la figura di Gesù ha esercitato su molti autori musulmani, il che li condusse a spingersi ben oltre quanto il credo islamico strettamente inteso sembrerebbe consentire e a farne un prototipo dell’ascetismo: "l’immagine più tipica del Gesù islamico dice che egli era a tal punto distaccato dalle cose del mondo che con sé portava soltanto una brocca e un pettine. Ma, un giorno, vedendo una persona che beveva con il palmo della mano, gettò via la brocca (che ormai considerava un lusso). Allo stesso modo, in un’altra occasione, vide uno che si pettinava i capelli usando le dita delle mani, e così buttò anche il pettine".

Tra i sufi, quello che si può accostare maggiormente a Gesù, è stato al-Hallâj (m. 922): "considerato universalmente dall’agiografia musulmana come il ‘santo cristico’ per eccellenza, colui che meglio ha rappresentato le virtù di Gesù (l’estraneità e il distacco dalle cose di questo mondo, fino all’accettazione del martirio)".

Non è certamente per caso se questi "sfondamenti" rispetto alla, del resto sempre molto sobria, dogmatica islamica a proposito di Gesù si siano verificati principalmente presso autori di profonda spiritualità. Le religioni che, come quella musulmana, hanno enfatizzato il proprio sistema giuridico, tanto da poter essere definite più ortoprassi che ortodossie, spesso esprimono i loro slanci maggiormente vitali nella mistica…

Ecco alcuni tra i versi di al-Hallâj maggiormente significativi a riguardo:

Sì, va’ ad avvertire i miei amici che io

Sono andato per mare e la nave s’è infranta.

Religione di croce sarà la mia morte,

più non voglio la Mecca, e neppure Medina.

.

Egli venne infatti processato e crocefisso per essersi spinto troppo in là nel fare esperienza di Dio e nel predicare per tutti tale via di superamento del tradizionale legalismo musulmano.

Voci recenti, tra neo-controversistica e reinterpretazione

Non pochi sono gli autori moderni che hanno largamente ripreso i temi classici della polemica anticristiana, prendendosela particolarmente con S. Paolo, accusato di essere stato il grande ‘falsificatore’ dell’originale dottrina proclamata da Cristo, e pretendendo di aver rintracciato il vero Vangelo in un testo tardo e apocrifo attribuito a Barnaba.

Nella letteratura profana, tuttavia, si è contemporaneamente potuto registrare qualcosa di analogo a quanto già rilevato presso i sufi nel periodo classico, addirittura con ulteriori modalità di avvicinamento agli aspetti più problematici della figura di Cristo così come concepita nella dottrina islamica.

Il poeta iracheno Badr Shâkir al-Sayyâb (m. 1964) non ha esitato a ricorrere esplicitamente alla figura del Crocifisso:

Quando mi ebbero deposto, udii il vento

A lungo gemere sfiorando i palmeti,

e i passi allontanarsi.

Le mie ferite

E la croce dove sono rimasto appeso fino a sera

Non mi avevano dunque ucciso.

Ero all’inizio, e al principio era il povero.

Sono morto perché si mangi il pane nel mio nome,

per essere seminato nella stagione giusta.

Quante vite vivrò! Al fondo di ogni vuoto,

eccomi divenuto futuro e semente,

generazioni di uomini:

in ogni cuore scorre il mio sangue,

o almeno qualche goccia…

Quando mi ebbero inchiodato,

quando ebbi gettato uno sguardo sulla città,

lì per lì facevo fatica a riconoscere la pianura, il muro, il cimitero:

a perdita d’occhio, qualcosa

come una foresta in fiore;

da ogni parte una croce piantata e una madre in lacrime.

Il Signore sia lodato!

E’ il parto della città.

.

Alcuni poeti palestinesi si sono particolarmente distinti in questo recupero della figura di Gesù perseguitato e iniquamente condannato nel quale hanno voluto riconoscere il dramma delloro popolo. Ma non mancano anche numerosi prosatori che si sono accostati in maniera originale a Cristo, tra di essi ci limitiamo a ricordare il premio Nobel per la Letteratura egiziano Naghib Mahfuz (m. 2006).

Conclusione

Non ci pare azzardato, per terminare, rilevare che la figura di Gesù abbia rappresentato e continui a costituire una sfida alla comprensione dei musulmani. Seppure non riconoscono la sua natura divina, non ci sembra una forzatura dire che per molti versi Egli sia stato e sia per loro qualcosa di più che un "profeta", nettamente distinto dagli altri compreso lo stesso Maometto su punti non certo marginali o secondari. Non possiamo che rallegrarcene e trovare in questo una premessa sulla quale costruire con loro un rapporto di rispetto e di stima reciproca.

Tuttavia, per onestà, non possiamo esimerci dal rilevare che dietro la parvenza di denominazioni simili radicali e irriducibili differenze permangono.

Natura e funzioni del "profeta" in ambito islamico si adattano ben riduttivamente alla figura del Cristo. Per converso, sarebbe un’indebita pretesa che noi si debba riconoscere a Maometto la qualifica di profeta.

Non si tratta di chiusure preconcette, né tantomeno di mancanza di cortesia. Se lasciassimo intendere ai nostri interlocutori musulmani che al termine ‘profeta’ noi diamo il medesimo senso che gli viene attribuito nella loro tradizione, non saremmo gentili, ma ci presteremmo a un inganno basato su un disonesto uso delle parole.

Profeti che abbiano ricevuto alla lettera una rivelazione divina, trasmettendola senza che nulla della loro identità umana e storica vi sia rimasto impresso, non appartengono alla nostra concezione. Men che meno Gesù, il quale era sì intimo al Padre, ma le cui parole ci sono state trasmesse in quattro Vangeli che in nessun modo pretendono di essere tutto e solo quello che è uscito dalla sua bocca. Neppure la lingua in cui sono redatti è quella parlata da Colui di cui, invece, con parole umane ma divinamente ispirate, altri uomini ci parlano e ci rendono testimonianza.

Pubblicato nella rivista Communio n. 213/2007, pp. 49-56.

 

[1] Cfr. R. Tottoli, I profeti biblici nella tradizione islamica, Paideia, Brescia 1999.

[2] Cfr. A. Schleifer, Mary. The Blessed Virgin of Islam, Fons Vitae, Louisville 1997; M. Dousse, Maria la musulmana. Importanza e significato della madre del Messia nel Corano, Arkeios, Roma 2006.

[3] Cfr. T. Khalidi, The Muslim Jesus. Sayings and Stories in Islamic Literature, Harvard Univ. Press, 2001. Gli studi classici in materia sono quelli di Miguel Asín Palacios, Logia et agrapha Dni. Jesu apud Moslemicos scriptores, in "Patrologia Orientalis" XIII, 3 (1916), XIX, 4 (1926).

[4] Cfr. J.M. Gaudeul, Disputes? Ou rencontres ? L’islam et le chriatianisme au fil des siècles, Pisai, Roma 1998, 2 vols.

[5] A. Ventura, Il crocifisso dell’islam. Al-Hallaj, storia di un martire del IX secolo. A cura di G. Caramore, Mocelliana, Brescia 2000, p. 27. Lo studio più approfondito in materia resta quello di L. Massignon, La Passion de Husayn Ibn Mansûr Hallâj. Martyr mystique de l’Islam exécuté à Baghdad le 26 mars 922, Gallimard, Parigi 1990, 4 vols.

[6] Ibid. p. 28.

[7] Ibid. p. 85.

[8] P.S. Van Köningsveld, The Islamic image of Paul and the origin of the Gospel of Barnabas, in "Jerusalem Studies in Arabic and Islam", 20/1997.

[9] Cit. in M. Borrmans, Gesù Cristo e i musulmani del XX secolo, San Paolo, Cinisello Balsamo 2000, pp. 234-236, il volume riporta molte altre testimonianze che ci è impossibile citare qui per motivi di spazio.

[10] Cfr. N. Mahfuz, Il rione dei ragazzi, Marietti, Genova 1991.

[11] Cfr. C. Troll, Maometto,profeta anche per i cristiani?, in "La Civiltà Cattolica" 3766 (19 maggio 2007) pp. 339-353.

 

UNO STUDIOSO EBREO LEGGE IL VANGELO

Monza, 5 febbraio 2008

 

Prof. Stefano Levi Della Torre, docente alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano e studioso di cultura ebraica.

 

Premetto al mio intervento che sono un ebreo per nascita e per cultura e un non credente dal punto di vista religioso.

"Imprudentemente" ho accettato, a suo tempo, di trattare un tema così impegnativo, tuttavia cercherò di affrontarlo come meglio posso da un punto di vista "laico".

Una critica che da laico faccio alla religione, a tutte le religioni, è quella non di essere "metafisiche" ma di essere "troppo poco metafisiche" dinanzi al mistero dell’esistente. La scienza ci può dire il "come" dell’esistente ma non il "perché". E’ questo l’orizzonte proprio della religione, che tuttavia mi sembra oggi un po’ trascurato.

Altro motivo di critica è il fatto che la religione, invece di essere un elemento unificante, sia diventata una giustificazione per divisioni, violenze, attraverso una chiusura di tipo "narcisistico" o nazionalistico, che spesso sfocia nel fondamentalismo. Tuttavia, bisogna riconoscere che si riscontrano nelle religioni movimenti di apertura e di dialogo di segno completamente contrario, che la critica accoglie e incoraggia in maniera decisamente positiva.

 

b)"Ebraizzazione" e "incarnazione" di Gesù

Tornando al nostro tema, si può notare come l’attenzione critica verso la figura e il messaggio di Gesù si sia sempre più accentuata e aggiornata in questi ultimi tempi. Anch’io cercherò, questa sera, di inserirmi in questa corrente, notando come nel mondo ebraico lo studio della figura di Gesù abbia registrato notevoli progressi, soprattutto dopo che nella Chiesa cattolica col Concilio Vaticano II e coi successivi documenti si è proclamato in maniera chiara che "Gesù è ebreo ed è ebreo per sempre". E’ stata questa una svolta storica nella cristologia cattolica, che per duemila anni aveva quasi "de-ebraizzato" Gesù. Il Concilio Vaticano II ha decisamente invertito la visione cristologica nei rapporti con l’ebraismo, che fino ad allora aveva teso a "disincarnare" la figura di Gesù dalla sua radice ebraica. Un percorso analogo di "disincarnazione" è stato effettuato nei confronti di Maria, la madre di Gesù, specialmente attraverso il dogma della Immacolata Concezione, che la sottrae alla normale condizione di ogni donna. Sembra che ci sia, da parte cristiana, una certa "paura della carne", che Gesù sente, per esempio, al Getsemani, quando dice: "Se possibile, allontana da me questo calice", o sulla croce, quando grida: "Dio mio, perché mi hai abbandonato?". In un quadro del Caravaggio, recentemente recuperato, viene raffigurata tutta la sofferenza del Cristo nel subire il bacio del tradimento di Giuda come rappresentazione della sofferenza della carne. Purtroppo, temo è forse solo una mia impressione che in questi ultimi tempi si stia perdendo il senso di questa inversione della cristologia operata dal Concilio Vaticano II.

INCOERENZE E CONTRADDIZIONI: PROBLEMATIZZARE LE SACRE SCRITTURE

a) "Annunciazioni" e altri paradossi

Il Nuovo Testamento comincia con una "Annunciazione". Il Primo Testamento presenta numerose "annunciazioni", molte delle quali legate alla sterilità delle donne: quella di Sara nei confronti di Abramo, di Rachele nei confronti di Giacobbe, della madre di Sansone, di Anna, madre di Samuele, la donna dalla "preghiera silenziosa" che viene rimproverata come "ubriaca" dal sacerdote del Tempio. In queste (e altre) "annunciazioni" è sempre presente la figura di un angelo, così come avviene per Maria, la madre di Gesù, alla quale viene annunciato un concepimento e una nascita assolutamente al di fuori della "normalità". Sono le pagine "imbarazzanti" dei testi sacri. Ce ne sono moltissime nei due Testamenti. Prendendole in esame, con particolare attenzione, notiamo pagine e affermazioni che suonano come "pugni nello stomaco" o, almeno apparentemente, in aperta contraddizione fra loro. Così, ad esempio, nel libro dell’ Esodo, da una parte Dio dà a Mosè i comandamenti, tra cui "non uccidere" e immediatamente dopo ordina di uccidere a migliaia quelli che avevano adorato il vitello d’oro.

Nel Vangelo sono molte le pagine che presentano queste "contraddizioni". Prendiamo la parabola degli "operai a "giornata". Tutti sono compensati con il medesimo salario (un denaro) sia che abbiano lavorato dieci ore o solo un’ora. E’, chiaramente, un criterio "ingiusto". I sindacati avrebbero qualcosa da contestare. Osservazioni analoghe si potrebbero fare alla conclusione della parabola del "figliol prodigo", per il quale viene fatta festa e sacrificato il vitello grasso. Per un simile uomo che era andato "fuori da Israele", aveva dissipato il patrimonio con "le prostitute" e passato gli ultimi tempi come "servo" e (il colmo) a "pascolare porci", fare festa suona come uno schiaffo alla legge. Naturalmente, c’è il rovescio della medaglia: il pentimento, la conversione, la "teshuvà", il ritorno dal peccato alla casa del Padre. E’ quanto si è verificato nella vita di molti santi (ad esempio, Agostino, Francesco, ecc.) che attraverso la "conversione" sono diventati testimoni del Regno di Dio, realizzando così una vocazione messianica. Qui si impone una riflessione sulla "stirpe messianica". Essa nasce dall’incesto delle due figlie di Lot, che ubriacano il padre e rimangono incinte da lui in maniera da poter riprendere la vita dopo la distruzione di Sodoma. Altro incesto nella "stirpe messianica" è quello di Tamara e il suocero e, poi, la "contaminazione" verificatasi con la venuta di Rut, la moabita progenitrice di Davide. E, infine, lo stesso Gesù è concepito in Galilea, paese popolato da "gentili" ("Galilea delle genti", secondo Isaia). La missione del Messia è universale e, quindi, deve "conoscere il male". "Non hanno bisogno del medico i sassi ma gli ammalati", dirà a suo tempo Gesù a chi gli rimproverava i suoi contatti con i pubblicani e i peccatori. E’ sempre la logica della "conversione" che giustifica la conclusione delle parabole paradossali - della "pecorella smarrita" rispetto alle novantanove dell’ovile, del figlio dissoluto rispetto al fratello rimasto fedele accanto al padre -, che altrimenti non avrebbero alcun senso. I novantanove giusti e il figlio fedele e obbediente non perdono niente ad accogliere con gioia il peccatore che si pente e "si converte" a Dio.

Allo stesso modo, quando i discepoli si lamentano che si sia "sprecata" una somma considerevole per l’unguento sparso dalla "peccatrice" sul capo di Gesù, il Maestro risponde che ella lo sta preparando "per la sepoltura", ormai imminente, mentre i "poveri dice - li avrete sempre con voi". La logica degli apostoli, in sé ragionevole e giusta, deve cedere il passo ad una logica eccezionale, di cui sono piene le pagine del Nuovo Testamento.

Queste brevi considerazioni ci presentano i vangeli in una luce problematica, per cui niente può essere dato per "scontato" e "ovvio". Le ragioni dei discepoli, che possono essere le nostre, spesso si scontrano con le ragioni e le risposte di Gesù e trovano la soluzione e la sintesi su un altro livello in un processo dinamico sempre in divenire. E’ questa la mia chiave di lettura dei vangeli, che comporta un processo conoscitivo, anche critico, ma pure un momento decisionale operativo. I due momenti non sempre convergono, spesso, anzi, configgono tra loro.

Un personaggio che mi è particolarmente simpatico è Pietro, spontaneo, un po’ pasticcione, che tradisce, si pente, è rimproverato per la sua "poca fede", eppure è a lui che Gesù dice: "Su te edificherò la mia Chiesa". Parole paradossali. Interessante anche la disputa tra Pietro e Paolo ad Antiochia sulla condotta di Pietro alquanto ambigua tra giudei e gentili e che viene decisamente condannata da Paolo.

Altro aspetto paradossale delle pagine evangeliche è l’insegnamento di Gesù sul "perdono" delle colpe. Da una parte viene comandato di perdonare "settanta volte sette", cioè sempre, e dall’altra viene proclamata l’eternità delle pene dopo il "giudizio definitivo", che dividerà per l’eternità giusti e peccatori (pecore e capri). Ci troviamo davanti ad una contraddizione insanabile. Non si può eliminare nessuno dei due termini: il Cristo giudice è lo stesso che perdona e viceversa.

Al riguardo, si nota nel Vangelo la stessa logica che viene presentata nel Primo Testamento (Deuteronomio.30) tra benedizione per il giusto che osserva la legge e maledizione per chi la calpesta. Le pagine che presentano il giudizio ultimo che chiude la storia umana ribadiscono su scala universale quanto era stato scritto per il popolo d’Israele. In questa pagina faccio notare la distinzione tra la "destra", il lato dei giusti, e la "sinistra", il lato dei dannati. Nella tradizione ebraica destra e sinistra stanno fra loro come "ragione" e "torto", oppure come "ragioni contrapposte". Tale contrapposizione si nota nel detto di Gesù: "Se qualcuno ti percuote la guancia destra, tu offrigli anche la sinistra", che potrebbe essere letto: "Se qualcuno contraddice le tue ragioni, offrigli la possibilità di spiegargli i suoi torti". E’ quanto Gesù conferma nel processo al Sinedrio nei confronti del soldato che lo schiaffeggia: "Se ho torto dimostramelo". Non si tratta di essere remissivi e "buonisti" ma razionali, disposti a discutere su torti e ragioni. Questa è la mia interpretazione sia sul perdono ("settanta volte sette"), sia sulla "remissività" ("porgi l’altra guancia"), secondo il messaggio di Gesù nel Vangelo. Analogamente, sull’altro passo: "Non giudicate se non volete essere giudicati perché, nella stessa misura che avrete giudicato, sarete giudicati anche voi", e sull’altro ancora: "Togli prima la trave dal tuo occhio e poi il bruscolo dall’occhio del fratello". Gesù non proibisce di giudicare o di togliere il bruscolo dall’occhio del fratello ma di mettersi prima in condizione idonea di farlo in modo razionale e giusto, cominciando da sé stessi in maniera rigorosa.

b) I rapporti con la famiglia.

Quello dei rapporti con la famiglia è’ un capitolo che nella vita di Gesù suscita qualche perplessità. Quando viene detto a Gesù: "Ci sono tua madre e i tuoi fratelli che ti cercano", risponde, indicando i discepoli: "Ecco mia madre e i miei fratelli." (Mc. 3.32). E’ una risposta abbastanza dura e inconsueta, specie in ambiente "mediterraneo", che sottolinea il primato del regno di Dio sui legami famigliari. Ancora più duro è il passo in cui Gesù afferma: "Non crediate che sia venuto a portare la pace. Non sono venuto a portare la pace ma la spada; sono venuto a separare il figlio dal padre e la figlia dalla madre". (Mt. 10, 34 e s.). Sembra un attacco alla famiglia e al comandamento che ordina di rispettare il padre e la madre. Tuttavia, a ben riflettere, è un passo che si collega all’episodio del vitello d’oro nel primo Testamento (Es. 32): Mosè ordina di uccidere amici e parenti che hanno violato la legge del Signore. "In quel giorno caddero ventitremila uomini" (Es. 32, 28). I due passi in parallelo affermano il primato dell’osservanza della "volontà di Dio".

Oggi, si parla molto della famiglia, dei legami di sangue; occorre tenere presenti anche questi passi per una giusta valutazione, anche nella redazione di documenti istituzionali riguardanti la famiglia.

Altro passo che determina un "corto circuito" è dato dalla risposta di Gesù al giovane che lo vuole seguire e che gli chiede di dargli il tempo di "seppellire il padre", "Lascia che i morti seppelliscano i morti". E’ in aperta contraddizione col quarto comandamento. Sono tutte domande che rivolgo a voi come cristiani.

Una domanda ancora che vi pongo riguarda l’espressione "Santo Padre" rivolta al Papa. Nel Vangelo viene detto chiaramente: "Uno solo è buono (= santo), il Padre" e poi: "Non chiamate nessuno "padre" perché uno solo è il Padre" (Mt. 23,9). Mi stupisce che il massimo rappresentante del messaggio di Gesù contraddica affermazioni e comandi espliciti dello stesso Gesù.

Un nuovo interrogativo è suscitato da un’espressione di Paolo, che nella Lettera ai Romani presenta Gesù come figlio di Davide "secondo la carne e figlio di Dio secondo lo Spirito" (Rom. 1,3), che, confrontata con la genealogia di Matteo, ci fa vedere come sia Giuseppe discendente di Davide, per cui si dovrebbe concludere che Paolo non fosse a conoscenza della maternità verginale di Maria.

Nel battesimo di Gesù al Giordano la voce del Padre lo proclama "suo Figlio". Si potrebbe intendere come un’adozione "spirituale" a figlio di Gesù. Forse Paolo dà poca importanza alla "nascita" di Gesù, mentre per lui è fondamentale la morte e la resurrezione. Egli predica "il risorto": il resto della vita di Gesù non viene menzionato. Per Paolo il fondamento della fede è la resurrezione di Gesù. Tutto ruota intorno a questo evento. Anche questo è un interrogativo che lascio alla vostra riflessione.

Nel documento Nostra aetate del Concilio Vaticano II si fa esplicito riferimento all’origine ebraica di Gesù e al popolo ebraico che conserva le promesse, la legge, le profezie date da Dio come a suo popolo prescelto a suo testimone tra le genti. "Da esso proviene il Cristo secondo la carne, figlio di Maria Vergine". Ma "secondo la carne" il Vangelo presenta Giuseppe, non Maria. Mi sembra che ci sia stata una certa superficialità nella formulazione.

Altro aspetto da considerare: l’interiorizzazione della promessa (Deut. 10, 16): "circoncidete il vostro cuore" e altrove "Il Signore tuo Dio circonciderà il vostro cuore" (Deut. 30, 6); e Geremia: "Porrò la mia legge dentro di loro". Viene posta in evidenza sia l’iniziativa umana "circoncidete il vostro cuore"-, sia l’iniziativa divina: "Io circonciderò il vostro cuore", che s’incontrano nell’opera di conversione. Questo aspetto si trova nella predicazione di Gesù che viene centrata sulla valorizzazione della persona umana. Nel regno di Dio non avranno valore i legami famigliari: basti pensare al caso presentato ai farisei della donna dai sette mariti. Nel regno di Dio essa non sarà moglie di nessuno, sarà solo sé stessa. Io che non credo nell’immortalità trovo questa affermazione semplicemente meravigliosa. Ogni persona per Gesù vale "per sé stessa".

Un’osservazione a margine: in questo caso, come in quello della donna Cananea che insiste per la guarigione della figlia, si nota come nel Vangelo sono figure femminili a rompere schemi e comportamenti consuetudinari. E’ la donna che opera uno sfondamento nel costume etico, e questo è, spesso, guardato con sospetto.

EBRAISMO E CRISTIANESIMO

Sarà Paolo a proclamare abbattute tutte le barriere e predicare il Vangelo come messaggio universale senza distinzione di greco o barbaro, di giudeo o gentile, libero o schiavo, uomo o donna. La salvezza nel nome del Cristo, crocifisso e risorto, è offerta indistintamente a tutti. A questo proposito, io ritengo Paolo uno dei grandi protagonisti della storia umana di questi ultimi duemila anni. Egli, che si chiamava Saul, come il primo re d’Israele, si ribattezza in "Paulus", cioè piccolo, per poter predicare il Vangelo di Gesù. Nella sua Lettera ai Romani, scritta ancor prima dei Vangeli, egli presenta la sua fede come un ramo dell’antico ceppo ebraico, destinato a perpetuarlo e rinnovarlo. Nella catastrofe ebraica determinata dalle due distruzioni di Gerusalemme, quella di Vespasiano e Tito prima e quella di Adriano poi, il patrimonio giudaico si salverà grazie alla tradizione farisaica e al "ramo nuovo" rappresentato dal cristianesimo per opera soprattutto di Paolo, anche lui fariseo, che presenta il nuovo messaggio come il compimento delle promesse e delle scritture. In esso "la resurrezione dei morti" è il perno attorno a cui ruota tutto il messaggio cristiano paolino ed è il nocciolo centrale della dottrina farisaica. A questo punto, alcuni si pongono l’interrogativo: se le cose stanno così, l’ebraismo e il cristianesimo in che rapporto stanno? Come padre e figlio o come fratello maggiore e minore? Gli storici più accreditati stanno per questa seconda ipotesi. Dopo la catastrofe del primo giudaismo, che scompare con la distruzione di Gerusalemme e del Tempio, si sviluppano due rami: il secondo giudaismo (farisaico, talmudico) e il cristianesimo, che inizialmente è rappresentato dalla Chiesa di Gerusalemme, di Giacomo, soppiantato poi dalla "Ecclesia ex gentibus", diffusa ormai per tutto l’impero romano.

Concludo, seguendo J.Ratzinger e citando J. Neusner, Un rabbino parla con Gesù (ed San Paolo). Il rabbino dissente da Gesù sul sabato. "Il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato". Gesù afferma il primato della persona, il rabbino il primato della norma, che tuttavia rappresenta la legge di Dio e, in questo caso, il "sabato cosmico" del riposo di Dio. Ma, soprattutto, il rabbino non accetta che Gesù si proclami "Signore del sabato", mettendosi al pari di Dio. Anche sul trattamento negativo verso i famigliari il rabbino dissente da Gesù, ritenendolo troppo duro. E, infine, sul concetto di "patto", l’alleanza di Dio con il suo popolo, a proposito di Gesù che parla di "nuovo patto". Il patto viene stabilito tra due entità distinte che si accordano e concordano su qualcosa. Nell’ebraismo antico erano i profeti a ricordare e a tenere vivo nel popolo il patto con Dio. Essi costituivano la "voce di Dio" In un midrash si ricorda che delle tavole della legge Dio ne diede un terzo a Mosè, un terzo la trattenne per sé e un terzo doveva costituire il tratto d’unione, il ponte, tra le altre due parti, quella divina e quella umana. Una rappresentazione sublime di questa concezione è data dalla "Creazione di Adamo" di Michelangelo nella quale la mano di Dio e quella di Adamo quasi si toccano, a ricordare la distinzione tra il divino e l’umano, ma nello stesso tempo sono vicinissime, quasi a rappresentare lo scoccare di una scintilla divina nella nuova creatura. In Gesù questa distinzione fa "corto circuito", in quanto in lui cade la distinzione tra creatore e creatura. Per un ebreo è impossibile accettare questa concezione del Cristo, uomo-Dio. Non essendoci distinzione tra umano e divino, non si può parlare di "patto", di "nuova alleanza". L’alleanza nuova di cui parla Gesù è completamente "diversa" e incompatibile con la prima: il cristianesimo, di conseguenza, è cosa completamente diversa rispetto all’ebraismo

PREMESSA

a) Limiti delle religioni

 

«Io ho puntato su di lui la mia vita, l'unica vita che ho».

Questa presentazione di Gesù nasce in un luogo inconsueto: il Consiglio Comunale di un comune della fascia periferica di Bologna, Granarolo, famoso per il suo buon latte. La semplicita' e l'immediatezza del testo e' tale da incantare: scaturisce dalla passione dell'autore, che e' Pastore d'anime. Ma tu, navigatore attento, non faticherai a riconoscervi il rigore robusto del teologo.

Premessa

Ho accettato l'invito a parlare di Gesù Cristo perché è Lui il cuore, il vertice, la sintesi dell'annuncio evangelico: questo non dobbiamo mai dimenticarlo. Il Cristianesimo e' una persona: CristoIl Cristianesimo, in sé, non è una concezione della realtà, non è un codice di precetti, non è una liturgia. Non è neppure uno slancio di solidarietà umana, né una proposta di fraternità sociale. Anzi, il Cristianesimo non è neanche una religione. E' un avvenimento, un fatto. Un fatto che si compendia in una persona. Oggi si sente dire che in fondo tutte le religioni si equivalgono perché ognuna ha qualcosa di buono. Probabilmente è anche vero. Ma il Cristianesimo, con questo, non c'entra. Perché il Cristianesimo non è una religione, ma è Cristo. Cioè una persona.

1. Identikit di Cristo

Io ho puntato su di lui la mia vita, l' unica vita che ho: e quindi sento il bisogno ogni tanto di contemplarne il mistero, di rinfrescare l'identikit di Cristo. Molte volte sentiamo parlare di Gesù Cristo, ogni tanto sul giornale c'è qualcuno che fa qualche scoop su di lui, ogni tanto si inventano e danno interpretazioni su chi sia Gesù Cristo, ma gli unici testi che ci parlano di Cristo sono i Vangeli. Perciò o si sta ai Vangeli, oppure si rinuncia a parlare di Lui. Quindi, non dirò neanche una parola che non sia documentabile, a differenza di chi si inventa libri, film e parole.

Che tipo era?

Prima domanda, la più semplice: che tipo era questo Gesù Cristo? Che uomo era? Questo il Vangelo non lo precisa. E devo dire che un po' mi secca, perché ho puntato la mia vita su di lui e non so neppure di che colore fossero i suoi occhi. Era bello o era brutto? Be', secondo me era bello. C'è un episodio dell'undicesimo capitolo del Vangelo di Luca. Gesù sta parlando alla folla. All'improvviso una donna, lanciando un grido di entusiasmo, dice: " Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha nutrito". Ecco, questo è il primo panegirico di Cristo. Ed è fatto in termini molto... corporei. Tant'è vero che poi Gesù le rimprovera di trascurare la parola di Dio per soffermarsi sulla Sua bellezza: "Beati quelli che ascoltano la parola di Dio". Noi però ringraziamo questa donna sconosciuta che ci ha permesso di rispondere alla nostra domanda preliminare: Gesù era davvero un bell'uomo.

I suoi occhi

E aveva anche due splendidi occhi. Lo sguardo di Gesù colpiva chi lo incontrava. I Vangeli, soprattutto quello di Marco, parlano spesso del suo sguardo: penetrante su Simone, che gli viene presentato dal fratello: affettuoso sul giovane ricco, quello che poi se ne va perché lui gli dice di «lasciare tutto e seguirlo; di simpatia su Zaccheo, il capo dei pubblicani, gli esattori delle imposte che rubavano (solo allora, per carità, non voglio dar giudizi…), che lo guardava stando appollaiato su un albero. E, ancora, di tristezza sull'offerta dei ricchi, di sdegno su quel che avveniva nel Tempio, di dolore per chi lo tradisce… Insomma, il suo era uno sguardo che parlava.

Aveva idee chiare

Che faceva capire come Gesù avesse le idee chiare. Molto chiare. Quando parlava non diceva mai "Forse, secondo me, mi pare". E non aveva peli sulla lingua neanche con i potenti: ricordate quando dà della «volpe» al re Erode?

Uomo libero

Ma una delle cose più belle di Gesù è che era un uomo libero. Anche dai suoi amici. Quando san Pietro fa la sua professione di fede (ogni tanto ne azzeccava una anche san Pietro...) Gesù gli fa un panegirico mai dedicato ad un uomo, tanto che san Pietro probabilmente si ringalluzzisce, comincia a pensare in grande. Ma quando Gesù gli annuncia che il suo destino è quello di esser mandato a morte, e Pietro, che già si sente "primo ministro del Regno di Dio", lo prende per un braccio e lo rimprovera, Gesù neanche lo guarda e lo tratta malissimo: "Va' via da me Satana, tu non pensi alle cose di Dio ma alle cose degli uomini". Niente male per un amico no?

Ancor più libero con i parenti

Con i parenti, poi, certe volte era anche peggio. Quando Gesù abbandona la sua casa, a trent'anni, loro lo considerano pazzo. Lo dice il Vangelo di Marco, capitolo terzo: «Uscirono (i suoi parenti) per andare a prenderlo, perché dicevano: "E uscito di sé", è fuori di testa. Poi, quando la gente comincia ad andargli dietro, i parenti cercano di riavvicinarsi a Lui, perché capiscono che in qualche modo sta acquistando potere. E allora chiamano Maria, per cercare di convincere Gesù a tornare da loro. E Lui? Capisce tutto, al volo. E fa finta di non riconoscere nemmeno sua madre.

2. Gesù amava

 

Ma non crediate che fosse un uomo troppo duro. Gesù amava. Molto. Anzitutto, i bambini. Sapeva capirli, dote che raramente noi adulti abbiamo: in genere, quando parliamo con loro, sappiamo solo chiedere quanti anni abbiano, quale classe frequentino… Roba che a loro non interessa per niente. Lui invece: "Lasciate che vengano a me". Poi, gli amici. Aveva un forte senso dell'amicizia. Per esempio, era molto amico dei suoi discepoli: e, tra questi, era particolarmente legato a Pietro, Giovanni e Giacomo; e, ancora, tra questi soprattutto Giovanni gli era più amico. Insomma, anche lui aveva delle preferenze tra i suoi amici. Come è giusto: gli amici non sono mica tutti uguali. Poi, Gesù amava il suo popolo. Si sentiva pienamente ebreo, israelita. Tanto che il pensiero della distruzione di Gerusalemme lo fece addirittura piangere.

Attenzione ai particolare

Si Ma c'è un'altra cosa della personalità di Gesù che mi ha sempre colpito: la sua attenzione ai particolari. Gesù stava molto attento alle piccole cose della vita, anche perché sapeva che poteva farne delle parabole. Pensate a quella, quasi «emiliana», del Regno di Dio che è simile ad una donna di casa che prende un po' di lievito e lo impasta con la farina finché è tutta fermentata. O a quell'altra dell'amico seccatore che deve essere accontentato pur di potersene liberare. Verissimo. Mi ricorda i nove anni in cui sono stato parroco a Legnano: c'era una donna che veniva a trovarmi ogni giorno, lamentandosi del marito. Ma che cosa potevo fare, io? Non potevo mica ammazzarglielo!

Un episodio: una "lucciola"

E ce ne sarebbero tanti altri, di episodi da ricordare. Nel capitolo settimo di Luca si racconta che Gesù è a pranzo da un capo fariseo: a un certo punto viene dentro una di quelle donne che non si sa come chiamarle… Diciamo una "lucciola". Questa donna si mette vicino a Lui e si comincia a fargli dei complimenti, lo profuma. Era una cosa gravissima,: come se ad un pranzo parrocchiale in cui il parroco di Granarolo invita il sindaco e il maresciallo dei carabinieri una di queste donne entrasse e si mettesse a fargli dei complimenti… eppure Gesù non si scompone. Anzi la difende, quasi con cavalleria.

 

Una figura umana eccezionale: soltanto questo?

Dal Vangelo, dunque, riconosciamo una figura umana eccezionale. Al punto che quando Ponzio Pilato lo presenta alla gente dice: Ecco l'uomo.

E invece io dico: Ecco il punto. Gesù era solo un uomo? Perché anche la maggior parte delle persone che non credono lo considerano un grande uomo, da stimare. Ma è una posizione insostenibile, se guardiamo a quel che Gesù Cristo stesso dice di sé. Esempi? Si definisce "Figlio dell'uomo", che era il titolo usato nelle profezie di Daniele per indicare un personaggio misterioso, che sarebbe venuto dal cielo e che avrebbe posto fine alla Storia. E con questo Gesù evoca la sua origine celeste e la sua definitività. Poi, dice di essere "più grande di Davide": e Davide era il re ideale, l'ideale della monarchia e della regalità per gli Ebrei.

È più che un uomo

Ma la cosa forse più seria la dice nel Discorso della montagna. "Beati i poveri..." e via dicendo, ricordate? Bé, in quel discorso dice tra l'altro: "Avete udito che è stato detto agli antichi "non uccidere". Io, invece, vi dico...". Pensateci bene: con questa frase Gesù quasi "corregge" la Rivelazione di Dio. E rivendica a sé anche il potere di giudicare l'uomo. E chi può farlo, se non uno che si crede Dio?

E le altre cose che raccomanda? "Chi dà la vita per me la troverà..." . Oh, dare la vita per uno non è mica uno scherzo. Una volta, in una visita pastorale, un bambino mi ha chiesto: «Ma tu saresti disposto a dare la vita per il Signore?». lo ci ho pensato su e gli ho risposto: « Senti, io sarei anche disposto a dare la vita per il Signore. Però mi seccherebbe parecchio". Che era un tentativo di mettere insieme il dovere con la sincerità. E ancora: "Da' da mangiare a tuo fratello perché in lui vedi Me". Se un mazziniano storico dicesse: "Aiutate i fratelli perché in essi dovete vedere Giuseppe Mazzini", direbbe una cosa che non commuoverebbe nessuno, perché un uomo povero vivo è molto più importante di Mazzini morto. Ma, Gesù? Gesù ripaga con la vita eterna. Lo dice anche san Marco, scrivendolo nel suo Vangelo in maniera un po' umoristica: «Chi avrà lasciato il padre e la madre, i campi e la casa per me, avrà il centuplo quaggiù. Con le persecuzioni e la vita eterna». Come dire: prima un po' di botte, va bene. Ma poi, la vita eterna.

3. Gesù e' Dio

Perché il fatto è che Gesù sarà pure stato un grande uomo, un uomo eccezionale. Ma soprattutto è Dio. E' veramente Dio. E' il Figlio di Dio. Non come lo siamo tutti noi come lo sono tutte le creature, come la farfalla della vispa Teresa (anche lei è «figlia di Dio»): lui è il Figlio proprio, l'Unigenito.

Una parabola inverosimile

Negli ultimi giorni di vita Gesù racconta una parabola, una delle più inverosimili nella sua struttura letteraria (a Gesù non interessa raccontare una novella verista, ma trasmettere un messaggio); è la parabola dei vignaiuoli infedeli e omicidi, che occupavano il terreno del padrone senza dargli niente in cambio. Allora il padrone manda alcuni servi a riscuotere. I vignaioli li picchiano. Il padrone ne manda altri: ma i contadini li uccidono. E fin qui, secondo me, è un racconto un po' esagerato: come facevano a pensare di uccidere così la gente e cavarsela senza problemi? Ma a questo punto la parabola diventa addirittura una cosa da matti. Il padrone dice: «Ah, ho un figlio unico, manderò lui, perché avranno timore di mio figlio». Ma chi è quel padre che sapendo di avere in casa dei briganti arrischia il suo unico figlio? E infatti i vignaioli decidono di uccidere anche lui, in modo da ereditare il patrimonio del padrone (chissà in quale codice sta scritto che l'eredità passa agli assassini dell'unico erede!). Insomma, la parabola è tutta sballata. Eppure si è verificata alla lettera: infatti Gesù verrà ucciso fuori della vigna, fuori delle mura di Gerusalemme. Ed è stato il Padre a mandarlo.

Dinanzi a Lui non resta che inginocchiarsi

Mettete insieme tutte queste cose. Ne esce il ritratto di un uomo eccezionale, che dice di essere Dio. Una provocazione! Ma noi dobbiamo raccogliere questa provocazione. Perché se uno si presenta in questo modo, se dice di essere Dio, c'è poco da fare: o questo qui è matto e allora non lo si può stimare, oppure è vero quel che dice. E allora bisogna inginocchiarsi. Non basta mica dire: è un grande uomo.

L 'annuncio degli Apostoli e il nostro annuncio: Gesù è risorto! Gesù e' vivo! E infatti, che cosa sono andati a dire gli apostoli di lui? Il nucleo del messaggio cristiano qual è? Una parola sola: è risorto. Si è risvegliato dalla morte. Gli apostoli sono andati in giro a dire che Gesù è risorto ed è ancora vivo. Oh, vivo oggi. Quando facevo scuola a Milano, all'istituto di Pastorale, ho fatto una lezione sulla Risurrezione di Cristo. Finita la lezione, una signora si avvicina e fa: "Ma lei vuol proprio dire che Gesù è vivo...?". "Sì, signora: che il suo cuore batte proprio come il suo e il mio". "Ma allora bisogna proprio che vada a casa a dirlo a mio marito". «Brava, signora, provi ad andare a dirlo a suo marito». Il giorno dopo la signora torna da me e mi dice: «Sa, l'ho detto a mio marito». « E lui?». «Mi ha risposto: "Ma va', avrai capito male"». Notate che quella era una catechista. Eppure era sconcertata. Io le faccio avere la registrazione della lezione. Lei la fa sentire a suo marito.

Se è così, cambia tutto

E lui, alla fine, crolla: «Ma se è così, cambia tutto». Pensateci, e ditemi se non è vero; se quell'uomo, bello, buono, eccezionale, è davvero Dio, e se è ancora tra noi, allora cambia davvero tutto.

 

E non è forse compito della Chiesa riflettere la luce di Cristo in ogni epoca della storia, farne risplendere il volto anche davanti alle generazioni del nuovo millennio?

La nostra testimonianza sarebbe, tuttavia, insopportabilmente povera, se noi per primi non fossimo contemplatori del suo volto. Il Grande Giubileo ci ha sicuramente aiutati ad esserlo più profondamente. A conclusione del Giubileo, mentre riprendiamo il cammino ordinario, portando nell'animo la ricchezza delle esperienze vissute in questo periodo specialissimo, lo sguardo resta più che mai fisso sul volto del Signore.

 

La testimonianza dei Vangeli

17. E la contemplazione del volto di Cristo non può che ispirarsi a quanto di Lui ci dice la Sacra Scrittura, che è, da capo a fondo, attraversata dal suo mistero, oscuramente additato nell'Antico Testamento, pienamente rivelato nel Nuovo, al punto che san Girolamo sentenzia con vigore: «L'ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo stesso».8 Restando ancorati alla Scrittura, ci apriamo all'azione dello Spirito (cfr Gv 15,26), che è all'origine di quegli scritti, e insieme alla testimonianza degli Apostoli (cfr ibid., 27), che hanno fatto esperienza viva di Cristo, il Verbo della vita, lo hanno visto con i loro occhi, udito con le loro orecchie, toccato con le loro mani (cfr 1 Gv 1,1).

Quella che ci giunge per loro tramite è una visione di fede, suffragata da una precisa testimonianza storica: una testimonianza veritiera, che i Vangeli, pur nella loro complessa redazione e con un'intenzionalità primariamente catechetica, ci consegnano in modo pienamente attendibile.9

18. I Vangeli in realtà non pretendono di essere una biografia completa di Gesù secondo i canoni della moderna scienza storica. Da essi tuttavia il volto del Nazareno emerge con sicuro fondamento storico, giacché gli Evangelisti si preoccuparono di delinearlo raccogliendo testimonianze affidabili (cfr Lc 1,3) e lavorando su documenti sottoposti al vigile discernimento ecclesiale. Fu sulla base di queste testimonianze della prima ora che essi, sotto l'azione illuminante dello Spirito Santo, appresero il dato umanamente sconcertante della nascita verginale di Gesù da Maria, sposa di Giuseppe. Da chi lo aveva conosciuto durante i circa trent'anni da lui trascorsi a Nazareth (cfr Lc 3,23), raccolsero i dati sulla sua vita di « figlio del carpentiere » (Mt 13,55) e «carpentiere» egli stesso, ben collocato nel quadro della sua parentela (cfr Mc 6,3). Ne registrarono la religiosità, che lo spingeva a recarsi con i suoi in pellegrinaggio annuale al tempio di Gerusalemme (cfr Lc 2,41) e soprattutto lo rendeva abituale frequentatore della sinagoga della sua città (cfr Lc 4,16).

Le notizie si fanno poi più ampie, pur senza essere un resoconto organico e dettagliato, per il periodo del ministero pubblico, a partire dal momento in cui il giovane Galileo si fa battezzare da Giovanni Battista al Giordano, e forte della testimonianza dall'alto, con la consapevolezza di essere il « figlio prediletto » (Lc 3,22), inizia la sua predicazione dell'avvento del Regno di Dio, illustrandone le esigenze e la potenza attraverso parole e segni di grazia e misericordia. I Vangeli ce lo presentano così in cammino per città e villaggi, accompagnato da dodici Apostoli da lui scelti (cfr Mc 3,13-19), da un gruppo di donne che li assistono (cfr Lc 8,2-3), da folle che lo cercano o lo seguono, da malati che ne invocano la potenza guaritrice, da interlocutori che ne ascoltano, con vario profitto, le parole.

La narrazione dei Vangeli converge poi nel mostrare la crescente tensione che si verifica tra Gesù e i gruppi emergenti della società religiosa del suo tempo, fino alla crisi finale, che ha il suo drammatico epilogo sul Golgotha. È l'ora delle tenebre, a cui segue una nuova, radiosa e definitiva aurora. I racconti evangelici si chiudono infatti mostrando il Nazareno vittorioso sulla morte, ne additano la tomba vuota e lo seguono nel ciclo delle apparizioni, nelle quali i discepoli, prima perplessi e attoniti, poi colmi di indicibile gioia, lo sperimentano vivente e radioso, e da lui ricevono il dono dello Spirito (cfr Gv 20,22) e il mandato di annunciare il Vangelo a « tutte le nazioni » (Mt 28,19).

La via della fede

19. « E i discepoli gioirono al vedere il Signore » (Gv 20,20). Il volto che gli Apostoli contemplarono dopo la risurrezione era lo stesso di quel Gesù col quale avevano vissuto circa tre anni, e che ora li convinceva della verità strabiliante della sua nuova vita mostrando loro « le mani e il costato » (ibid.). Certo, non fu facile credere. I discepoli di Emmaus credettero solo dopo un faticoso itinerario dello spirito (cfr Lc 24,13-35). L'apostolo Tommaso credette solo dopo aver constatato il prodigio (cfr Gv 20,24-29). In realtà, per quanto si vedesse e si toccasse il suo corpo, solo la fede poteva varcare pienamente il mistero di quel volto. Era, questa, un'esperienza che i discepoli dovevano aver fatto già nella vita storica di Cristo, negli interrogativi che affioravano alla loro mente ogni volta che si sentivano interpellati dai suoi gesti e dalle sue parole. A Gesù non si arriva davvero che per la via della fede, attraverso un cammino di cui il Vangelo stesso sembra delinearci le tappe nella ben nota scena di Cesarea di Filippo (cfr Mt 16,13-20). Ai discepoli, quasi facendo una sorta di primo bilancio della sua missione, Gesù chiede che cosa la « gente » pensi di lui, ricevendone come risposta: « Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o uno dei profeti » (Mt 16,14).

Risposta sicuramente elevata, ma distante ancora e quanto! dalla verità. Il popolo arriva a intravedere la dimensione religiosa decisamente eccezionale di questo rabbì che parla in modo così affascinante, ma non riesce a collocarlo oltre quegli uomini di Dio che hanno scandito la storia di Israele. Gesù, in realtà, è ben altro! È appunto questo passo ulteriore di conoscenza, che riguarda il livello profondo della sua persona, quello che Egli si aspetta dai «suoi»: «Voi chi dite che io sia?» (Mt 16,15). Solo la fede professata da Pietro, e con lui dalla Chiesa di tutti i tempi, va al cuore, raggiungendo la profondità del mistero: «Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente» <(Mt 16,16).

20. Com'era arrivato Pietro a questa fede? E che cosa viene chiesto a noi, se vogliamo metterci in maniera sempre più convinta sulle sue orme? Matteo ci dà una indicazione illuminante nelle parole con cui Gesù accoglie la confessione di Pietro: « Né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli » (16,17).

L'espressione « carne e sangue » evoca l'uomo e il modo comune di conoscere. Questo modo comune, nel caso di Gesù, non basta. È necessaria una grazia di « rivelazione » che viene dal Padre (cfr ibid.). Luca ci offre un'indicazione che va nella stessa direzione, quando annota che questo dialogo con i discepoli si svolse « mentre Gesù si trovava in un luogo appartato a pregare » (Lc 9,18). Ambedue le indicazioni convergono nel farci prendere coscienza del fatto che alla contemplazione piena del volto del Signore non arriviamo con le sole nostre forze, ma lasciandoci prendere per mano dalla grazia. Solo l'esperienza del silenzio e della preghiera offre l'orizzonte adeguato in cui può maturare e svilupparsi la conoscenza più vera, aderente e coerente, di quel mistero, che ha la sua espressione culminante nella solenne proclamazione dell'evangelista Giovanni: « E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità » (Gv 1,14).

La profondità del mistero

21. Il Verbo e la carne, la gloria divina e la sua tenda tra gli uomini! È nell'unione intima e indissociabile di queste due polarità che sta l'identità di Cristo, secondo la formulazione classica del Concilio di Calcedonia (a. 451): « una persona in due nature ». La persona è quella, e solo quella, del Verbo eterno, figlio del Padre. Le due nature, senza confusione alcuna, ma anche senza alcuna possibile separazione, sono quella divina e quella umana.

Siamo consapevoli della limitatezza dei nostri concetti e delle nostre parole. La formula, pur sempre umana, è tuttavia attentamente calibrata nel suo contenuto dottrinale e ci consente di affacciarci, in qualche modo, sull'abisso del mistero. Sì, Gesù è vero Dio e vero uomo! Come l'apostolo Tommaso, la Chiesa è continuamente invitata da Cristo a toccare le sue piaghe, a riconoscerne cioè la piena umanità assunta da Maria, consegnata alla morte, trasfigurata dalla risurrezione: « Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato » (Gv 20,27). Come Tommaso la Chiesa si prostra adorante davanti al Risorto, nella pienezza del suo splendore divino, e perennemente esclama: « Mio Signore e mio Dio! » (Gv 20,28).

22. « Il Verbo si è fatto carne » (Gv 1,14). Questa folgorante presentazione giovannea del mistero di Cristo è confermata da tutto il Nuovo Testamento. In questa linea si pone anche l'apostolo Paolo quando afferma che il Figlio di Dio è « nato dalla stirpe di Davide secondo la carne » (Rm 1,3; cfr 9,5). Se oggi, col razionalismo che serpeggia in tanta parte della cultura contemporanea, è soprattutto la fede nella divinità di Cristo che fa problema, in altri contesti storici e culturali ci fu piuttosto la tendenza a sminuire o dissolvere la concretezza storica dell'umanità di Gesù. Ma per la fede della Chiesa è essenziale e irrinunciabile affermare che davvero il Verbo « si è fatto carne » ed ha assunto tutte le dimensioni dell'umano, tranne il peccato (cfr Eb 4,15). In questa prospettiva, l'Incarnazione è veramente una kenosi, uno « spogliarsi », da parte del Figlio di Dio, di quella gloria che egli possiede dall'eternità (cfr Fil 2,6-8; 1 Pt 3,18).

D'altra parte, questo abbassamento del Figlio di Dio non è fine a se stesso; tende piuttosto alla piena glorificazione di Cristo, anche nella sua umanità: « Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre » (Fil 2,9-11).

23. « Il tuo volto, Signore, io cerco » (Sal 27[26], 8). L'antico anelito del Salmista non poteva ricevere esaudimento più grande e sorprendente che nella contemplazione del volto di Cristo. In lui veramente Dio ci ha benedetti, e ha fatto « splendere il suo volto » sopra di noi (cfr Sal 67[66], 3). Al tempo stesso, Dio e uomo qual è, egli ci rivela anche il volto autentico dell'uomo, « svela pienamente l'uomo all'uomo .

Gesù è « l'uomo nuovo » (Ef 4,24; cfr Col 3,10) che chiama a partecipare alla sua vita divina l'umanità redenta. Nel mistero dell'Incarnazione sono poste le basi per un'antropologia che può andare oltre i propri limiti e le proprie contraddizioni, muovendosi verso Dio stesso, anzi, verso il traguardo della « divinizzazione », attraverso l'inserimento in Cristo dell'uomo redento, ammesso all'intimità della vita trinitaria. Su questa dimensione soteriologica del mistero dell'Incarnazione i Padri hanno tanto insistito: solo perché il Figlio di Dio è diventato veramente uomo, l'uomo può, in lui e attraverso di lui, divenire realmente figlio di Dio.

Volto dolente

25. La contemplazione del volto di Cristo ci conduce così ad accostare l'aspetto più paradossale del suo mistero, quale emerge nell'ora estrema, l'ora della Croce. Mistero nel mistero, davanti al quale l'essere umano non può che prostrarsi in adorazione.

Passa davanti al nostro sguardo l'intensità della scena dell'agonia nell'orto degli Ulivi. Gesù, oppresso dalla previsione della prova che lo attende, solo davanti a Dio, lo invoca con la sua abituale e tenera espressione di confidenza: « Abbà, Padre ». Gli chiede di allontanare da lui, se possibile, il calice della sofferenza (cfr Mc 14,36). Ma il Padre sembra non voler ascoltare la voce del Figlio. Per riportare all'uomo il volto del Padre, Gesù ha dovuto non soltanto assumere il volto dell'uomo, ma caricarsi persino del « volto » del peccato. « Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio » (2 Cor 5,21).

Non finiremo mai di indagare l'abisso di questo mistero. È tutta l'asprezza di questo paradosso che emerge nel grido di dolore, apparentemente disperato, che Gesù leva sulla croce: « Eloì, Eloì, lemà sabactàni?,che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? » (Mc 15,34). È possibile immaginare uno strazio più grande, un'oscurità più densa? In realtà, l'angoscioso «perché» rivolto al Padre con le parole iniziali del Salmo 22, pur conservando tutto il realismo di un indicibile dolore, si illumina con il senso dell'intera preghiera, in cui il Salmista unisce insieme, in un intreccio toccante di sentimenti, la sofferenza e la confidenza. Continua infatti il Salmo: « In te hanno sperato i nostri padri, hanno sperato e tu li hai liberati [...] Da me non stare lontano, poiché l'angoscia è vicina e nessuno mi aiuta » (22[21], 5.12).

26. Il grido di Gesù sulla croce, carissimi Fratelli e Sorelle, non tradisce l'angoscia di un disperato, ma la preghiera del Figlio che offre la sua vita al Padre nell'amore, per la salvezza di tutti. Mentre si identifica col nostro peccato, « abbandonato » dal Padre, egli si « abbandona » nelle mani del Padre. I suoi occhi restano fissi sul Padre. Proprio per la conoscenza e l'esperienza che solo lui ha di Dio, anche in questo momento di oscurità egli vede limpidamente la gravità del peccato e soffre per esso. Solo lui, che vede il Padre e ne gioisce pienamente, misura fino in fondo che cosa significhi resistere col peccato al suo amore. Prima ancora, e ben più che nel corpo, la sua passione è sofferenza atroce dell'anima. La tradizione teologica non ha evitato di chiedersi come potesse, Gesù, vivere insieme l'unione profonda col Padre, di sua natura fonte di gioia e di beatitudine, e l'agonia fino al grido dell'abbandono. La compresenza di queste due dimensioni apparentemente inconciliabili è in realtà radicata nella profondità insondabile dell'unione ipostatica.

27. Di fronte a questo mistero, accanto all'indagine teologica, un aiuto rilevante può venirci da quel grande patrimonio che è la « teologia vissuta » dei Santi. Essi ci offrono indicazioni preziose che consentono di accogliere più facilmente l'intuizione della fede, e ciò in forza delle particolari luci che alcuni di essi hanno ricevuto dallo Spirito Santo, o persino attraverso l'esperienza che essi stessi hanno fatto di quegli stati terribili di prova che la tradizione mistica descrive come « notte oscura ». Non rare volte i Santi hanno vissuto qualcosa di simile all'esperienza di Gesù sulla croce nel paradossale intreccio di beatitudine e di dolore. Nel Dialogo della Divina Provvidenza Dio Padre mostra a Caterina da Siena come nelle anime sante possa essere presente la gioia insieme alla sofferenza: « E l'anima se ne sta beata e dolente: dolente per i peccati del prossimo, beata per l'unione e per l'affetto della carità che ha ricevuto in se stessa. Costoro imitano l'immacolato Agnello, l'Unigenito Figlio mio, il quale stando sulla croce era beato e dolente ». Allo stesso modo Teresa di Lisieux vive la sua agonia in comunione con quella di Gesù, verificando in se stessa proprio il paradosso di Gesù beato e angosciato: « Nostro Signore nell'orto degli Ulivi godeva di tutte le gioie della Trinità, eppure la sua agonia non era meno crudele. È un mistero, ma le assicuro che, da ciò che provo io stessa, ne capisco qualcosa ». È una testimonianza illuminante! Del resto, la stessa narrazione degli Evangelisti dà fondamento a questa percezione ecclesiale della coscienza di Cristo, quando ricorda che, pur nel suo abisso di dolore, egli muore implorando il perdono per i suoi carnefici (cfr Lc 23,34) ed esprimendo al Padre il suo estremo abbandono filiale: « Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito » (Lc 23,46).

Volto del Risorto


28. Come nel Venerdì e nel Sabato Santo, la Chiesa continua a restare in contemplazione di questo volto insanguinato, nel quale è nascosta la vita di Dio ed offerta la salvezza del mondo. Ma la sua contemplazione del volto di Cristo non può fermarsi all'immagine di lui crocifisso. Egli è il Risorto! Se così non fosse, vana sarebbe la nostra predicazione e vana la nostra fede (cfr 1 Cor 15,14). La risurrezione fu la risposta del Padre alla sua obbedienza, come ricorda la Lettera agli Ebrei: « Egli nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà. Pur essendo Figlio, imparò l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono » (5, 7-9).

È a Cristo risorto che ormai la Chiesa guarda. Lo fa ponendosi sulle orme di Pietro, che versò lacrime per il suo rinnegamento, e riprese il suo cammino confessando a Cristo, con comprensibile trepidazione, il suo amore: « Tu sai che io ti amo » (Gv 21,15.17). Lo fa accompagnandosi a Paolo, che lo incontrò sulla via di Damasco e ne restò folgorato: « Per me il vivere è Cristo, e il morire un guadagno » (Fil 1,21). A duemila anni di distanza da questi eventi, la Chiesa li rivive come se fossero accaduti oggi. Nel volto di Cristo essa, la Sposa, contempla il suo tesoro, la sua gioia. « Dulcis Iesu memoria, dans vera cordis gaudia »: quanto è dolce il ricordo di Gesù, fonte di vera gioia del cuore! Confortata da questa esperienza, la Chiesa riprende oggi il suo cammino, per annunciare Cristo al mondo, all'inizio del terzo millennio: Egli « è lo stesso ieri, oggi e sempre » (Eb 13,8).

 

Il Verbo abbreviato

Henri de Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura (vol. III, JacaBook, Milano 1996)

In Gesù Cristo, che ne era il fine, l'antica Legge trovava in precedenza la sua unità. Di secolo in secolo, tutto in questa Legge convergeva verso di Lui. È Lui che, della «totalità delle Scritture», formava già «l'unica Parola di Dio». [...]

In Lui, i «verba multa» (le molte parole) degli scrittori biblici diventano per sempre «Verbum unum» (l'unica Parola). Senza di Lui, invece, il legame si scioglie: di nuovo la parola di Dio si riduce a frammenti di «parole umane»; parole molteplici, non soltanto numerose, ma molteplici per essenza e senza unità possibile, perché, come constata Ugo di San Vittore, «multi sunt sermones hominis, quia cor hominis unum non est» (numerose sono le parole dell'uomo, perché il cuore dell'uomo non è uno). [...]

Eccolo, dunque, questo Verbo unico. Eccolo tra noi «che esce da Sion», che ha preso carne nel seno della Vergine. «Omnem Scripturae universitatem, omne verbum suum Deus in utero virginis coadunavit» (tutto l'insieme delle Scritture, ogni sua parola, Dio l'ha riunito nel seno della Vergine). [...]

Eccolo adesso, totale, unico, nella sua unità visibile. Verbo abbreviato, Verbo «concentrato», non soltanto in questo primo senso che Colui che è in sé stesso immenso e incomprensibile, Colui che è infinito nel seno del Padre si racchiude nel seno della Vergine o si riduce alle proporzioni di un bambino nella stalla di Betlemme, come san Bernardo e i suoi figli amavano parlarne, come ripetevano M. Olier in un inno per l'Ufficio della vita interiore di Maria, e, ancor ieri, padre Teilhard de Chardin; ma anche e nello stesso tempo, in questo senso, che il contenuto molteplice delle Scritture sparse lungo i secoli dell'attesa viene tutt'intero ad ammassarsi per compiersi, cioè unificarsi, completarsi, illuminarsi e trascendersi in Lui. Semel locutus est Deus (Dio ha pronunciato una sola parola): Dio pronunzia una sola parola, non solo in sé stesso, nella sua eternità senza vicissitudini, nell'atto immobile con cui genera il Verbo, come sant' Agostino ricordava; ma anche, come insegnava già sant'Ambrogio, nel tempo e tra gli uomini, nell'atto con cui egli invia il suo Verbo ad abitare la nostra terra. «Semel locutus est Deus, quando locutus in Filio est»(Dio ha pronunciato una sola parola, quando ha parlato nel suo Figlio): perché è Lui che dà il senso a tutte le parole che lo annunziavano, tutto si spiega in Lui e solamente in Lui: «Et audita sunt etiam illa quae ante audita non erant ab iis quibus locutus fuerat per prophetas» (e si sono allora capite anche tutte quelle parole che non erano state intese prima da coloro ai quali egli aveva parlato attraverso i profeti). [...]

Sì, Verbo abbreviato, «abbreviatissimo», «brevissimum», ma sostanziale per eccellenza. Verbo abbreviato, ma più grande di ciò che abbrevia. Unità di pienezza. Concentrazione di luce. L'incarnazione del Verbo equivale all'apertura del Libro, la cui molteplicità esteriore lascia ormai percepire il «midollo» unico, questo midollo di cui i fedeli si nutriranno. Ecco che con il fiat (accada) di Maria che risponde all'annunzio dell'angelo, la Parola, fin qui soltanto «udibile alle orecchie», è diventata «visibile agli occhi, palpabile alle mani, portabile alle spalle». Più ancora: essa è diventata «mangiabile». Niente delle verità antiche, niente degli antichi precetti è andato perduto, ma tutto è passato a uno stato migliore. Tutte le Scritture si riuniscono nelle mani di Gesù come il pane eucaristico, e, portandole, egli porta sé stesso nelle sue mani: «tutta la Bibbia in sostanza, affinché noi ne facciamo un solo boccone...». «A più riprese e sotto varie forme» Dio aveva distribuito agli uomini, foglio per foglio, un libro scritto, nel quale una Parola unica era nascosta sotto numerose parole: oggi egli apre loro questo libro, per mostrare loro tutte queste parole riunite nella Parola unica. Filius incarnatus, Verbum incarnatum, Liber maximus (Figlio incarnato, Verbo incarnato, Libro per eccellenza): la pergamena del Libro è ormai la sua carne; ciò che vi è scritto sopra è la sua divinità. [...]

Tutta l'essenza della rivelazione è contenuta nel precetto dell' amore; in questa sola parola, «tutta la Legge e i Profeti». Ma questo Vangelo annunziato da Gesù, questa parola pronunziata da Lui, se contiene tutto, è perché non è altro che Gesù stesso. La sua opera, la sua dottrina, la sua rivelazione: è Lui! La perfezione che egli insegna, è la perfezione che egli porta. Christus, plenitudo legis (Cristo, pienezza della legge). È impossibile separare il suo messaggio dalla sua persona, e coloro che ci provarono non tardarono molto ad essere indotti a tradire il messaggio stesso: persona e messaggio, finalmente, non fanno che una cosa sola. Verbum abbreviatum, Verbum coadunatum: Verbo condensato, unificato, perfetto! Verbo vivo e vivificante. Contrariamente alle leggi del linguaggio umano, che diventa chiaro, spiegandolo, esso, da oscuro, diventa manifesto, presentandosi sotto la sua forma abbreviata: Verbo pronunziato dapprima «in abscondito» (nascostamente), e adesso «manifestum in carne» (manifesto nella carne). Verbo abbreviato, Verbo sempre ineffabile in sé stesso, e che tuttavia spiega tutto! [...]

Le due forme del Verbo abbreviato e dilatato sono inseparabili. Il Libro dunque rimane, ma nello stesso tempo passa tutt'intero in Gesù e per il credente la sua meditazione consiste nel contemplare questo passaggio. Mani e Maometto hanno scritto dei libri. Gesù, invece, non ha scritto niente; Mosè e gli altri profeti «hanno scritto di lui». Il rapporto tra il Libro e la sua Persona è dunque l'opposto del rapporto che si osserva altrove. Così la Legge evangelica non è affatto una «lex scripta» (legge scritta). Il cristianesimo, propriamente parlando, non è affatto una «religione del Libro»: è la religione della Parola - ma non unicamente né principalmente della Parola sotto la sua forma scritta. Esso è la religione del Verbo, «non di un verbo scritto e muto, ma di un Verbo incarnato e vivo». La Parola di Dio adesso è qui tra di noi, «in maniera tale che la si vede e la si tocca»: Parola «viva ed efficace», unica e personale, che unifica e sublima tutte le parole che le rendono testimonianza. Il cristianesimo non è «la religione biblica»: è la religione di Gesù Cristo.

 

 

Gesù, modello di autentica comunicazione

Fedele a Dio e all'uomo, Gesù è l'icona di umanità e di divinità in dialogo, in comunione vera. Portando dentro di sé la passione per la volontà del Padre e quella per l'uomo che cerca la vita, ogni sua azione e ogni sua parola diventano spada a doppio taglio (cf Eh 4,12) capace di distinguere e separare il grano dalla zizzania, nel presente della storia (cf Mc 13,24-30.36-43 par).

Gesù di Nazareth è uomo della parola e del silenzio, della meditazione nel giorno e nella notte (cf Sal 1,2). Le notti passate in preghiera sono un segnale, secondo la testimonianza evangelica, di una relazione unica con la fonte dell'amore, il Padre. Nella sua predicazione Gesù opera, annuncia, dialoga, discute, tace. È attento a contesti, livelli e strumenti diversi di comunicazione. Quando Gesù opera e parla manifesta una profonda coerenza: la parola sottrae il gesto all'ambiguità, soprattutto a quella del prodigio, per interpretarlo quale segno del Regno.

Gesù comunica secondo linguaggi e generi distinti: parla in parabole alle folle, ma come uomo di sapienza dibatte e discute di fronte ai maestri della legge, seguendo le regole argomentative del tempo.

Narrazione e discorso argomentativo o legislativo erano modalità per esprimere la volontà di Dio. Anche Gesù le fa sue. Vi ricorre sia rivolgendosi alla grande folla e ai discepoli, privilegiando cosi il modulo narrativo, specie quello parabolico, sia nelle controversie polemiche, con interlocutori come i farisei, i maestri della legge e i sadducei. La comunicazione di Gesù è profondamente dinamica e mostra le più alte vette di novità proprio nei confronti dei poveri, dei peccatori e delle donne, categorie tutte collocate ai margini della società. Rompendo gli schemi consolidati della narrazione parabolica o della disputa rabbinica, la sua comunicazione punta diretta alla vita dell'interlocutore, da cui la domanda è salita all'orecchio di Dio, di quel Dio che nei tempi antichi aveva accolto le grida di lamento del suo popolo (cf Es 2,23-25).

Il Padre comunica nel Figlio la sua volontà e invia lo Spirito Santo per abilitare ogni uomo ad accoglierla e a metterla in pratica.

Come l'evento di auto-comunicazione di Dio non si compie senza la presenza dello Spirito, allo stesso modo l'evento della sua accoglienza è impossibile senza il dono dello Spirito che, nella libertà personale di ognuno, ha il compito di permettere la riconciliazione e la comunicazione degli uomini con Dio e tra di loro. Come la superbia e l'arroganza della vita avevano un tempo portato alla confusione babelica (cf Gen 11,1-9), ora il dono dello Spirito, attraverso la conversione e il superamento del peccato, consente una definitiva comunicazione tra gli uomini. È la Pentecoste: lo Spirito Santo permette non solo di "parlare altre lingue", ma consente anche l'ascolto: ...’Ciascuno li sentiva parlare la propria lingua’ (At 2,6). La diversità delle lingue non è più un ostacolo alla comunicabilità, all'entrare in relazione, perché nello Spirito avviene l'unificazione in un solo linguaggio, quello dell'amore: amore del Padre, manifestato in Cristo morto e risorto ed effuso, con lo Spirito Santo, nel cuore degli uomini.

 

 

Gesù tra la bellezza e il dolore

di Joseph Ratzinger (La Repubblica, 10 marzo 2004)

Ogni anno, nella liturgia delle ore del tempo di Quaresima, torna a colpirmi un paradosso che s'incontra nei vespri del lunedì della seconda settimana del Salterio. Qui, una accanto all'altra, rincorrono due antifone una per il tempo di Quaresima, l'altra per la settimana Santa che introducono il salmo 44, offrendone però una chiave interpretativa del tutto contrapposta.

E' il salmo che descrive le nozze del re, la sua bellezza, le sue virtù, la sua missione, e poi si trasforma in un'esaltazione della sposa. "Tu sei il più bello tra i figli dell'uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia". La Chiesa, ovviamente, legge questo salmo come espressione poetica/profetica del rapporto sponsale di Cristo con la sua Chiesa. Riconoscere Cristo come il più bello tra gli uomini; la grazia diffusa sulle sue labbra significa l'intima bellezza della sua parola, significa la gloria del suo annuncio.

Non è dunque la bellezza esteriore del Redentore a essere glorificata: ciò che si manifesta in lui è invece la bellezza della Verità, la bellezza stessa di Dio che ci attira e nel contempo ci procura la ferita dell'Amore, l'eros (la "sacra Passione") che ci fa correre, assieme alla Chiesa e nella Chiesa/Sposa, incontro all'Amore che ci chiama. Ma il lunedì della Settimana santa la Chiesa cambia l'antifona, invitandoci a leggere il medesimo salmo alla luce di Isaia 53,2: "Non ha bellezza né apparenza; l'abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore".

Come si conciliano le due visioni? Il "più bello" tra i figli degli uomini è tanto misero d'aspetto che nemmeno lo si vuole vedere. Pilato lo mostra alla folla: Ecce homo! Cerca di suscitare un po' di pietà verso quell'essere maltrattato e percosso orami privo di ogni esteriore bellezza. Riferendosi al contenuto dei due testi citati, Agostino parla di "due trombe" che suonano in contrasto tra loro, eppure i loro suoni provengono da un medesimo soffio, dal medesimo Spirito. Nel paradosso egli vede contrapposizione, ma non contraddizione. Unico è infatti lo Spirito che suscita la Scrittura, traendone però differenti note e ponendoci proprio in questo modo di fronte alla perfezione della Bellezza e della Verità in sé.

Chi crede in Dio, nel Dio che proprio nelle sembianze alterate del Crocifisso si manifestato come amore "sino alla fine" (Gv 13,1), sa che la bellezza è verità e che la verità è bellezza, ma nel Cristo sofferente apprende anche che la bellezza della verità include offesa, dolore e persino l'oscuro mistero della morte. Bellezza e verità possono rinvenirsi soltanto nell'accettazione del dolore, e non nel suo rifiuto.

Di recente, da molte parti è stato detto che dopo Auschwitz non sarebbe più possibile fare poesia né tanto meno parlare di un Dio di bontà. Dove si era nascosto Dio quando funzionavano i forni crematori? Una simile contestazione per la quale del resto di davano motivi sufficienti, assai prima di Auschwitz, in tutte le atrocità della storia significa, in ogni caso, che un concetto assolutamente armonioso del bello non è sufficiente, non essendo in grado di reggere il confronto con la gravità della messa in discussione di Dio, della Verità, della Bellezza. Né può bastare il socratico dio Apollo, considerato da Platone il garante dell'imperturbabile bellezza "veramente divina".

Non resta dunque che tornare alle "due trombe" della Bibbia da cui avevamo preso le mosse, cioè al paradosso di Cristo, del quale si può dire "Tu sei il più bello tra i figli dell'uomo …", ma anche "Non ha bellezza né apparenza…un volto sfigurato dal dolore". Nella passione di Cristo, l'estetica greca ammirevole per il suo presunto contatto con il divino, che tuttavia rimane indicibile non viene recuperata, ma è del tutto superata. L'esperienza del bello riceve una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la "Bellezza in sé" si è lasciato percuotere sul volto, coprire di sputi, incoronare di spine: la sacra Sindone di Torino ci racconta tutto in maniera toccante. Ma proprio in quel volto sfigurato appare l'autentica, estrema Bellezza dell'Amore che ama "sino alla fine", mostrandosi così più forte di ogni menzogna e violenza. Soltanto chi sa cogliere questa bellezza comprende che proprio la verità, e non la menzogna, è l'estrema "affermazione" del mondo. E' semplicemente un trucco astuto della menzogna quello di presentarsi come "unica verità", quasi che al di fuori e al di là di essa non ne esista alcun'altra.

Soltanto l'icona del Crocifisso è capace di liberarci da quest'inganno, oggi così prepotente. Ma ad un condizione: che assieme a Lui ci lasciamo ferire, fidandoci di quell'Amore che non esita a svestirsi della bellezza esteriore, per annunciare proprio in questo modo la Verità della Bellezza.

La menzogna conosce anche un altro stratagemma: la bellezza ingannevole e falsa, quella bellezza che abbaglia e imprigiona gli uomini in se stessi, impedendo loro di aprirsi all'estasi che indirizza verso l'alto. Una bellezza che non risveglia nostalgia dell'indicibile, la disponibilità all'offerta, all'abbandono di sé; che alimenta invece la brama e la volontà di dominio, di possesso, di piacere. E' di questo genere di bellezza che parla la Genesi: Eva vide che il frutto dell'albero era "buono da mangiare e seducente per gli occhi…" (Gn 3,6). La bellezza, così come la donna la sperimenta, risveglia in lei il desiderio del possesso, la fa ripiegare su sé stessa.

Con notevole frequenza amo citare Dostoevskij: " La bellezza ti salverà". Ma il più delle volte si dimentica che il grande autore russo pensa alla bellezza redentivi di Cristo. Occorre imparare a "vedere" Cristo. Non basta conoscerlo semplicemente a parole; bisogna lasciarsi colpire dal dardo della sua bellezza paradossale: così avviene la vera conoscenza, attraverso l'incontro personale con la Bellezza della verità che salva.

 

 

Le Beatitudini

dal Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger  Rizzoli 07

Le Beatitudini vengono non di rado presentate come l'antitesi neotestamentaria al Decalogo,' come, per così dire, l'etica più elevata dei cristiani nei confronti dei comandamenti dell' Antico Testamento. Questa interpretazione fraintende completamente il senso delle parole di Gesù. Gesù ha sempre dato per scontata la validità del Decalogo (cfr., per es., Mc 10,19; Lc 16,17); il Discorso della montagna riprende i comandamenti della Seconda tavola e li approfondisce, non li abolisce (cfr. Mt 5,21-48); ciò si opporrebbe diametralmente al principio fondamentale premesso a questo discorso sul Decalogo: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà dalla Legge neppure un iota o un segno, senza che tutto sia compiuto» (Mt 5,17s). Su questa frase, che solo in apparenza è in contraddizione con il messaggio paolino, dovremo tornare dopo il dialogo tra Gesù e il rabbino. Intanto è sufficiente notare che Gesù non pensa di abolire il Decalogo, al contrario: lo rafforza.

Ma allora che cosa sono le Beatitudini? Anzitutto, esse si inseriscono in una lunga tradizione di messaggi veterotestamentari, quali troviamo, per esempio, nel Salmo 1 e nel testo parallelo di Geremia 17,7 s: «Benedetto l'uomo che confida nel Signore...». Sono parole di promessa, che nello stesso tempo contribuiscono al discernimento degli spiriti e diventano così parole guida. La cornice data da Luca al Discorso della montagna chiarisce la destinazione particolare delle Beatitudini di Gesù: «Alzati gli occhi verso i suoi discepoli...». Le singole affermazioni delle Beatitudini nascono dallo sguardo verso i discepoli; descrivono per così dire lo stato effettivo dei discepoli di Gesù: sono poveri, affamati, piangenti, odiati e perseguitati (cfr. Le 6,20ss).

Sono da intendere come qualificazioni pratiche, ma anche teologiche, dei discepoli - di coloro che hanno seguito Gesù e sono diventati la sua famiglia.

Tuttavia la situazione empirica di minaccia incombente in cui Gesù vede i suoi si fa promessa, quando lo sguardo su di essa si illumina a partire dal Padre. Riferite alla comunità dei discepoli di Gesù, le Beatitudini rappresentano dei paradossi: i criteri mondani vengono capovolti non appena la realtà è guardata nella giusta prospettiva, ovvero dal punto di vista della scala dei valori di Dio, che è diversa dalla scala dei valori del mondo. Proprio coloro che secondo criteri mondani vengono considerati poveri e perduti sono i veri fortunati, i benedetti, e possono rallegrarsi e giubilare nonostante tutte le loro sofferenze. Le Beatitudini sono promesse nelle quali risplende la nuova immagine del mondo e dell'uomo che Gesù inaugura, il «rovesciamento dei valori».

Sono promesse escatologiche; questa espressione tuttavia non deve essere intesa nel senso che la gioia che annunciano sia spostata in un futuro infinitamente lontano o esclusivamente nell' aldilà. Se l'uomo comincia a guardare e a vivere a partire da Dio, se cammina in compagnia di Gesù, allora vive secondo nuovi criteri e allora un po' di éschaton, di ciò che deve venire, è già presente adesso. A partire da Gesù entra gioia nella tribolazione.

I paradossi presentati da Gesù nelle Beatitudini esprimono la vera situazione del credente nel mondo, quale è stata ripetutamente descritta da Paolo alla luce della sua esperienza di vita e di sofferenza da apostolo: «Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!» (2 Cor 6,8-10). «Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi...»(2 Cor4,8-10). Quello che nelle Beatitudini del Vangelo di Luca è parola di conforto e di promessa, in Paolo è l'esperienza vissuta dell'apostolo. Paolo si sente «messo all'ultimo posto» come un condannato a morte, che è diventato spettacolo per il mondo, senza patria, insultato, calunniato (cfr. 1 Cor 4,9-13). E nonostante ciò egli fa l'esperienza di una gioia infinita; proprio come colui che si è consegnato, che ha dato via se stesso per portare Cristo agli uomini, egli fa esperienza dell'intima connessione di croce e risurrezione: noi siamo messi a morte «perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale» (2 Cor4,11). Nei suoi inviati Cristo continua a soffrire, il suo posto è sempre la croce. Ma tuttavia Egli è irrevocabilmente il Risorto. E anche se l'inviato di Gesù in questo mondo è ancora immerso nella passione di Gesù, vi è tuttavia percepibile lo splendore della risurrezione che procura una gioia, una «beatitudine» più grande della felicità che egli poteva aver provato prima su vie mondane. Solo adesso egli sa che cos'è la vera «felicità», la vera «beatitudine», e, allo stesso tempo, riconosce quanto fosse misero ciò che, secondo i criteri comuni, deve essere considerato come soddisfazione e felicità.

Nei paradossi dell' esperienza di vita di san Paolo, che corrispondono ai paradossi delle Beatitudini, si manifesta la stessa realtà che Giovanni aveva espresso in modo ancora diverso, qualificando la croce del Signore come «elevazione», intronizzazione nelle altezze di Dio. Giovanni riunisce in una sola parola croce e risurrezione, croce ed elevazione, perché per lui in realtà l'una è inseparabile dall' altra. La croce è l'atto dell' «esodo», l'atto di quell' amore che si prende sul serio fino all' estremo e va sino «alla fine» (Gv 13,1), e per questo essa è il luogo della gloria, il luogo del vero contatto e della vera unione con Dio, che è Amore (cfr. 1 Gv 4,7.16). In questa visione giovannea è quindi ultimamente condensato e reso accessibile alla nostra comprensione ciò che significano i paradossi del Discorso della montagna.

[…]

Ma ora si pone la questione fondamentale: è giusta la direzione che ci indica il Signore nelle Beatitudini e nei moniti a esse contrapposti? È davvero male essere ricchi, sazi, ridere, essere apprezzati? Per la sua rabbiosa critica del cristianesimo Friedrich Nietzsche ha fatto leva proprio su questo punto. Non sarebbe la dottrina cristiana che si dovrebbe criticare: sarebbe la morale del cristianesimo che bisognerebbe attaccare come «crimine capitale contro la vita». E con «morale del cristianesimo» egli intende esattamente la direzione che ci indica il Discorso della montagna.

«Quale è stato fino ad oggi sulla terra il più grande peccato? Non forse la parola di colui che disse: "Guai a coloro che ridono!"?». E contro le promesse di Cristo dice: noi non vogliamo assolutamente il regno dei cieli. «Siamo diventati uomini - vogliamo il regno della terra».

La visione del Discorso della montagna appare come una religione del risentimento, come l'invidia dei codardi e degli incapaci, che non sono all' altezza della vita e allora vogliono vendicarsi esaltando il loro fallimento e oltraggiando i forti, coloro che hanno successo, che sono fortunati. All'ampia prospettiva di Gesù viene contrapposta un'angusta concentrazione sulle realtà di quaggiù: la volontà di sfruttare adesso il mondo e tutte le offerte della vita, di cercare il cielo quaggiù e in tutto ciò non farsi inibire da nessun tipo di scrupolo.

Molto di tutto questo è passato nella coscienza moderna e determina in gran parte il modo in cui oggi si percepisce la vita. Così il Discorso della montagna pone la questione dell' opzione fondamentale del cristianesimo e, da figli del nostro tempo, avvertiamo la resistenza interiore contro quest'opzione - anche se non siamo insensibili di fronte all' elogio dei miti, dei misericordiosi, degli operatori di pace, degli uomini sinceri. Dopo le esperienze dei regimi totalitari, dopo il modo brutale con cui essi hanno calpestato gli uomini, schernito, asservito, picchiato i deboli, comprendiamo pure di nuovo coloro che hanno fame e sete di giustizia; riscopriamo l'anima degli afflitti e il loro diritto a essere consolati. Di fronte all' abuso del potere economico, di fronte alla crudeltà del capitalismo che degrada l'uomo a merce, abbiamo cominciato a vedere più chiaramente i pericoli della ricchezza e comprendiamo in modo nuovo che cosa Gesù intendeva nel metterci in guardia dalla ricchezza, dal dio Mammona che distrugge l'uomo prendendo alla gola con la sua mano spietata gran parte del mondo. Sì, le Beatitudini si contrappongono al nostro gusto spontaneo per la vita, alla nostra fame e sete di vita. Esigono «conversione» - un'inversione di marcia interiore rispetto alla direzione che prenderemmo spontaneamente. Ma questa conversione fa venire alla luce ciò che è puro, ciò che è più elevato, la nostra esistenza si dispone nel modo giusto.

 

Il mondo greco, la cui gioia di vivere si rivela in modo meraviglioso nell' epopea omerica, era tuttavia profondamente consapevole del fatto che il vero peccato dell'uomo, la sua minaccia più intima è la hybris: l'autosufficienza presuntuosa, in cui l'uomo eleva se stesso a divinità, vuole essere lui stesso il suo dio, per essere completamente padrone della propria vita e sfruttare fino in fondo tutto ciò che essa ha da offrire. Questa consapevolezza che la vera minaccia per l'uomo consiste nell'autosufficienza ostentata, a prima vista così convincente, viene sviluppata nel Discorso della montagna in tutta la sua profondità a partire dalla figura di Cristo.

Abbiamo visto che il Discorso della montagna è una cristologia nascosta. Dietro di essa c'è la figura di Cristo, di quell'uomo che è Dio, ma che proprio per questo discende, si spoglia, fino alla morte sulla croce. I santi, da Paolo a Francesco d'Assisi fino a madre Teresa, hanno vissuto questa opzione mostrandoci così la giusta immagine dell'uomo e della sua felicità. In una parola: la vera «morale» del cristianesimo è l'amore. E questo, ovviamente, si oppone all' egoismo - è un esodo da se stessi, ma è proprio in questo modo che l'uomo trova se stesso. Nei confronti dell'allettante splendore dell'uomo di Nietzsche, questa via, a prima vista, sembra misera, addirittura improponibile. Ma è il vero «sentiero di alta montagna» della vita; solo sulla via dell' amore, i cui percorsi sono descritti nel Discorso della montagna, si dischiude la ricchezza della vita, la grandezza della vocazione dell'uomo.

Il testamento del cardinale

di Marco Politi

in "la Repubblica" del 19 maggio 2008

Da vescovo ha spesso chiesto a Dio: «Perché non ci dai idee migliori? Perché non ci rendi più forti nell'amore e più coraggiosi nell'affrontare i problemi attuali? Perché abbiamo così pochi preti?».

Oggi, entrato in uno stato d'animo crepuscolare, confida di domandare a Dio di non essere lasciato solo. Nell'ultima stagione della sua vita Carlo Maria Martini si confessa ad un confratello austriaco e ne nascono i "Colloqui notturni a  Gusalemme", appena editi da Herder in Germania, che rappresentano il suo testamento spirituale. Confessa di essere stato anche in conflitto con Dio, elogia Martin Lutero, esorta la Chiesa al coraggio di riformarsi, a non allontanarsi dal Concilio e a non temere di confrontarsi con i giovani. Un vescovo, rammenta, deve saper anche osare, come quando lui andò in carcere a parlare con militanti delle Brigate Rosse «e li ascoltai e pregai per loro e battezzai pure una coppia di gemelli di genitori terroristi, nata durante un processo».

Con padre Georg Sporschill, gesuita anche lui, l'ex arcivescovo di Milano è di una sincerità totale.

Sì, ammette, «ho avuto delle difficoltà con Dio». Non riusciva a capire perché avesse fatto patire suo Figlio in croce. «Persino da vescovo qualche volta non potevo guardare un crocifisso perché l'interrogativo mi tormentava». E neanche la morte riusciva ad accettare. Dio non avrebbe potuto risparmiarla agli uomini dopo quella di Cristo?

Poi ha capito. «Senza la morte non potremmo darci totalmente a Dio. Ci terremmo aperte delle uscite di sicurezza». E invece no.

Bisogna affidare la propria speranza a Dio e credergli. «Io spero di poter pronunciare nella morte questo sì a Dio».

Però, se potesse parlare con Gesù, Carlo Maria Martini gli chiederebbe «se mi ama nonostante le mie debolezze e i miei errori e se mi viene a prendere nella morte, se mi accoglierà». I discorsi di Gerusalemme sono come un lungo simposio notturno, senza bevande, alimentati soltanto dallo scorrere dei ragionamenti, rassicurati dalle ombre calde di una sera che si prolunga fino all'alba.

C'è stato un tempo - racconta - in cui «ho sognato una Chiesa nella povertà e nell'umiltà, che non dipende dalle potenze di questo mondo. Una Chiesa che concede spazio alle gente che pensa più in là. Una Chiesa che da coraggio, specialmente a chi si sente piccolo o peccatore. Una Chiesa giovane. Oggi non ho più di questi sogni. Dopo i settantacinque anni ho deciso di pregare per la Chiesa».

Eppure a ottantun anni il cardinale, grande biblista, non rinuncia a suggerire alla Chiesa di avere coraggio e di osare riforme. È essenziale avere la capacità di andare incontro al futuro.

Il celibato, spiega, deve essere una vera vocazione. Forse non tutti hanno il carisma. Affidare ad un parroco sempre più parrocchie o importare preti dall'estero non è una soluzione. «La Chiesa dovrà farsi venire qualche idea. La possibilità di ordinare viri probati (cioè uomini sposati di provata fede, ndr) va discussa». Persino il sacerdozio femminile non lo spaventa. Ricorda che il Nuovo Testamento conosce le diaconesse. Ammette che il mondo ortodosso è contrario. Ma racconta anche di un suo incontro con il primate anglicano Carey, al tempo in cui la Chiesa anglicana era in tensione per le prime ordinazioni di donne - sacerdote (avversate dal Vaticano). «Gli dissi per fargli coraggio che questa audacia poteva aiutare anche noi a valorizzare di più le donne e a capire come andare avanti».

Sul sesso il cardinale invita i giovani a non sprecare rapporti ed emozioni, imparando a conservare il meglio per l'unione matrimoniale, ma non ha difficoltà a rompere tabù, cristallizzatisi con Paolo VI, Wojtyla e di Ratzinger. «Purtroppo l'enciclica Humanae Vitae ha provocato anche sviluppi negativi. Paolo VI sottrasse consapevolmente il tema ai padri conciliari». Volle assumersi personalmente la responsabilità di decidere sugli anticoncezionali. «Questa solitudine decisionale a lungo termine non è stata una premessa positiva per trattare i temi della sessualità e della famiglia».

A quarant'anni dall'enciclica, dice Martini, si potrebbe dare un «nuovo sguardo» alla materia. Perché la Bibbia, ricorda, è molto sobria nelle questioni sessuali. Assai netta è soltanto nel condannare chi irrompe, distruggendo, in un matrimonio altrui. Chi dirige la Chiesa, sottolinea, oggi può «indicare una via migliore dell'Humanae Vitae». Il Papa potrebbe scrivere una nuova enciclica. E l'omosessualità? Il porporato ricorda le dure parole della Bibbia, ma rammenta anche le pratiche sessuali degradanti dell'antichità. Poi aggiunge delicatamente: «Tra i miei conoscenti ci sono coppie omosessuali, uomini molto stimati e sociali. Non mi è stato mai domandato né mi sarebbe venuto in mente di condannarli». Troppe volte, soggiunge, la Chiesa si è mostrata insensibile, specie verso i giovani in questa condizione.

C'è un filo rosso che lega i suoi ragionamenti nella quiete di Gerusalemme. I credenti non hanno bisogno di chi instilli loro una cattiva coscienza, hanno bisogno di essere aiutati ad avere una «coscienza sensibile». E vanno stimolati continuamente a pensare, a riflettere.

«Dio non è cattolico», era solita esclamare Madre Teresa. «Non puoi rendere cattolico Dio», scandisce Martini. Certamente gli uomini hanno bisogno di regole e confini, ma Dio è al di là delle frontiere che vengono erette. «Ci servono nella vita, ma non dobbiamo confonderle con Dio, il cui cuore è sempre più largo».

Dio non si lascia addomesticare.

Se questa è la prospettiva ci si può rivolgere con spirito più aperto al non credente o al seguace di un'altra religione. Con chi non crede ci si può confrontare sui fondamenti etici, che lo animano. Ed è bello camminare insieme a chi ha una fede diversa.

«Lasciati invitare ad una preghiera con lui - suggerisce con mitezza Martini - portalo una volta ad un tuo rito. Ciò non ti allontanerà dal cristianesimo, approfondirà al contrario il tuo essere cristiano. Non avere paura dell'estraneo».

Per il cardinale la grande sfida geopolitica contemporanea è lo scontro delle civiltà. Conoscono davvero i cristiani il pensiero e i pensieri dei musulmani - si chiede Martini - e come fare per capirsi? Tre sono le indicazioni. Abbattere i pregiudizi e l'immagine del nemico, perché i terroristi non possono davvero fondarsi sul Corano. Studiare le differenze. Infine avvicinarsi nella pratica della giustizia, perché l'Islam in ultima istanza è una religione figlia del cristianesimo così come il cristianesimo è figliato dal giudaismo.

La regola aurea del cristiano - Martini lo ribadisce in questo suo scritto che assomiglia tanto ad un testamento spirituale - è «Ama il tuo prossimo come te stesso». Anzi, spiega con la precisione dello studioso della Bibbia, Gesù dice di più: «Ama il tuo prossimo perché è come te». Da lì sorge l'imperativo a praticare giustizia. È terribile, insiste Martini, invocare magari Dio nella costituzione europea, e poi non essere coerenti nella giustizia. E qui il cardinale di Santa Romana Chiesa tira fuori il Corano e legge la splendida sura seconda. Non si è giusti, se ci si inchina per pregare a oriente o a occidente. Giusto è colui che crede in Allah e nell'Ultimo Giudizio. Giusto è colui che «pieno di amore dona i suoi averi ai parenti, agli orfani, ai poveri e ai pellegrini». Chi fa l'elemosina e riscatta gli incarcerati. «Costui è giusto e veramente timorato di Dio».

Poi torna riflettere sull'Al di là. C'è l'Inferno? Sì. «Eppure ho la speranza che Dio alla fine salvi tutti». E se esistono persone come un Hitler o un assassino che abusa di bambini, allora forse l'immagine del Purgatorio è un segno per dire: «Anche se tu hai prodotto tanto inferno (sulla terra) forse dopo la morte esiste ancora un luogo dove puoi essere guarito».

Non finirebbero mai i discorsi notturni di Gerusalemme. Lo si capisce dall'andamento quieto delle domande e delle risposte. Come onde che si susseguono. Martini nel frattempo è rientrato in Lombardia, fiaccato dal Parkinson. A chi lo ascolta, lascia questo segnale: «Possiamo anche lottare con Dio come Giacobbe, dubitare e dibatterci come Giobbe, rattristarci come Gesù e le sue amiche Marta e Maria. Anche questi sono sentieri che portano a Dio».

Ieri, a Parigi, l’arcivescovo emerito di Milano ha offerto una sua analisi del libro del Papa

«Ammiro il Gesù di Ratzinger, ma non è l’unico»

Martini: «Una lettura alla luce di Fede e Ragione, che si oppone al metodo storico-critico» Cercherò di rispondere a cinque domande: 1. Chi è l’autore di questo libro? 2. Qual è l’argomento di cui parla? 3. Quali sono le sue fonti? 4. Qual è il suo metodo? 5. Che giudizio dare sul libro nel suo insieme?

1. L’autore di questo libro è Joseph Ratzinger, che è stato professore di teologia cattolica in varie Università tedesche a partire dagli anni Cinquanta e, in questa veste, ha seguito l’evolversi e le diverse vicissitudini della ricerca storica su Gesù; ricerca che si è sviluppata anche presso i cattolici nella seconda metà del secolo scorso. L’autore ora è Vescovo di Roma e Papa con il nome di Benedetto XVI. Qui si pone già una possibile questione: è il libro di un professore tedesco e di un cristiano convinto, oppure è il libro di un Papa, con il conseguente rilievo del suo magistero? In verità, per quanto riguarda l’essenziale della domanda, è l’autore stesso nella prefazione a rispondere con franchezza: «Non ho bisogno di dire espressamente che questo libro non è in alcun modo un atto magisteriale, ma è unicamente espressione della mia ricerca personale del "volto del Signore". Perciò, ciascuno è libero di contraddirmi. Chiedo soltanto alle lettrici e ai lettori di farmi credito della benevolenza senza la quale non c’è comprensione possibile» (p.19). Siamo pronti a fare questo credito di benevolenza, ma pensiamo che non sarà facile per un cattolico contraddire ciò che è scritto in questo libro. Comunque, tenterò di considerarlo con uno spirito di libertà. Tanto più che l’autore non è esegeta, ma teologo, e sebbene si muova agilmente nella letteratura esegetica del suo tempo, non ha fatto studi di prima mano per esempio sul testo critico del Nuovo Testamento. Infatti, non cita quasi mai le possibili varianti dei testi, né entra nel dibattito circa il valore dei manoscritti, accettando su questo punto le conclusioni che la maggior parte degli esegeti ritengono valide.

2. Di cosa parla? Il libro ha come titolo Gesù di Nazaret. Penso che il vero titolo dovrebbe essere Gesù di Nazaret ieri e oggi. E questo perché l’autore passa con facilità dalla considerazione dei fatti che riguardano Gesù all’importanza di quest’ultimo per i secoli seguenti e per la nostra Chiesa. Il libro è pieno di allusioni a problematiche contemporanee. Per esempio, parlando della tentazione nella quale dal demonio viene offerto a Gesù il dominio del mondo, egli afferma che il «suo vero contenuto diventa visibile quando constatiamo che, nella storia, essa prende continuamente una forma nuova. L’Impero cristiano ha cercato molto presto di trasformare la fede in un fattore politico per l’unità dell’Impero… La debolezza della fede, la debolezza terrena di Gesù Cristo doveva essere sostenuta dal potere politico e militare. Nel corso dei secoli questa tentazioneassicurare la fede mediante il poteresi è ripresentata continuamente» (p. 59). Questo genere di considerazioni sulla storia successiva a Gesù e sull’attualità, conferiscono al libro un’ampiezza e un sapore che altri libri su Gesù, in genere più preoccupati dalla discussione meticolosa dei soli eventi della sua vita, non hanno. L’autore dà anche volentieri parola ai Padri della Chiesa e ai teologi antichi. Per esempio, per quanto concerne la parola greca epiousios, egli cita Origene, il quale dice che, nella lingua greca, «questo termine non esiste in altri testi e che è stato creato dagli Evangelisti» (p. 177).

 

Circa l’interpretazione della domanda del Padre Nostro «E non indurci in tentazione», egli richiama l’interpretazione di San Cipriano e precisa: «Così dobbiamo riporre nelle mani di Dio i nostri timori, le nostre speranze, le nostre risoluzioni, poiché il demonio non può tentarci se Dio non gliene dà il potere» (p. 187). Quanto alla storia di Gesù, il libro è incompleto, perché considera solo gli eventi che vanno dal Battesimo alla Trasfigurazione. Il resto sarà materia di un secondo volume. In questo primo volume sono trattati il Battesimo, le tentazioni, i discorsi, i discepoli, le grandi immagini di San Giovanni, la professione di fede di Pietro e la Trasfigurazione, con una conclusione sulle affermazioni di Gesù su se stesso. L’autore parte spesso da un testo o da un evento della vita di Gesù per interrogarsi sul suo significato per le generazioni future e per la nostra generazione. In questo modo il libro diventa una meditazione sulla figura storica di Gesù e sulle conseguenze del suo avvento per il tempo presente. Egli mostra che, senza la realtà di Gesù, fatta di carne e di sangue, «il cristianesimo diviene una semplice dottrina, un semplice moralismo e una questione dell’intelletto, ma gli mancano la carne e il sangue» (p. 270). L’autore si preoccupa molto di ancorare la fede cristiana alle sue radici ebraiche. Gesù, ci dice Mosè, «è il profeta pari a me che Dio susciterà… a lui darete ascolto» (Deuteronomio, 18,15) (p. 22). Ora, Mosé aveva incontrato il Signore.EIsraele può sperare in un nuovo Mosè, che incontrerà Dio come un amico incontra il proprio amico,ma al quale non sarà detto, come a Mosè, «Tu non potrai vedere il mio volto» (Esodo, 33,20). Gli sarà dato di «vedere realmente e direttamente il volto di Dio e di potere così parlare a partire da questa visione» (p. 25). E’ quel che dice il prologo del Vangelo di Giovanni: «Dio, nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Giovanni 1,18). «E’ qui il punto a partire dal quale è possibile comprendere la figura di Gesù» (p. 26). E’ in questo reciproco intrecciarsi di conoscenze storiche e di conoscenze di fede, dove ognuno di questi approcci mantiene la propria dignità e la propria libertà, senza mescolanza e senza confusione, che si riconosce il metodo proprio dell’autore, di cui parleremo più avanti.

3. Quali sono le sue fonti? L’autore non ne tratta direttamente, come spesso avviene in diverse opere dello stesso genere. Forse ne parlerà all’inizio del secondo volume, prima di affrontare i Vangeli dell’infanzia di Gesù. Ma si vede con chiarezza che egli segue da vicino il testo dei quattro Vangeli e gli scritti canonici del Nuovo Testamento. Egli propone anche una lunga discussione sul valore storico del Vangelo di Giovanni, respingendo l’interpretazione di Rudolf Bultmann, accettando in parte quella di Martin Hengel e criticando anche quella di alcuni autori cattolici, per poi esporre una propria sintesi, vicina alla tesi di Hengel, sebbene con un equilibrio e un ordine diversi. La conclusione è che il quarto Vangelo «non fornisce semplicemente una sorta di trascrizione stenografica delle parole e delle attività di Gesù, ma, in virtù della comprensione nata dal ricordo, ci accompagna, al di là dell’aspetto esteriore, fin nella profondità delle parole e degli eventi; in quella profondità che viene da Dio e che conduce verso Dio» (p. 261). Penso che non tutti si riconosceranno nella sua descrizione dell’autore del quarto Vangelo quando egli dice: «Lo stato attuale della ricerca ci consente perfettamente di vedere in Giovanni, il figlio di Zebedeo, il testimone che risponde con solennità della propria testimonianza oculare identificandosi anche come il vero autore del Vangelo» (p.252).

4. Tutto questo rivela con chiarezza il metodo dell’opera. Si oppone fermamente a quello che recentemente è stato chiamato, in particolare nelle opere del mondoanglosassone americano, «l’imperialismo del metodo storico-critico». Egli riconosce che tale metodo è importante, tuttavia corre il rischio di frantumare il testo come sezionandolo, rendendo così incomprensibili i fatti ai quali il testo si riferisce. Egli piuttosto si propone di leggere i vari testi rapportandoli all’insieme della Scrittura. In questo modo, si scopre «che esiste una direzione in tale insieme, che il Vecchio e ilNuovo Testamento non possono essere dissociati. Certo, l’ermeneutica cristologica, che vede in Gesù Cristo la chiave dell’insieme e, partendo da lui, comprende la Bibbia come un’unità, presuppone un atto di fede, e non può derivare dal puro metodo storico. Ma questo atto di fede è intrinsecamente portatore di ragione, di una ragione storica: permette di vedere l’unità interna della Scrittura e, attraverso questa, di acquisire una comprensione nuova delle diverse fasi del suo percorso, senza togliere ad esse la loro originalità storica» (p. 14). Ho fatto questa lunga citazione per mostrare come, nel pensiero dell’autore, ragione e fede siano implicate e «reciprocamente intrecciate», ciascuna con i suoi diritti e il proprio statuto, senza confusione né cattiva intenzione dell’una verso l’altra. Egli rifiuta la contrapposizione tra fede e storia, convinto che il Gesù dei Vangeli sia una figura storica e che la fede della Chiesa non possa fare a meno di una certa base storica.

 

Ciò significa, in pratica, che l’autore, come dice egli stesso a pagina 17, «ha fiducia nei Vangeli», pur integrando quanto l’esegesi moderna ci dice. E da tutto questo scaturisce un Gesù reale, un «Gesù storico» nel senso proprio del termine. La sua figura «è molto più logica e storicamente comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni» (p. 17). L’autore è convinto che «è soltanto se qualcosa di straordinario si è verificato, se la figura e le parole di Gesù hanno superato radicalmente tutte le speranze e tutte le attese dell’epoca che si spiega la sua crocifissione e la sua efficacia», e questo alla fine porta i suoi discepoli a riconoscergli il nome che il profeta Isaia e tutta la tradizione biblica avevano riservato solo a Dio (cf. pp.17-18). Applicando questo metodo alla lettura delle parole e dei discorsi di Gesù, che comprende parecchi capitoli del libro, l’autore rivela di essere persuaso «che il tema più profondo della predicazione di Gesù era il suo proprio mistero, il mistero del Figlio, nel quale Dio è presente e nel quale egli adempie la sua parola» (p. 212). Questo è vero per il Sermone della montagna in particolare, a cui sono dedicati due capitoli, per il messaggio delle parabole e per le altre grandi parole di Gesù. Come dice l’autore affrontando la questione giovannea, cioè il valore storico del Vangelo di Giovanni e soprattutto delle parole che egli fa dire a Gesù, così diverse dai Vangeli sinottici, il mistero dell’unione di Gesù con il Padre è sempre presente e determina l’insieme, pur restando nascosto sotto la sua umanità (cf. p. 245). In conclusione, bisogna «che noi leggiamo la Bibbia, e in particolare i Vangeli come unità e totalità come richiesto dalla natura stessa della parola scritta di Dio che, in tutti i suoi strati storici, è l’espressione di un messaggio intrinsecamente coerente» (p. 215).

5. Se tale è il metodo di lettura dell’autore, cosa dobbiamo pensare della riuscita globale dell’opera, al di là del numero di copie vendute nel mondo intero, che tutto sommato non è un indice particolarmente significativo del valore del libro? L’autore confessa che questo libro «è il risultato di un lungo cammino interiore» (p. 19). Se pure ha cominciato a lavorarvi durante l’estate 2003, il libro è tuttavia il frutto maturo di una meditazione e di uno studio che hanno occupato un’intera vita. Ne ha tratto la conseguenza che «Gesù non è un mito, che è un uomo di carne e di sangue, una presenza tutta reale nella storia. Noi possiamo seguire le strade che ha preso. Possiamo udire le sue parole grazie ai testimoni. E’ morto ed è risuscitato ». Questa opera è quindi una grande e ardente testimonianza su Gesù di Nazareth e sul suo significato per la storia dell’umanità e per la percezione della vera figura di Dio. E’ sempre confortante leggere testimonianze come questa. A mio avviso, il libro è bellissimo, si legge con una certa facilità e ci fa capire meglio Gesù Figlio di Dio e al tempo stesso la grande fede dell’autore. Ma esso non si limita al solo dato intellettuale. Ci indica la via dell’amore di Dio e del prossimo, come quando spiega la parabola del buon Samaritano: «Ci accorgiamo che tutti noi abbiamo bisogno dell’amore salvifico che Dio ci dona, al fine di essere anche noi capaci di amare, e che abbiamo bisogno di Dio, che si fa nostro prossimo, per riuscire ad essere il prossimo di tutti gli altri» (p. 226). Pensavo anch’io, verso la fine della mia vita, di scrivere un libro su Gesù come conclusione dei lavori che ho svolto sui testi del Nuovo Testamento. Ora, mi sembra che questa opera di Joseph Ratzinger corrisponda ai miei desideri e alle mie attese, e sono molto contento che lo abbia scritto. Auguro a molti la gioia che ho provato io nel leggerlo.

(traduzione dal francese di Daniela Maggioni)

Carlo Maria Martini

 

L'autore dell'articolo: da ufficiale a filosofo

Filosofo e storico della scienza, Michel Serres è nato nel 1930 ed è stato ufficiale della marina militare francese. Dopo studi in matematica e in filosofia, ha insegnato alla Sorbona e alla Stanford University; dal 1990 è Accademico di Francia. Molto eclettico, ha scritto su Comte, Verne, Carpaccio, Lucrezio, la Genesi... «Apparentemente non credente», lo ha definito una volta Joseph Ratzinger citando la sua prefazione a un libro del biologo Jacques Testart sulla bioetica. Ma perché ci angosciamo? Nei testi della Settimana Santa si illuminano le trasformazioni dell'uomo. "E se proprio ora cominciasse l'era cristiana?" La provocazione del filosofo francese.

Ecce homo (da Avvenire 9 aprile 2006)

Ecce homo, ecco l'uomo: ecco, innanzitutto, colui che, alle porte del pretorio, apparve alla folla, duemila anni fa. Per quanto ciecamente, intuiamo la distanza che ci separa da lui, figlio di Dio e figlio dell'uomo.

Ecco l'uomo: ecco, poi, l'uomo di oggi, colui che io sono, che voi siete, quelli con i quali viviamo tutti i giorni, quelli delle generazioni future, i nostri figli. Quali cambiamenti si sono realizzati nei nostri corpi, negli ultimi due millenni? Metamorfosi straordinarie, soprattutto simultanee, hanno cambiato i nostri modi di nascere, la nostra speranza di vita, la preparazione della nostra morte. Tali avvenimenti dell'esistenza, un tempo, non dipendevano da noi; senza poter reagire, i nostri padri subivano questa fatale necessità. Al contrario, nascere, vivere e morire dipendono oggi, sempre più, dalle nostre conoscenze scientifiche, dalle esperienze mediche, chimiche e farmacologiche, dalle nostre decisioni personali, dalle nostre libertà civili. Tali novità ci stupiscono; talvolta ci incantano; spesso ci spaventano. Per quanto ciecamente, intuiamo davanti a noi un futuro diverso dalle nostre storie ancestrali. Come capire quello che è successo alla nostra storia, alla nostra esistenza, al nostro corpo? Tornando alla passione e alla resurrezione dell'Incarnato, di cui Pilato disse: Ecce homo.

ECCO INNANZITUTTO LA MORTE: RACCONTO DELLA RISURREZIONE

Il giorno di Pasqua, di primo mattino, le pie donne, guidate da Maria Maddalena, accorrono al sepolcro, portando vasi di unguenti. Giunte alla meta, trovano la pietra rotolata, il sepolcro vuoto e un giovane vestito di bianco che le aspetta. Perché portare quei profumi? Cosa andavano a fare là? A imbalsamare il cadavere. Perché? Per rispettare i riti antichi. Giuseppe stesso aveva fatto mummificare la spoglia del padre Giacobbe prima di riportarla nella terra degli avi. Una veste sfarzosa, uno splendore artificioso cercavano di abbellire il corpo dopo la morte. Lungo lavoro dalle tecniche precise, l'imbalsamazione preparava la resurrezione, evento che gli egiziani chiamavano l'uscita nella luce dell'immortalità. Davanti a Gesù, Lazzaro si era alzato avvolto in bende e lenzuoli.

Da tempi immemorabili, i mummificatori toglievano innanzitutto il cervello per mezzo di aghi e le interiora attraverso un'incisione praticata nel fianco; poi immergevano e lavavano il cadavere con profumi, anche per quaranta giorni, in vasche di preparati alchimici; infine lo avvolgevano in biancheria incerata.

Chirurgica, chimica, tessile, ciascuna di queste quattro fasi tecniche separavano il conservabile dal deperibile, purificavano, lisciavano coprendo di cosmetico, infine seppellivano in stoffe sfarzosamente preparate.

Il racconto della Passione fa riferimento a ciascuno di quei vecchi riti, ma li elimina a uno a uno: la corona di spine sul capo e la ferita nel fianco da cui colano sangue e acqua, Gesù le riceve da vivo; allo stesso modo, Maria Maddalena a Betania versa su di Lui un vaso di prezioso nardo: imbalsamato o unto prima della morte, riceve dalle mani di una donna pubblica il proprio nome di battesimo, Cristo, che vuol dire unto o imbalsamato, nome che lei gli scrive sul corpo spandendo il balsamo come in un'estrema unzione. Infine, di primo mattino, le sante del parentado, accorrendo al sepolcro, vedono le lenzuola piegate in un angolo, bende inutili senza il contenuto. Le quattro tecniche canoniche dell’imbalsamazione scompaiono quattro volte.

La passione, la morte e la risurrezione del Cristo annullano qualunque lavoro di mummificazione su un corpo il cui nome ha lo stesso significato di «mummia». Scompaiono la morte e i suoi preparativi. Giunte davanti al sepolcro vuoto, le donne non seppero che fare dei loro vasi di unguenti, quel mattino di Pasqua, momento in cui si conclude la grande, colossale Antichità mediterranea e forse universale: momento unico in cui l’uscita alla luce del giorno, l’ingresso nella gloria dopo la morte, avvengono senza preparativo, senza arte né profumo, senza veli né bende, senza strumento né lavoro, senza tecnica né conoscenza. Dimenticate il corpo morto, rivolgete le vostre azioni verso oggetti diversi dal cadavere, liberatevi dalla morte.

Allora il tempo e la storia vacillano. Se scavate nella terra, come gli storici, come gli archeologi, come quelli che venerano il passato morto, non troverete ormai che sepolcri vuoti. La vita personale, la vita collettiva, insomma l’esistenza e la storia umane si dirigevano un tempo in un senso unico: verso la morte. Ormai contiamo il tempo nell’altro senso. La fine non giace più davanti a me, davanti a noi, ma dietro di me, dietro di noi: lasciamo che i morti seppelliscano i morti. Ecco un primo significato, storico e umanissimo, della Resurrezione.

Ed ecco il secondo. Per la prima volta nella storia, la vittima non vince il vincitore, a sua volta per vendetta; ma, con un ribaltamento inaudito, vince la morte stessa, in cui sempre i rivali sperano di precipitare l’avversario. Nessuno mai ha detto né letto che il Risorto trionfasse su Pilato o su qualche traditore, o su qualche tribunale, e dunque nessuno potrebbe a sua volta vendicarsi di quanti hanno condannato Gesù. Il circolo bestiale vincitore-vinto si ferma, la morte stessa si ritira. Fine della vigilia, dell’abominevole storia.

Quanti, in tempi remoti e recenti, hanno annunciato: Dio è morto? Noi cantiamo il contrario: la morte stessa ha mollato la presa, la morte è morta, finita la sua vittoria.

ESEMPIO SINGOLARE DI QUESTA FINE: LA PENA DI MORTE

Ascoltiamo una delle ultime sette parole di Cristo sulla croce: «Tutto si è consumato».  

Al momento di morire, ci domanderemo: cosa abbiamo fatto, in conclusione, della nostra esistenza? Quando la nostra vita si consumerà, si compirà, finirà, essa si definirà e, in conclusione, rivelerà il suo vero senso. Che significato emerge da questo compimento finale, qui, sul Golgota? Si manifesta la verità o il senso che le leggi umane hanno sacrificato un innocente. Ebbene, se questa vittima riscatta, come dice la Scrittura, i peccati del mondo, allora da questo momento non potremo più condannare a morte nessuno, poiché tutti i crimini e tutte le pene del mondo e degli uomini sono già stati purgati, riscattati. E’ morto l'ultimo condannato a morte della storia. Con la sua morte Cristo abolisce la pena di morte. Tessuta di violenza, la vecchia storia è compiuta; il tempo dei sacrifici è terminato; il tempo della morte si conclude. La morte è morta, egli l'ha riscattata.

NON RESTA CHE PARLARE DELLA NASCITA

Ancora una delle ultime sette parole di Cristo sulla croce: «Donna, ecco tuo figlio; figlio, ecco tua madre». Al momento di morire, Cristo dice la procreazione; parla di una donna e di un figlio" di una madre e di suo figlio. Al momento di morire, annuncia una nascita; recita di nuovo la scena di Natale.

Ecce homo: ecco la nascita dell'uomo. Come nasciamo, secondo natura? Tutti noi siamo usciti da un ventre vivo; la natura, di buona fama, ci fa nascere da una madre; le leggi esigono poi che i nostri genitori ci riconoscano; allora noi nasciamo alla legalità; alla nascita naturale segue quella civile; figlio di fatto, prima; poi, figlio di diritto; inoltre e talvolta, anche se in via eccezionale, le leggi consentono l'adozione. Possiamo dunque nascere tre volte o in tre modi diversi: figlia o figlio naturale, figlio o figlia legittima, figlio adottivo.

Nella Sacra Famiglia, quella della greppia di Natale, si affacciano, in parte, i primi due legami: quelli della vita naturale e della legge civile, fino a stemperarsi. Ecco Giuseppe, padre adottivo; ecco Gesù, figlio adottivo; ecco infine Maria, la cui mite verginità, al di là del parto difficile, naturale, carnale, incarnato, rinnova la genealogia di natura e di sangue. Egli stesso senza figlio né figlia, Gesù Cristo si scosta dalla genealogia di sangue e di natura; morendo come un fuorilegge, si svincola dalle leggi politiche e civili; ha persino detto al pretorio: il mio regno non è di questo mondo. Ebbene, quest'ultima parola, rivolta a Maria e a Giovanni, dice la Buona Novella. Quale? Ecco: a partire da quest'annuncio, ci sarà filiazione o genitorialità se, e solo se, il padre e la madre adottano il figlio o la figlia, se la figlia e il figlio adottano padre e madre, cioè se si scelgono gli uni gli altri per amore e dilezione. A partire dalla nascita di Gesù come figlio adottivo, a partire dalla sua morte quando designa un figlio adottivo e una madre adottiva, vergine, una seconda volta, di quella nuova maternità, l’umanità, trascendendo i legami di sangue e quelli della legge, facendo al tempo stesso mutare corso alle genealogie antiche, discenderà meno dalla natura o dalle leggi che dalla propria volontà, dalla propria libertà, dalla propria scelta e dall'amore. Diverrete davvero padre, madre, figlia o figlio, nel momento in cui vi sceglierete gli uni gli altri, vi amerete gli uni gli altri. L’era moderna, quella che cominciò il giorno di Natale, con la nascita del figlio della suddetta Vergine, si definisce quindi come quella in cui l’adozione, ossia la scelta d'amore, diventa il legame umano elementare della genitorialità, la struttura elementare della genitorialità.

"Ecce homo": ecco i nuovi rapporti della genealogia umana; alle porte della morte s'annunciano una nuova nascita, una nuova genitorialità, insomma un'antropologia e una storia nuove, le nostre, quelle di oggi.

Ecce homo, ecco dunque il figlio dell’uomo e la filiazione umana. Ecco, di fronte a Lui, l’uomo d'oggi: Ecce homo.

Scientifici, tecnici, sociali, giuridici... i cambiamenti contemporanei prodotti dalle nostre conoscenze e dalle nostre pratiche, che talvolta ci fanno temere il sovvertimento dei nostri corpi, delle nostre famiglie, delle nostre abitudini, dei nostri valori... riguardano, in effetti, la nascita, la genealogia, la speranza di vita, la nostra battaglia contro la morte, la morte stessa. Ecco dunque l’uomo di oggi, del quale trasformiamo il corpo in maniera così forte, rispetto a quello che fu, da temere di non riconoscerlo più; del quale trasformiamo le relazioni in modo così grande che temiamo di non riconoscerlo più in mezzo agli altri e ai suoi, anch'essi trasformati. Perché ci angosciamo? Nei suoi racconti più angoscianti, quelli della Passione, il Vangelo non illumina forse, non lenisce, non sistema... le trasformazioni di quelle cose proprie dell’uomo e tali da cambiare corso al suo destino?

E se, per quanto ciecamente, intuissimo che comincia l'era cristiana?

(traduzione di Anna Maria Brogi)

 

Paolo VI. CRISTO

Omelia pronunciata da Papa Montini a Manila, durante il suo viaggio apostolico in Asia Orientale, Oceania e Australia nel 1970.

Rileggendo questo testo è come se riascoltassimo la sua inconfondibile voce, capace di trasmettere anche a noi oggi una grande passione per il Signore Gesù.

 

 Io, Paolo, successore di San Pietro, incaricato della missione pastorale per tutta la Chiesa, non sarei mai venuto da Roma fino a questo Paese estremamente lontano, se non fossi fermissimamente persuaso di due cose fondamentali: la prima, di Cristo; la seconda, della vostra salvezza. Di Cristo! Sì, io sento la necessità di annunciarlo, non posso tacerlo: "Guai a me se non proclamassi il Vangelo!" (1 Cor. 9, 16). Io sono mandato da Lui, da Cristo stesso, per questo. Io sono apostolo, io sono testimonio. Quanto più è lontana la meta, quanto più difficile è la mia missione, tanto più urgente è l'amore che a ciò mi spinge (cfr. 2 Cor. 5, 14). Io devo confessare il suo nome: Gesù è il Cristo, Figlio di Dio vivo (Matth. 16, 16); Egli è il rivelatore di Dio invisibile, è il primogenito d'ogni creatura, è il fondamento d'ogni cosa; Egli è il Maestro dell'umanità, è il Redentore; Egli è nato, è morto, è risorto per noi; Egli è il centro della storia e del mondo; Egli è Colui che ci conosce e che ci ama; Egli è il compagno e l'amico della nostra vita; Egli è l'uomo del dolore e della speranza; è Colui che deve venire e che deve un giorno essere il nostro giudice e, noi speriamo, la pienezza eterna della nostra esistenza, la nostra felicità. Io non finirei più di parlare di Lui: Egli è la luce, è la verità, anzi: Egli è "la via, la verità e la vita" (Jo. 14, 6); Egli è il Pane, la fonte d'acqua viva per la nostra fame e per la nostra sete; Egli è il Pastore, la nostra guida, il nostro esempio, il nostro conforto, il nostro fratello.

 

PARIGI
Alla sede dell’Unesco il cardinale Martini presenta il libro del Papa: non solo un esame dei Vangeli che sconfessa «l’imperialismo del metodo storico critico», ma una «riflessione sulle conseguenze della incarnazione per il presente». E alla fine l’arcivescovo rivela: anch’io volevo scrivere un saggio su Cristo

Un «Gesù» molto attuale di Carlo Maria card. Martini

«È confortante leggere testimonianze così. Il testo è molto bello e ci fa comprendere meglio sia il Figlio di Dio sia la grande fede dell’autore»

da Parigi Daniele Zappalà. Avvenire 24 maggio 07

In mezz'ora, la lettera «Q» apre 5 volte tutti i capitoli di un denso discorso. Ma in quest'occasione, per il cardinale esegeta, non si tratta di confrontarsi col mistero della fonte originaria dei testi evangelici. «Quelle» non sta per «fonte» in tedesco, ma per «quale» in francese: «Qual è il suo metodo?», si chiede infatti Carlo Maria Martini davanti a un uditorio che parla francese ma travalica l'Europa. E ancora: «Quali sono le sue fonti?». E naturalmente: «Qual è il soggetto di cui si parla?». E alla fine, davanti a un pubblico rapito: «Quale giudizio dare sul libro nel suo insieme?». E invece, per introdurre l'intero discorso con una domanda solo in apparenza retorica: «Chi è l'autore di questo libro?». Il Gesù di Nazaret di Benedetto XVI avrebbe ben potuto prendere il titolo di «Gesù di Nazaret ieri e oggi», ha sostenuto ieri mattina all'inizio della sua esposizione all'Unesco l'arcivescovo emerito di Milano. E non si tratta solo del trampolino argomentativo scelto da Martini per illustrare la «bellezza» dell'ultimo libro del Papa.

Pare anche, a un altro livello, l'incipit appena velato di una spiegazione più emotiva e interiore. La spiegazione del viaggio da Gerusalemme a Parigi di un lettore d'eccezione che vuole divulgare, in quella «casa della cultura universale» che è proprio l'Unesco, le proprie intime riflessioni a proposito di «una grande ed ardente testimonianza su Gesù di Nazaret e sul suo significato per la storia dell'umanità e per la percezione della vera figura di Dio». All'inizio, il lettore Martini inforca per qualche istante le lenti dell'esegeta. E con queste lenti esigenti sostiene ad esempio di non trovare sufficientemente chiara nel Gesù di Nazaret la presentazione del passaggio 32,8 del Deuteronomio. Segue la citazione di alcuni refusi di stampa o di certe rese di traduzione dall'originale tedesco lievemente ambigue che il vigilissimo lettore ha subito localizzato. Fra l'altro, sostiene il cardinale, la frequenza di questi nei è maggiore nell'edizione italiana rispetto a quella francese che viene pubblicata oggi da Flammarion. Ma la dotta ouverture lascia presto il passo alle soglie di livelli di lettura ancor più profondi. Osservando che «il libro è pieno di allusioni alle questioni contemporanee» - come quelle sulla relazione fra fede e potere politico -, Martini sostiene che «questo genere di considerazioni sulla storia posteriore a Gesù e sull'attualità conferisce al libro un'ampiezza e un sapore che altri libri su Gesù, preoccupati dalla discussione meticolosa dei soli eventi della sua vita, non hanno».

Per questa via, argomenta il cardinale, Gesù di Nazaret «diventa una meditazione sulla figura storica di Gesù e sulle conseguenze del suo avvento per il tempo presente». Dopo aver osservato che il Papa è «molto preoccupato di ancorare la fede cristiana nelle sue radici ebraiche», il presule vede proprio nella fede una componente centrale del «metodo» scelto da Joseph Ratzinger per avvicinarsi alla figura di Cristo: «È in questa sovrapposizione di conoscenze storiche e di conoscenze di fede, dove ciascuno di questi approcci mantiene la sua dignità e la sua libertà, senza mescolanza né confusione, che si trova il metodo proprio dell'autore». Poco dopo, Martini precisa ulteriormente la sua analisi osservando che Benedetto XVI «si propone di leggere i diversi testi rapportandoli alla totalità della Scrittura», ponendosi così a distanza rispetto a ciò che soprattutto nel mondo anglosassone viene descritto come «l'imperialismo del metodo storico-critico». Secondo la lettura dell'arcivescovo, dunque, il Papa «rifiuta la contraddizione fra fede e storia, convinto che il Gesù dei Vangeli è una figura storicamente sensata e coerente e che la fede della Chiesa non può fare a meno di una certa base storica». Fede e ricerca storica non confliggono ma si completano.

E questo metodo, osserva ancora Martini, è pienamente coerente con la convinzione del Papa della centralità del mistero di Cristo nelle Sacre Scritture. Brevemente introdotto alla tribuna da monsignor André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi, e affiancato anche da Joseph Doré, arcivescovo emerito di Strasburgo, il cardinale Martini riserva per la conclusione i suoi apprezzamenti di lettore più calorosi: «È sempre confortante leggere testimonianze come questa. A mio parere, il libro è molto bello, si legge con una certa facilità e ci fa meglio comprendere al contempo Gesù figlio di Dio e la grande fede dell'autore». Prima di congedarsi fra gli applausi, il cardinale rivela di aver concepito di recente egli stesso il progetto di «un libro su Gesù». Ma il lavoro di esegesi sui più antichi manoscritti integrali delle Sacre Scritture ha poi preso il sopravvento: «Mi sembra che questo libro di Joseph Ratzinger corrisponda ai miei desideri e alle mie aspettative e sono molto felice che sia stato scritto». Alla fine, pare quasi di dover cogliere le 5 «Q» di Martini già nella trasparente semplicità del loro abito grafico. Cinque cerchi concentrici - 5 pozzi interpretativi - dentro cui si insinua una pista, un cammino. Cinque varchi profondi e discreti per calarsi nello spessore delle pagine di un autore divenuto, in corso d'opera, successore di Pietro.

 

'Così come accade ai meridiani nell'avvicinarsi al polo, Scienza, Filosofia e Religione convergono necessariamente nell' avvicinarsi al Tutto, Gesù.'

Teilhard de Chardin Le Milieu Divin

L'avventura di un paleontologo tra fede e ragione

Cade oggi (10 aprile 2005) il cinquantesimo anniversario della morte di padre Teilhard de Chardin (deceduto a New York il 10 aprile 1955, era nato a Sacernat, in Francia, il 10 maggio 1881). Gesuita e paleontologo, protagonista tra l'altro di importanti spedizioni scientifiche in Cina, nelle sue opere - tutte apparse postume - si fece sostenitore di una coraggiosa e controversa interpretazione spirituale del darwinismo, in una prospettiva di «evoluzionismo finalista» per cui la creazione era destinata a culminare nel «punto omega», identificato nel Cristo.

In questa pagina proponiamo ampi stralci del profilo del pensatore tracciato dal cardinale Paul Poupard, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, in occasione del convegno su Teilhard de Chardin svoltosi a Roma nello scorso mese di ottobre presso la Pontificia Univesità Gregoriana (il testo integrale è stato pubblicato dalla rivista «Culture e fede»). Le opere di Teilhard de Chardin sono attualmente disponibili nei cataloghi di diversi editori italiani, come Queriniana (da cui sono usciti, tra l'altro «La mia fede», «Meditazioni e preghiere cosmiche», «La messa sul mondo», «Il cuore della materia», «Sulla sofferenza». e «Il fenomeno umano») e Il Segno.

«La Convergenza è il tema centrale della sua opera di scienziato e della sua vocazione sacerdotale» scrive Poupard.

Sono numerose, negli scritti di Giovanni Paolo II, le citazioni dell'opera di Pierre Teilhard de Chardin. Da alcuni decenni assistiamo a un vero e proprio rinnovamento dei rapporti e degli scambi tra religione e scienza.
Da parte sua, il Concilio Vaticano II ha riconosciuto e deplorato certi interventi indebiti che hanno fatto soffrire più di un Galileo nel corso della storia. Oltre a questa presa di posizione del Concilio, fin dall'inizio del suo pontificato papa Giovanni Paolo II ha voluto personalmente, cito, che «teologi, scienziati e storici approfondiscano l'esame del caso Galileo e, in un leale riconoscimento dei torti da qualunque parte essi stiano, facciano scomparire quella diffidenza che, in molti; tale questione oppone ancora a una concordia fruttuosa tra scienza e fede, tra Chiesa e mondo» (discorso all'Accademia pontificia delle Scienze, 10 novembre 1979).

Alla luce di ciò, oggi possiamo comprendere indubbiamente meglio quello che resta il principale insegnamento dell'immensa opera di padre Teilhard de Chardin, quello che gli ha dato, nelle parole del cardinale Casaroli, «enorme risonanza»: l'affermazione di una necessaria visione unitaria delle cose che si elabori a partire dalla Convergenza degli sguardi delle scienze sperimentali, della filosofia e della teologia. Nel Fenomeno umano afferma: «Così come accade ai meridiani nell'avvicinarsi al polo, Scienza, Filosofia e Religione convergono necessariamente nell' avvicinarsi al Tutto.

Convergono, ho detto; ma senza confondersi e senza smettere, fino alla fine, di attaccare il Reale da angolazioni e su piani diversi». La ricerca degli scienziati desiderosi di coniugare ragione e fede, può lodevolmente ispirarsi a quella di padre Teilhard de Chardin, nella misura in cui sia pienamente consapevole dei limiti del suo campo, della sua angolazione di approccio, dei suoi metodi e dell' esatta portata delle sue conclusioni, delle quali la storia delle scienze ci mostra il carattere spesso provvisorio.La ricerca di padre Pierre è scaturita da una doppia passione: il suo essere affascinato da quella che chiamava la Consistenza, e il perseguimento della sua conoscenza attraverso la geologia e la paleontologia; e la sua vocazione sacerdotale, umanizzata all' estremo, senza però essere sprovvista di risonanza mistica e cosmica, che gli apre l'intelligenza alla percezione dell'universale.

Teilhard ha voluto riabilitare la materia, che ci intriga e ci inquieta, e le sue intuizioni lo hanno condotto al punto di considerare l'universo su una scala di Totalità, concepito come scrigno dell'arrivo inaspettato della vita, dove l'uomo e il Cristo si presentano come «la chiave delle cose». L'uomo teilhardiano, corpo e pensiero, nato dalla terra, è centrale e dà accesso alla conoscenza della terra, così come a quella dello spirito e della vita. In lui 'scoppia' qualcosa di nuovo: egli è la zona di emersione in cui culmina il "lavoro" dell'universo. Peraltro Teilhard non perde di vista il Cristo, l'asse e la fine di tutto l'evento del mondo, verso il quale vede convergere tutte le forze ascendenti. Per lui, la creazione non ha in definitiva consistenza se non in funzione del Verbo Incarnato.

Nel paradossale opuscolo su Scienza e Cristo - è più comune trovare riflessioni su Dio e la scienza che su Cristo e la scienza - Teilhard ci consegna la sua professione di fede nel Cristo cosmico: «Il Cristo non è un accessorio che è stato aggiunto al mondo, un ornamento, un re come ne facciamo... È l'alpha e l' omega, il principio e la fine (di tutta fa creazione), la pietra di fondamento e la chiave di volta, la Pienezza e il Pienificante. È Colui che consuma e colui che dà a tutto consistenza. Verso Lui e attraverso Lui, Vita e Luce interiori del mondo, si compie nel gemito e nello sforzo la convergenza universale di tutto lo spirito creato. Egli è il Centro Unico, prezioso e solido, che sfavilla sulla futura sommità del mondo, all' opposto delle regioni oscure, eternamente decrescenti dove si avventura la nostra Scienza quando scende la china della materia e del passato...».

Già ai suoi tempi, Teilhard de Chardin era inquietato dall'orientamento scientista di certi scienziati e ricercatori, che rischiava di impregnare la filosofia e la cultura e di condizionare le opinioni pubbliche. Così ha voluto rispondere a quanti ritengono di non avere più bisogno di Dio e lo escludono dalle loro costruzioni intellettuali. E professa che, agli occhi di chi sa vedere - e vedere l'evidenza - senza velo ingannatore e senza rifiuti a priori, lo spirito della terra disvela un bisogno sempre più grande di adorare: «Dall'Evoluzione universale - scrive - Dio emerge nelle nostre coscienze più grande e necessario che mai» (L'energia umana, 1962). Egli è il punto cosmico Omega, la cui forza operante si rivela quella dell'Amore. Dio è amore e lo si raggiunge solo nell'amore: «Ecco il segreto dello slancio cristiano». E Teilhard ha questa espressione straordinaria per forza e profondità: «Oggi un cristiano può dire al suo Dio che lo ama, non solo con tutto il corpo e con tutta l'anima, ma con tutto l'universo! ».

Card. Paul Poupard, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura (traduzione di Anna Maria Brogi)

TOMMASO DA CELANO, Vita prima

[Francesco] spesso, quando voleva nominare Cristo Gesù, infervorato di amore celeste lo chiamava «il Bambino di Betlemme», e quel nome «Betlemme» lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancora più tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora. E ogni volta che diceva «Bambino di Betlemme» o «Gesù», passava la lingua sulle labbra, quasi a gustare e trattenere tutta la dolcezza di quelle parole.

Vi si manifestavano con abbondanza i doni dell'Onnipotente, e uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione. Gli sembra che il Bambinello giaccia privo di vita nella mangiatoia, e Francesco gli si avvicina e lo desta da quella specie di sonno profondo. Né la visione prodigiosa discordava dai fatti, perché, per i meriti del Santo, il fanciullo Gesù veniva risuscitato nei cuori di molti, che l'avevano dimenticato, e il ricordo di lui rimaneva impresso profondamente nella loro memoria.

1.

Dossier - Un Dio sconfitto?

Gli dei hanno fatto boom

di Brunetto Salvarani

È un tempo, il nostro, in cui si parla molto di «rivincita del sacro»: il «ritorno di Dio» sulla scena pubblica condiziona la discussione politica. Ma gli dei trionfanti sono quelli violenti del fondamentalismo oppure quelli "a buon mercato" della religione civile. E la loro potrebbe essere una vittoria di Pirro.

«Ora mi torna in mente una vecchia storiella, dove uno dei personaggi ovviamente siamo a Gerusalemme, e dove sennò è seduto in un piccolo caffè, e c’è una persona anziana seduta vicino a lui, e così i due cominciano a chiacchierare. E poi salta fuori che il vecchio è Dio in persona. D’accordo, il personaggio non ci crede subito lì per lì, però grazie ad alcuni indizi si convince che è seduto al tavolino con Dio. Ha una domanda da fargli, ovviamente molto pressante. Dice: "Caro Dio, per favore dimmi una volta per tutte, chi possiede la vera fede? I cattolici o i protestanti o forse gli ebrei o magari i musulmani? Chi possiede la vera fede?". Allora Dio, in questa storia, risponde: "A dirti la verità, figlio mio, non sono religioso, non lo sono mai stato, la religione nemmeno m’interessa"».

In questi giorni che Enzo Bianchi definisce «cattivi» (dal Salmo 49), il raccontino dello scrittore israeliano Amos Oz, tratto dal prezioso Contro il fanatismo, non appare davvero solo una felice boutade. A ben vedere, il suo Dio sorprendentemente disinteressato della dimensione religiosa fa il paio con un tema, quello della sua sconfitta, che a più di mezzo secolo dalla proposta di un cristianesimo non-religioso di Dietrich Bonhöffer e a un quindicennio da La sconfitta di Dio di Sergio Quinzio emerge sempre più come intrigante e meritevole di un approfondimento. Certo può apparire paradossale rifarsi a una presunta débâcle divina, nell’anno del Signore 2007: vale a dire nel cuore di una stagione in cui, semmai, numerosi quanto ben presenti all’opinione pubblica affiorano i segnali di una clamorosa smentita delle tesi che imperversavano nei dintorni dell’epoca del Vaticano II: quelle che narravano, più o meno baldanzosamente, di un definitivo esaurimento della funzione pubblica di un Dio, almeno nel paesaggio culturale del cosiddetto Occidente (lemma e concetto da usare con le molle, oggi più ancora di ieri).

Tornando alla domanda iniziale, perché allora pare opportuno, e persino vitale, interrogarci su di un’idea che sconta, in partenza, la delicatezza di dover ricorrere a un antropomorfismo sempre discutibile, quella appunto della sconfitta di Dio? In primo luogo, si potrebbe replicare, perché occorre indagare su quale Dio sia quello di cui la sociologia sta registrando la rivincita. Sovente, infatti, si tratta di un Dio tribale, assolutista e premoderno, a dispetto delle tecnologie decisamente à la page adottate dai suoi seguaci. Un Dio sanguinario, nazionalista, incapace di fare i conti coi processi di meticciamento avanzato che sono il portato normale di tutta una serie di fenomeni diffusi su scala mondiale: la facilità di viaggi e comunicazioni, le immigrazioni figlie di squilibri tuttora paurosi, la labilità dei legami sociali e delle appartenenze, non più solide e durature come fino a ieri (quando matrimoni e credenze erano «finché morte non ci separi»).

Grampa: Gesù non è sgabello per il potere

Male, religione e croce: su questi tre binari verrà declinato l’interrogativo sulla "Sconfitta di Dio" durante la Cattedra del dialogo promossa, a Milano, dall’Ufficio diocesano per l’ecumenismo, in collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio, la nostra rivista e il Centro San Fedele, che ospiterà gli incontri (ore 20.45). In programma il 7 maggio il confronto tra Erri De Luca e Gabriella Caramore, il 14 tra Gianni Vattimo e Piero Stefani, il 21 tra Jürgen Moltmann e Franco Giulio Brambilla.

A don Giuseppe Grampa, che condurrà le tre serate, chiediamo perché si è deciso di parlare di "sconfitta" in un momento in cui si parla tanto di Dio. «Bisognerebbe chiedersi se questa sia una vittoria. Nel Nuovo Testamento si dice che il servo di Dio non va alla rincorsa dei titoli sui giornali. E Gesù non ha avuto nessuna audience nella storiografia del tempo. Essere citati sulle prime pagine non è un contrassegno evangelico, è il contrario».

Don Giuseppe Grampa, direttore del mensile della diocesi di Milano, Il Segno, e docente di Filosofia

delle religioni a Milano, a Padova e a Scutari, in Albania. Il titolo "Un Dio sconfitto?" è anche un ricordo di Sergio Quinzio. Cosa ha da dire oggi la sua eredità?

«A dieci anni dalla morte si vuole ricordare la inquietante testimonianza di questo credente, la riflessione sulla fede non in termini trionfalistici, ma di prossimità alle situazioni limite dell’uomo, di maggiore sofferenza, dalle quali nasce la domanda "Dio mio, perché mi hai abbandonato?", che è stata sulle labbra di Gesù ed è giusto che stia su quelle dei credenti».

Nel suo libro, La schiena di Dio, lei afferma che Dio non si svela nell’evidenza immediata. E la pretesa di vedere il volto di Dio?

«Va delusa. "Mostrami il tuo volto" non è la richiesta di un provocatore, ma di Mosè, un grande amico di Dio. Eppure resta senza risposta. La "schiena di Dio" è l’insieme degli indizi che accompagnano la nostra esistenza: orme, tracce sui nostri sentieri. Di più non ci è dato. Anche san Tommaso nell’inno all’Eucaristia canta a un Dio che si nasconde. Il nascondersi di Dio è il suo modo di farsi presente alla nostra storia. Questo è prezioso in un tempo nel quale molti vogliono mettere le mani su Dio, per farne sgabello del proprio potere, legittimazione della propria autorità, delle proprie scelte, delle proprie ideologie. Dio non è arruolabile né manipolabile da nessuno. Né dalle religioni né dal potere politico. La schiena allude alla non disponibilità né sequestrabilità di Dio. È una dimensione che dobbiamo custodire. La grande tradizione ebraica e anche l’islam l’hanno conservata. Noi cristiani abbiamo accentuato la familiarità, il che qualche volta ha propiziato un uso disinvolto di Dio al servizio dei nostri progetti».

La deriva fanatica, di cui lei scrive, è sconfitta di Dio?

«Laddove non c’è dialogo, dove non c’è apertura alla trascendenza, dove non c’è libertà di coscienza, c’è magari una grande quantità di religione, ma neanche un briciolo di fede. E un utilizzo strumentale di Dio. Cosa che accade in tutte le esperienze fanatiche».

Enzo Bianchi: la spiritualità dei non credenti

«Vorrei dire con franchezza che siamo lontani dallo spirito espresso da Paolo VI con parole ormai dimenticate: "Noi dedichiamo uno sforzo pastorale di riflessione per cercare di cogliere negli atei nell’intimo del loro pensiero i motivi del loro dubbio e della loro negazione di Dio"»: così Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, valuta il polemico e talvolta conflittuale confronto che in Italia, oggi, si realizza tra credenti cattolici e non cristiani, agnostici o atei. «È vero che oggi l’ateismo militante non è più attestato come negli anni Sessanta», prosegue Bianchi, «ma l’orizzonte agnostico, attualmente più esteso di allora, richiede lo stesso sforzo da parte dei cristiani per tessere un dialogo che si nutra di ricerca comune, di ascolto, di dibattito tra vie diverse. Al contrario, da una parte, quella dei credenti, le posizioni sono sovente difensive perché nutrite di paura e di vittimismo, mentre da parte di alcuni non cristiani si arriva a deridere la fede, ad affermare che proprio i cristiani sono incapaci di avere un’etica, che la fede è fomentatrice di integralismo, intolleranza e violenza».


Fratel Enzo Bianchi, priore della Comunità monastica di Bose
(foto A. Giuliani/Catholic Press Photo/Periodici San Paolo).

In questo panorama problematico resta praticabile un dialogo rispettoso, capace di essere fecondo?

«Perché questo cammino di dialogo si apra, occorrono senz’altro alcune urgenze. Agnostici e atei non credono in Dio, non si sentono coinvolti da questa presenza perché non la sentono reale, ma sono consapevoli che invece le religioni che professano Dio fanno parte della storia umana, della società, del mondo. Come essi non trovano ragioni per credere, altri invece le trovano e sono felici: gli uni pensano che questo mondo basti loro, gli altri sono soddisfatti di avere la fede. Proprio questo, però, consente di dire che l’umanità è una, che di essa fanno parte religione e irreligione e che, comunque, in essa è possibile, per credenti e non credenti, la via della spiritualità: non intesa in stretto senso religioso, ma come vita interiore profonda, fedeltà-impegno nelle vicende umane, ricerca di un vero servizio agli altri, attenta alla creazione di bellezza nei rapporti umani. Spiritualità, soprattutto, come antidoto al nichilismo, scivolo verso la barbarie: nichilismo che credenti e non credenti dovrebbero temere maggiormente nella sua forza di negazione di ogni progetto e principio etico. Purtroppo tale nichilismo viene sovente definito relativismo, finendo per confondere il linguaggio del dialogo e del confronto e portando all’incomprensione reciproca: ed è lo stesso nichilismo che, paradossalmente, può assumere la forma del fanatismo in cui si danno certezze assolute, dogmatismi, intolleranza che accecano fino a rendere una persona disposta a morire e a far morire. No al nichilismo, dunque, ma sì al riconoscimento della presenza di una spiritualità anche negli atei e agnostici, capaci di mostrare che, se anche Dio non esiste, non per questo ci si può permettere tutto: persone che sanno scegliere cosa fare in base a principi etici di cui l’uomo in quanto tale è capace. La grande tradizione cattolica chiede ai cristiani di riconoscere che l’uomo, qualsiasi uomo, proprio perché creato a immagine e somiglianza di Dio, è capax boni, in grado di discernere tra bene e male in virtù di un indistruttibile sigillo posto nel suo cuore e della ragione di cui è dotato. I non credenti sono capaci di combattere l’orrore, la violenza, l’ingiustizia; di riconoscere principi e valori, formulare diritti umani, perseguire un progresso sociale e politico attraverso un’autentica umanizzazione. Si tratta, per tutti, di essere fedeli alla terra e all’uomo, vivendo e agendo umanamente, credendo all’amore, parola sì abusata oggi e spesso svuotata di significato, ma parola unica che resta nella grammatica umana universale per esprimere il luogo cui l’essere umano si sente chiamato».

Nella tua riflessione su questo tema, trovi qualche elemento peculiare nella società italiana?

«Dovremmo fare tesoro di un aneddoto storico: Mussolini un giorno confidò al suo ministro degli Esteri: "Io sono cattolico e anticristiano!". Eredi di tale posizione si possono trovare tuttora, nel nostro Paese: persone non credenti né in Cristo né nel Vangelo, ma pronti a difendere valori culturali cattolici. Non è certo questo che intendevo quando mi sono riferito a una spiritualità degli atei (su Repubblica del 28 febbraio scorso): ma piuttosto a un sentire che rende possibile un confronto proprio sui valori del Vangelo, sul suo messaggio umanizzante a servizio dell’uomo. Credo ci sia posto per una spiritualità degli agnostici e dei non credenti, di quanti sono in cerca della verità perché non soddisfatti di risposte prefabbricate, di verità definite una volta per tutte. È una spiritualità che si nutre dell’esperienza dell’interiorità, della ricerca del senso e del senso dei sensi, del confronto con la realtà della morte come parola originaria e con l’esperienza del limite; una spiritualità che conosce l’importanza della solitudine, del silenzio, del pensare, del meditare, e si alimenta dell’alterità, perché va incontro agli altri, all’altro e resta aperta all’Altro se mai si rivelasse».

Brunetto Salvarani 

Un Dio, per dirla con un unico aggettivo, fondamentalista. Di fronte al quale, e agli esiti tremendi degli scempi commessi in suo nome, c’è chi echeggia le parole terribili del profeta: «Maledetto il giorno in cui nacqui; il giorno in cui mia madre mi diede alla luce non sia mai benedetto» (Ger 20,14). Su tale linea, Umberto Galimberti ammonisce di non lasciarsi ingannare dalle folle oceaniche radunate attorno al Papa, o incollate agli schermi dai predicatori tv d’oltreoceano, o dal fiorire delle sette apocalittiche: dato che, più che di una rivincita di Dio, si tratterebbe piuttosto dell’ultimo lampeggiare del suo tramonto, «perché l’ordine del mondo, che un tempo era cadenzato dai suoi comandamenti, ora è regolato dalle ferree leggi della tecnica che a Dio più non si rifanno, perché di Dio hanno perso non solo il nome, ma anche il senso, l’origine e la traccia».

Dall’altra parte, in contraddizione solo apparente col modello sinora evocato, affiora un Dio low cost: poco esigente, legato a Chiese telematiche, che preferisce le statistiche e la partecipazione ai tavoli del potere piuttosto che le scelte etiche a caro prezzo. Diversamente rispetto a un fresco passato, oggi, infatti, persino una rapida istantanea sulle religioni le fotografa volentieri come un processo in continuo divenire, se «è possibile scegliere di essere atei, seguire un’ortodossia religiosa, cambiare confessione, ritagliarsi un proprio percorso all’interno delle religioni» (P. Berger). Tutto appare più frastagliato, liquido, meno certo rispetto a ieri. E i credenti, in genere, si sentono più liberi, oltre che meno sicuri della loro direzione spirituale. Le consolidate istituzioni religiose appaiono più vulnerabili, e l’assolutezza del loro messaggio è messa in discussione dalla pluralità delle scelte possibili che ci troviamo davanti: un caleidoscopio che va complicandosi giorno dopo giorno, creando perplessità, dubbi e solo talora anche speranze. È il Dio, sincretistico e olistico, della Next Age estrema propaggine, ancor più individualista, della New Age , disposto a concorrere senza scrupoli al supermarket del sacro e a competere con altri messaggi di salvezza a colpi di workshop e manuali di benessere. E che ben s’adatta al dilagante bisogno di miracolismo: fraintendimento che viene da lontano, testimoniato a più riprese anche dai Vangeli («È il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo», Mt 27,42b).

Ecco, sono innanzitutto tali caratteri, opposti ma alla fine complementari, che lasciano presagire, al di là dei boom di facciata, come il Dio manifestatosi nella Bibbia, nel Talmud, nel Corano, stia vivendo con giustificata apprensione il suo fragoroso ritorno sulla scena pubblica. Fino a rendere legittimo chiedersi, con più di un analista, se si tratti di un ritorno dopo la parentesi della secolarizzazione (Habermas parla di una «società postsecolare», e la formula sta avendo grande fortuna), o se non rappresenti piuttosto lo stadio finale della religione. L’ultimo atto di una pur fascinosa rappresentazione.

In tale chiave, almeno nel panorama occidentale, più che sparire dalla scena, essa sarebbe invece liquidata attraverso la sua commodification, divenendo alla fine un mero prodotto di consumo: e la trascendenza alimentata dal supposto ritorno, più che approdare all’incontro col Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, condurrebbe a un trascendere se stessi in un’esperienza dal sapore intenso, emozionale, eccessivo, estremo, trasgressivo. Un giovane teologo inglese, Graham Ward, nel suo True Religion, parla di un Dio ad effetti speciali, con una religione ridotta a feticcio, merce fra le altre merci che ci consente di partecipare al ritmo frenetico del gioco capitalistico, con la percezione peraltro di non essere realmente in esso. Ed ecco il Dio virtuale, legittimo patrono della simulazione della realtà in cui siamo immersi ormai senza più accorgercene, capace di sedurre con il proprio fascino e di espandere il desiderio a dimensioni praticamente illimitate. Un orizzonte che se confermato potrebbe alla fine trasformare l’acclamata rivincita di Dio in una vera e propria, e amarissima, vittoria di Pirro.

Brunetto Salvarani

2.

Il teologo tedesco e il relatore al Convegno di Verona l'altra sera a Milano si sono confrontati sull'atteggiamento di Dio davanti al mistero del Calvario e ai mille volti del dolore dell'uomo

Moltmann e Brambilla davanti alla «sconfitta» della Croce

«Passione significa sia sofferenza che immenso ardore.

Se Dio fosse incapace di soffrire, sarebbe incapace di amare»

da Milano Antonio Giuliano. Avvenire 23 maggio 07

C'è una domanda che si leva drammatica nel corso della storia quando il dolore e la sofferenza colpiscono vittime innocenti: «Dio, dove sei? Perché non rispondi?». Ha il peso di un macigno irremovibile e muto di fronte al grido disperato degli uomini. È un'angoscia da cui non fu esente nemmeno Gesù che dalla croce implorò: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Marco 15,34).

L'interrogativo del Cristo ha sempre suscitato discussioni tra i credenti e i non credenti. L'altra sera, nell'auditorium del Centro culturale San Fedele a Milano, l'invocazione straziante del Crocifisso è stata al centro della riflessione di due appassionati teologi: l'evangelico Jürgen Moltmann e il cattolico Franco Giulio Brambilla. L'incontro ha chiuso una rassegna, promossa dalla Cattedra del dialogo dell'arcidiocesi di Milano, dal titolo volutamente provocatorio: «Un Dio sconfitto? Dal male? Dalla religione? Dalla croce?». L'iniziativa è stata organizzata in collaborazione con Fondazione culturale San Fedele, mensile Jesus, Centro culturale protestante, Comunità di Sant'Egidio.

Per tutto il mese di maggio si sono confrontati sul tema pensatori atei e credenti. A Moltmann e Brambilla è toccato spiegare l'apparente «sconfitta» di Dio alla luce del mistero della crocifissione del suo Figlio. Il teologo tedesco non ha potuto non evocare il crimine commesso dal suo popolo contro gli ebrei durante il nazismo e il disastro della guerra. «Nel luglio del '43, avevo diciassette anni, ho vista la mia città, Amburgo, sotto le bombe. Quarantamila persone, tra cui donne e bambini, persero la vita. La mia domanda in quell'inferno era: "Dov'è Dio? È assente o soffre con noi? E ad Auschwitz?"». Moltmann ha così ribadito le tesi espresse nel suo best seller Il Dio Crocifisso, ricordando che «chi comprende la passione del Figlio dell'uomo ha compreso Dio». Ecco quindi il dilemma: Dio è capace di soffrire? Brambilla ha convenuto sulla sofferenza di Cristo come la «passione del Dio appassionato». «Il termine passione - ha chiarito Moltmann - significa sia sofferenza che immenso sentimento e ardore. Il Dio di Israele è un Dio pieno di passione per la vita del suo popolo e per la giustizia sulla sua terra. Se Dio fosse incapace di soffrire, sarebbe anche incapace di amare».

Brambilla ha animato il dibattito portandolo sul terreno della libertà e dell'iniziativa di Cristo. Così la discussione è scivolata sulla Trinità di Dio: un argomento su cui i teologi discuterebbero per ore, ma al prezzo di perdere gli uditori, come ha sottolineato Moltmann. «Il senso di abbandono vissuto da Cristo - ha aggiunto il teologo tedesco - è stata la più profonda espressione della sua solidarietà con uomini e donne abbandonati e derelitti. Anch'io, dopo aver scritto quel libro, ho ricevuto tante lettere di persone che elevando il loro grido a Dio, hanno trovato al loro fianco il Dio sofferente».

Comune la conclusione dei due teologi: non si può capire il Venerdì santo, senza la mattina di Pasqua. Perché «la vittoria vale più della sconfitta, la resurrezione più della crocifissione». Diceva don Tonino Bello: «Se anche la tua croce durasse tutta la vita, è sempre "collocazione provvisoria". Solo da mezzogiorno alle tre del pomeriggio è consentita la sosta sul Golgota! Al di fuori di quell'orario, c'è divieto assoluto di parcheggio. Dopo tre ore, ci sarà la rimozione forzata di tutte le croci. Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio».

, fine della religione, secolarizzazione della società, oblio di Dio: questi i titoli di bestseller, spesso assurti a slogan ben al di là del circuito teologico, che hanno contornato per un buon ventennio la ricerca sul "posto delle religioni" (massime quelle riconducibili alla radice abramitica) in un mondo ormai completamente disincantato, soddisfatto e proteso, ahilui fuori tempo, a una specie di magnifiche sorti e progressive. E che sembrava giustificare l’interrogativo, per nulla retorico, del Vangelo: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8b).

In realtà, il fuoco covava, al solito, sotto la cenere, e bastò un evento all’apparenza periferico nello scacchiere strategico planetario come la fine del regime iraniano dello scià, col contestuale ritorno al potere degli ayatollah sciiti (1979), per spingere uno studioso attento come Gilles Kepel a proclamare dieci anni dopo che Dio una volta di più, in realtà, stava rivincendo trionfalmente il match contro le forze che l’avevano espunto dall’orizzonte pubblico. Del resto, sarebbe stato sufficiente adottare un cannocchiale un po’ più mondialista, per scorgere qui il risveglio islamico dopo la fugace illusione del matrimonio col verbo marxista, e là il successo del pensiero neochassidico in Israele; il ruolo della teologia della liberazione nel processo di emancipazione sociale del continente latinoamericano e la pervasività dell’idea di hindutva a sancire, per un buon indiano, la necessità di rifarsi a una purezza hindu; fino al desolante fardello identitario delle guerre in ciò che fu la Yugoslavia, nel cuore dell’Europa, con relativo, orrendo corredo di massacri e stupri condotti su base etnico-religiosa.

E la costellazione di indizi potrebbe allargarsi, per giungere alla contestuale funzione di collante civile che chiese, moschee e sinagoghe vanno offrendo a Stati in cui è palpabile una straordinaria crisi della politica e della sua rappresentanza; ma già questi pur rapidi cenni, riscontrabili alle più diverse latitudini, tracciano la mappa di un pianeta che ben prima dell’analisi di Samuel Huntington sull’inevitabile scontro fra civiltà risulta, al netto delle ambiguità che ne emergono, ripopolato di dei tanto in auge da esigere non di rado sacrifici umani dai loro devoti. Tutt’altro che sconfitti, dunque, e anzi saldamente piazzati in pole position dopo il rientro dall’esilio dal Monte Olimpo in cui già il poeta Hölderlin, due secoli fa, aveva immaginato di scorgerli.