GIOVANE COME TE

Gesù e la sua vita a Nazaret

Autore: DANIEL ANGE

Edizione: 1

Anno di pubblicazione: 2001

Luogo di pubblicazione: MILANO

Collana: VIVERE DA PROTAGONISTI

Destinatario: GIOVANI

Casa editrice: PAOLINE

Questo libro è sgorgato di getto, durante un mese di deserto… Così Daniel-Ange parla di questa sua nuova fatica che si presenta come un doppio libro in volume unico. È infatti un'opera che da una parte intende presentare la figura di Gesù ai giovani e dall'altra si prefigge di offrire loro alcune piste di riflessione sui grandi valori evangelici. È la vita di Gesù che viene presentata, ma non quella che vede Gesù impegnato nella predicazione e nell'annuncio del Regno.

L'Autore preferisce focalizzare l'attenzione di lettori e lettrici sugli anni a Nazaret, gli anni quindi della crescita di Gesù, per ritrovare in questo grande Modello le idee-guida e alcune risposte alle domande essenziali: chi sono io, perché vivo? Chi è Gesù per me?

 

GESU' DODICENNE - PREGHIERA PASTORALE

Autore: AELREDO DI RIEVAULX

Altri autori: PEZZINI DOMENICO curatore.

Edizione: 1

Anno di pubblicazione: 2001

Luogo di pubblicazione: MILANO

Collana: LETTURE CRISTIANE II MILLENNIO

Destinatario: TUTTI

Casa editrice: PAOLINE

 

Il volume raccoglie due scritti di Aelredo di Rievaulx, considerati minori e quindi poco conosciuti, almeno in Italia: Gesù dodicenne e Preghiera pastorale. Due opere che appartengono ai classici della letteratura spirituale medievale; esprimono l'esperienza umana e spirituale di un grande maestro di vita contemplativa e che hanno molti punti in comune sia per il genere che per il contenuto. Ambedue sono riconducibili al genere meditazione-preghiera, e contengono una sorta di filo rosso, quello della ricerca di Gesù che, una volta trovato, diventa il riferimento unico di ogni relazione. Volume curato da D. Pezzini.

 

Va di moda contaminare romanzo e religione

Articolo di Francesco Alberoni pubblicato sul Corriere della Sera il 1 maggio 2006, a proposito del tema della religione nei romanzi e nei film di oggi.

12 aprile 2006 Corriere della Sera

C'è in giro un gran bisogno di sacro, di religioso, di magico e di fantastico. Di qui il successo della grandiosa epopea “Il Signore degli anelli” di Tolkien dove la lotta fra il bene e il male viene vinta quando un eroe puro sa rinunciare al potere assoluto. Oppure la grande saga di Harry Potter ricca di avventure e di straordinari personaggi. Ma tanto Tolkien quando la Rowling tengono il cristianesimo lontano dalle loro storie fantastiche. Non contaminano romanzo e religione. Non deformano la storia o la dogmatica cristiana.

Invece, recentemente si è messa in moto una vera e propria affabulazione del cristianesimo, la costruzione di romanzi e film con storie immaginarie in cui viene coinvolto Gesù Cristo e altri personaggi della fede cristiana. Ha incominciato Martin Scorsese nel suo film “L’ultima tentazione di Cristo” in cui Satana, presentandosi sotto forma di cherubino, convince Gesù Cristo sulla croce a credere che il suo sacrificio sia stato sufficiente. Cristo si libera, sposa Maddalena, invecchia e quando sta per morire irrompono nella stanza Pietro e Giovanni, gli indicano il demonio che svanisce in una fiammata e Cristo si ritrova sulla Croce dove compie la missione di salvezza. Un film che, sia pure in modo paradossale, dimostra che la morte e resurrezione di Cristo sono l’essenza del Cristianesimo.

Il significato invece è esattamente l’opposto nelle storie da cui è tratto il “Codice da Vinci”: Gesù Cristo semplicemente un uomo, sposa Maria Maddalena, dà origine alla dinastia dei re di Francia, poi nella storia si mescolano i templari, i rosacroce, gli assassini dell’Opus Dei e chi più ne ha più ne metta. Non è più storia, è fantasia, ma la gente la prende per vera. E già si annunciano storie tratte dai vangeli gnostici come quella su Giuda, la creazione di una vera e propria mitologia in concorrenza col messaggio ufficiale della Chiesa. Mi sembra giusto aggiungere che questa tendenza alla creazione di miti o deformazione del religioso c’era anche ne “I versetti satanici” di Salman Rushdie condannato a morte da Khomeini.

Infatti chi ha letto il libro – pochissime persone in realtà nonostante i milioni di copie – si sarà accorto che vi si trova un vero e proprio sbeffeggiamento della rivelazione ricevuta da Maometto, la base stessa della religione islamica. I musulmani, che prendono la loro religione molto più sul serio dei cristiani, se ne sono accorti subito e hanno reagito in modo spietato. Per carità, mi ripugna la loro condanna, ma capisco la loro vigilanza.

 

 

Stefano Jacomuzzi Cominciò in Galilea

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Anche Stefano Jacomuzzi con Cominciò in Galilea (Piemme 1995, ma riedito da San Paolo, 2005, con una postfazione di Claudio Magris) percorre l'imper­via strada dell'indagine dell'anima di Gesù, facendolo parlare in prima persona.

In realtà sono due i punti di vista, che si rimandano a vicenda come in un gioco di specchi. Il primo è quello ‘esterno’dell'apostolo Andrea che osserva, ascolta, interroga, registra parole, azioni e stati d'animo del Maestro; il secondo è, appunto, quello di Gesù che chiarisce il suo pensiero, rivela sentimenti e progetti, cerca lui stesso di comprendersi, alle prese con un mistero inesauribile:«Il tempo degli uomini non può mi­surare la durata della mia solitudine. Io stesso non la conosco. La conosce il Padre, che mi ha esposto alla prova e assegnato il luogo e gli eventi della lotta».

Luca Giordano, Crocifissione di s. Andrea apostolo. 1675 circa, coll. privata. Milano

Da questa dialettica interno-esterno, di testimonianza su Gesù e autobiografia di Gesù, scaturisce la rilettura del mistero che sta alla base di ogni esistenza cristiana. Ne nasce una ‘cristologia narrativa’ che racconta l'opera della redenzione mantenendosi fedele alla narrazione evangelica, ma cercando di immedesimarsi, con un'attenzione vigile e sensibile, con i protagonisti per ridarci lo stupore dei primi incontri e delle prime scoperte. Di Andrea, anzitutto, che passa dall'irritazione iniziale per quello strano consiglio (o comando?) dopo la pesca infruttuosa, allo stupore, al desiderio di entrare nella logica di Gesù, la "logica semplice e imperiosa dell'amore" che sconvolge la sua esistenza.

E accanto a lui gli altri undici: Simone, il fratello, ge­neroso e irruente; Giovanni, che è ancora un ragazzo; Giacomo che ha il fuoco negli occhi, Natanaele, "uomo che non conosce falsità"... fino a Giuda di Kerjiot, angosciato di fronte al silenzio di un Dio che non interviene con la propria spada a riscattare il suo popolo.

Ma tutto converge sull'Uomo di Nazareth, il figlio del falegname che si rivela progressivamente come il Mes­sia atteso da secoli, che Simone professa senza incertezze come il "Cristo di Dio’, ma che continua a essere avvolto da un mistero che disorienta, senza però mai escludere.

Il mistero è "anzitutto l'al di qua, la giornata terrestre con le attese, i ricordi, gli amori, le piccole pene e le piccole gioie, intrise di fragile argilla e di eternità" (Magris). In esso si inserisce l'Uomo-Dio con la sua fragilità lontana da ogni eroismo, che piange, è tentato, si sdegna, è angosciato dal pensiero della morte, come tutti; e deciso, tuttavia, a condividere la strada dei suoi fino in fondo. Non manca però l'esperienza della gioia: la gioia dell'amicizia, per la bellezza della natura, per la folla che lo segue, la gioia che per l'uomo ha sempre il sapore di un bene perduto che soltanto Dio può ridonare.

Per questa creatura, assetata di gioia e incalzata dalla sofferenza e dalla morte, Gesù prova una profonda pietà; si commuove per la sorte degli uomini e cerca soprattutto di capirli, oltrepassando le apparenze per raggiungere il mistero di ciascuno, che Dio solo conosce. Soltanto Lui sa perché Giuda "finisce per urtare contro il suo piede" , incapace di accettare un Dio che lascia prosperare l'ingiustizia, mentre altri, esposti alla stessa tentazione, si dirigono verso un martirio d'amore.

È questa pietà che cambia la vita.

Le prendo il viso tra le mani e lo alzo verso di me. [...] Nei suoi occhi vedo passare tutti gli ardori, le passioni, i gesti della sua vita, e le ombre e le colpe, come volesse offrirmeli perché li prenda su di me. E infine scorgo nelle sue pupille riflesso il mio volto! Non ho mai pensato al mio volto, a come es­so sia fatto, a come gli altri mi vedono e mi descrivono a quelli che chiedono di me.

Nel peccatore pentito rinasce l'immagine di Gesù, l'immagine del figlio di Dio, e d'altra parte Gesù stesso non potrebbe riconoscersi se non specchiandosi negli occhi grati e nella storia degli uomini.

La pietà si traduce in un messaggio che sconvolge le categorie umane, che rifiuta la logica della ricchezza e del potere, subordinando tutto alla legge dell'amore; perfino certe sue collere che esplodono improvvise e violente sono espressione d'amore. Fino alla fine. Per questo si incammina sulla strada della passione e della morte: d'ora in poi il nostro dolore sarà anche il dolore di Dio.

"Se, dunque, ci chiedessero di definire il Gesù del romanzo, potremmo rispondere che si tratta di un Cristo dal volto umano, di un Messia che conosce l'uomo, lo cerca e lo ama. Certo, essendo il Verbo incarnato, percorre le nostre strade avvolto di mistero; ma ciò nulla toglie alla sua dimensione umana: la rende, anzi, immensamente più vera e più amabile" (Castelli).

 

Iconografia della fine. Immagini del Giudizio Universale

Alfa e Omega. Il Giudizio Universale tra Oriente e Occidente ItacaLibri

La letteratura sul Giudizio Universale è vasta e complessa. Il volume pubblicato da Itacalibri, con testo introduttivo di Marcello Angheben, fin dal titolo vuole farne una sorta di ponte «escatologico» fra l'Est e l'Ovest europeo: Alfa e Omega. Il Giudizio Universale tra Oriente e Occidente (pagine 254, con ampio apparato iconografico). Il volume segue una partizione molto articolata dove attorno a un saggio suddiviso cronologicamente si sviluppano gli approfondimenti tematici di diversi specialisti. Dopo la prefazione di Valentino Pace il testo di Angheben parte dalla Tarda Antichità per passare in rassegna l'Alto Medioevo, l'età romanica, la scultura e la pittura del XIII secolo, il ponte fra Medioevo e Rinascimento.

A margine schede su singole opere come l'Apocalisse di Treviri, l'illustrazione dei Beatus, le prime immagini del Giudizio nella Cappadocia bizantina, gli affreschi di San Demetrio a Vladimir e altre immagini del mondo slavo, il portale di Santa Fede a Conques e altri di Parigi, Chartres, Amiens e Bourges, il Battistero di Firenze, gli Scrovegni, il Camposanto di Pisa, il Giudizio di Bosch a Vienna per concludersi con quello di Rogier van der Weyden a Beune.

 

ANNI 80, prima parte: BERTO, ULIVI, SAVIANE

INTRODUZIONE

Giunto Gesù nella regione di Cesarea di Filippo, chiese ai suoi discepoli: "La gente chi dice che sia il Figlio dell'uomo?". Risposero: "Alcuni Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti" (Mt. 16, 13-14).

E lungo i secoli la gente ha continuato a dare le proprie risposte ma tanto varie, tanto diverse, che il risultato non sembra essere altro, a volte, che l'at­tualità della domanda: chi è veramente Gesù?

In molti si sono riproposti questo fondamentale interrogativo. Le risposte si sono scandite, di generazione in generazione, coinvolgendo intere esistenze in un crescente interesse verso la persona di Cristo. Tale interesse resta estremamente vivo anche oggi, a riprova della perenne attualità di Gesù.

È il giovane, bonario pastore dell'arte catacombale o è il trionfante Cosmocrator della tarda iconografia imperiale? E’ il Cristo re e giudice del mondo, troneggiante in croce sui portali e sulle absidi romaniche, o l'uomo dolente della crocifissione di Grunevald? È il protagonista della disputa di Raffaello dall'impassibile bellezza o l'umano moribondo di Michelangelo?

O, da altri punti di vista, è il Gesù che ne aveva abbastanza della società del suo tempo come hanno ritenuto alcuni movimenti giovanili, soprattutto americani, o il predicatore della lotta di classe di molti riformatori sociali o teologi della liberazione, o l'annunciatore della vera fede, il banditore del regno di Dio, il garante dell'ordine, il fondatore di una Chiesa...

La teologia ci dice che Gesù è anzitutto il Figlio di Dio: in Lui è all'opera Dio stesso, attraverso di Lui ha parlato e ha agito, si è rivelato definitivamente Dio stesso. Ma è possibile scrivere un romanzo sul Figlio di Dio?

"Dio mi ha tormentato per tutta la vita", fa dire Dostoevskij ad uno dei suoi personaggi. E allora vale la pena di chiedersi perché uno scrittore così tormentato dall'idea di Dio, così religiosamente appassionato, così acuto psicologo, non abbia mai scritto un romanzo su Cristo. In realtà Cristo è quasi sempre presente nelle sue opere ma in maniera da risultare concretamente inafferrabile. L'esempio del grande scrittore russo sem­bra dimostrare, come di fatto spesso è accaduto, che la pretesa di concretizzare l'incomprensibile in una concreta figura psico­logica può dare come risultato, per quanto ci si sforzi, solo degli sbiaditi clichés. Sono i clichés di Ben Ur, di Quo vadis, di Il grande Pescatore, primi ad essere tradotti in films proprio per questa loro pretesa di raccontare la storia completa di Gesù.

La letteratura contemporanea, anche quella italiana, appare molto meno ingenua, più smaliziata di fronte a questo pericolo, per cui l'approccio alla figura di Gesù è sempre un approccio indiretto, e indiretta quindi la risposta alla domanda: "Voi chi dite che io sia? .

Proponiamo di seguito alcune introduzioni alla lettura di testi della recente narrativa italiana. Ciò che ci interessa è la provocazione ad un confronto con Cristo serio e sincero. Infatti "il peggio che si possa fare, riguardo a Cristo, è il non parlarne o non pensarci affatto; o, su un altro versante, il pensarci o il parlarne per stereotipi, senza alcuna partecipazione interiore, adeguati nelle formule di un'ortodossia che, così concepita, diventa satanicamente eterodossa e blasfema, perché trasforma l'autore della vita e la vita della nostra anima in un inerte pupazzo dagli attributi divini, ma senza il soffio della divinità" (I. A. Chiusano).

COME IN UNO SPECCHIO

LA GLORIA di G. Berto Mondadori Milano 1987

Nel romanzo ‘La Gloria’ Giuseppe Berto guarda la figura di Gesù attraverso gli occhi di Giuda, il più disincantato dei discepoli: nell'autobiografia di Giuda appare così, come in uno specchio, la biografia di Gesù. Giuda è un ebreo religioso che interroga l'Eterno e attende l'Unto, il Messia che venga a liberare il suo popolo dall' ingiustizia e dall' oppressione.

Io, Giuda Iscariota, nato a Gerusalemme da padre mercante, cresciuto all'ombra del tempio, istruito nella legge e nelle scritture, osservante delle norme e dei precetti, legato agli zeloti per cospirazione e fuggito dalla Città Santa per scampare alla croce, percorrevo le terre d'Israele ansioso che l'Eterno Adonai si manifestasse mostrandomi un segno della sua potenza o della sua vanità. Ero giovane e impaziente. Fino a quando, Signore?

Spirito critico Giuda non si abbandona facilmente a un'ottimistica speranza e giunge perfino a domandarsi se l'Eterno non sia un infinito vuoto. Fatica quindi a riconoscere in Gesù i segni dell'autenticità messianica, pensa che forse il Messia debba formarsi gradatamente, come si forma la coscienza della propria missione, giusta o sbagliata che sia. Anzi il Messia potrebbe proprio essere lui, Giuda: "Allora, rispondi, eterno mio Dio: sono io il Messia, il Re promesso, l'Unto? ".

Incontra Gesù per primo e viene scelto per ultimo e Gesù sembra costantemente rifiutargli ciò che Giuda più ardentemente desidera: la prova evidente in base alla quale decidere se il Maestro è l'Unto, o un comune profeta, o addirittura un impostore. Nel cerchio degli apostoli acquista una posizione sempre più ‘marginale’ nel senso più letterale del termine: se ne sta in disparte, si sente escluso, benché gli altri non siano più credenti di lui. Uno soprattutto gli è avverso, Giovanni, e Giuda contrac­cambia di cuore quest'avversione.

L'odiavo sempre di più, Giovanni, come lui odiava me, tuttavia entrambi eravamo colpevoli, perché l'odio è un torbido miscuglio del quale fa parte anche l'amore. Era lui, il Rabbi, che in qualche modo ci teneva insieme.

Giuda non crede ai miracoli di Gesù, denuncia le contraddizioni del Maestro, ma è il solo che arrivi a capire le vere intenzioni di Gesù e ad accettare il ruolo che gli è imposto dall'Eterno e dalle Scritture affinché il destino di Cristo si compia. Gesù lo ha disegnato come colui che lo dovrà tradire affinché lui stesso, come sta scritto, possa portare a termine la sua opera (mentre Gesù usa l'espressione ‘mia’ ora Giuda parla sempre della ‘nostra’ ora) e quando Giuda comprende a quale impresa è stato chiamato, non ha più bisogno di segni e di prove, crede: il poter testimoniare il suo amore attraverso il tradimento è per lui la prova tanto aspettata. Diventa così quasi un corredentore, un secondo Messia, prega perché possa passare da lui questo calice ma "non la mia ma la tua volontà sia fatta": l'angoscia di Giuda è terribile quanto quella di Gesù. Gesù vuole morire per gli altri per diventare una cosa sola con tutti gli uomini della terra e Giuda accetta di tradirlo: se la Gloria non esploderà non sarà colpa sua. Giuda ha visto Gesù soffrire, angosciarsi, ha creduto che tutto questo fosse necessario per avvicinare la fine, la Gloria. Ha pensato che la fede significasse non porsi domande. Ma la fine non è venuta, la Gloria non è esplosa: è stato il Padre a mancare all'appuntamento. Gesù che aveva salito il Calvario fiducioso di trovare il Padre al termine della sua sofferenza, è rimasto deluso. Il Padre non c'era: "Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato? ". E di fronte al vuoto di una risposta mancata "con un urlo rende lo spirito!". E deluso è anche Giuda che corre verso la disperazione finale, urlando a Dio il suo rifiuto di consolazione: "O Eterno io grido a te da luoghi troppo profondi: Signore non ascoltare la mia voce".

Gesù in questo romanzo resta all'ombra di Giuda per due fondamentali motivi. Il primo, abbastanza evidente, è che il lettore incontra Gesù sempre e soltanto indirettamente nella descrizione di Giuda che narra la propria vita in prima persona. Ma c'è una seconda motivazione: il personaggio stesso di Giuda è come diviso in due: da una parte parla come apostolo e accompagnatore del Maestro, dall'altra giudica come un agnostico dei nostri tempi. Tutto questo crea qualche risvolto negativo nella rappresentazione artistica di Gesù che si rispecchia in due figure di Giuda. L'apostolo Giuda è conquistato dal comportamento di Gesù, prende parte alla sua inguaribile malinconia, medita sui suoi discorsi oscuri e cerca di far luce sull'immagine ‘turbata e ambigua’ che si è formata di lui:

Per me tuttavia, era sempre incerto se tu fossi davvero l'Unto, il Promesso, l'Atteso. Con tutta la mia volontà mi sforzavo di crederlo, ma non potevo senza un segno dell'Eterno o tuo. I segni che tu davi, i prodigi, non mi erano sufficienti. E tuttavia Ti amavo, molto di più di quanto non Ti amasse Giovanni, sconfinatamente. Nella tua incertezza e paura come nella risolutezza e coraggio, nella tua mansuetudine e nella tua collera, nel­la tua tenace tristezza e nei brevi sorrisi e più nei tuoi deliri di grandezza, Ti amavo.

Proprio perché si sente vicino al Maestro più di tutti gli altri è pronto a tradirlo perché Gesù possa entrare nella gloria "e poco importava che io fossi destinato a pagarlo con la dannazione".

L'autore in veste di apostolo invece - l'altra faccia di Giuda - vede spesso in Gesù un visionario provinciale, un po' più esaltato degli altri forse, muove critiche alla versione dei fatti riportata dai Vangeli, cita Engels, Freud, Reich, polemizza con Camus: i Vangeli sono per lui una serie di mezze verità e di falsificazioni tendenziose che il suo Giuda smaschera. Questo vale soprattutto per la questione dei miracoli: il vino delle nozze di Cana era acqua non molto pulita, il ‘cieco’ guarito non era il cieco dalla nascita, la figlia di Giairo - come appunto ha affermato Gesù - dormiva, Pietro ha ‘quasi’ mozzato l'orecchio al servo del sommo sacerdote: osservazioni queste che non riescono ad anda­re oltre la teologia liberale del secolo scorso.

Uno dei passi più convincenti del romanzo è invece il rac­conto della passione, ed interessanti sono anche parecchie osservazioni personali dell'autore. Così polemizzando con Camus (La Caduta: Gesù muore in croce per espiare la strage degli innocenti) Berto scrive:

Gesù non è venuto a fare l’espiazione per quell'eccidio di Betlemme ma per compiere ogni sforzo al fine di porre termine una volta per sempre, su questa terra, all' omicidio. Gesù morì per gli altri ma questo non bastò, e infatti, siamo ancora qui, nella valle di lacrime: nell'ope­ra della redenzione qualcosa non ha funzionato.

Forse proprio la precisazione di questo qualcosa avrebbe conferito al romanzo maggior profondità. Non mancano però gli aspetti positivi come l'aver richiamato la nostra attenzione sul problema della salvezza, del male, del senso della vita, l'aver sottolineato il fascino e la modernità di Gesù, e la nostalgia e l'urgenza che noi abbiamo del Salvatore.

TRADIRE PER AMARE?

TRENTA DENARI di Ferruccio Ulivi Rusconi, Milano 1986

Giuda è protagonista del romanzo di Ferruccio Ulivi, Trenta Denari. Mercante ebreo indurito fino al cinismo diventa informatore della polizia di Gerusalemme (attraverso un membro del sinedrio, Yokanan Levi) che l'incarica di segnalare fermenti politici, ribellioni alla legge mosaica, inquietudini di ogni genere, sempre pericolose in un paese dominato dai ro­mani e da Erode Antipa. Un giorno riceve un incarico più preciso: spiare uno strano individuo, chiamato il Nazareno, che si aggira nel Nord del paese parlando di pace, d'amore... ottime cose ma soprattutto scomode nella situazione politica attuale. Si tratta di un pazzo, di un ingenuo o di un sobillatore? Giuda, dopo qualche tentennamento, e dietro opportuno compenso (fatale anticipazione dei trenta sicli d'argento) accetta l'incarico. Contro ogni aspettativa però viene chiamato dal Rabbi a seguirlo, come se volesse scommettere su di lui o se già fosse al corrente di dover attrarre ‘il traditore’. Giuda si ostina a cre­dere di aver a che fare con dei fanatici, ma deve riconoscere che è possibile che si trovi al cospetto "della grande illusione, o della grande verità"; si fa sempre più viva in lui un' inquietu­dine non lontana da una trepidazione affettiva. Davanti a Levi che afferma freddamente: "l'uomo di cui ci occupiamo è diventato pericoloso", Giuda prova una fitta che nasce da un dolore ‘d'altra natura’: più si sforza di valutare la situazione del Rab­bi e più sente, irresistibile, l'angoscia: come se si sentisse con­temporaneamente respinto e chiamato. Le ultime pagine, quelle della passione e insieme del destino di Giuda, insistono su questa contraddittorietà. Uscito dal Cenacolo col tradimento deciso, e accettato da Gesù, Giuda si sente come già morto, gli sembra di non appartenersi, semplice presenza in un gioco di cui ignora le regole. "Ma aveva la sensazione di essersi preparato per quel gioco in tutti gli anni della vita".

Il tradimento se l'era portato addosso come altri si portano la lebbra. Questa la strada che non aveva potuto o saputo eludere. Alla fine, a suggello di tutto, era sopraggiunta la goccia decisiva: il veleno di un rapporto d'amore pervertito. Ora, poi, ignorava cosa sa­rebbe potuto accadere. [...] Peggio che semplice mezzo, era diventato strumento consapevole. Non si trattava più soltanto di una spia: si trattava di un infiltrato: di un delatore. Lui in persona l'aveva voluto tra i suoi. In quel momento, egli aveva avuto a portata di mano l'occasione per scegliere. Ma invece di coglierla, e di sottrarsi, aveva perseverato nella sua parte. Da strumento mediocre e spregevole, era passato ad un altro ruolo. E peggio ancora, aveva chiuso gli occhi di fronte a ciò che gli si rivelava: un aspetto straordinario, mirabolante della natura umana: la meraviglia di un unico, insostituibile contatto con un essere che forse, già a un primo sguardo, l'aveva capito fino in fon­do. E che forse l'aveva amato.

Perché anche questo sospetto gli veniva ora a mordere le viscere: di essere stato amato come si può in modo totale, senza riserve, da un nostro simile.

Fino al momento decisivo, l'incontro-rivelazione del Getsemani, dove scopre la sua terribile "vocazione": tradire per amare.

‘Ti amo’ avrebbe voluto dire. Ma capì di non poter sillabare nemmeno una parola. Una tenerezza che confinava con la disperazione avrebbe voluto piegarlo a terra, in ginocchio, a baciargli le mani. E, con un moto irresistibile, reprimendo insieme all'orrore la forza che lo lacerava, mirò, anzi contemplò di nuovo, a lungo, il volto, sporse le labbra verso quelle labbra pallide, e lo baciò.

Nello stesso tempo ricordava un monito dei Rabbi: Dio non attenta mai alla libertà dell'uomo.

Ma che libertà era questa se fin dalla nascita, nel primo oscuro germe, era stato votato al male? Se il male si era infuso in lui, gli era cresciuto nelle membra, nel cervello, come una lebbra, inducendolo a cercare l'arma che assassina, la parola che tradisce?

La scoperta estrema diventa la sventura senza rimedio. E va ad impiccarsi pregando: "Distruggi l'anima mia!".

Nella seconda parte del romanzo - molto breve - Giovanni nell'isola di Patmos insegue le sue visioni e i suoi ricordi. "Giuda - vi rivelo - è ciascuno di noi", è l'uomo, dunque, che obbedisce a se stesso e alla propria ragione opponendosi ad ogni possibile intervento della trascendenza nella sua vita, una specie di intel­lettuale laico davanti allo scandalo e alla stoltezza del Vangelo.

Ma, continua Giovanni, noi possiamo arrivare solo al punto in cui Giuda ciondola appeso ad un ramo, mentre la vera storia - la storia dell'umanità redenta - incomincia dopo.

 

‘Il punto a cui è possibile arrivare è quello della responsabilità. Mai quello del giudizio’.

Fin qui la storia di Giuda è inscindibile da quella di Gesù. C'è un passo molto significativo per l'interpretazione della figura del Maestro nell'intero romanzo:

Il volto che aveva visto nell'orto, e che rievocava con atroce rimorso, non era soltanto l'effigie di un altro, anche se infinitamente vicino. Era il suo specchio più intimo, l'effigie dei propri dolori, della sventura, della colpa che la vita gli aveva addossato. E della pietà che non aveva né avuto, né saputo dare. Dopo il segreto di Dio stava scoprendo, più insopportabile ancora, quello dell'uomo.

Gesù, quindi, inafferrabile, inarrivabile in se stesso, costituisce però lo specchio in cui si riflette il volto di chi fissa su di lui il proprio sguardo, e questo fatto finisce col darci tanti Gesù quanti sono i personaggi della vicenda.

Per Levi, "impegnato in politica", Gesù è uno strano tipo che ribatte su certi principi, ma intanto si prepara magari un piedistallo presso il popolo per trattare poi da posizioni di forza: ma con chi? Questo è il suo problema. Sovvertitore, spia dei Romani, illuso in buona fede: ecco le ipotesi entro cui Gesù deve necessariamente collocarsi. Certo c'è anche la storia dei miracoli e la credulità della gente deve avergli dato alla testa, perché da un po' di tempo assume l'aria di un inviato dal cielo... Figurarsi! Un inviato dal cielo con quattro legioni pronte ad accorrere dall'Egitto...

Anche Pietro fatica a capire, ma ha il cuore sgombro da pregiudizi. "No, il Signore non è come tu immagini. Non è di una dolcezza inalterata. È qualcosa di più che dolcezza". "Ancora non so capire con chi tratto. So questo: che non può essere con­frontato con nessun altro". Il maestro è come un individuo che parla un'altra lingua, e qualche volta sembra sul punto di indignarsi definitivamente con loro, i discepoli, e con lui è stato addirittura rovente chiamandolo «Satana» davanti a tutti. Eppure "appena parla perdo la testa. Una volta credevo che solo una madre potesse amare a quel modo. È da parte sua un amore di cui non mi spiego assolutamente la ragione".

Caifa, rappresentante della coscienza collettiva, vede in Gesù un pericolo per ciò che il popolo ha di più prezioso, più della stessa esistenza: la sua religione; è "un caso" da confrontare con la Legge, un caso risolto a priori perché chi mette in discussione le basi stesse della Legge non può essere profeta, ma solo bestemmiatore. Accettare Gesù significa il suicidio per Israele: il massimo della tragedia per chi, come Caifa, non crede alle risurrezioni. Il tutore della Legge e del sistema non può vedere in Gesù che un pericolo per la Legge e il sistema: lui, Caifa, è soltanto un coltello in una buona mano, l'unica sua preoccupazione è quella della legalità, della giustizia si occupi Chi conosce la giustizia infinita.

Per Giuda Gesù è l'enigma, il mistero, l'inafferrabile. Dignitoso ma come trasognato, preso da pensieri suoi; ha qualcosa che avvicina a lui e disarma, per cui si è come costretti a dire: "Ecco l'amico che avrei voluto", e insieme l'aria di trovarsi lì come per caso; docile, disponibile per tutti eppure sempre - sembra - sul punto di andarsene; "Occhi in cui ci si sarebbe potuti riflettere: ma un'acqua di cui sarebbe stato difficile discernere il fondo". A tutto ciò si accompagna spesso una sorta di sofferenza, una pena latente. Questo senso di mistero si accentua nel colloquio con Giuda che ha come l'impressione di intrattenersi con colui che aveva davanti e insieme con un altro - e che il vero interlocutore fosse l'altro che non si vedeva - e, più ancora, negli ultimi momenti, a partire dalla cena con i suoi. "Più che solo sembrava immerso in una solitudine senza principio né fine. Senza scampo". "Stava, come al solito, oltre la sua capacità di comprensione, ma vi stava in un modo che gli causava indicibile struggimento". Fino alla scoperta conclusiva, tragica ("Era Dio! Era, costui, il Figlio di Dio!") che per Giuda è insieme la scoperta, in quello specchio che è Gesù, di se stesso e del proprio tragico destino.

Ora intendeva la crudeltà, l'orrore dei presagi: il fondo dell' enigma. Era una luce che, se avesse tentato di muoversi, lo avrebbe fatto barcollare. Che lo stordiva come il vino drogato. Il volto gli riappariva: gli occhi, i tratti, il suono della voce; la pietà e severità degli sguardi; l'estraneità irriducibile della figura, della presenza. Coglieva la logica - assurda, stravolgente. so­prannaturale logica - che aveva illuminato gli stolti, inebriato e trasformato gli imbecilli, dato forza e vigo­ria ai pavidi, distorto le passioni delle donne. Era, letteralmente, quello, l'Unto del Signore!

Ebbene, l'unto di Satana avrebbe potuto dire di sé. Si toccava come se fosse stato un altro, né c'era rimedio possibile contro quella mostruosa consacrazione. Finalmente vedeva cos'era stata la sua vita: un logorio di orrori, un mare morto, assolutamente morto, di peccati. Ora scorgeva tutta la sua orrenda, umana-disumana brutalità.

Forse proprio questa capacità del Gesù di Ulivi di essere specchio delle passioni e dei desideri umani e il rispetto del mistero, spesso vicino al clima evangelico, costituiscono gli aspetti più positivi del romanzo.

MITO O REALTA?

GETSEMANI di Giorgio Saviane Mondadori, Milano 1986

Giorgio Saviane nel romanzo Getsèmani utilizza lo spec­chio dell'attualità. La sua vuole essere una interpretazione moderna della figura di Gesù. Il Gesù di Saviane non è quello dei Vangeli, porta il suo nome del tutto casualmente, è un giovane ebreo, biondo, dagli occhi azzurri, dall'alta cultura universitaria che, vinta l'iniziale ripugnanza nei confronti di Michele, un povero paraplegico, ne ha pietà e incomincia a prendersi cura di lui con amore. Conosce poi la sorella di Michele, Maria. studentessa universitaria che fa la prostituta per amore del fratello bisognoso di cure costose. Gesù e Maria si innamorano. Poi il miracolo: uscito incolume dai rottami del rapido Bologna-Firenze, Michele è guarito da Gesù. In seguito però, diventato ormai bello, diritto e sano, si innamora anche lui, incestuosamente, di Maria e quando la vede incinta di Gesù e decisa a sposarlo uccide sia lei che il bambino, disponendo gli indizi in modo che del duplice omicidio sia accusato Gesù. Ma al processo Gesù viene assolto e l'amore per l'umanità pervade sempre più profondamente il suo animo: si fa battezzare, diventa sacerdote, viene a conoscenza del delitto di Michele che per questo lo uccide. Gesù però lo aspetta sempre, anche come uccisore:

Se non venisse sarebbe inutile il mio sacrificio. Perciò ho seminato di mie immagini le chiese e le contrade. Sarebbe stato all' angolo di una scorciatoia, sotto un tabernacolo. o nell’interno di una chiesa che lo avrei sentito accorrere?

Michele, che dopo il delitto è tornato di nuovo spastico, torna sul luogo dell'uccisione dove al momento della cattura è colpito a morte da un poliziotto.

Non fa a tempo a pulirsi la bava, capisce però che non importa per presentarsi dove si sente aspettato. Ma dove?

È un Gesù, quello di Saviane, che prende su di sé i dolori degli altri, solidale con chi soffre, che per gli altri sacrifica la propria vita. II vero tema del romanzo è l'amore.

Cristo fondò il primo sindacato: l'uomo vi appartiene: senza tessera. Nella società di Cristo l'uomo è chiamato ad amare gli altri non per una rivendicazione o un programma specifico, ma per disponibilità. Nel piace­re di essere per gli altri è la ragione di esistere.

Cristo non ama il dolore, ma il dolore in lui diventa una forza, "la punta attraverso cui fugge l'umano per correre a Dio": il dolore vivificato dall'amore costituisce l'unum necessarium dell'universo. Gesù è una storicizzazione di questo amore, è l'incarnazione del mito più forte che esista: l'amore che redime.

Abbiamo già pronunciato la parola su cui ha insistito parte della critica cattolica: Saviane ha ridotto Gesù a un mito (come altrettanti miti sono Maria e Michele), il mito dell'assoluto amore. Per cui dovremmo essere tutti più o meno Gesù quando vinciamo l'egoismo e pratichiamo l'altruismo. L'altruismo è ciò che fa scattare in avanti la linea evolutiva dell'universo; siamo di fronte a ‘superuomini’ che nascono però da radici opposte rispetto a quelle indicate da Nietzsche: non dalla volontà di poten­za ma dalla non volontà, dalla non violenza, dal dolore e dalla negazione di sé. Ma non ci sarebbe sacrificio senza sacrificatore, non ci sarebbero i poveri cristi senza gli anticristi: egoisti, violenti, vendicativi, traditori come Michele. Questi rappresenterebbero (e qui Darwin si innesta su Freud) le istanze antievolutive della storia. Ogni egoismo è la ricerca a ritroso di se stesso nello stadio precedente, nel grembo materno, nella passione sessuale esclusivista, peggio se chiusa entro il cerchio famigliare, ince­stuosa, quindi, oltre che gelosa.

Ma vizio e perversione appaiono necessari affinché ci sia la virtù, altrettanto necessaria. Il problema non è dunque in questo caso anzitutto quello della maggior o minor corrispondenza ai Vangeli (si tratta di un romanzo, non di un libro di teologia, e i pareri sull'attualizzazione sono sempre discordanti perché diverso è il punto di vista da cui si giudica), il problema vero è quello del senso della tesi soggiacente. Che senso ha questo soffrire se non c'è un fine da raggiungere? Che senso ha questo consegnarsi alla morte senza speranza di risurrezione? Che senso ha questo amore come rinnegamento di sé se diventa necessariamente anche giustificazione di ogni altro egoismo, di ogni altra oppressione? È ancora una volta il problema della libertà, della grazia, della possibilità di un vero pentimento e di una vera conversione quello che rimane irrisolto o, per lo meno, abbastanza sfocato nel romanzo di Saviane.

 

ANNI 80, seconda parte: POMILIO e SILONE

IMPRONTE

IL QUINTO EVANGELIO di Mario Pomilio  Mondadori, Milano 1990

Veramente originale è l'impostazione del romanzo di Mario Pomilio: Il quinto evangelio. Peter Bergin, ufficiale americano, viene mandato a Colonia e sistemato nella canonica di una chiesa semidistrutta, dove trova gli appunti del parroco con citazioni tratte da un quinto Vangelo e frammenti della bozza di un dramma intitolato "Il quinto evangelista". Trasferito a Verona trova, in una chiesa, un'epigrafe che presenta l'arcidiacono Pacifico come traduttore del quinto Vangelo. Pian piano la ricerca da puramente storica diventa religiosa: Bergin sente qualcosa di simile al bisogno di Dio. Diventato professore di storia in America si mette coi suoi allievi sulle tracce di questo quinto Vangelo: convinto che si trovi a Roma spedisce tutto il materiale raccolto alla Commissione Biblica con preghiera di aiutarlo nella ricerca. Il romanzo termina con questa lettera cui seguono i documenti allegati e il dramma da lui stesso portato a termine.

È la storia quindi dell'uomo del nostro tempo gettato dalla bestialità della guerra in un mondo di rovine: il senso di morte, lo smarrimento di essere al mondo senza più cose che ci proteggono generano l'angosciante domanda: la vita è solo una corsa verso l'annientamento? Il "suo prete" aveva scritto: "Al di là della brulicante violenza della Storia cercare ad ogni costo un segno del contrario. Ci resta il Vangelo. È poco, probabilmente, ma non abbiamo altro".

Peter Bergin però è soltanto il regista, non il protagonista del romanzo. Il vero protagonista è il quinto Vangelo con la serie di incontri e di trasformazioni da esso generate.

L'idea nasce nel cenobio di Vivario dove Paolo Settimio Secondo frugando tra manoscritti polverosi trova un fascicolo con un foglietto sottoscritto dallo stesso Cassiodoro, fondatore del monastero.

"Un monaco greco" così cominciava, "venuto anni fa da Efeso per vivere con lui, e che noi molto amammo, morendo mi fece dono di questo manoscritto. Contiene, se si deve credere alle sue parole, il testo d'un Vangelo che Giovanni avrebbe composto prima d'aver la visione della quale parla nell'Apocalisse. Più tardi, ormai vecchio, se ne sarebbe servito per comporre l'Evangelo che noi conosciamo molte cose però togliendone non rispondenti al suo intento d'imprimere alla mate­ria un più sublime significato".

La seconda tappa è costituita dall'avventura dei Viandanti in Cristo che nel 1065 abbandonarono il monastero "per vivere al modo dei viandanti come il Cristo, e secondo quello che credono essere il vero Vangelo". Si diffondono in tutta Italia grazie soprattutto alla predicazione del monaco greco Atanasio che "vi­ve talmente dei Vangeli e coi Vangeli da farci sentire, al confronto, dei pagani". Anche i viandanti in Cristo cantano parole ("chi è vicino a me è vicino al fuoco, ma chi è lontano da me è lontano dal Regno") che non si trovano nei quattro Vangeli ma è come se ci fossero. A loro riguardo scrive il vescovo di Todi a Papa Ales­sandro secondo: "seguono in fondo il Vangelo di sempre ma lo seguono così fedelmente, da farlo parere irriconoscibile".

Il cammino continua con Pietro di Norbona, maestro dei cosiddetti Pseudoapostoli, che ha un modo di tradurre e presentare il Vangelo come rivolto a noi ora da renderlo scottante e "sedizioso". Durante il processo, interrogato circa la perfettibilità del Vangelo risponde affermativamente: non perché - precisa - esso sia imperfetto ma perché gli sono infedeli quelli che lo professa­no; e cita Atti e san Paolo dove si afferma che "la Parola cresceva" e "la Parola è senza fine".

Particolarmente felice riesce Pomilio nel raccontare l'av­ventura di destini umani legati alla ricerca di un Vangelo sconosciuto. Significativi in questo senso sono i capitoli Vita del cavalier Du Breuil e La giustificazione che, col dramma finale, sono tra le pagine più stimolanti del romanzo.

Il cavalier Du Breuil dopo aver frequentato il bel mondo parigino del secolo XVII si incontra con la severa spiritualità giansenista.

"La paura, l'assillo, l'angoscia della grazia: quante volte non abbiamo sondato insieme quei sentimenti? La paura del Dio dalla mano tesa, ma solo per pochi eletti, la paura di poter non essere tra i prescelti, l'idea dell'incommensurabile rarità della grazia, il dubbio di non essere inclusi nel piano della salvezza, il tremore, come diceva, del Cristo dalle braccia avare. Erano stati la sua idea fissa il fondamento della sua insicurezza e di quant'altro faceva del Du Breuil di quel periodo un pe­nitente senza sorriso, dalla devozione irta e ombrosa, e al fondo diciamolo, una coscienza insidiata".

La sua esperienza religiosa ha una svolta quando scopre i Vangeli e li medita a lungo: all'idea di un Dio lontano e inavvicinabile si sostituisce quella del Cristo amorevole e vicino che attenua il tremore e lo richiama alla serenità, alla fiducia, alla prima innocenza della fede che non va mai interamente perduta. Un giorno aiutando il suo confessore nella traduzione del Vangelo si imbatte in un infolio contenente l'intera Bibbia. In margine al versetto "Del loro peccato e delle loro offese io cesserò di rammentarmi" appare lo strano commento: "Come dice Gesù nel quinto evangelo: Padre, io li ho salvati tutti". La lettura di quelle parole genera commozione e stupore e altre parole della Scrittura ormai familiari rivelano sensi nuovi: "Venimmo tutti giustificati in virtù della redenzione compiuta dal Cristo Gesù" - afferma san Paolo - e a quel "tutti" "s'infiamma della certezza della sovrabbondanza di una grazia che è tutta in tutti gli uomini e non numera gli eletti". "Il Cristo ha voluto evidentemente salvarci tutti: altrimenti perché sarebbe venuto una sola volta? ".

Altro destino esemplare è quello del sacerdote Domenico de Lellis, lui pure segnato dalla lettura di un vangelo inedito che lo affascina tanto da farlo "sentire prigioniero della fede al modo che gli uccelli lo sono del cielo", salvandolo dalle sottigliezze scolastiche, dai ragionamenti infecondi e poco plausibili a livello razionale e riaccostandolo al "vivo fonte della Parola di Dio".

La Chiesa napoletana del '700 nel cui contesto egli vive è la di­mostrazione di quanto poco evangelica sia una Chiesa alleata al potere, sterile perché ridotta a semplice struttura. Domenico accetta anche di essere perseguitato pur di restare fedele alla Parola: "Un Vangelo non è nulla se non lo si vive".

Anche il dramma conclusivo è un interrogativo sul Cristo e sull' ''ansia di prolungare l'evangelio - o di portarlo a compimento".

Siamo in una città della Germania verso il 1940. Un sacerdote, uno studente, un capitano, un avvocato e un medico, tutti con convinzioni religiose diverse, discutono sulla veridicità dei Vangeli. L'azione si fa particolarmente viva quando quattro persone del pubblico vengono chiamate ad interpretare la parte degli e­vangelisti e ad altre si affida quella di Pilato, di Caifa, di Giuda, del Cireneo, di due soldati. Senza essere chiamato si presenta in scena una persona dal volto nascosto che si dichiara il quinto evangelista. Il discorso passa dai Vangeli a Gesù ed il nuovo evan­gelista afferma che tale è l'ampiezza del suo messaggio che perfi­no i quattro Vangeli lasciano l'impressione di non averlo esaurito del tutto; del resto Cristo "non ci ha dettato una verità, ci ha lanciati in un'avventura". Si raggiunge l'alta tensione quando Giuda tenta di giustificare il suo tradimento, Pilato di far passare per o­nore la sua viltà, Caifa di trasfigurare il suo odio in atto di giustizia. In questo stato di cose, sotto Hitler come sotto l'imperatore romano, Cristo porta lo sconvolgimento e il dissenso.

"Gesù appunto è l'eresia, il dissenso dal dogma, dai credi imposti al limite, il fondatore d'una chiesa mai prima veduta, che rinnega i vecchi culti e le osservanze tradizionali, rifiuta gli apparati esterni e perfino dissacra il tempio, ne vuole uno fondato solo nell'intimo delle coscienze ". È colui che proclama esservi "nella coscienza una zona inaccessibile, un luogo inespugnabile, la sfera gelosa della nostra libertà, sulla quale lo Stato non ha diritti".

Di fronte a tali affermazioni Pilato (lo Stato assoluto) decide - e la finzione si fa realtà - che è suo dovere arrestare il quinto evangelista: questi si alza in piedi, gli si avvicina togliendosi la benda che gli copre la faccia e si scopre un uomo che ha lo stesso volto di Gesù. Ancora una volta quindi non si tratta di indagare su un testo ma di interpretare la persona di Gesù e la sua missione e, di conseguenza, quella del cristiano.

Gesù, del resto, entra in scena in modi e situazioni diverse un po' in tutto il romanzo, come ad esempio, in maniera molto evidente, nel capitolo intitolato La storia di fra Michele minorita: gli ultimi avvenimenti della vita di questo frate riprendono passo passo il racconto della passione. Accusato come eretico dal vescovo e dal procuratore (il Sommo Sacerdote e Pilato) è condannato a morte dopo un interrogatorio che fa riferimento al Vangelo anche nei minimi particolari (“E che cos'è la verità?”). Dopo che il suo compagno Pietro ha negato di conoscerlo fra Michele è giustiziato (di venerdì). E così si conclude la storia:

Quella medesima notte senza sapere l'uno dell'altro, molti fedeli cristiani si trovarono là dov'era sepolto il suo corpo e occultamente lo portarono via. Onde il sabato mattina non venne più trovato. E sparsasene subi­to la voce per Firenze, certi predicatori ebbero a dire dal pergamo: "Egli occorreva porvi le guardie, imperò che così il canonizzeranno, e terrannolo per santo".

Questi fatti accadono nella Firenze del secolo XIV: la vicenda di fra Michele non è quindi altro che "un'attualizzazione storica" della passione di Gesù.

Un giudizio molto positivo è stato dato del romanzo di Pomilio anche da un punto di vista teologico. Tre sembrano soprattutto le intuizioni emergenti. La prima è quella cui si accennava poco fa: il quinto Vangelo come formula per dire tutta la forza di innovazione contenuta nei quattro Vangeli non appena ci si sforza di renderli attuali: quando qualcuno incomincia a prenderli sul serio è come se stesse reinventandoli. Da qui quel senso di sorpresa, di novità, e anche di perplessità.

E di fronte a questa somma di incongruenze e di verità […] mi scopro, te l'ho detto, imbarazzato a giudicarli, e addirittura mi dico che, se dovessimo dichiararli eretici, non andremmo lontani dal giudicare eretici i Vangeli stessi.

Così scrive Adalberto da Chieri vescovo di Saluzzo in una sua immaginaria lettera a proposito di alcuni che "predicavano nuovi Vangeli e nuovi avventi".

Davanti al Vangelo visto non più come fatto di cultura o manuale di catechismo o libro di devozione, ma riscoperto e fatto ridiventare messaggio, nasce una volontà di trasformazione, il desiderio di creare un mondo nuovo ed una umanità nuova. Il Vangelo è libro di vita e una vita non si può imbalsamare per farla ammirare in un museo; di qui la tensione che il Vangelo ha a riemergere sempre con prepotenza: il mito del quinto Vangelo esprime proprio questa forza di ritorno del Vangelo autentico; esprime quindi l'essenza del messaggio cristiano che consiste precisamente nell' accoglienza della Parola come unica forza di salvezza. Per Pomilio poi la Parola si identifica naturalmente con la realtà concreta di Cristo per cui il fascino della Parola è il fascino stesso di Cristo.

Una seconda intuizione è allora strettamente legata alla precedente: la Parola di Dio, e in essa il Vangelo, non è data una volta per sempre ma si fa continuamente. E questo per un dupli­ce motivo: anzitutto perché Cristo ‘eccede’, supera sempre la nostra capacità di imprigionarlo in parole umane, e in questo senso sarà sempre un enigma per l'uomo di ogni tempo; in secondo luogo perché la Parola deve incarnarsi nelle diverse situa­zioni storiche esigendo quindi non di trasformarsi (di diventare altro da quello che essa è: Cristo è la pienezza della rivelazione) ma di esplicitarsi, di dilatarsi, di illuminare problemi nuovi. È quanto Gesù diceva promettendo lo Spirito Santo: "vi insegnerà ogni cosa", "farà ricordare la verità tutta intera". È la presenza dello Spirito che fa sì che la Parola sia senza fine, e la tradizione della Chiesa appare allora come alveo sempre più vasto in cui la Parola acquista tutta la sua rilevanza e la sua attualità.

La terza intuizione teologica consiste nella sottolineatura dell'atteggiamento di fede di cui ha bisogno il Vangelo: senza questo atteggiamento non si supereranno mai le riserve che ogni intelligenza critica non può non avvertire di fronte alla sua ‘singolarità’. È la scommessa col mistero che ebbe paura di fare Giuda e che costituì il suo fallimento davanti al Cristo.

In effetti fin da principio tu ti sei rifiutato di credere - rifiutato, bada: sta pesando le parole - che nel Cristo ci fosse amore bastante anche per te. E il suo soccorso poteva estendersi magari fino al dubbio, ma non fino al sospetto di lui, del suo amore, alla mancanza di fiducia nella sua fedeltà.

È la fede che matura nell'amore ciò che permette al Vangelo di essere libro incompleto e, proprio per questo, ‘eterno’, proprio secondo le intuizioni esegetiche attuali che ci presentano i Vangeli nati non tanto come tentativo di biografia quanto come annuncio di fede che nasce già da un' adesione convinta dell'evangelista: è questo che riporta il Vangelo ad essere prota­gonista nella storia degli uomini.

Il lavoro di Pomilio risulta così anche ‘discretamente provocatorio’. Nei confronti della cultura e della letteratura contempo­ranea anzitutto che spesso dà per scontato che il dato religioso non offra sollecitazioni per una dignitosa narrazione, ma anche nei confronti dei cristiani amorfi (degli ‘atei praticanti’) invitati a ve­dere nell'adesione al Vangelo un impegno di continua conversio­ne, lotta, testimonianza (‘chi è vicino a me è vicino al fuoco’), e della Chiesa stessa invitata a superare le tentazioni di sempre:

* del dogmatismo : Cristo ci mette di fronte al mistero, di fronte alla domanda, non ci dà una verità classificata ed etichettata;

* dell 'ideologia di trasformare il servizio in autoritarismo, la Chiesa in fortezza ben protetta, la fede in un insieme di precettismi e di osservanze passive;

* del compromesso, soprattutto nei riguardi del potere. La Chiesa per servire deve essere libera, capace di esercitare la sua missione ascoltando solo la Parola. 

Cristo "ha introdotto il diritto alla disubbidienza tutte le vol­te che il giudizio dei tribunali di questa terra è in contrasto coi principi stabiliti da Dio"; "[...] la legge, e la Patria stessa, non sono degli assoluti, perché al di sopra c'è Dio, e anche una guerra santa agli occhi della Patria può non essere il giusto agli occhi di Dio"; "Pel cristiano è un assioma, una specie di dogma, l'idea del primato della coscienza sulla legge, del volere di Dio sul vo­lere dello Stato".

NEL CROCEFISSO IL VOLTO DI DIO

IL NATALE DEL 1833 di Mario Pomilio Rusconi, Milano 1983

Pur non essendo uno scritto su Cristo il romanzo di Mario Pomilio, Il Natale del 1833, chiama in causa Dio e trova una risposta solo nel volto di Cristo crocifisso.

Protagonista è Alessandro Manzoni, con la sua fede e le sue sventure: il 25 dicembre 1833 muore la moglie Enrichetta, otto mesi dopo la figlia primogenita, Giulietta, moglie di Massimo D'Azeglio e il 27 maggio 1841 la terzogenita, Cristina, anche lei molto giovane e sposa da pochissimo tempo.

L'interrogativo è inevitabile: perché il dolore nel mondo se c'è Dio?

Dopo la morte di Enrichetta Alessandro si chiude in un silenzio ostinato ed enigmatico. Con la rassegnazione ha riacquistato la calma? La madre non è di questo parere, lo vede lacerato da conflitti interiori, lo ha visto piangere in segreto, piangere e pregare. Alessandro sperimenta la "desolazione di Dio", il suo ‘mutismo’, non ha perso la fede - anzi nella prova si rafforza quella sua terribile "abitudine a Dio" - ma non è più una fede fatta di abbandoni, è una fede ferita, oscillante tra sottomissione e protesta.

Sì che tu sei terribile

sì che tu sei pietoso!

Indifferente ai preghi

doni concedi e neghi.

Ti vorrei dir: che festi?

Ti vorrei dir: perché?

Non perdonasti a' tuoi non perdonasti a te.

La fede è una luce che brucia più che brillare. Ma ha ancora una grande nostalgia di Dio, il bisogno di ritrovare il pietoso Dio dei Vangeli dopo averlo visto manifestarsi nelle vesti di quello terribile della Bibbia. E incomincia a scrivere su Giobbe, per mostrare come

facendosi uomo e indossando la nostra sofferenza ben oltre il limite stesso patito da Giobbe, il Dio assente si è fatto presente, ha rimediato all'assurdo della sua inaccessibilità, si è giustificato, si è insomma riscattato. In Cristo si redime Dio: ovvero, precisa donna Giulia con una potente abbreviazione che assai pro­babilmente è più sua che di Alessandro, "il Signore ha potuto pronunziare il suo perdono solo dopo che sulla croce si è fatto perdonare".

La morte della figlia Giulia lo immerge in un dolore più fondo e lo porta a cambiare progetto: il suo Giobbe da difesa di Dio diventa accusa e contestazione. Il nuovo Giobbe è la controfigura di Manzoni stesso, scelto per la sofferenza e legato alla fedeltà e all'ubbidienza: Giobbe è costretto ad accettare il suo creatore così com'è, ad amarlo così com'è, nonostante i suoi arbitri e la sua incomprensibilità e nonostante lo veda costruire la sua infelicità. Dio è ridotto a pura onnipotenza, l'uomo è trastullo della Provvidenza, la giustizia di Dio esige la sofferenza del giusto. Nasce improvvisa una domanda: che l'uomo non sia il rimorso di Dio? Ma è un sacrilegio che non può accettare, e si rassegna tornando alla tesi tradizionale: "Dio non si stanca di nu­merare le nostre lagrime e di metterle in conto dei nostri meriti".

Nell' anniversario della morte di Enrichetta in casa Manzoni si celebra una messa di suffragio. Nell'omelia il destino di Maria viene presentato come esempio di conformità alla divina volontà; ogni credente - continua il sacerdote - deve condividere l'opera del riscatto attraverso la sofferenza, non diversamente da Gesù, l'eletto sarà la vittima. Lo colpisce soprattutto una frase: "Vuoi costarmi sempre sangue senza che tu versi lagrime?" Come potrebbe la madre non essere contagiata dal destino del figlio? Enrichetta come Maria: innocenti, ‘progetti di Dio’, vittime destinate a continuare nella storia la sofferenza di Cristo crocifisso. Nasce una nuova tesi: l'opera della salvezza esige l'olocausto dei buoni. Animato da questa luce riprende l'abbozzo del Natale ma è colpito da un dubbio atroce: quel dilagare della sofferenza, quell'agonia che genera agonie non può signifi­care che la storia debba espiare la redenzione? Che la redenzione sia fallita? Aveva alzato la voce, sfiorato l'accusa, ma quando la sofferenza del giusto gli si presenta come immolazione richiesta dalla storia stessa della salvezza ha paura della bestemmia e del sacrilegio: sul poeta prevale - ancora - il credente.

Per cercare una via d'uscita riprende il manoscritto della Colonna infame, nella speranza di trovarvi una verità prima non colta fino in fondo. La vicenda di Giangiacomo Mora e degli altri untori, torturati e messi a morte, lo pone di fronte alla sofferenza in una prospettiva più vasta e minacciosa, perfino l'idea del perpetuo olocausto dei buoni gli appare complicità non richiesta: che Dio sia separato dalle cose umane o impotente a modificarle? Il dilemma gli sembra senza vie d'uscita: da una parte la sua estraneità o impotenza, dall'altra la sua responsabi­lità. Quel carico di orrori non ha alcuna giustificazione e resiste a ogni pretesa consolatoria: anche il tentativo di rifacimento del­la Colonna infame gli si frantuma tra le mani.

Il 27 maggio 1841 muore la terzogenita, Cristina. Secondo donna Giulia - la madre - non resta che "scegliere tra queste due eresie: o è Dio a volere il dolore dell'uomo o il dolore dell'uomo è lo scacco di Dio"; esclusa l'eresia, rimane il silenzio. Ritornando alla Colonna infame, Manzoni cambia rotta, non scorgendo alcuna Provvidenza decide di riscrivere la vicenda seguendo il metodo storico: male e bene si spiegano con l'uomo, senza doverli imputare a Dio, la storia non manifesta altro colpevole che l'uomo stesso. Conclusione: Dio è lontano, la Provvidenza un mistero pauroso, la storia è in balia dell'uomo.

A questo punto Pomilio conclude con un'intuizione suggerita dalla fede cristiana che è il sugo di tutta la storia.

"Ma la storia delle vittime è di per sé la storia di Dio. Solo che mi accorgo adesso di non averlo saputo dire. O meglio debbo rimpiangere d'averlo compreso soltanto adesso a libro stampato e quando non v'è più modo di rimediare. A meno che Qualcuno non abbia voluto che

io dovessi mancare un libro per poterlo dire". Poi con una sorta di riflessione che sembrava provenire da zone remotissime: "Ma perché, osserverete voi, ho detto che la storia delle vittime è la storia stessa di Dio? Ma perché ogni qual volta un innocente è chiamato a soffrire egli recita la Passione. Che dico, recitare? Egli è la Passione: non nel senso, beninteso, che il Signore voglia rinnovato in lui il proprio sacrificio, come ho pure per errore pensato altre volte, ma nel senso bensì che è Egli stesso a crocifiggersi con lui. Potrà parervi disperante questo Dio disarmato. E invece che cosa c'è, riflettendoci bene, di più consolante che questa solidarietà non di forza e di giustizia, ma di compassione e di amore? E in verità è questo, semplicemente, amico mio: la croce di Dio ha voluto essere il dolore di ciascuno; e il dolore di ciascuno è la croce di Dio".

La sofferenza è il volto del crocifisso. In lui Dio ci incontra, in lui la sofferenza non è più ingiustizia e assurdità ma dilatazio­ne della redenzione. La sofferenza del giusto altro non è che la sofferenza di Cristo, perché il Cristo dimora in colui che crede, perché qualunque cosa è fatta ad uno dei più piccoli è fatta a lui, perché - afferma san Paolo - non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me e, dunque, completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo: è il Gesù di cui parla Pascal in ago­nia fino alla fine del mondo. Esemplare da questo punto di vista è la vicenda di Giangiacomo Mora, il protagonista alter Christus del libro più ateo del Manzoni.

Ma subito dopo, per un'altra di quelle intuizioni vertiginose e sgomentevoli che in questo periodo sogliono attraverso la sua mente, Alessandro sembrerebbe an­che tentato di significare nel destino del Mora una sorta di ripetizione di quello di Gesù, tante sono le analogie che esteriormente essi presentano: il giudizio in­giusto, la tortura, la morte ignominiosa, il fanatismo e la cecità di coloro che la pretendono. Che cosa ci sa­rebbe di maggiormente degno di meditazione e di più toccante artisticamente del reincarnare attraverso il Mora, come in un emblema, la passione, e per tale via farne il simbolo dell'innocenza perseguitata e chiamata a redimere di continuo la miserabile storia degli uomini?

Giobbe afferma: non so perché soffro; il cristiano ha qual­cosa da aggiungere al proprio ‘non so’: non so perché Dio vuole salvarmi mediante la sofferenza di Cristo che vive in me. Il Natale del 1833 è il racconto dunque della crisi dell 'uomo di fede, colpito dal dolore, che rimane però all'interno della fede e se non riesce ad arrivare al perché della sofferenza innocente scopre tuttavia la infinita vicinanza, la infinita pietà, la infinita simpatia in Cristo di quel Dio che sembrava lontano e muto.

Il protagonista che Pomilio si è creato a propria immagine, i tormenti cioè di Manzoni, appaiono "comprensibili e condivisi­bili a chi conosce e ama da tanto il Manzoni".

 

E come ne Il quinto evangelio, in vicende e forme personali, la ‘verità’ dei Vangeli non solo è rispettata ed espressa come pudore di verità, ma è vivificata dalla poesia così, ne Il Natale del 1833, la verità della figura e dell' animo di Manzoni, il segreto della sua intimità così schiva e imprendibile, trattata com'è con estremo pudore e risolta in poesia (in questo ‘componimento misto di storia e d'invenzione’), non solo non è tradita, ma ne resta illuminata. (Di Biase)

Ne nasce un Manzoni segreto, imprendibile, eppure così vi­cino alla coscienza moderna e alla nostra sensibilità.

LIBERTA' E SPERANZA

Ignazio Silone SEVERINA Mondadori, Milano 1982

La presenza della fede diventa problematica in Silone, e nel suo romanzo incompiuto, pubblicato postumo dalla moglie: Severina. La vicenda rientra nella tematica che fu sempre cara a Silone, tutta incentrata sul conflitto tra coscienza e istituzione, tra fede e ideologia, tra utopia e realtà. Suor Severina è un po' l'ultima erede e la sorella ideale di Pietro Spina, di Berardo Viola, di Celestino V...

È maestra in un istituto gestito da religiose a Civitella: istituto che deve essere parificato a breve scadenza e in gran parte proprio per merito suo. Una dimostrazione operaia davanti alla scuola è sciolta dalla polizia e quando tutto è ormai finito un dimostrante, rimasto solo sul posto, è brutalmente malmenato e muore per le lesioni riportate. Il rapporto ufficiale è favorevole alla polizia e nel caso che Severina, unica testimone, rettifichi i fatti, le autorità si vendicheranno rifiutando la parificazione della scuola. Contro il divieto della superiora Severina segue la propria coscienza e di conseguenza si isola dalla comunità e abbandona poi il proprio ordine recandosi a L'Aquila in cerca di un posto di lavoro. Qui fa conoscenza con un gruppo di giovani che progettano una dimostrazione contro la disoccupazione e vi partecipa. La polizia spara in aria ma Severina è accidentalmente colpita a morte da una pallottola.

Risultano immediatamente evidenti i riferimenti autobiografici (l'esperienza del Congresso dell'Internazionale del 1927) e le tematiche più care a Silone.

L'ordine a cui suor Severina appartiene è la Chiesa come istituzione; la superiora le proibisce la deposizione: è l'istituzione che persegue il proprio interesse anche a costo di mortificare la verità e la coscienza.

Capivo che la Chiesa è anche un 'istituzione sociale e che quindi deve fare i compromessi col mondo. Cercavo di sopportare. Ma come vi ho detto il colmo è stata l'insistenza della madre superiora perché io mentissi alla polizia. Capivo che essa cercava in buona fede di fare il suo dovere ma, capii anche, e definitivamente, che il suo convento non era il posto per me. Nessuna vocazione è vera se esige il sacrificio della ragione, nessun voto di obbedienza vale se è contro la coscienza.

Il titolo del romanzo doveva essere, secondo Silone, La speranza di suor Severina, titolo che ne sottolinea il tema di fondo e diventa interamente comprensibile al termine della vicenda.

Suor Gemma, indignata, non gli rispose neppure. Lasciò la sua compagna in sala d'attesa e si trovò a bussare alla porta di Severina. Don Gabriele aveva ripreso il suo posto, in piedi appoggiato al muro. Gli occhi di Severina e­rano chiusi. Suor Gemma scoppiò a piangere a dirotto, inginocchiandosi accanto al letto. Don Gabriele cercò con gesti di calmarla, suor Gemma nascose il viso in un grande fazzoletto bianco ma continuava a piangere in silenzio. Poi si rivolse a don Gabriele: "Ma ha pensato lei a portare i sacramenti? Il Viatico?".

Don Gabriele non rispose. Severina, gli occhi ancora chiusi, non diede nessun segno di riconoscimento. Vennero due medici, sostarono qualche minuto, poi uscirono. Poco dopo entrarono in silenzio don Fulgenzio, donna Teodolinda e Maria Teresa.

Severina aprì gli occhi e riuscì a sorridere a tutti, anche a suor Gemma che non aveva ancora vista.

Suor Gemma ruppe il silenzio, esplodendo: "Qui abbiamo un prete ma non fa nulla!".

Donna Teodolinda la prese da parte e sottovoce le spiegò la volontà di Severina.

Finalmente don Gabriele disse, scandendo le parole: "Qui perdiderit animam suam propter me inveniat eam".

Suor Gemma non si rassegnò. Di nuovo in ginocchio, davanti al letto di Severina le bagnò la mano di lacrime, dicendo: "Non puoi andartene così senza una preghiera".

Con un filo di voce, sforzandosi, Severina le disse: "Sai, continuerò a vivere. Gli occhi, i reni... ".

"Sono frammenti del tuo corpo" singhiozzò suor Gemma. "Ma quello che più importa, Severina, la tua anima, la tua bella anima... Severina, a nome anche della Madre Superiora, ti supplico di rispondermi: tu credi ancora?".

"Spero, suor Gemma, spero. Mi resta la speranza".

Furono le ultime parole che uscirono dalle sue labbra.

Severina dunque, come Silone, volta le spalle a un Dio strumentalizzato ideologicamente. C'è stato, secondo Silone, un duplice fallimento: il fallimento del cristianesimo nel suo tentativo di realizzare la fratellanza universale e quello del comunismo che non è riuscito ad instaurare il tanto sospirato paradiso in terra. Dopo questo duplice fallimento resta solo la speranza, una speranza tenace.

Ma - dobbiamo chiederci - come è possibile mettersi al se­guito di Gesù senza credere in lui? Quale immagine di Gesù è al­la base di una simile sequela? Certamente non quella della Chiesa ma neanche, forse, quella del Vangelo. La speranza proposta da Silone come alternativa alla mancata fede resta a volte un po' troppo nel vago per essere veramente speranza cristiana, per poter veramente aiutare la Chiesa ad eliminare quanto non deriva da Cristo. D'altra parte però c'è un aspetto che ci induce a vedere nella speranza di Severina una fede almeno implicita ed è, ancora una volta, nella soluzione della vicenda: non riceve i sacramenti, è vero, ma riceve il battesimo di sangue: Severina, in fondo, muore martire.

 

Archer: quel Giuda che sembra tratto da un Vangelo apocrifo

di Gian Maria Vian. Avvenire marzo 07

L'anno scorso Vincino commentò su ‘Il Foglio’ il successo mediatico del Vangelo di Giuda disegnando il traditore in atto d'impiccarsi affiancato da un personaggio arrampicato sull'albero con foglio e penna. Spiegava la scena una mirabile didascalia: «Grande editore convince Giuda in extremis a fare il suo vangelo». Ma, si sa, la realtà supera sempre la fantasia (anche del bravissimo Vincino). Ecco infatti in libreria da oggi - con un lancio mondiale che avviene mentre si avvicina la Pasqua, che assicurerà di per sé una bella pubblicità - non già quello che in fin dei conti non poteva che risultare come il vangelo ‘di’ Giuda già descritto con precisione dai Padri della Chiesa come un'opera di propaganda gnostica, ma Il vangelo secondo Giuda di Beniamino Iscariota (Mondadori, 119 pagine). Cioè un testo che si presenta proprio come i quattro vangeli canonici, ma ‘secondo’ Giuda.

Una nuova scoperta? No. Se dal frontespizio si passa alla pagina seguente il lettore (più o meno esperto) apprende che questo vangelo ‘second’Giuda è «raccontato da Jeffrey Archer con la collaborazione del professore Francis J. Moloney; salesiano di don Bosco, dottore in sacra teologia». Più chiara è poi una spiegazione che definisce il libretto come «il risultato dell'intensa collaborazione tra un romanziere e un biblista» e presenta il progetto «ardito e semplice» in questo modo: Archer avrebbe scritto una storia per lettori del XXI secolo e Moloney avrebbe fatto sì che fosse credibile anche per un cristiano o un ebreo del primo secolo».

Ma non è tutto: un sapiente allestimento tipografico presenta il libretto con una copertina che richiama quella di un antico manoscritto. Vi spiccano alcune parole in greco (Su èi hò erchòmenos è hèteron prosdokòmen, ma con un grossolano refuso) che, tratte dal vangelo di Matteo (11,3: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?»), sono la chiave del romanzo. E soprattutto questo è presentato diviso in capitoli e versetti, come un libro biblico. Insomma, proprio quello che dice il titolo: non dunque il Vangelo di Giuda, che è un' opera gnostica, ma proprio Il vangelo secondo Giuda, che è ricreato dall'immaginazione del romanziere Archer - resa però dichiaratamente e intenzionalmente plausibile dal biblista Moloney - e si presenta come l'opera di un fittizio figlio dello stesso Giuda, Beniamino Iscariota, appunto. Insomma, un romanzo che vuole essere un apocrifo.

E proprio come un apocrifo, anche questo recentissimo vangelo è intessuto di citazioni dai testi biblici canonici, soprattutto dai vangeli sinottici, opportunamente riportate in rosso e con a margine le indicazioni dei testi citati o parafrasati (manca però l’elenco delle abbreviazioni utilizzate, che sono sì quelle correnti, ma forse non così abituali a chi non frequenta la Bibbia). Il risultato è discutibile e non è certo un capolavoro, mentre l'operazione intende cavalcare l'onda attuale dello straordinario interesse per le origini cristiane. E ieri il libro è stato presentato a Roma anche dal gesuita Stephen Pisano, rettore del Pontificio istituto biblico, nella speranza che il romanzo induca «a leggere la Bibbia», anche se l'intreccio tra le citazioni scritturistiche e il romanzo - ha tenuto egli stesso a precisare - rischia di creare «confusione».

Jeffrey Archer è infatti un personaggio tanto bizzarro - ha passato due anni in carcere per spergiuro - quanto famoso: già membro del Parlamento britannico e ora della Camera dei Lord, è soprattutto autore di autentici best seller (tra questi, Caino e Abele, seguito da un meno scontato La figlia di Abele).

Rivoltosi a Carlo Maria Martini per Giuda, è stato indirizzato dal cardinale gesuita a un suo antico allievo, il salesiano australiano Francis Moloney, già membro della Commissione teologica internazionale. In meno di un anno è così nato il vangelo ‘secondo Giuda’, formalmente attento alle precisazioni storiche grazie a una quarantina di ‘note al testo’ preparate dal biblista salesiano per illustrare un testo tutto dalla parte di Giuda. Scagionato dal tradimento perché a sua volta tradito da un anonimo scriba, e che finirà crocifisso dai romani. Che non crede in Gesù, ma che in definitiva manca di drammaticità. Come quella di un dimenticato romanzo scritto nel 1938 (Laterza) e riedito nel 1975 (Jaca Book): «Lanza del Vasto! anni fa ho letto Giuda, e leggendo man mano dicevo: come pensa Giuda così penso anch'io. Dunque Giuda, Giuda, Giuda son io! E, d'orrore, mi son convertito!».

 

Giovanni Giavini Vittorio Messori

Corrado AUGIAS- Mauro PESCE, Inchiesta su Gesù. Chi era l’uomo che ha cambiato il mondo, ed. Mondadori 2006, pagg. 264.

 

riflessioni inedite di Giovanni Giavini

 

Accattivante il titolo, bello il sottotitolo. La lettura però è alquanto irritante. Che un 'laico'come il giornalista Corrado Augias abbia certe idee e certi interessi è noto,comprensibile e rispettabile. Ma che uno storico del cristianesimo, abbastanza rinomato e dotto come Mauro Pesce presenti il caso Gesù in modo, a mio parere,tanto parziale e ideologico stupisce non poco.

Il libro procede a modo di dialogo tra il giornalista, che imposta il discorso, e il professore che risponde. L’oggetto è la ricerca del Gesù storico, autentico, originario; essa è condotta principalmente attraverso i Vangeli, rimandati però alla fine del I secolo, salvo Giovanni datato all’inizio del II, depauperati per di più di tanti loro aspetti che, al prof. Pesce, sembrano dovuti a sviluppi delle chiese primitive e di quelle successive: sviluppi anche travisanti e devianti dal Gesù originario (tesi ormai vecchia per gli studiosi e ripetuta più volte qui).

 

Che il problema esista è noto almeno da qualche secolo, con diverse risposte, alcune delle quali riprese anche nell’inchiesta attuale. Che sia avvenuto uno sviluppo dal Gesù ebreo originario a quello dei Sinottici e più ancora in quello di Giovanni, nei dogmi delle chiese antiche e moderne, per non parlare di tante devozioni attuali, e che tale sviluppo abbia prodotto e possa ancora produrre un certo pluralismo nella fede e nella prassi dei cristiani sono cose note e ammissibili. Così, che il contesto di Gesù fosse quello giudaico è pacifico e oggi molto rimarcato. Ma che quello sviluppo sia stato un tradimento è un’affermazione, come minimo, sorprendente sulle labbra del Pesce.

 

Egli crede di dimostrarlo, ma sottacendo – se leggo bene e il professore mi perdoni se sbaglio o mi provi il contrario -   vari elementi presenti in quella tradizione che può collegare il Gesù storico a quello dei 4 Vangeli, perché questi sono sorti in quella e ne dipendono: vedi i testi cristologici dell’ebreo S. Paolo, precedenti i Vangeli e che il Pesce conosce certamente e talvolta cita (per es. pag. 93); vedi soprattutto la polemica fortissima di Paolo contro almeno certi aspetti del Giudaismo e della sua lettura della Toràh, polemica fondata proprio sulla conoscenza del valore salvifico, di tipo divino, del Crocifisso (“maledetto” secondo la Toràh!), pur senza cadere nell’antisemitismo di chi malediceva gli ebrei.

 

Per il prof. Pesce invece Paolo fu solo del tutto “ebreo”, come il suo (di Pesce) Gesù! Di Paolo il professore tace (pagg. 85s), salvo svista mia, anche sulla sua preoccupazione di restare in comunione, anzi di avere l’approvazione al suo vangelo dalle prime “colonne” della chiesa apostolica: Giacomo, Cefa e Giovanni, pur mantenendo la capacità di litigare con Cefa su certe conseguenze della fede in Cristo (Gal 2, dove riemerge la forte polemica paolina sulla Toràh).

 

Anche su Gesù il professore usa forbici. Per esempio: egli parla del suo amore per i bambini (69s), ma tace he, immediatamente prima in Mc 10 e Mt 19, Gesù criticava il concetto di amore tra marito e moglie che avevano i farisei sulla base dell’ebraico-divina Toràh, la quale riteneva il divorzio un diritto, un bene, un progresso rispetto all’originaria volontà del Creatore, che invece Gesù ricupera. Altro esempio (ancora sorprendente): nel Padre Nostro non ci sarebbe alcuna novità rispetto a simili preghiere giudaiche (ma, a parte altre considerazioni: salvo mia ignoranza, non mi risulta che queste collegassero tanto strettamente il “rimetti a noi i nostri debiti” con il “come noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori” prossimi o nemici che fossero; i testi più vicini potrebbero considerarsi Sir 28,2 e qualche testo rabbinico, ma, appunto, senza la forza della preghiera di Gesù).

Inoltre Pesce scrive (pag. 29) che, siccome in quella preghiera non si parla di Gesù come salvatore, l’unico salvatore resta Dio, anzi il perdono che concediamo agli altri e quindi Gesù non avrebbe alcun ruolo nella redenzione! Perdoni il professore: questo metodo di sfruttare un silenzio non è fare tagli e dipendere da ideologie? Come l’isolare il PadreNostro dalla cristologia anche di Matteo, in particolare dal suo Discorso della montagna, in cui a Gesù vengono riconosciute un’importanza e un’autorità superiori a quelle di Mosè e della legge di Jhwh. O anche questa sarebbe tutta un’invenzione cristiana?

 

Nemmeno è difficile trovare nel discorso del Pesce frasi un po’ contraddittorie sulla persona di Gesù: da una parte leggo che Gesù era un mistero al di là di una semplice figura umana (pagg. 134-136; 219) e che aveva idee sue circa la Toràh (pag. 32; 217s); dall’altra che egli fu solo un uomo, un pio ebreo e soprattutto…”non un cristiano” (201; 221)!

 

Meno riduttivo, a sorpresa, è il discorso del professore sui miracoli di Gesù, sulla sua risurrezione e addirittura sulla nascita dalla Vergine, benché si potrebbe eccepire anche qui su qualche punto e su andirivieni di frasi (per esempio pagg. 182-184). Così il Pesce dimostra buon equilibrio sui tanto chiacchierati vangeli apocrifi e che, a quanto pare, affascinano invece Augias; tuttavia nemmeno il giornalista se ne lascia incantare: tutto sommato lo incanta di più Gesù, almeno il caso storico Gesù (vedi la conclusione).

Ai lettori intelligenti ed edotti la scelta tra le varie e anche contraddittorie posizioni. Purtroppo la bibliografia suggerita dai due autori è molto povera, non può orientare seriamente, per non dire di più. Comunque anche libri come questo, pur con tutti i loro limiti, possono diventare occasioni preziose per ricerche serie su temi così fondamentali.

don Giovanni Giavini

Gesù, non separiamo la fede dalla storia

Perché sbagliano i 'biblisti di professione' che pretendono di essere scientifici.

di Vittorio Messori per il Corriere della sera, venerdì 29 settembre 2006

Corrado Augias assicura, nella premessa: «Queste pagine sono state pensate e scritte in buona fede». E Mauro Pesce, nella postfazione: «Ho riassunto convinzioni cui sono arrivato dopo una lunga ricerca che mi è sembrata onesta». Buona fede dunque, e onestà proclamate, per questa Inchiesta su Gesù (Mondadori), dialogo tra uno dei più noti giornalisti e scrittori e uno dei più stimati biblisti, docente a Bologna. Sono propositi edificanti che la lettura conferma. Il gusto elegante di Augias unito alla competenza solida di Pesce non hanno nulla a che fare con la trivialità di troppi pamphlétaires che ora dilagano anche in internet. Apprezzabile poi la sincerità con cui l'intervistatore confessa che a questa ricerca “sull’uomo che ha cambiato il mondo (come dice il sottotitolo), è stato indotto da qualcosa in più della curiosità: «potrei anche definirla ansia». In effetti, c'è, qui, un enigma con il qua­le ciascuno deve decidersi, prima o poi, a fare i conti.

Sembrano, però, contrastare con tutto questo certe espressioni dell'intervista di Augias al settimanale de La Repubblica. Qui, l'enfasi prende la mano, spingendolo a definire le affermazioni del suo interlocutore ‘strepitose e inconfutabili’. Dichiara poi di aver voluto andare aldilà «dell'insegnamento pigro e ripetitivo della Chiesa», la quale, -considerato che qui «si sfatano una serie di dogmi su cui si fonda il cattolicesimo»- reagirà «con il silenzio o controbattendo con la sua ortodossia».

Sembra rispuntare una tentazione laicista più che laica, unita all’entusiasmo di chi s’inoltra nell'Atlantide a lui sconosciuta che è l’esegesi biblica e scambia le indicazioni del suo Virgilio per dogmi inconfutabili e, magari, possibili armi antiecclesiali.

E’ proprio ciò che non sembra affatto desiderare il professor Pesce che (in nome di quella ‘oggettività scientifica’ che, peraltro, forse è solo un mito illuminista) non vuole rivelare le sue convinzioni religiose, ma che ha una formazione cattolica. Tanto da ricordare per un paio di volte di avere  avuto uno dei suoi grandi maestri in un monaco benedettino, il padre Jacques Dupont, di cui abbiamo personalmente conosciuto la fede saldissima,non contrastata dalla erudizione. Ma le iperboli del giornalista (‘strepitoso’, ‘inconfutabile’, ‘dogmi sfatati’) contrastano pure con la cauta prudenza del docente che lo fronteggia. Anche se, alla fine, risulta chiaro che -per lui come per tanti suoi colleghi- il Gesù della storia, predicatore ebreo dai tratti incerti, non coincide affatto con lo sfolgorante Cristo della fede. Pesce è talvolta restìo a rispondere con una formula tranciante, consapevole della complessità di problemi sui quali più che certezze non ci sono che ipotesi, spesso malferme. In effetti questo è il punto del quale non sembra avere sufficiente consapevolezza Corrado Augias, sorpreso da ‘rivelazioni’ che tali non sono affatto per chi conosca il milieu. L’esegesi biblica è una ben strana ‘scienza’, soprattutto in quel metodo storico-critico ancora egemone (seppur scricchiolante) nelle università, metodo nel quale anche Pesce si è formato.

Lo specialista tipo parte dal presupposto che, nei vangeli, nulla ha garanzia di essere storico, di riferirci cioè

con esattezza ciò che è davvero successo. Tutto potrebbe derivare da miti, equivoci, interpolazioni, manipolazioni ad opera di oscure comunità.

Dopo avere dichiarato obbligatorio questo scetticismo radicale, dopo avere affermato che non abbiamo alcuna base certa su cui ricostruire le origini del cristianesimo, ecco l'esperto procedere a uno sconcertante

Lavoro di cernita sul Nuovo Testamento:«E ciò - con divertimento sommo di chi abbia letto Karl Popper -, ciò i cattedratici chiama­no ‘scienza’, senza spiegare in base a che cosa compiano simili scelte. In realtà, il metro di giudizio è basato in gran parte su incerti se non arbitrari criteri filologici e su precomprensioni confessionali, culturali, caratteriali dello specialista, che è un poveruomo come tutti noi.

Un solo caso, ma esemplare: quello di Rudolf Bultmann, considerato tra i maggiori esegeti del XX secolo e che esercitò per decenni una sorta di terrorismo verso chi cercasse anche solo un barlume di storicità nei vange­li, dove tutto non sarebbe che un mito salvifico. Ebbene, Bultmann fu innanzitutto un

teologo luterano (con ciò che questo significa come approccio alla Scrittura), poi un filoso­fo esistenzialista, poi un provinciale intimorito dal progresso tecnico (era ossessionato dalla novità delle lampadine elettriche e della radio a valvole, infine fu anche un biblista. Mai Bultmann volle muoversi dalla sua università tedesca per vedere i luoghi di Gesù: ciò che importava era lo schema distillato in biblioteca, se il piccone dell’archeologo in Israele portava alla luce qualche conferma del vangelo, tanto peggio per l’archeologo. Noi, ingenui profani, dovremmo mettercelo in testa, una volta per tutte:

davanti alla Scrittura, la sola cosa che un uomo ‘moderno e consapevole’ deve prendere sul serio sono le note del professore. L’unico Magistero credibile non è più quello delle cattedrali vescovili, è quello delle cattedre accademiche.

Succede però che la sedicente «scienza biblica moderna» da oltre due secoli non è altro che un succedersi di scuole, ciascuna delle quali rifiuta come inaccettabile la scuola precedente e procede ad altra classificazione  del «grado di storicità» delle antiche peri­copi. Il tutto, all'insegna della gratuità: nulla è sicuro, in quei testi, perché dovrebbero esserlo le ipotesi gabellate per certezze «oggettive»?

C'è disagio nel dover limitarsi, nel breve spazio di un articolo, a questi pochi cenni. Dietro i quali, sia chiaro, c'è comunque la consapevolezza che la Scrittura cristiana non è l’intoccabile Corano, in essa la storia si intreccia alla fede e l'ispirazione divina agisce attraverso la collaborazione umana, per discernere la quale è necessario lo specialista. Costui è importante. Ma non ha l'ultima parola.

Per aggiungere un solo spunto: Mauro Pesce resta fermo nella datazione tarda dei vangeli, redatti tutti, ad avviso della sua scuola, dopo la catastrofe del 70. Pur lasciando da parte il contestato 7Q5 di Qumran, con i presunti venti caratteri di Marco, aumentano di continuo i discepoli di Carmignac, Tresmomant, Robinson, Thiede, dei giovani docenti della ‘scuola di Madrid’: i Sinottici, cioè, sarebbero traduzioni in greco dall’ebraico od aramaico, scritti a ridosso della morte di Gesù, prima che l’annuncio della Risurrezione lasciasse Israele, quando ancora erano vivi e vigilanti i testimoni oculari. Questo cambierebbe tutto, ridurrebbe a elucubrazioni grottesche le ‘certezze scientifiche’ esposte in migliaia di severi volumi da generazioni di docenti.

Insomma: con il rispetto dovuto ad ogni pa­rere (purché non diventi un nuovo dogma, ma non sembra il caso di Augias e Pesce), nel continuo rinnovarsi delle più contraddittorie «ipotesi su Gesù», quella del cattolico ortodosso conserva essa pure la possibilità di esse­re la vera. Per dirla con Jean Guitton: «La critica può mettere in crisi la fede. Ma la critica della critica può ricondurvi».

messori@numerica.it

Il libro: Corrado Augias e Mauro Pesce, Inchiesta su Gesù,  Mondadori, pagine 272,

Corrado Augias, giornalista e scrittore e Mauro Pesce, docente di storia del Cristianesimo all'Università

di Bologna. Augias e Pesce sono gli autori di ‘Indagine su Gesù’ (Mondadori)

 

Marta Sordi stronca il volume ‘Inchiesta su Gesù’ di Augias – Pesce

«I quattro vangeli canonici sono fonti certamente contemporanee agli eventi che narrano e la loro storicità è fuori discussione».

di Paolo Viana per Avvenire

“E’ la solita storia, cercano il verosimile e scordano il probabile. Ma il probabile è il linguaggio della ricerca storica, mentre il verosimile è quello del romanzo storico. Ai tempi di Cristo si sarebbe detto: il linguaggio dell' epos”.

La stronca così Marta Sordi l' Inchiesta su Gesù di Augias e Pesce. La studiosa del mondo romano e del cristianesimo non ha dubbi sulla coinci­denza tra il Gesù della fede e il Gesù della storia e sul riconoscimento fin dall'inizio della sua divinità da parte dei discepoli.

Professoressa Sordi, la ricerca storica deve necessariamente prescindere dalla fede?

No. Il problema dello storico è vedere quali sono le fonti su cui ricostruire il personaggio o l'evento.

Molti mettono in dubbio il contenuto dei Vangeli canonici, ma la loro storicità, a mio avviso, è fuori di­scussione: sono fonti contemporanee agli eventi che narrano; il fatto che siano fonti cristiane non compromette la loro veridicità.

Come lo prova?

Ad esempio con il fatto che esistono fonti giudaiche e pagane, coeve, che riportano le stesse notizie. La morte di Cristo è descritta in modo analogo ai vangeli dal Testimonium Flavianum, di cui oggi si ammette da molte parti la sostanziale autenticità, e Mara Bar Serapion, nell'anno 73, afferma che la distruzione di Gerusalemme è la punizione dei giudei per aver ucciso il loro ‘saggio re’, ossia Gesù. Il Cristo dei Vangeli cristiani non è un per­sonaggio del mito neppure per i pagani.

E' possibile che la divinità di Gesù sia una costruzione a posteriori dei cristiani?

Distinguere il Cristo storico dal Cristo della fede è una sciocchezza. Anche dai Vangeli sinottici si evince che i cristiani contemporanei di Gesù lo consideravano il Figlio di Dio. Né si dimentichi il ruolo dei pagani. II cosiddetto Editto di Nazareth, forse opera di Nerone, stabilisce la pena di morte, con effetto retroattivo, per coloro che abbiano spostato una pietra tombale, in quanto considera empia nei confronti degli dei la pratica di adorare un uomo. Decisione che si spiega con la necessità di fermare il culto cristiano sul nascere. Poi c'è Plinio, che scrivendo a Traiano riferisce che i cristiani processati in Bitinia cantavano un inno a Gesù "tamquam deo". Come a Dio».

Il libro fa grande uso dei Vangeli apocrifi: qual è la loro attendibilità?

«Quella delle favole. Anche quando non sono documenti chiaramente gnostici o eretici, rappresentano dei testi fantasiosi, che parlano di palme che si piegano al passaggio di Maria per offrirle i loro frutti e riferiscono altre vicende favolose. I Vangeli canonici derivano la loro sobrietà dalla loro storicità: nascono in un'epoca in cui si scrive molto e si ha un forte senso critico. Prima ancora di redigerli, gli Apostoli si preoccupano di cercare un nuovo ‘dodicesimo’ dopo la defezione di Giuda e la loro preoccupazione è quella di poter rendere una perfetta ‘testimonianza’ degli avvenimenti tra il battesimo di Gesù e la sua Resurrezione. II prologo di Luca si attiene scrupolosamente alle regole della storiografia scientifica greca, anche nel linguaggio, con uno stile tucidideo. C'è un abisso rispetto ai Vangeli apocrifi».

Resta sullo sfondo la tesi, sostenuta da Norelli su «Repubblica», della di­varicazione tra la storicità e la divinità di Gesù. È davvero così ‘necessaria’?

«Il compito della storia è l'accertamento del fatto attraverso le testimonianze. I Vangeli ci pongono di fronte a fatti miracolosi e rifiutare i miracoli a priori nasce da un'ideologia che cerca il verosimile e non il probabile. Non è un atteggiamento scientifico. Non spetta allo storico negare il paradoxon, l'evento che contrasta con l'opinione corrente: gli tocca, invece, verificare che sia attestato da testimonianze corrette. E abbiamo visto come sia debole la scelta di escludere i Vangeli canonici per scegliere gli apocrifi».

 

Dall'autobiografia Il mondo in pugno, pubblicato da Sperling,& Kupfer

Benvenuti, dal ring alla fede vissuta

di Massimiliano Castellani. Avvenire 25 febbraio 2007

Primo round... «Andavo ancora all’asilo, quando un giorno mi fecero vedere un filmato che parlava di un lebbrosario. Le immagini di quella gente che moriva di lebbra non le ho più dimenticate. E solo dopo tanto tempo ho capito e toccato con mano». Inizia così l’album dei ricordi di Nino Benvenuti: con Primo Carnera, prima che un campione della nobile arte del pugilato, una leggenda popolare e un simbolo di quegli anni '60 che segnarono il boom.

La leggenda Benvenuti nasce nell’allora italica Isola d’Istria, anno 1938, appena in tempo per sfiorare la pagina atroce delle foibe. «Un giorno vennero a casa e presero mio fratello Eliano. Eravamo convinti che come tanti ragazzi istriani fosse finito anche lui nelle foibe. Poi scoprimmo che per errore era stato rinchiuso nel carcere di Capodistria. Lo liberarono dopo 7 mesi, ma nostra madre per lo spavento da allora cominciò a star male è più tardi morì di crepacuore.. .».

Quando la madre morì la sua famiglia si era già trasferita a Trieste e nella cantina della loro villetta il piccolo Nino creò il suo primo ring. «Tre corde legate a una colonna e un vecchio sacco. Così ho cominciato, seguendo la passione di mio padre che avrebbe tanto voluto tirare di boxe, ma i suoi genitori non glielo permisero». Sotto l’ala protettiva paterna Nino cresce in fretta, modella fisico e muscoli su una faccia d'attore. Il suo sinistro imprendibile ne fa un talento mai visto sui ring italiani degli anni '50 e da dilettante mette insieme 120 vittorie su altrettanti incontri disputati, presentandosi con un sorriso da copertina di rotocalco alle Olimpiadi di Roma, 1960. Battendo in finale Yury Radonyak conquista la medaglia d'oro e diventa il ‘principe’ dei pesi welter, in un'edizione che incorona il futuro ‘re’ dei massimi, Mouhammad Ali, l’eterno Cassius Clày.

«Eravamo due ragazzi io e Ali e tra noi nacque subito un grande feeling. L’ho rivisto due anni fa e la sensazione che mi ha trasmesso è stata la stessa del nostro primo incontro: mi emoziono davanti a quest'uomo che ha la consapevolezza di saper sempre cosa fare e cosa dire, anche ora che il morbo di Parkinson gli impedisce di parlare».

In quell’avvio di anni '60 Benvenuti e Ali fanno il grande salto nel professionismo e comprendono che il mondo sta tutto nei loro guantoni. Il Nino nazionale diventa campione mondiale dei superwelter e poi passa ai medi per scrivere un capitolo fondamentale della letteratura dello sport e del costume nazionale. Quarant'anni fa, il 17 aprile del 1967, 18 milioni di italiani si svegliarono all’alba per ascoltare la diretta radiofonica: dalla mitica arena del Madison Square Garden di New York andava in onda il trionfo di Benvenuti sul colored Usa, Emile Griffith. «Ancora oggi incontro ‘ex ragazzi’ di allora che si ricordano di quella notte, quando i genitori li svegliarono per ascoltare quel match alla radio. Indimenticabile il commento partecipato di Paolo Valenti che si rendeva conto di stare vivendo un momento storico che univa un Paese intero. Vinsi, e lo feci con lo stesso spirito con cui ho affrontato ogni sfida, con l’umiltà di chi ha creduto sempre in se stesso. E questo mi ha aiutato a non temere mai nessun avversario». Dopo quella notte magica in America, come rocky Graziano, Nino pensò: lassù qualcuno mi ama. «Ma come Paganini non ripetevo mai la stessa prestazione». E cosi cinque mesi dopo Griffith si riprese il titolo iridato. Ma la sfida prevedeva una ‘bella’ che, nel marzo del '68 andò ancora a Benvenuti. Dopo 15 riprese il Nino nazionale usci dal nuovo Madison senza neppure un segno in volto, mentre Griffith fino all’ultimo round, esausto e inorridito, continuava a ripetere al suo manager Clancy: «Quel sinistro è un incubo. Non riesco a schivarlo, mi arriva sempre in faccia.. .». Sarà la stessa. sensazione che la notte del 7 novembre del 1970, a Roma, Benvenuti avrebbe provato contro il destro maligno della furia argentina Carlos Monzon. Contro l’«indio di Santa Fè», l'anno seguente a Montecarlo dopo tre riprese Benvenuti fu costretto a gettare la spugna e a dare l’addio alla boxe.

Un uomo dal pugno di pietra Monzon, fortissimo sul quadrato, quanto fragile appena metteva i piedi fuori, per seguire un cammino disperato, macchiato da un uxoricidio, prima del tragico epilogo avvenuto a soli 46 anni in un incidente stradale. «Andai a trovarlo in Argentina, al carcere di Chunin dove era recluso. Mi accolse con un sorriso dicendomi dolcemente: "Come va Nino, siamo ancora amici no?” Certo che siamo amici, gli ho risposto abbracciandolo. Tempo dopo sono andato a vedere il luogo in cui è morto, una lapide in cima a un burrone di appena due metri. Non ho mai capito come abbia fatto a morire così...». Una fine maledetta, come quella di tanti altri. pugili, caduti dal loro finto paradiso dorato e finiti ko, con la faccia nella polvere. E su questo, il saggio Benvenuti una spiegazione l’ha trovata. «Il pugile è un bambino forte che pensa di avere il mondo sempre in pugno. Ma poi gli anni passano e un giorno si sveglia con la terribile sensazione che tutto ciò che voleva e che poteva prendere solo allungando il braccio, è svanito, ma nel frattempo non si è mai preoccupato di crearsi un'alternativa. Cosi si sente smarrito e più povero che mai, perché ha sempre dato tutto agli altri: al pubblico, alla gente della strada, a quelli che credeva fossero amici, senza ricevere nulla in cambio se non la vana gloria che però, si sa, passa in fretta. Io mi sono salvato da tutto questo perché ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia che mi ha trasmesso il culto del lavoro e il senso profondo del sacrificio che ti ripaga con i risultati sia nello sport che nella vita».

Ma quando appese i guantoni al chiodo, il gancio vero Benvenuti l’ha trovato nella fede. Di colpo quelle immagini di un lebbrosario viste su uno schermo da bambino le ha vissute da protagonista, come in uno di quei film western in cui recitava insieme all’amico Giuliano Gemma. «La fede non mi ha mai abbandonato. Anche perché ho sempre pensato che la fede vive in noi. Con questo spirito, nel 1996, portato da padre Mark, sono arrivato in India, al lebbrosario Giovanni XXIII di Madras. Ero l’unico bianco e tutti si meravigliavano del fatto che non avessi alcun timore di toccarli e di baciarli. Sono rimasto li tre mesi e se non fosse scaduto il permesso di soggiorno magari sarei rimasto per molto tempo… Vedo ancora padre Mark e vorrei tanto tornare laggiù, perché mai come in quel luogo ho avvertito la presenza di Dio».

Sensazioni forti come quel giorno che incrociò lo sguardo di Giovanni Paolo II. «Ero in Piazza San Pietro e avevo con me il bambino di un amico, ad un tratto Papa Wojtyla si è avvicinato, ha spalancato quegli splendidi occhi celesti come il cielo e mi ha riconosciuto... Sapeva chi ero. Ma come, mi dissi: lui talmente grande, riusciva ad occuparsi delle cose più piccole come un uomo di pugilato? Rimasi incantato». L’incanto di uno degli incontri che hanno segnato il percorso di un uomo che dal bordo-ring della sua esistenza studia le prossime mosse.

«Sono arrivato a quasi settant'anni, ho sei figli e quattro nipoti e oggi posso dire di sentirmi davvero più solido e completo di un tempo. La boxe è sempre nel mio dna, ma il match più importante è quello con la vita, che mi impone di migliorarmi come uomo, giorno dopo giorno. E devo farmi trovare pronto, perché sento che il mio incontro, quello più atteso, devo ancora combatterlo...».

Il mondo in pugno dopo il trionfo americano

«La violenza non è nel pugilato. Oggi la vera violenza è la maleducazione, la volontà di distruggere tutto che hanno le persone malvagie, quelle che non amano la vita e non hanno rispetto dell’umanità». Questo è il manifesto esistenziale prima che sportivo di Nino Benvenuti. Da professionista, nel 1965, è stato campione del mondo dei superwelter. Compie il salto di categoria nei medi e nel 1967 conquista il titolo iridato battendo l’americano Emile Griffith: un match storico anche per la nostra televisione perché fu la prima trasmissione via satellite. Dal 1971, anno in cui chiuse con il pugilato, è diventato commentatore per la Rai e la sua storia l’ha raccontata nell'autobiografia Il mondo in pugno, pubblicato da Sperling,& Kupfer.

 

Un libro di grande spessore intellettuale e spirituale

Un Gesù per l’uomo postmoderno

di Vincenzo Vitale da  ‘Vita Pastorale’, marzo 2007

Ogni epoca del cristianesimo ha ‘dovuto’ riscoprire, leggere, interpretare la figura di Gesù, ritrovandone la significatività per il proprio orizzonte, storico e spirituale. E ogni epoca ha prodotto i suoi grandi ‘classici’ su Gesù: si pensi soltanto a quel che è stata per secoli l'Imitazione di Cristo o, in tempi più vicini a noi, Il Signore di Romano Guardini.

Un'opera con tale respiro ‘epocale’ è quella che ci accin­giamo a presentare. E’ di Klaus Berger, intitola­ta semplicemente Gesù, (Queriniana 2006, Bre­scia, p. 672) e già ristampata. E’ il frutto di anni di lavoro del suo autore, neotestamentarista noto non solo agli specialisti ma, in ambito tedesco, anche per opere più divulgative.

Quel che colpisce subito di questo ponderoso volume - peraltro scritto in una lingua creativa, capace di toccare registri diversi, dall'ironia alla vis polemica - è il suo porsi in controtendenza rispetto a molti assunti dell'esegesi corrente. E l'autore si espone coscientemente, polemizzando con il razionalismo inconfessato di tanta esegesi (p. 91), per dare spazio a una concezio­ne del reale in cui trova posto anche la dimensio­ne mistica, cioè quella che «ammette il miraco­lo e la possibilità di interventi reali del divino, dell' Altro, nella normalità del mondo» (p. 54; cf p. 66; pp. 269-270) e senza di cui «è impossibile rendere giustizia a Gesù [...], poiché Gesù è il Figlio di Dio, per questo lato della sua natura egli appartiene al mondo celeste» (p. 66).

Un esempio eloquente, in tal senso, è la sua lettura dell'episodio della trasfigurazione, che dà sempre tanto imbarazzo agli esegeti, e che non a caso egli considera «l'asse segreto del Vangelo» (pp. 65-72) e definisce «una tipica esperienza mistica [...] non ricostruibile con i mezzi moderni, ma non per questo la si può ridurre a un contenu­to simbolico» (p. 67).

E Berger polemizza non ritornando a un'apologetica ormai sorpassata, bensì servendosi degli stessi strumenti critici del­l'esegesi scientifica, con la differenza di interrogare anche i presupposti, più o meno dichiarati, che ne stanno alla base (p. 53-54; 91; 105).

Sono affermazioni - ovviamente motivate nel contesto e spesso fatte con fine ironia - che portano una ventata di aria fresca nell'odierno atteggiamento di ‘sospetto’. Significativa, a pro­posito, appare la posizione di Berger riguardo alla storicità dei vangeli (il pensiero va subito al dibattito intorno a Inchiesta su Gesù di Augias- Pesce): «Fino a prova contraria i racconti del Nuovo Testamento sono da considerare come storicamente autentici (nel senso dello storico)» (p. 49), contro quegli studiosi che «hanno dichiarato leggenda testi che avrebbero potuto mettere in imbarazzo gli illuminati contemporanei, attribuendo alla comunità formatasi dopo la Pasqua la responsabilità del fatto che Gesù sia diventato una specie di Dio. Questo ha ridi­mensionato Gesù, lo ha reso una persona qualunque, che ha detto e fatto meno di quanto ri­porta il Nuovo Testamento» (p. 10).

E quel che viene fuori è la presentazione di un Gesù graffiante, provocante, ben diverso da una teologia «che elimina da Gesù tutti gli elementi estranei, impervi, scandalosi, scomodi, incomprensibili, mistici, finché di lui rimane soltanto un esempio morale generico - un Gesù ‘da libro di scuola’ scialbo, di carta, indifferente al 99% degli adolescenti, perché non nutrono interesse per esempi dell'antichità [...]. Per fortuna questo ‘Gesù’ lo si cerca invano nelle fonti» (p. 456). E il libro si caratterizza per la capacità dell'autore di far parlare i testi evangelici, di cui spesso offre delle micro-esegesi mai banali o scontate, con in più la capacità di gettare ponti verso l'attualità del lettore e le domande di un mondo postmoderno alle prese con la figura di Gesù.

Così il libro ci fa balenare davanti agli occhi il profilo di Gesù e del suo messaggio in una ventina di capitoli che toccano la sua identità profonda, il suo rapporto con il Padre e con gli uo­mini (e anche le donne), il rapporto con il demoniaco, la sofferenza, con il mondo ebraico, il denaro, le istituzioni, il potere, le religioni e la Chiesa, fino alla ‘vittoria sulla morte’ (cap. 18). L'autore cita più volte anche fonti non ca­noniche e, quando è il caso, la liturgia, i mistici, i santi.

Un limite vistoso da segnalare è però la mancanza totale di un qualsiasi indice finale.

Insomma, un libro di grande fascino, di spessore intellettuale e spirituale, capace di incontrare le domande e di provocare l'uomo postmoderno europeo che si pone onestamente la domanda di chi sia questo Gesù di Nazaret che emerge dal Nuovo Testamento e che cosa abbia da dire a noi oggi. E la sottolineatura dell'auto­re, che va verso il lato mistico e la profondità religiosa dischiusa dai testi biblici, rende la «forza di affermazione dei testi di e su Gesù» che «si basa [...] sul fatto che toccano la capacità di amare e il desiderio profondo del cuore umano» (p. 12).

Emerge qui l'influsso della spiritualità cistercense, esplicitamente dichiarata dall'autore. Toccare il cuore: è l'operazione riuscita all'autore e l'esperienza che - ci auguriamo - pos­sa diventare quella di tanti altri lettori.

 

Anatema sul Codice da Vinci

1.

Anatema sul Codice da Vinci

dal Corriere della sera di Milano 16. 03. 05

Bertone alla radio Vaticana: «C'è una strategia anticattolica. Cosa accadrebbe se stravolgessero la Shoah o Maometto?» Il cardinale: "Non leggetelo"

Chi ancora non l'avesse letto, farà bene a non chiederne una copia nelle librerie cattoliche, tratto in inganno da una trama che intreccia i suoi molteplici fili con la storia della Chiesa e la vita di Gesù. Sugli scaffali non ne troverà traccia, e probabilmente si beccherà un'occhiata in tralice da più di un commesso.

Perché da oggi Il Codice Da Vinci, clamoroso successo internazionale dell'americano Dan Brown è ufficialmente off limits. Bandito. «Scomunicato». Ci aveva già provato qualche mese fa un misconosciuto scrittore spagnolo, José Antonio Ullate Fabo, giornalista cattolico di Navarra. II suo La verdad sobre el Codigo Da Vinci mancava però di un elemento fondamentale: l'autorità.

Ieri contro il «Codice satanico» è sceso in campo uno dei principi della Chiesa, il cardinale Tarcisio Bertone, arcivescovo di Genova. Di fatto, è il Vaticano stesso a rompere il silenzio corrucciato con il quale aveva reagito alla pubblicazione del thriller esoterico di Brown.

«Non leggete e non comprate quel romanzo». Un appello ai microfoni della Radio Vaticana, per combattere uno stereotipo secondo cui «bisogna leggere questo libro per capire le manipolazioni che la Chiesa avrebbe operato nel corso della storia». Stereotipo che circola soprattutto nelle scuole, e per cui «non si può essere giovani moderni senza aver letto il Codice». Di fronte alle «bugie a buon mercato» del bestseller, Bertone schiera la verità del Vaticano. E la verità è che «c'è un grande pregiudizio anti-cattolico» (un'idea del resto condivisa dal sociologo Usa Philip Jenkins): «Se fosse stato scritto un libro pieno di menzogne su Buddha o su Maometto, o se fosse uscito un romanzo che avesse manipolato la storia dell'Olocausto o della Shoah, che cosa sarebbe accaduto?».

Bertone è stato il vice di Ratzinger all'ex Sant'Uffizio, culla dell'ortodossia cattolica. La quasi-scomunica era quindi nell'aria, anche perché proprio per stasera il cardinale ha organizzato un dibattito (a Genova, in Sala del Quadrivium) per smascherare «inesattezze e falsità» del thriller. Un romanzo che un tempo si sarebbe detto «popolare», pure un po' furbetto nel suo mescolare abilmente Gesù ai templari, il genio di Leonardo a delitti da manuale noir. Fiction, insomma. Ma dal contenuto esplosivo. Brown, di suo, non ha fatto nulla per sedare le polemiche: quando nel calderone finiscono la liaison tra Gesù e la Maddalena, un figlio segreto e un'Opus Dei «custode» di misteri per i quali non esita a uccidere, a furia di rimestare qualche turbamento verrà a galla. Il resto è abilità manageriale.

Da due anni ormai lo scrittore va dicendo che la sua è un'opera di pura invenzione, salvo affermare en passant che «tutte le descrizioni di documenti e rituali segreti rispecchiano la verità». Un colpo al cerchio, uno alla botte. Un approccio naif che non convince Bertone: «C'è una strategia nella diffusione di questo castello di menzogne», non a caso uscite «dopo l'evento dell'Anno Santo. Giovanni Paolo II ha avuto un impatto eccezionale con l'attualità dell'umanità, e questo ha disturbato molti». Un pizzico di dietrologia, seguita da un cenno alla «strategia di marketing» e un rimprovero secco alle librerie cattoliche che vendono il romanzo «per motivi di lucro».

Resta da chiedersi, adesso, che effetto sortirà la scomunica sulle coscienze dei lettori. Una nota legge del mercato stabilisce un legame di crescita proporzionale tra polemiche e vendite, fedele al motto «anche male, purché se ne parli». E non è molto che nelle vetrine italiane ha fatto la sua comparsa un nuovo romanzo di Brown, Angeli e demoni. Scritto tre anni prima del Codice, tradotto solo dopo il suo successo planetario. In cui, nella Roma della Controriforma, una setta di scienziati è perseguitata fino alla morte... indovinate da chi?

Gabriela Jacomella

2.

Milioni di copie sono state vendute in tutto il mondo dal 2003 (anno di pubblicazione) ad oggi. Nel 2004 è stato il libro più venduto dell'anno. In Italia è arrivato tradotto nelle librerie nel dicembre 2003.

Il contro-libro dalla Spagna. Il sociologo che lo criticò Josè Antonio Ullate Fabo, giornalista e scrittore,cattolico di Navarra, ha stroncato punto per punto il bestseller di Brown con un libro: «La verità sul Codice da Vinci» che sarà pubblicato in Italia in maggio (Sperling&Kupfer).

Il sociologo americano Philip Jenkis fu tra i primi a schierarsi contro il «Codice da Vinci» di Dan Brown.

Occhi puntati su Hollywood. L'attesa ora è per quel che potrebbe succedere all'uscita del film, tratto dal Codice da Vinci. La Columbia Pictures ha affidato la regia a Ron Howard: riprese blindate. Si sa solo che il protagonista sarà Tom Hanks.

3.

Il vescovo Fisichella contro il «Codice da Vinci»: «Non durerà molto»

Avvenire 14 marzo 2007

Tempo qualche anno e il «Codice da Vinci», oggi best seller mondiale, finirà nell' oblio, come anche «Inchiesta su Gesù» di Corrado Augias e Mauro Pesce. Ne è certo monsignor Rino Fisichella, rettore dell'università del Laterano e teologo autore di una ventina di libri sulla fede, che così si è espresso intervenendo ieri alla presentazione dell’ultimo libro della principessa Alessandra Borghese «Sulle tracce di Ratzinger» (Cantagalli). «Sono convinto - ha spiegato il vescovo in ‘una parentesi che non voleva essere polemica’ - che di qui a vent'anni, anzi molti di meno, nessuno ricorderà più i libri di Dan Brown né quelli di Augias. Tutti però ricorderanno il Vangelo».

 

E' un articolo del prof. Giuseppe Segalla pubblicato su Orientamenti Bibliografici, semestrale di letture a cura della Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale di Milano. n. 25 del 2005

 

BIBLIOGRAFIA RAGIONATA SUL GESÙ STORICO

a cura del prof. GIUSEPPE SEGALLA

Penso sia utile inquadrare la problematica recente ossia la terza ricerca (TR) del Gesù storico nella storia complessiva del problema.

Schematicamente si possòno configurare tre grandi momenti: la prima ricerca (PR) che abbraccia il secolo XIX, la nuova ricerca (NR) che occupa il centro del secolo XX, mentre la terza ricerca (TR) parte grosso modo dagli anni 1980ss.

Il rapporto con la teologia di questi tre momenti, schematicamente si potrebbe configurare così:

1) la PR si poneva come istanza critica alla teologia (cristologia), volendo togliere a Gesù le incrostazioni della dogmatica e farlo rivivere nella sua storia (illuminismo, positivismo storico e scuola liberale);

2) la NR ricuperò il Gesù storico alla teologia dopo che vi era stato estromesso dalla teologia kerygmatica e dalla critica morfologica;

3) la TR tende a separare la storia di Gesù dalla teologia con esiti vari, mentre sull'altro versante, quello della teologia, il Gesù della storia viene ormai incluso nel trattato di teologia fondamentale (P.A. Sequeri, H.J. Verweylen) e di cristologia (M. Bordoni).

 

1. Introduzioni prime al problema e alla sua storia

C.J. DEN HEYER, La storicità di Gesù, Claudiana, Torino 2000 (orig. 01. 1996), pp. 224,  offre un quadro completo della storia dall'inizio fino alla TR, con stile e titoli accattivanti e con un capitolo iniziale e finale ove tratta il rapporto con la teologia (cristologia).

G. JOSSA, La verità dei vangeli. Gesù di Nazaret fra storia e fede (Qualità Paperbacks 16), Carocci, Roma 2001 (1998), pp. 182,  esamina il problema sotto il profilo della storicità dei vangeli; la prima parte, ove si fa la storia del problema (1-67), è buona per la PR e la NR; arriva infatti solo fino a E. Kasemann; dello stesso Jossa si possono ricordare due volumi della collana "Studi Biblici":

G. JOSSA, Dal Messia al Cristo (SB, 88), Paideia, Brescia 2000, pp. 200,  che riflette lo stesso interesse, con grande conoscenza specie dell'ambiente tedesco; mentre

G. JOSSA, Il processo di Gesù (SB, 133), Paideia, Brescia 2002, pp. 146,  discute con molta chiarezza anche la problematica recente: pur essendo i racconti evangelici di carattere kerygmatico, tuttavia danno un resoconto attendibile dei due processi, ma proprio per questo non permettono di pervenire ad una esattezza giuridica; il racconto privilegiato è quello di Marco; il confronto viene condotto direttamente sulle fonti parallele ebraiche, in particolare su Flavio Giuseppe.

E. SCHWEIZER, Gesù la parabola di Dio. Il punto sulla vita di Gesù, Queriniana, Brescia 1996 (orig. 1994), pp. 184, aggiorna criticamente anche sugli ultimi sviluppi in America. E inoltre i due articoli di

G. GHIBERTI e G. SEGALLA, Bilancio della ricerca storica di Gesù e La "terza ricerca" del Gesù storico e il suo modello complesso di indagine, ambedue con buona bibliografia finale, in:

AA. Vv., Indagine su Gesù. Bilancio storico e prospettive fenomenologiche (Quaderni di Studi e Memorie, 15), Glossa, Milano 2002, pp. 204,  pp. 9-87. Ultimo sintetico bilancio della TR:

G. SEGALLA, la terza ricerca del Gesù storico e il suo paradigma postmoderno (storiografico, metodologico, teologico), con bibliografia finale ragionata, in:

R. GIBELLINI (ed.), Prospettive teologiche per il XX secolo (BTC, 123), Queriniana, Brescia 2003, pp. 432, , pp. 227-250.

2. I classici che propongono criticamente i risultati delle tre R

Per la PR:

A. SCHWEITZER, Storia della ricerca sulla vita di Gesù (Biblioteca di storia e storiografia dei tempi biblici, 4), a cura di F. COPPELL01TI, Paideia, Brescia 1986 (orig., 1906; 1984) pp. 778. Esamina criticamente tutta la PR da H.S. Reimarus a W. Wrede con una sbalorditiva conoscenza critica delle fonti, ponendo la pietra tombale sulla stessa PR, positivista e liberale. Oltre ad un profondo valore scientifico possiede un'alta qualità letteraria, che spiega come sia divenuto un classico. Quattro alternative attraversano questo primo periodo della ricerca: o mito o storia (Strauss), sono storici o Sinottici o Giovanni, e si opta per i Sinottici (Baur e scuola di Tubinga), o escatologia apocalittica o non storia e ugualmente o Marco o non storia di Gesù (A. Schweitzer). Il problema più grosso per la storia di Gesù è quello ermeneutico, espresso così nel capitolo conclusivo: «Strano destino quello della ricerca sulla vita di Gesù. Partì per trovare il Gesù storico, pensando di poterlo collocare nel nostro tempo come egli è, come maestro e come salvatore. Spezzò le catene che da secoli lo tenevano legato alle rocce della dottrina ecclesiastica, gioì quando la vita e il movimento penetrarono di nuovo la sua figura e quando vide l'uomo Gesù venirle incontro. Egli tuttavia non si fermò, passò davanti al nostro tempo e ritornò nel suo. La teologia degli ultimi decenni ne fu scandalizzata e spaventata, perché divenne consapevole che tutte le sue tecniche interpretative e le sue manipolazioni non erano in grado di trattenerlo nel nostro tempo, ma dovevano lasciarlo andare nel suo. Ed egli vi ritornò con la stessa necessità con cui il pendolo liberato si muove per rioccupare il suo posto originario» (pp. 744-745). Qui egli sintetizzava la ricerca a lui precedente come ricerca di un Gesù storico attuale, che in realtà rispecchiava il volto del ricercatore di turno, mentre Schweitzer pensava di riportarlo nel passato, all'interno dell'apocalittica giudaica: Gesù avrebbe cercato di affrettare la venuta del regno di Dio e ne fu schiacciato. La sua soluzione pratica però era mistica: «Il nostro rapporto con Gesù è in fin dei conti di carattere mistico... In questo senso ogni rapporto più profondo fra gli uomini è di carattere mistico e la nostra religione, nella sua specificità cristiana, è non tanto un culto di Gesù, quanto piuttosto una mistica di Gesù» (p. 755). La conclusione è che lo si conosce solo se lo si segue e si partecipa alla sua vita nel mondo di oggi e per il mondo di oggi (p. 756). Per la NR, che supera lo sbarramento della teologia kerygmatica, in italiano troviamo la conferenza di E. Kasemann del 1953 che si considera l'inizio di questa nuova fase: Il problema del Gesù storico, in:

E. KASEMANN, Saggi esegetici, con una solida introduzione di M. PESCE, Marietti, Casale Monferrato 1985, pp. 30-57. Il criterio principale che propose per il ritorno al Gesù storico fu quello della dissomiglianza dal giudaismo e dal cristianesimo delle origini.

Della fase intermedia precedente, che rifiutava il Gesù storico della PR e considerava il Gesù vero, autentico, quello kerygmatico della fede, si hanno due opere pure classiche ancorché su due fronti diversi:

M. KAHLER, Il cosiddetto Gesù storico e l'autentico Cristo biblico (Collana di Classici Neotestamentari, 1), traduzione e ottima introduzione di S. SORRENTINO, D'Auria, Napoli 1992 (orig. 1886), pp. 156;

R. BULTMANN, Gesù (GdT), Queriniana, Brescia 20035, pp. 200, € 1l,36, che concentra la sua attenzione nella predicazione di Gesù, interpretandola in chiave di esistenzialismo escatologico, come il kerygma.

La diversità della NR rispetto alla prima consiste essenzialmente nel comprendere che i vangeli vanno considerati non solo come documenti storici da vagliare criticamente (PR), ma anche e anzitutto come testimonianze kerygmatiche. Il risultato sintetico di questo nuovo tipo di ricerca è sintetizzato in

G. BORNKAMM, Gesù di Nazaret, Claudiana, Torino 1968 (orig. 1960). A differenza di Schweitzer però egli non scrive la storia della NR, ma ne consegna i risultati nel suo "Gesù della storia" come suona il sottotitolo dell'edizione italiana (nel 1968 nell' edizione tascabile tedesca aveva raggiunto ben 92.000 copie). Nella Premessa (3-5) dice sinteticamente dove e come si colloca questa esposizione scientifica della storia e del messaggio di Gesù. Nelle prime parole dichiara la cesura con le opere dei decenni precedenti: «Per vari decenni sono mancate quasi del tutto, almeno in Germania, esposizioni scientifiche della storia e del messaggio di Gesù di Nazaret. Al loro posto si sono avuti numerosi tentativi di teologi-poeti e di poeti-teologi. Non è nostra intenzione di fame qui la critica» (p. 3). Contro i fedeli che tacciano il metodo storicocritico di incredulità, egli sostiene invece che, per un verso è vero «la fede non può e non deve dipendere dalle variazioni e dall'insicurezza della ricerca storica - sarebbe sbagliato e assurdo pretenderlo - ma nessuno dovrebbe disprezzare l'aiuto che la ricerca storica offre per illuminare la verità, quella verità che ci deve stare a cuore più di ogni altra cosa» (p. 4). Si deve perciò superare la tradizione storico-kerygmatica del vangelo che rispecchia fede e storia e pervenire, col metodo storicocritico, anche se con difficoltà, al Gesù della storia, prescindendo da fede e incredulità in modo che parli a esperti e profani: «Per poter procedere in questa zona così nebulosa il primo requisito è una ricerca libera e aperta, nella rinuncia a quell'atteggiamento che tende soltanto alla conferma delle proprie convinzioni, sia che provengano da una tradizione di fede che di incredulità» (p. 4).

L'oggettività scientifica non è indifferenza. Per quanto concerne il metodo, il criterio principale della dissomiglianza col giudaismo viene calcato dal fatto che si legge il giudaismo deformato in chiave legalistica, contrapposto all'originalità del messaggio di Gesù: «Senza dubbio la religione dell'antico Israele fu sottoposta nel Giudaismo postesilico ad un grave processo di riduzione e fossilizzazione. 'Il Signore di tutti i popoli era diventato il capo del partito dei legalisti, l'ubbidienza al Sovrano della storia era diventata una sottile tecnica di pietà (Dibelius)'. Anche il culto e il sacrificio, nel Giudaismo postesilico, sono visti unicamente sotto il segno dell'obbligo rituale» (pp. 35-36). Questa concezione "protestante", negativa del giudaismo è stata aspramente criticata da

E.P. SANDERS nella sua opera Paolo e il giudaismo palestinese. Studio comparativo su modelli di religione (Biblioteca teologica, 21), Paideia, Brescia 1986 (orig. 1977), pp. 848, e la nuova visione più positiva (nomismo di alleanza) la utilizza nel suo libro su Gesù, per inserirlo il più possibile nell'ambiente giudaico palestinese e così renderlo storicamente plausibile (Gesù e il giudaismo, Marietti, Casale Monferrato 1992 [orig. 1985], pp. 494). L'altro versante del criterio di dissomiglianza per stabilire la storia di Gesù, usato da Bornkamm, è la diversità col kerygma cristologico salvifico della chiesa delle origini. Il risultato sarebbe che Gesù non si è attribuito nessun titolo, neppure quello di Messia, semmai criticato. E conclude: «Il risultato di queste considerazioni... è altamente positivo. Esse ci riconducono al riconoscimento che è stato alla base di tutta la nostra esposizione del messaggio e della storia di Gesù, che cioè il carattere messianico della sua esistenza (la sua "messianità") è racchiuso nella sua parola, nella sua azione e nell'immediatezza della sua apparizione storica» (p. 204). Il mistero di Gesù supera ogni categoria giudaica (dissomiglianza col giudaismo) e «non è risolto dalla logica... di alcun sistema dogmatico precostituito (dissomiglianza con la fede postpasquale). Siamo così condotti a comprendere per qual motivo il mistero della sua natura si svelerà ai discepoli solo nella sua risurrezione» (p. 204). Alla NR si potrebbero annoverare altre due opere: quella di

 

J. JEREMIAS, Teologia del NT: vol.l: la predicazione di Gesù, Paideia, Brescia 1972; 19762 [orig. 1971], pp. 400, che calca molto la somiglianza e la diversità della predicazione di Gesù dall'ambiente giudaico, apocalittico e farisaico rabbinico , e quella di R. FABRIS, Gesù di Nazareth. Storia e interpretazione, Cittadella, Assisi 1983; 1991, (pp. 412,) che dipende ancora molto dalla scuola morfologica, pur in un quadro equilibrato e si potrebbe considerare un'opera ponte fra la NR e la TR. La TR ha superato la seconda perché il giudaismo, in una visione più completa, viene considerato come criterio di plausibilità storica, mentre sui titoli in genere viene mantenuta la tesi della NR: i titoli vengono confessati nella fede postpasquale; Gesù non si è attribuito nessun titolo propriamente detto.

Per la TR sta divenendo un classico l'opera enorme di J .P. Meier Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico: 1. Le radici del problema e della persona (BTC 117), Queriniana, Brescia 2001 (orig. 1991), p. 472 ; 2. Mentore, messaggio e miracoli (BTC 120),2002 (orig. 1994), pp. 1344; 3. Compagni e antagonisti (BTC 125), 2003 (orig. 2(01), pp. 736, L'opera è in ben quattro volumi, di cui tre già usciti in italiano.

Il nome "Terza Ricerca", che ormai è prevalso, è stato dato da N.T. Wright nel 1986. S. NEILL - N.T. WRIGHT, The Interpretation of the New Testament 1861-1986, OUP, Oxford 1986; 1988, p. 379.

Una buona sintesi delle tre ricerche con la loro caratterizzazione, si legge nella introduzione al secondo volume: «Un ebreo marginale... cerca di essere un contributo in una fase particolarmente intensa della ricerca su Gesù, quella che alcuni critici hanno etichettato come "la terza ricerca sul Gesù storico". La prima indagine produsse una sfilza di 'biografie liberali' di Gesù nella Germania del XIX secolo e raggiunse il suo culmine e la sua conclusione nella Ricerca sul Gesù storico di A. Schweitzer (1906). Queste biografie liberali spesso rispecchiavano la fantasia fin troppo fervida dei loro autori, anziché i dati dei vangeli. La seconda ricerca, portata avanti specialmente da... 'postbultmanniani' come E. Kasemann e G. Bornkamm negli anni '50, cercò di essere più attenta nella enunciazione dei criteri per le valutazioni storiche... Negli anni '90, la terza ricerca ha tentato di essere più sofisticata nella sua metodologia, più autocosciente e più autocritica nell'affrontare le precomprensioni e gli orientamenti di un dato autore, e più determinata a scrivere storia, invece di una teologia o cristologia nascoste. La terza ricerca beneficia delle recenti scoperte archeologiche, di una migliore conoscenza della lingua aramaica e del contesto culturale della Palestina del I secolo e di una concezione variegata del giudaismo (o giudaismi) intorno al trapasso delle epoche, nonché di nuove intuizioni offerte dall'analisi sociologica e dalla teoria letteraria moderna» (pp. 7-8). Ho stilato io stesso una valutazione del progetto presentato nel I volume in una nota Ripensare il Gesù storico, «Teologia» 26 (2001) 238-245.

L'aspetto più positivo di questa "summa" è il suo carattere di minuta analisi critica di ogni fatto e di ogni detto di Gesù, rivisitando tutta la critica, dalla NR (R. Bultrnann e G. Bornkamm) alla TR, un'analisi quasi esaustiva; tale analisi è inquadrata in ambiti ben precisi, indicati dai titoli dei singoli volumi. Ma questo aspetto diviene anche il più problematico, perché si perde di vista una visione eidetica della persona di Gesù. Lo confessa lui stesso alla fine del III volume:- «Il problema derivante dall'utilizzo di un procedimento metodologico minuzioso nella nostra ricerca su Gesù è che possiamo perdere il senso dell'insieme - se, effettivamente c'è un insieme da percepire» (p. 612). E in questa breve sintesi conclusiva dei primi tre volumi perviene a una serie di quattro enigmi: sulla Legge (da cui Gesù differisce più di quello che vuol far credere E.P. Sanders), sul linguaggio misterioso delle parabole, sul linguaggio arcano delle sue autodesignazioni, sull'enigma finale o mistero ultimo della sua morte (pp. 648-649). Si vedrà se Meier nel IV volume che tratta il carattere enigmatico, misterioso della persona storica di Gesù, riuscirà a pervenire a una sintesi. Il difetto di base secondo me è la separazione netta dalla teologia. Se è valido il principio critico per la teologia dogmatica, ciò non vale per la testimonianza di fede implicata nel racconto evangelico, che pure è storica e che non si deve pensare sia solo postpasquale. L'opera, imponente nel suo sviluppo, si confronta con tutte le posizioni recenti sul Gesù storico. Però non lo fa sinteticamente come A. Schweitzer per la PR, ma piuttosto confrontandosi nei singoli fatti e detti o tematiche. Un po' di aiuto può venire solo dagli accurati indici per autori. Vi sono però già quattro rassegne principali degli autori recenti, specie americani, e delle loro tesi: MARCUS J. BORG, Jesus in Contemporary Scholarship TPI, Valley Forge, Pennsylvania 1994 (serie di saggi, in cui sostiene decisamente l'interpretazione non escatologica-apocalittica di Gesù, ma un Gesù che propone una società alternativa); L.T. JOHNSON, The Real Jesus. The Misguided Quest for the Historical Jesus and the Truth of the Traditional Gospels, Harper/Collins, San Francisco 1996 (molto critico verso la TR, vicino alla vecchia tesi di M. Kahler); M.A. POWELL, Jesus as a Figure in History. How Modern Historians View the Man from Galilee, Westminster J.K. Press, Louisville 1998 (il più acuto ed equilibrato); B. WITHERINGTON III, The Jesus Quest. The third Search for the Jew of Nazareth, Inter-Varsity Press, Downers Grove 19972 (buona e ampia informazione, teoreticamente fragile, orientato alla sua tesi del Gesù sapiente, profeta e messia).

3. I principali autori recenti in lingua italiana

Vorrei ricordare anzitutto un ottimo manuale di carattere metodologico, anche se va usato con senso critico per la sua interpretazione sociocarismatica del Gesù storico con tendenza critica minimista: G. THEISSEN - A. MERZ, Il Gesù storico. Un manuale (Biblioteca biblica, 25), Queriniana, Brescia 1999 (orig. 1996; 1999\ pp. 804. Oltre a presentare in maniera didattica fonti, criteri e loro applicazione ai vari momenti della storia di Gesù, vi sono per ogni paragrafo indicazioni bibliografiche e proposte di esercizi pratici, le cui soluzioni vengono date alla fine. Per quanto concerne il metodo così si esprimono gli autori nella premessa: «Questo manuale intende esporre l'indagine scientifica su Gesù; non soltanto i risultati, ma anche il processo dell' acquisizione del sapere. È stato scritto nella convinzione che duecento anni di ricerca storico-critica su Gesù, e la documentazione che in questo tempo è cresciuta enormemente su lui e il suo ambiente, abbiano prodotto conoscenze rilevanti» (p. 7). Per quanto riguarda invece il contenuto e i risultati: «Anche un manuale che intende comunicare la ricerca di Gesù - e non le idee privilegiate dai due Autori - è caratterizzato da una determinata immagine di Gesù. È un'immagine di Gesù contestuale. Gesù viene inteso (meglio: compreso) nel contesto del giudaismo e della storia locale... Siamo convinti infatti che attraverso il Gesù storico è possibile trovare un accesso al giudaismo improntato a simpatia; siamo convinti che il confronto con il suo messaggio affina la coscienza sociale e l'incontro con lui cambia la questione su Dio» (p. 8). Lo sguardo retrospettivo finale, una vita di Gesù in sintesi (pp. 689-693) è un po' deludente. Ma gli A. confessano che la ricerca rimane sempre aperta.

Due opere significative di ebrei sono state pubblicate recentemente: D. FLUSSER, Jesus, con una buona Prefazione di M. CUNZ, Morcelliana, Brescia 1997 (orig. 1968; 1993 \ pp. 200, si raccomanda perché scritto da un grande studioso del giudaismo nel suo rapporto col NT, perché è scritto con intento storico, a suo tempo contro lo sbarramento bultmanniano (Inizia così infatti: «Questo libro è stato scritto soprattutto per mostrare come sia possibile scrivere una storia della vita di Gesù») e per il largo successo avuto nella sua edizione originaria in tedesco (più di 100.000 copie). La figura di Gesù è avvicinata con una simpatia e con una straordinaria conoscenza delle fonti ebraiche.

G. VERMES, I volti di Gesù (Saggi), Bompiani, Milano 2000, pp. 340, è un libro che intende sintetizzare a livello popolare (e quindi senza seguire una metodologia critica) le sue ricerche di carattere scientifico, raccolte in due libri precedenti; qui parte dal vangelo di Giovanni quindi dalla fase più recente per riandare indietro al Gesù dei Sinottici e al vero Gesù. Naturalmente egli abbraccia la tesi della evoluzione dal Gesù ebreo, carismatico, al Figlio di Dio divinizzato. Il suo libro classico, di carattere scientifico,

G. VERMES, Gesù l'ebreo, Borla, Roma 1983, pp. 264, presenta un Gesù carismatico, operatore di prodigi, sullo sfondo di due carismatici ebrei della Galilea del I secolo di cui poco in verità si conosce se non il loro potere carismatico di fare miracoli (Honi e Hanina ben Dosa);

l'altro è La Religione di Gesù l'Ebreo: una grande sfida al cristianesimo, con presentazione di G. SEGALLA, Cittadella, Assisi 2002 (orig. 1993), pp. 304, molto sbilanciato nell'includere Gesù nel giudaismo.

Due opposte interpretazioni del Gesù storico nella TR sono uscite in versione italiana: di E.P. Sanders e di J.D. Crossan, l'una segue la linea escatologica, l'altra quella non escatologica e sapienziale, che sono le due linee principali della TR. Sanders, già sopra ricordato, sceglie la linea dei fatti come metodo per riandare al Gesù storico e l'ambiente giudaico come luogo in cui collocare Gesù, interpretato come Messia escatologico nel quadro dell'escatologia giudaica della restaurazione. Sanders cerca di smussare ciò che distingue Gesù dal giudaismo e in tal modo sfuoca la sua singolarità. 

 

J.D. CROSSAN il cui libro The Historical Jesus. The Life oJ a Mediterranean Jewish Peasant, T&T Clark, Edinburgh 1991, è divenuto un best seller in America (si ha in italiano la riduzione popolare del libro scientifico: Gesù. Una biografia rivoluzionaria, Ponte delle Grazie, Firenze 1994 [orig. 1994], pp. 248, che però è stata ignorata). L'opera esprime la tendenza del cosiddetto Jesus Seminar, che considerava originaria la tradizione di un Gesù sapienziale e posteriore la tendenza escatologica, fondando il tutto sul vangelo di Tommaso e su una pretesa prima fase della fonte Q, di carattere appunto sapienziale. Avvicina così la figura di Gesù a un giudeo cinico della campagna, usando principalmente il metodo della pluralità e antichità delle fonti in modo piuttosto soggettivo: Gesù non fa distinzione di classi, a mensa tutti sono uguali, guarisce gratuitamente, va in giro e manda in giro i suoi discepoli senza danaro, col minimo necessario, ecc, insomma è simile a un hippy. Ecco la finale presuntuosa del suo imponente lavoro: «Questo libro, dunque, è una ricostruzione scientifica del Gesù storico. Se si accettassero i suoi metodi ed anche i materiali quivi investiti, certamente si potrebbero offrire conclusioni interpretative diverse nella ricostruzione del Gesù storico. Ma non la si può tralasciare o considerare la ricerca di Gesù come una mera ricostruzione (corsivo originale), come se la ricostruzione invalidasse in qualche modo l'intero progetto. Proprio perché vi è soltanto (orig.) ricostruzione. Per il cristiano credente sia la vita del Verbo di Dio sia il testo del Verbo di Dio sono ugualmente un graduale processo di ricostruzione storica, sia esso rosso, rosa, grigio, nero (i quattro colori usati nella votazione al Jesus Seminar per stabilire la graduale attendibilità dei detti di Gesù, da un massimo, il rosso a un minimo, il nero) o A, B, C, D. Se non si può credere in qualcosa prodotta dalla ricostruzione, non vi resta nulla in cui credere» (p. 426).

Qui egli identifica la fede con la ricostruzione storica. Ancor più polemico e retorico è l'epilogo del libro popolare, che pone in dialettica il Gesù da lui ricostruito con il Gesù costantiniano: «Di fronte al passaggio dalla commensalità aperta di Gesù al banchetto di Costantino con i vescovi è ingiusto dispiacersi di un cambiamento avvenuto così rapidamente che è stato accettato in modo così pronto, e criticato così poco? È ora, o è già troppo tardi per fare i conti da un punto di vista etico e morale, religioso e teologico con Costantino?» (pp. 242-243). In questa seconda linea, sapienziale, della TR non si ha solo la separazione della storia dalla teologia, ma la pretesa identificazione di storia e fede che critica la teologia posteriore per il suo tradimento del Gesù storico.

Una parola, infine, sull'opera di un italiano, di notevole impegno, che si può inscrivere nel filone della TR:

G. BARBAGLIO, Gesù ebreo di Galilea. Indagine storica (La Bibbia nella storia, Il), EDB, Bologna 2003, pp. 672, con diverse ristampe fino al 2003.

Riassumo brevemente il giudizio ampiamente espresso in una mia nota: Un libro recente su Gesù ebreo di Galilea, «Teologia» 28 (2003) 99-106. Si pone nella linea di Sanders, Meier e altri che separano la storia nettamente dalla teologia, lo confessano e sono coerenti. Nei 14 capitoli: all'inizio fa una breve storia della ricerca e quindi attraversa le varie tematiche, da quelle previe (trama, carta di identità, il mondo in cui visse) a quelle più specifiche, partendo da Gesù alla scuola del Battista. Fa un largo uso delle fonti dirette e di quelle parallele con metodologia fra quella scientifica e quella giornalistica. Ne risulta una serie di quadri successivi separati uno dall'altro, si perde una visione di insieme della persona di Gesù, e il tutto riflette la frammentazione della postmodernità. Se vi è un filo nascosto che unifica è quello di un Gesù evangelista e portatore del regno di Dio, singolare e diverso rispetto all'ambiente ebraico originario come alla cristologia esplicita posteriore che sarebbe semmai l'esplicitazione di una cristologia implicita (pp. 616-618).

Un accenno conclusivo a un'opera imponente su Gesù, che rinnova in parte la metodologia di ricerca, ricuperando in modo scientifico la tradizione orale di Gesù, una tradizione celebrata, per cui il titolo del volume è Jesus remembered, Gran Rapids, Cambridge 2003 del noto esegeta inglese, critico conservatore I.D.G. DUNN, che spero uscirà anche in italiano nonostante la mole del libro originale di 1000 pagine. Credo sia un libro che farà discutere. Un'ampia recensione del volume si può trovare su «Teologia» l (2004) 99-104.

Prof. Giuseppe Segalla

 

 

BIBLIOGRAFIA RAGIONATA SUL VANGELO SECONDO LUCA

La produzione bibliografica sul terzo vangelo non solo è molto abbondante - come si può ben immaginare - ma si arricchisce di continuo di nuovi titoli. La breve rassegna qui offerta si limita a segnalare la comparsa recente di alcune opere su Luca, di italiani o in italiano.

 

Premessa

Per chi desidera farsi un'idea complessiva circa Luca e il suo racconto, sono da raccomandare alcune sezioni apparse su alcuni manuali dedicati ai sinottici nel loro insieme. In particolare segnaliamo L'opera lucana (Luca-Atti) in

G. SEGALLA, Evangelo e vangeli, EDB, -Bologna 1992, pp. 400, pp. 177-269, e

A. RODRlGUEZ CARMONA, L'opera di Luca (Le-Atti) in R. AGUIRRE MONASTERIO - A. RODRlGUEZ CARMONA, Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli (Introduzione allo studio della Bibbia 6), Paideia, Brescia 1995 (or. spagnolo 1992), pp. 344, pp. 239-329

I due autori presentano, con pertinenza, l'opera lucana (vangelo-atti) nel suo complesso. Si consulti, inoltre, la parte su Luca in R.E. BROWN, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 2001 (or. inglese 1997), pp. 1136, pp. 321-387, molto utile anche per un primo orientamento bibliografico. Infine, come solido manuale di introduzione all'intera opera lucana, è da registrare il testo - disponibile da qualche anno - di G.C. BOTTINI, Introduzione all'opera di Luca. Aspetti teologici (SBF Analecta 35), Franciscan Printing Press, Jerusalem 1992, pp. 255: l'autore, -in modo documentato e in aderenza al testo biblico, affronta le classiche questioni di carattere letterario e teologico (cristologia, escatologia e storia della salvezza, pneumatologia, ecclesiologia).

Commentari

Presentiamo, anzitutto, due voluminosi commentari che affrontano, in modo analitico, l'intero vangelo. Il primo è a opera di G. ROSSÉ, Il vangelo di Luca, Città Nuova, Roma 1995 2, pp. 1060.

Si tratta di un commento offerto - secondo le parole dell'Autore - «a lettori che hanno una certa pratica della questione biblica, senza essere specialisti in materia. L'intento è di offrire una spiegazione o interpretazione abbastanza dettagliata del vangelo, tenendo presenti i dati della ricerca esegetica attuale». L'analisi puntuale è condotta versetto per versetto; sovente Rossé affronta anche la questione della formazione del testo, in rapporto alla triplice scansione Gesù-comunità-evangelista con un'attenzione alla questione della storicità. Le note sono abbondanti e ricche.

È ancora l'Autore a confessare: «l'apparato delle note è pesante. Non vorrebbe scoraggiare ma offrire informazioni complementari, annotazioni di carattere più tecnico riguardo allo stile e alla lingua dell'autore, all'analisi di certe ipotesi». Un testo, dunque, che richiede un certo impegno ma la fatica è ripagata. (Lo stesso Autore ha pure offerto, ultimamente, un commento più agile e ridotto, di taglio «spirituale, che poggia su una basa esegetica solida ma evita di proposito la terminologia tecnica»: G. ROSSÉ, Vangelo secondo Luca [Commenti spirituali del Nuovo Testamento], Città Nuova, Roma 2003, pp. 281).

Il secondo commentario è a opera di S. GRASSO, Luca, Borla, Roma 1999, pp. 712. Lo studio sul testo lucano non si attarda ad affrontare le questioni introduttive ma entra presto in medias res. Si accoglie il testo come giace, senza preoccuparsi di scavare alla ricerca della sua origine e del suo sviluppo. Ogni singola pericope è offerta con una traduzione personale dell'autore; segue uno studio sulla struttura che ha lo scopo di mostrare la disposizione globale del testo stesso. Nella parte esegetica, il commento offre una lettura complessiva del brano in esame che si presta anche a una proficua attualizzazione. Molto utile, inoltre, la nutrita bibliografia che accompagna ogni pericope.

Fresco di stampa è il commentario di F. MOSETTO, Lettura del Vangelo secondo Luca (Manuali e Sussidi per lo studio della Teologia. Instrumenta - Subsidia), LAS, Roma 2003, pp. 429.

Scrive l'Autore nella Prefazione: «non è possibile leggere oggi il Vangelo di Luca senza tenere conto della sua indole specifica e dell'origine dei suoi materiali, della serietà del suo piano storiografico e della finalità squisitamente religiosa, del retroterra culturale (biblico-giudaico ed ellenistico) e della qualità letteraria del testo. La nostra analisi cercherà di mettere in evidenza quegli elementi che permettono di cogliere il significato genuino». Commento puntuale ed essenziale, si consiglia come prima guida alla lettura integrale del vangelo.

Stimolante è il commento dell'esegeta protestante americano RB. CRADDOCK, Luca (Strumenti 10; Commentari), Claudiana, Torino 2002 (or. inglese 1990), pp. 411.

Il testo si propone di presentare il vangelo come una narrazione ben costruita ed è quindi attento a mostrare le strategie comunicative di Luca. Si privilegia l'analisi sintetica (forse troppo) dei brani, sempre collegati con attenzione allo sviluppo della trama. Un'opera che propizia una lettura narrativa del terzo vangelo; nella forma di commentario completo, ci pare un unicum nel panorama editoriale italiano.

Tra la vasta produzione di commenti agili ma rigorosi nell' analisi, è da menzionare il testo di B. MAGGIONI, Il racconto di Luca, Cittadella Editrice, Assisi 2000, pp. 402. La profondità del commento, in ascolto attento al testo, espresso in un linguaggio sempre chiaro e curato, raccomanda da sé questo volume di un Autore ben noto al grande pubblico. È uno dei migliori commenti "sintetici" oggi sul mercato librario.

Opere di carattere tematico

Facciamo seguire un elenco di alcuni volumi che si propongono di offrire una sintesi del messaggio evangelico e che ne esplorano alcuni temi particolarmente rilevanti.

M. GIRARD, Il vangelo di Luca. Un Vangelo su misura per il nostro tempo, ElleDiCi, Leumann (TO) 2000 (or. francese 1998), p. 269. Scritto di un biblista canadese noto agli specialisti per le sue ricerche sul simbolismo nella Bibbia e sui Salmi, il testo in questione si presenta come una suggestiva rilettura tematica del terzo vangelo. Nella prefazione, il card. Martini mette in risalto le qualità del libro: «un linguaggio facile, accessibile...; un retroterra scientifico mai ostentato ma sempre presente, con rigorosa aderenza al testo; un appello al cuore, all'interiorità, alla conversione». Utile anche per gruppi biblici.

J.B. GREEN, La teologia del vangelo di Luca (Letture bibliche 16), Paideia, Brescia 2001, pp. 193.

L'autore intende illustrare la peculiarità di Luca nel vasto orizzonte del mondo del NT e insieme la sua attualità. Sono affrontate con originalità e chiarezza le tipiche tematiche lucane: il carattere storiografico dell'opera, il piano salvifico di Dio, l'universalismo e il popolo giudaico, la missione e il discepolato. Un testo da raccomandare come sintesi veloce e profonda del terzo vangelo.

"V. FUSCO, Da Paolo a Luca (Studi biblici 124. 139), voll. I-II, Paideia, Brescia 2000.2003, pp. 637. Due densi volumi raccolgono gli scritti di uno dei più grandi biblisti italiani, scomparso pochi anni fa, dedicati non solo al vangelo ma anche agli Atti. Costituiscono un'ottima introduzione all'intera produzione lucana; «l'acuta penetrazione dei problemi si accompagna ad una grande chiarezza espositiva e il giudizio equilibrato non rinuncia né ad una critica sempre vigile né all'innovazione». Attraverso queste pagine, è possibile affacciarsi con sicurezza sul mondo del cristianesimo primitivo e collocare con precisione l'opera di Luca: testo e contesto si illuminano reciprocamente.

Saggi minuziosi e sostanziosi sul vangelo (e sugli Atti) si possono trovare anche in B. PRETE, Nuovi studi sull'opera di Luca. Contenuti e prospettive, Elle Di Ci, LeumannTO 2002, pp. 416.

L'autore, domenicano, affronta alcuni testi tanto noti quanto dibattuti (ad es. l'annunciazione, la nascita, la pesca miracolosa, i racconti della passione); con ampiezza è pure trattato il noto "tema" lucano dell'azione dello Spirito.

M. GOURGUES, Le parabole di Luca, Elle Di Ci, Leumann- TO 1998 (or. francese 1997), pp. 238.

Le celeberrime parabole di Luca continuano ad affascinare il lettore di ogni tempo. Lo studio di Gourgues orienta a una lettura precisa di un simile «repertorio d'oro» attraverso un'analisi accurata, ben documentata anche dal punto di vista bibliografico. L'autore, che eccelle nel presentare la sorgente del testo, si prende anche il rischio di orientare verso la foce, deducendone il senso attuale.

Attinente lo stesso ambito, sebbene con una visuale più circoscritta, è da segnalare il recente volume di B. PRETE, Le parabole della preghiera nel Vangelo di Luca, ElleDiCi, Leumann-TO 2003, pp. 247, che fa emergere un altro tema propriamente lucano, quello della preghiera.

Abile narratore, Luca è capace di caratterizzare in modo avvincente alcuni personaggi che incrociano la storia di Gesù. Il volume di R. LAVATORI - L. SOLE, Ritratti dal Vangelo di Luca. Persone e relazioni (Bibbia e spiritualità 14), EDB, Bologna 2001, pp. 295, si propone di analizzare 16 incontri narrati nel vangelo. Nella stessa prospettiva, era già apparso in precedenza il testo di U. TERRINONI, Il Vangelo dell'incontro. Riflessioni su Luca (Bibbia e spiritualità 1), EDB, Bologna 1997, pp. 240.

Segnaliamo, inoltre, il corposo volume che raccoglie gli Atti della Giornata Biblica svoltasi a Padova nell'ambito del Congresso Internazionale su San Luca evangelista. Testimone per il 2000 della fede che unisce. Risulta essere un punto di riferimento per cogliere lo stato della ricerca circa alcuni punti qualificanti l'intera opera lucana:

San Luca Evangelista. Testimone della fede che unisce. Atti del Congresso Internazionale, Padova, 16-21 Ottobre 2000, I, L'unità letteraria e teologica dell'opera di Luca (Vangelo e Atti degli Apostoli) (Fonti e Ricerche di Storia Ecclesiastica Padovana XXVIII), a c. di G. LEONARDI - F.G.B. TROLESE, Istituto per la Storia Ecclesiastica Padovana, Padova 2002, pp. 637.

Prof. Marco Cairoli

 

Régis Burnet

Maria Maddalena. Dalla peccatrice pentita alla sposa di Gesù

Da alcuni anni, Maria Maddalena - Maria di Magdala, discepola di Gesù, peccatrice perdonata «perché ha mostrato molto amore», prima testimone della risurrezione - è di nuovo al centro dell'attenzione. Le femministe americane e anche gli amanti di segreti e di misteri si sono impadroniti del personaggio e l'hanno caricato delle loro aspirazioni. Il Codice da Vinci l'ha messa in scena come sposa di Gesù e madre di una discendenza ancora tra noi..,

Il fenomeno non è nuovo. Ogni epoca ha costruito la "sua" Maddalena: dalle Saintes-Maries de-la-Mer ai pittori del XIX secolo, passando per la Sainte-Baume o Vézelay, Anche la nostra epoca si è appropriata di questo personaggio avvincente. A quale volto di noi stessi e delle nostre società ri­manda il volto che i nostri contemporanei danno a Maria Maddalena?

Numerose sono le opere esegetiche, storiche, letterarie, agiografiche su «la Maddalena», Rimanevano da riunire gli elementi dispersi e fare la sto­ria della ricezione di questa figura biblica. È quanto l'autore cerca di fare ripartendo dai vangeli e ripercorrendo i secoli fino ai recenti siti Internet.

L' AUTORE

Régis Burnet, ex-alunno dell'École normale supérieure, dottore dell'École pratique des hautes études, insegna alle Università Paris ­VII e Paris-VIII. Dello stesso autore l'editrice Queriniana ha recentemente pubblicato per la collana “Sintesi” il volumetto Il Nuovo Testamento, Brescia 2005.

500 citazioni: tanti sono gli echi della Bibbia nella Divina Commedia Ma non basta: tutto lo schema delle tre cantiche risulta impostato sul modello dei due Testamenti. La tesi di uno studioso

Dante tra Mosè e san Giovanni

Il poema illustrerebbe l'ascesa dalla Torah (e dai classici greci e latini) allo Spirito: l'Inferno è il regno della legge biblica, il Paradiso quello del Vangelo, mentre nel Purgatorio domina la misericordia L’Alighieri rifiuta ogni interpretazione letterale dei testi sacri e ogni morale assoluta: le leggi riguardano solo Cesare e non devono essere attribuite a Dio. Persino la collocazione dantesca delle anime nei gironi della pena o nei cerchi della gloria non ha valore definitivo, ma conserva solamente un significato spirituale.

di Pietro Gibellini. Avvenire 14. 06. 07

Mezzo migliaio, uno più uno meno. Tanti sono gli echi della Bibbia nella Divina Commedia, fra citazioni, allusioni e reminiscenze. A tacere delle molte edizioni commentate del poema, non mancano studi dedicati ai singoli aspetti, a partire dagli atti del convegno che vent'anni fa l'associazione «Biblia» dedicò al tema e che furono pubblicati da Olschki.

Eppure credo che il volume di Lodovico Cardellino, Dante e la Bibbia, sia il primo tentativo di interpretazione sistematica di quel delicato e cruciale rapporto. L'opera cade in tempi maturi per una riconsiderazione, anche da parte della cultura laica, della formidabile incidenza che il testo sacro ha avuto nella letteratura e nell'arte dell'Occidente: convegni e pubblicazioni al riguardo si vanno infittendo, anche al di là delle Alpi e dell'Atlantico. Ma quest'opera esce vicino a noi. La pubblica infatti Sardini di Bornato Franciacorta come quaderno a latere della rivista Bibbia e Oriente (pp. 224). L'autore non è un accademico: aostano, si è laureato in fisica e in filosofia, ha girato mezzo mondo come addetto agli Istituti italiani di cultura.

Occorrevano forse la libertà dall'accademia, l'ardore e l'ardire del dilettante in senso nobile e una ventennale fatica per tentare un'impresa che fa tremar le vene e i polsi. Sono vent'anni, infatti, che Cardellino pubblica ricerche su singoli aspetti del problema, tessere ora riunite in mosaico compiuto e complesso.

Sì, il libro è complesso (per quanto lodevolmente chiaro), ma la tesi portante può riassumersi in breve. Il Vangelo insegna a leggere l'Antico Testamento in senso spirituale, al di là del senso letterale. San Gregorio Magno esprimeva questo programma esegetico nell'immagine di due ruote che si corrispondono punto a punto: «Il Nuovo Testamento è una ruota dentro la ruota del Vecchio», svela ciò che l'altro celava. Dante sviluppa questa immagine nel cielo della sapienza, dove due corone di beati ruotano attorno a Beatrice (immagine del Verbo divino) tessendo le lodi rispettivamente di Francesco, alter Christus, e di Domenico, che sarebbe un «doppio» del Battista, ancora vòlto verso la Legge e l'Antico Testamento.

Un nuovo lustro appare infine attorno alle due ruote, come nuovo «poema sacro» (Paradiso XXIII 62 e XXV 1). Dante infatti ha impostato il suo poema per illustrare entrambe le Scritture: l'Inferno sarebbe il regno della legge biblica, il Paradiso brilla per l'assoluzione evangelica di tutto ciò che in inferno era apparso condannato. E il Purgatorio? Vi regnerebbe la misericordia biblica, concessa dopo confessione, pentimento e penitenza, secondo il richiamo dei Profeti e del Battista. Le tre cantiche segnerebbero l'ascesa dalla Torah (e dalla sapienza dei classici greco-latini) allo Spirito evangelico, di cui l'autore (diversamente da quanto oggi si tende generalmente a fare) avverte più lo stacco che la continuità con quei due Mondi antichi (ma nell'occhio dell'aquila celeste pone equamente due beati ebrei, due pagani e due cristiani…).

Nella costruzione del suo poderoso edificio, Dante guarderebbe continuamente al Vangelo di Giovanni, anche se, invece di cominciare come lui «in principio» (a imitazione della Genesi), inizia con «nel mezzo», dalla fase legalista, una fase di transito come quella di Israele nel deserto e di Lazzaro: ha colto il senso della risurrezione di Lazzaro e l'ha applicato a sé, riconoscendo anche il valore di stimolo, se non del peccato in sé, almeno della consapevolezza del peccato.

Cardellino legge così il poema come un esame di coscienza fatto da Dante, riconoscimento autocritico essenziale alla conversione e al ritrovamento di Dio in sé. La Commedia, come il Vangelo, si oppone a ciò che lo studioso chiama «fondamentalismo etico ed esegetico»: rifiuta ogni interpretazione letterale delle Scritture e l'attribuzione a Dio di leggi morali assolute, scritte nella pietra. Dunque un Alighieri anarchico o buonista? Senz'altro no: Dante riconosce la necessità di leggi nella società, purché queste riguardino Cesare e non siano attribuite a Dio.

Il divieto evangelico di giudicare rivive nel poema, dove Beatrice lo sottolinea nell'Eden raccomandando a Dante di farne tesoro. Ma allora Dante, che ha ficcato all'inferno papi e sovrani, smentisce se stesso? Qui sta il punto per Cardellino: come la Bibbia non va letta secondo la lettera ma secondo lo spirito, così Dante vuole che il suo poema sacro non sia preso alla lettera: la visione delle anime proposta sarebbe virtuale, anzi consapevolmente inattendibile (come conferma il IV canto del Paradiso). Ma, anziché negare se stessa o disperdersi nell'inconoscibile buio dei mistici, la visione dantesca mantiene un preciso significato spirituale, chiarito dalla presenza in paradiso di spiriti che ricordano comportamenti molto simili a quelli dei dannati e dei purganti.

L'autore del saggio ne deduce che il senso di tutta la visione, e il suo oggetto primo, è la condizione morale di Dante, e con lui di ogni lettore: egli vede tutti in inferno quando in lui dòmina una atteggiamento «legalista» o «fondamentalista», mentre trova tutti in paradiso quando è davvero convertito, passato cioè dalla scuola di Virgilio e del Deuteronomio a quella di Beatrice, cioè del Verbo espresso nel Vangelo: la stessa escatologia proposta da Giovanni.

Certo, vari punti del saggio appaiono suscettibili di discussione, e alcuni perfino sconcertanti: si pensi all'ipotesi di un Virgilio di cui Dante si farebbe burla, cogliendolo in contraddizioni e svarioni: l'ipotesi collima con l'immagine del poeta pagano inconsapevole profeta che reca la lucerna dietro la schiena rischiarando la via a chi lo segue ma non a sé. Ma urta contro la riverenza così spesso esibita dal mistico pellegrino al suo duca e auctor. Ovvero all'abbondanza di figure mitologiche proprio nel Paradiso, nella cantica cioè dove più forte dovrebbe essere la distanza dal sapere pre-cristiano (non si tratterà dunque di una scelta retorica, da stilus tragicus?). E come conciliare la svalutazione del senso letterale della Commedia con il concetto di figura elaborato da Auerbach universalmente accolto? Resta un fatto: questo è un libro che costringe a ripensare la Commedia nel suo significato complessivo. E, con essa, anche il Vangelo di Giovanni.

 

Il Codice colpisce ogni giorno

Tutti i libri che vogliono denunciare i falsi di Dan Brown contribuiscono a farli circolare ancora di più

 

30 luglio 2005 Umberto Eco // L’Espresso

 

Ogni giorno mi capita tra le mani un nuovo commento al 'Codice da Vinci' di Dan Brown. Parlo solo dei libri in italiano, perché non sarei in grado di fornire una bibliografia di tutto quello che appare nel mondo. Solo in Italia potrei citare José Antonio Ullate Fabo, 'Contro il Codice da Vinci' (Sperling), Bart Ehrman, 'La verità sul Codice da Vinci' (Mondadori), Darrell L. Bock, 'Il Codice da Vinci. Verità e Menzogne' (Armenia), Andrea Tornielli, 'Inchiesta sulla Resurrezione' (Il Giornale). Ma certamente trascuro qualcosa. D'altra parte se volete un'informazione aggiornata su tutti gli articoli in materia, andate al sito dell'Opus Dei. Vi potete fidare, anche se siete atei. Caso mai, come vedremo, la questione è perché il mondo cattolico si dia tanto da fare per smantellare il libro di Dan Brown, ma quando da parte cattolica vi si spiega che tutte le notizie che contiene sono false, fidatevi.

Intendiamoci. Il 'Codice da Vinci' è un romanzo, e come tale avrebbe il diritto di inventare quello che vuole. Oltretutto è scritto con abilità e lo si legge d'un fiato. Né è grave che l'autore all'inizio ci dica che quello che racconta è verità storica. Figuriamoci, il lettore professionista è abituato a questi appelli narrativi alla verità, fanno parte del gioco finzionale. Il guaio comincia quando ci si accorge che moltissimi lettori occasionali hanno creduto davvero a questa affermazione, così come nel teatro dei pupi gli spettatori insultavano Gano di Maganza.

Per smontare la presunta storicità del 'Codice' basterebbe un articolo abbastanza breve (e ne sono stati scritti di ottimi) che dica due cose: La prima è che tutta la vicenda di Gesù che sposa la Maddalena, del suo viaggio in Francia, della fondazione della dinastia merovingia e del Priorato di Sion è paccottiglia che circolava da decenni in una pletora di libri e libretti per i devoti di scienze occulte, da quelli di de Sède sur Rennes-le-Chateau al 'Il santo Graal' di Baigent, Leigh e Lincoln. Ora che tutto questo materiale contenesse sequele di panzane è stato detto e dimostrato da tempo. Inoltre, pare che Baigent, Lincoln e Leigh abbiano minacciato (o realmente iniziato) un'azione legale contro Brown per plagio. Ma come? Se io scrivo una biografia di Napoleone (raccontando eventi reali), poi non posso denunciare per plagio qualcuno che di Napoleone scrive un'altra biografia, sia pure romanzata, raccontando gli stessi eventi storici. Se lo faccio, allora lamento il furto di una mia originalissima invenzione (ovvero fantasia, o frottola che dir si voglia).

La seconda cosa è che Brown dissemina il suo libro di numerosi errori storici, come quello di andare a cercare informazioni su Gesù (che la chiesa avrebbe censurato) nei manoscritti del Mar Morto - i quali non parlano affatto di Gesù, bensì di faccende ebraiche come gli Esseni. È che Brown confonde i manoscritti del Mar Morto con quelli di Nag Hammadi.

Ora accade che la maggior parte dei libri che appaiono sul caso Brown, anche e specialmente quelli ben fatti (e cito l'ultimo, molto documentato, appena apparso presso Mondadori, 'Inchiesta sul Codice da Vinci', di Etchegorn e Lenoir), per poter durare il numero sufficiente di pagine a fare un libro, raccontano tutto quello che Brown ha saccheggiato, per filo e per segno. In tal modo questi libri, in qualche misura perversa, benché siano scritti per denunciare delle falsità, contribuiscono a far circolare e ricircolare tutto quel materiale occulto. Così (assumendo l'interessante ipotesi - che qualcuno ha veramente avanzato - che 'Il codice' sia un complotto satanico), ogni sua confutazione ne riproduce le insinuazioni, a cui fa da megafono. Come complotto è ben riuscito, non c'è che dire.

Perché, anche a confutarlo, 'Il codice' si autoriproduce? Perché la gente è assetata di misteri (e di complotti) e basta che gli offri la possibilità di pensarne uno in più (e persino nel momento in cui gli dici che era l'invenzione di alcuni furbacchioni) ed ecco che tutti incominciano a crederci.

Credo sia questo che preoccupa la chiesa. La credenza nel 'Codice' (e in un altro Gesù) è un sintomo di scristianizzazione. Quando la gente non crede più in Dio, diceva Chesterton, non è che non creda più a nulla, crede a tutto. Persino ai mass media. So di esprimere soltanto una sensazione, ma sono stato colpito dalla figura di un giovane imbecille che in piazza San Pietro, mentre una folla immensa attendeva la notizia della morte del Papa, col telefonino all'orecchio e il volto sorridente faceva ciao ciao alla telecamera. Perché era lì (perché tanti altri come lui, mentre forse milioni di veri credenti stavano a casa propria a pregare)? Nella sua attesa di un soprannaturale mediatico, non era forse pronto, lui, a credere che Gesù avesse sposato la Maddalena e fosse unito dal legame mistico e dinastico del Priorato di Sion a Jean Cocteau?

 

 

Faouzi Skali, Gesù nella tradizione sufi (e nel Corano), Paoline 2007, pp. 724

L'Islam si è interessato a Gesù, a Maria, ai Vangeli? Certo, ma questo libro risponde con abbondanza di dati e di confronti. L'Autore è uno specialista dell'Islamismo, in particolare dell'affascinante corrente spirituale-mi­stica del sufismo, oltre che del dialogo interculturale e interreligioso. Il sufismo è fiorito nel Medio Evo, all'interno dell'Islam, ma con forte sottolineatura del rapporto personale e cordiale dell'uomo con Dio, con il Trascendente. Con questo libro l'Autore vuoIe mettere in risalto e commentare le numerose citazioni e allusioni alla figura di Gesù e di Maria presenti nel Corano e tra i mistici sufi: sono davvero tante, attinte soprattutto ai vangeli apocrifi e a tradizioni orali. Ne risulta una mirabile attenzione e sti­ma per Gesù e per il suo messaggio, oltre che per la madre sua.

Ovviamente Maometto rimane sempre per l'islamico il più grande profeta; ma Gesù appare spesso quasi come un'incarnazione dello ‘Spirito’ di Dio ( non di un Figlio suo, impossibile per l'Islam).

Non tutto è chiaro per noi, per la nostra cultura più aristotelico-tomista che platonica, più incline a distinguere il divino dall'umano, più razionale che attenta al linguaggio del cuore e di certa mistica che sembra così tanto voler unire l'umano e il divino da far perdere lo specifico di ambedue e il carattere personale e unico di ogni persona e soprattutto di Gesù Cristo: si rischia di annullare Lui, noi e il mondo

in un vago e confuso "Tutto" o in un disincarnato spiritualismo.

Con l'attenzione a non cadere in questi rischi il libro del Faouzi Skali è molto utile, se non altro per far conoscere aspetti dell'Islam antico e moderno solitamente poco noti né apprezzati da noi (e forse da tanti musulmani stessi!).

Giovanni Giavini

 

Un pubblicitario si reca in Palestina e incontra IL GESU' DEL 2005

7 km da Gerusalemme,

 

il nuovo romanzo di Pino Farinotti per la San Paolo

 

E' davvero molto fortunato Alessandro Forte, brillante pubblicitario milanese: va a fare un viaggio in Palestina e lì, sulla strada per Emmaus, incontra Gesù. Sì, proprio Gesù, in carne e ossa, duemila anni dopo. Gli fa tutte le domande che ognuno di noi gli farebbe (che senso ha la vita? Esiste l'inferno? Sei tu l'uomo della Sindone?) e Gesù risponde, semplice e diretto, come un amico che conosci da sempre, ma che ti sorprende ogni volta che lo incontri.

È questo il nucleo di 7 km da Gerusalemme (San Paolo, pp. 310), il nuovo, provocatorio romanzo di Pino Farinotti. «Sinceramente non ricordo come mi è venuta l'idea di scrivere un libro come questo», confessa l'autore, giornalista e critico di cinema. «So solo che ero un credente al venti per cento e ora lo sono davvero, anche se ho mantenuto il mio spirito critico». Un pò come il protagonista, che nell'incipit del libro dice: «Non leggo gli oroscopi, le madonne non piangono, non mi evolverò in una farfalla o in un santo. Tuttavia sono disposto a credere se qualcuno mi porta delle prove. Almeno indiziarie».

«Non potevo, né volevo scrivere un libro di teologia», aggiunge Farinotti. «Questo è un libro sugli esseri umani e sui loro sentimenti, l'amore, l'odio, l'indifferenza, e sul bisogno di avere delle risposte ai perché della vita. A un certo punto il protagonista pretende, quasi con rabbia, delle spiegazioni da Gesù». E lui, con pazienza infinita, risponde a tutto e non è distante dagli uomini, ma, anzi, soffre con loro fino ad arrivare addirittura a sentirsi quasi in colpa per le loro pene. «Quando Alessandro gli fa notare che al mondo c'è gente che in un'ora guadagna 5 milioni di euro, mentre moltissimi non hanno neanche un brodo in tutta la giornata», dice Farinotti, «Gesù risponde: "Io sto dalla parte di chi non ha il brodo", ma subito dopo aggiunge: "Ma non ti basta, vero?". No, non gli basta, tanto che Gesù sente il bisogno di aggiungere: "Ho messo mano a tante cose. Qualcuna ha funzionato. Questa no"».

Nel romanzo Gesù è anche molto spiritoso: quando per esempio confessa di non essere mai stato un grande falegname

Il Gesù del 2005 quindi sceglie come suo discepolo un pubblicitario, un uomo colto, affermato, molto diverso dai pescatori, dalle pastorellee, dai personaggi umili della tradizione cristiana. «Sì, ho scelto volutamente un uomo pieno di dubbi e d'inquietudini, che sa inquadrare il proprio tempo, che sa farsi e fare domande. Quando Alessandro gli chiede: "Perché vado bene io?", Gesù risponde: "Siete in molti. E fate opinione. Non avrei potuto ignorarvi ancora. Sarai un discepolo di stile diverso. Un portatore sano".

E quando alla fine Alessandro domanda a Gesù: "Ma perché non ti sei presentato come un Dio?", questa è la risposta: "Come un Dio? Mi collegavo in mondovisione? Quattro miliardi di telespettatori come per un cantante o un presidente? Oppure apparivo nel cielo sopra un concerto rock. Una suggestione collettiva da inserire negli archivi della Nasa. O su Internet". "Su Internet, perché no?", obietta a questo punto Alessandro. "Tecnologia tanto alta da sembrare un miracolo. Io sono un miracolo". Il miracolo di ritrovare ogni giorno Gesù in ogni uomo e in ogni donna che incontriamo casualmente per la strada. Basta guardare bene».

Eugenio Arcidiacono

 

IL PARTIGIANO JONNY di BIANCA GARAVELLI

Il partigiano Johnny non è solo la grande epopea della guerriglia partigiana, dal punto di vista di un giovane intellettuale che ama la letteratura inglese. E' qualcosa di tragico e sublime: la "rappresentazione del sacro e della sua natura originaria, violenta e indistinta, in cui bene e male stanno indifferenziati». E' la tesi che la studiosa Marinella Pregliasco illustra nella ricerca «La lingua e il sacro nel Partigiano Johnny» di Beppe Fenoglio, presentata al convegno di San Salvatore Monferrato sul tema «Le parole del sacro. L'esperienza religiosa nella letteratura italiana" e ora pubblicata da Interlinea.

Secondo la Pregliasco Fenoglio usa il linguaggio sacro, sia biblico, sia dei Padri della Chiesa come Agostino, sia filtrato attraverso i versi danteschi, per assolutizzare la sua epopea, allontanandola dal presente, e sostanziando il suo tono oracolare, che rende così epiche le vicende dei suoi partigiani.

Il partigiano Johnny è uno dei capisaldi della narrativa resistenziale. Protagonista del romanzo, che ha una struttura, un tono, una gestazione tali da renderlo unico nel panorama del Neorealismo, è un giovane militare tornato dopo l'8 settembre nelle natie Langhe, cercando un isolamento protettivo in attesa di una svolta politica ormai nell'aria.

Assume un ruolo di primo piano una componente materica, attraverso concrete coordinate spaziali. E' una presenza pastosa, quasi 'argillosa', come se a Fenoglio stesse a cuore un Dio primordiale, che crea il mondo e lo muove letteralmente mettendoci le mani (<la fine dei partigiani è rappresentata come una via crucis, e la loro morte come una crocifissione, con un'apertura quindi anche alle scene del Nuovo Testamento.

E tutto questo grazie al linguaggio sacro, modulato sotto forma di invocazioni, litanie, preghiere che vengono sentite come un linguaggio arcano, tanto che c'è chi prova il Padrenostro, ma senza che «torni una parola di più» oltre alla formula «venga il tuo regno». La preghiera sembra dunque segnalare che il cosmo dei partigiani e delle Langhe, nonostante il dilagante male, la perdita e forse la nostalgia della fede, è comunque misurabile con metro divino, che lo traspone in una dimensione al di fuori del tempo. Proprio come nel cosmo misurabile di Sant'Agostino, di cui il cielo è soffitto e la terra pavimento, ma per cui il cielo è il pavimento del luogo del Signore, quindi, in un certo senso, è la «terra di Dio».

 

Flannery O’Connor, la cattolica maestra dei miti a noi contemporanei.

Il mistero di scrivere è mostrare la materia

Che cosa c’è di comune tra Bruce Springsteen e Nick Cave, registi quali John Huston e Quentin Tarantino, scrittori quali Raymond Carver ed Elizabeth Bishop o i nostri Luca Doninelli e Carola Susani? Nulla, forse. Tranne Flannery O’Connor, letta, amata, rappresentata o imitata da tutti loro.

La scrittrice (1925-1964), che considerava sua country quel «caro, vecchio, lurido Sud» compreso tra la zona pedemontana della Georgia e l’est del Tennessee, è figlia di quella terra che ha generato i Southerners, cioè penne quali Erskine Caldwell, Carson McCullers, Truman Capote, Tennesse Williams, William Faulkner.

La sua opera non è immensa, ma è bastata a farla diventare una scrittrice di culto. Morta a 39 anni, ci ha lasciato due romanzi (Wise Blood, del 1952 e The Violent Bear It Away del 1960, tradotti in italiano rispettivamente da Garzanti e Einaudi) e una manciata di racconti pubblicati in due tappe nel 1955 e nel 1965. Tuttavia le sue poche pagine l’hanno fatta apprezzare come una icona, un «mostro sacro», un modello. All’opera narrativa vanno aggiunte le lettere (Sola a presidiare la fortezza è il titolo di una selezione edita da Einaudi) e le prose occasionali di Mistery and Manners, tradotte in italiano col titolo di Nel territorio del diavolo dall’editrice Theoria dieci anni fa. Fino ad oggi tutto era reperibile nella nostra lingua tranne, appunto, questa preziosa raccolta di saggi esaurita da tempo. Se Attilio Bertolucci si disse «folgorato» dalle sue pagine, i saggi di Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere fanno capire da cosa derivi questa scossa elettrica. La folgorazione nasce da almeno tre motivi.

Il primo: la O’Connor scrive perché vede il mondo. Seppure l’espressione possa apparire banale, le cose stanno proprio così. La scrittrice ha una visione del reale, dunque niente labirinti coscienziali o incartamenti romantici. I materiali di cui è fatto un racconto sono i più «polverosi»: «La narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere, dunque se disdegnate d’impolverarvi, non dovreste tentar di scrivere narrativa». Da qui un prezioso avvertimento: non è possibile suscitare l’emozione con testi infarciti di emozione o i pensieri facendo fuoriuscire incontenibile il pensiero da ogni angolo del racconto. A queste cose «bisogna dar corpo, creare un mondo dotato di peso e di spessore»: scrivere narrativa non è questione di dire cose, ma di farle vedere al lettore, di mostrarle. Se un personaggio ha un carattere legnoso deve avere una gamba di legno. Se la personalità cambia, allora deve arrivare un ladro a rubarle quella dannata gamba.

La concretezza dunque è una delle basi forti della poetica della O’Connor. Personaggi e avvenimenti hanno un aspetto che colpisce la percezione, sono incarnati e materiali: «il mondo dello scrittore di narrativa è colmo di materia», mentre spesso si crede che siano le emozioni tumultuose o le idee grandiose a fare un racconto. Nient’affatto. Con i concetti astratti non si fanno storie: «la caratteristica principale, e più evidente, della narrativa è quella d’affrontare la realtà tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare, toccare. È questa una cosa che non si può imparare solo con la testa; va appresa come un’abitudine, come un modo abituale di guardare le cose». E quest’abitudine deve mettere radici profonde in tutta la personalità dell’artista. La sensibilità e l’acume psicologico dunque sono poveri strumenti per scrivere di narrativa. È la materia e la concretezza della vita che danno realtà al mistero del nostro essere nel mondo.

Il secondo motivo per cui si resta folgorati dalle pagine della O’Connor è appunto il mistero. Il sottotitolo italiano della raccolta dei saggi lo dice con chiarezza: non si parla del «mestiere di scrivere», come spesso si sente in giro di questi tempi nei laboratori di scrittura più sprovveduti o «professionalizzanti», ma del «mistero di scrivere». La O’Connor punta la mistero. La sua visione concretissima del reale non è mai da école du regard, algido e minimalista. La prospettiva della O’Connor, invece, colloca il particolare all’interno della prospettiva del «mistero della nostra posizione sulla terra». Il realismo che la O’Connor intende prendere in considerazione è quindi orientato in direzione del mistero, che si manifesta, ad esempio, nella forma dell’imprevisto o, addirittura, del grottesco: «se lo scrittore crede che la nostra vita sia e rimarrà essenzialmente misteriosa, se ci considera come esseri all’interno di un ordine creato le cui leggi osserviamo liberamente, allora quello che vedrà in superficie lo interesserà solo in quanto passaggio per arrivare a un’esperienza del mistero stesso». E allora può accadere veramente di tutto. Anche la violenza gratuita, il bizzarro e il grottesco, misto di comicità e orrore, sono funzionali a una forzatura dello sguardo. È come se la scrittrice desse uno schiaffo al lettore, scompigliando la sua intenzionalità visiva nel momento in cui sposta il volto, angolandolo di sbieco. Ciò che salta subito per aria è quel «buon senso» vagamente laico, razionale e illuministico che tanto ammorba la vera ispirazione. Solo da questo scuotimento interiore, non certo da melliflue armonie new age, può derivare quella pace profonda e quella serenità interiore che hanno spinto la scrittrice al buonumore sempre, anche quando fu colpita insieme da un tumore e da quel lupus erythematosus che la avrebbe condotta, ancor giovane, alla morte. Lontanissima da lei, inoltre, qualunque retorica ideologica o di genere da «scrittura delle donne» o «scrittura al femminile», che dir si voglia.

Il terzo motivo consiste nel fatto che l’argomento della narrativa della O’Connor è «l’azione della grazia in un territorio tenuto in gran parte dal diavolo». È il territorio del dramma del bene e del male, della salvezza e della perdizione, della grazia e del diavolo: «Nei miei racconti, scrive paradossalmente la O’Connor, il lettore troverà che il diavolo getta le basi necessarie affinché la grazia sia efficace». Il senso del male è garanzia del nostro senso del mistero e dunque il diavolo diventa, in qualche modo, «una necessità drammatica dello scrittore». La O’Connor dunque si dice scrittrice perché cattolica e afferma che per lei credere significa vedere le cose: la fede è una sorta di motorino di avviamento della percezione e, quindi, della scrittura: «la fede, nel mio caso almeno, è il motore che aziona la percezione». Ricordo che la O’Connor era appassionata di San Tommaso d’Aquino («io sono una tomista di terzo grado»), del teologo gesuita francese Teilhard de Chardin (da lei considerato il maggiore scrittore non romanziere), del filosofo Jacques Maritain e dei mistici quali Tersa d’Avila e Giovanni della Croce («rispetto a lui sono uno zero», scrisse). Senza la «visione» (attenzione: la visione, quella di Dante, ad esempio, non la visionarietà, che è ben altra cosa) che le è data dalla fede non le sarebbe uscita una riga d’inchiostro. E in questa dimensione il dogma di fede assume un ruolo fondamentale: «salvaguarda il mistero a vantaggio della mente umana» e così la O’Connor può affermare: «Scrivo sulla base di una solida fede in tutti i dogmi cristiani».

E il primo è quello dell’Incarnazione: Dio si fa carne umana, polvere. Da qui allora si amplia il campo visivo su un mondo che ella ha definito come «infestato da Cristo (Christ-haunted)». La spiegazione di questa espressione la si trova nel fatto che la O’Connor è particolarmente sensibile agli aspetti più drammatici e paradossali dell’incisività della Grazia, che può arrivare fino all’abbrutimento del personaggio: «Ho l’impressione che gli scrittori che vedono alla luce della loro fede cristiana saranno, di questi tempi, i più fini osservatori del grottesco, del perverso e dell’inaccettabile». Anzi, l’irruzione della Grazia non sempre migliora la vita personale e sociale dei personaggi e, nel suo caso, è proprio esattamente il contrario. La sua narrativa allora non potrà che risultare «selvaggia», insieme violenta e comica, per via delle discrepanze che cerca di ricomporre.

«Il mistero crea un grave imbarazzo per la mentalità moderna», scrive la O’Connor e così la sua scrittura provoca terribile imbarazzo, ma è irresistibile. Ha provocato gli effetti più disparati. Ha ispirato la violenza apparentemente gratuita di Pulp fiction e l’intensa sobrietà acustica di un disco come Nebraska di Springsteen, tutto plasmato dalla visione delle Badlands. Ha ispirato l’inteso e tremendo romanzo E l’asina vide l’angelo di Nick Cave, nonché le atmosfere da Bible Belt di molte sue canzoni, ma anche intense riflessioni teologiche sulla visione sacramentale della realtà. Le sue pagine saggistiche si leggono e si rileggono con una passione sanguigna. Mai colore rosso in copertina fu più azzeccato. La prefazione del giovane Christian Raimo, scrittore anch’egli, è ben fatta, pertinente, opportuna. Egli, giustamente, nota come i saggi di Nel territorio del diavolo hanno la capacità di «trovare una perla in ogni questione che si apre, e di unirle in un filo ininterrotto, in una visione olistica, onnicomprensiva del reale». Ma l’abilità del prefatore sta anche nell’elenco delle domande che i saggi della O’Connor affrontano. Ecco il catalogo: «perché si scrive? come si diventa scrittori? cos’è una vocazione? come si capisce di averla? come ci si libera dal proprio egocentrismo? cos’è l’arte? che rapporto c’è tra l’arte e il denaro? cosa vuol dire la purezza? come si fa ad essere coerenti con se stessi ed efficaci con il pubblico dei lettori? come si può aver cura del talento? e cos’è una storia? qual è il suo significato? come si dà vita ai personaggi? come li si fa parlare? come si costruisce una chiave simbolica? e ancora ancora ancora, fino a quello che è l’interrogativo centrale, non eludibile: se anche la Bibbia “non è che un vedere attraverso uno specchio in modo oscuro” (1 Cor 13,12), come si può con la letteratura provare a incarnare il mistero di Dio?».

A queste domande, tutte intelligenti, le risposte della O’Connor appariranno spesso un po’ impertinenti. Neanche l’editore, che continuiamo a ringraziare per averci restituito la perla che è questo libro, ha resistito alle bizze della O’Connor e ha provato a correggerla e a «normalizzarla». Nel sito internet della casa editrice si legge, a proposito del libro, una frase esatta. Ma non fino in fondo: «L’autrice mette apertamente in campo la sua profonda religiosità cattolica senza mai sconfinare nel fanatismo o nella bigotteria - e anzi rifiutando ogni degenerazione moralista - e ci offre esempi cristallini di teoria letteraria in cui i concetti di grazia e di mistero acquistano forza e fascino per qualunque lettore». Perfetta la prima e l’ultima parte dell’affermazione, ma errata la parte mediana: è proprio il rifiuto della degenerazione moralista a far sconfinare in continuazione i personaggi dei romanzi della O’Connor nel fanatismo e nella bigotteria. E il motivo è presto detto con le parole di una lettera della stessa scrittrice inviata a una sua amica suora: «Secondo molti protestanti che conosco, i monaci e le suore sono fanatici, e della peggior specie. E secondo molti monaci e suore che conosco, i miei profeti protestanti sono fanatici. A mio modo di vedere, l’unica differenza fra costoro è che se sei cattolico e credi con tanta intensità, entri in convento e nessuno sente più parlare di te; mentre se sei protestante e credi con altrettanta intensità, non puoi entrare in nessun convento e te ne vai in giro per il mondo a ficcarti in ogni sorta di guai, attirandoti sul capo le ire di chi non crede più a niente. È anche per questo che mi riesce meglio scrivere dei credenti protestanti che di quelli cattolici: perché esprimono la loro fede in varie forme drammatiche di un'evidenza per me abbastanza facile da cogliere. Non sono scrittrice dell’impercettibile, io».

 

Francia, i nuovi Bernanos

Da Parigi Daniele Zappalà. Avvenire 14 marzo 2007

C’è un vento nuovo d'impegno cattolico nelle lettere d'Oltralpe? A chiederselo da mesi sono tanti critici, di fronte alla recente inflorescenza di romanzi, copioni e saggi in cui la fede cristiana torna ad essere protagonista. La Francia letteraria cerca ancora degni eredi della tradizione nutrita da giganti quali Paul Claudel, Charles Péguy, Georges Bernanos o François Mauriac ed è anche per questo che suscita attesa ogni nuovo gorgoglio in questo alveo antico. Se figure come Michel Tournier e Didier Decoin hanno dimostrato da tempo il loro talento di grandi scrittori illuminati dalla fede, desta interesse una nuova  generazione di autori credenti.

E’ qui che spiccano anche figure già affermate della scena letteraria o filosofica le cui opere mature cercano inedite consonanze col messaggio evangelico, talora dopo autentiche conversioni.

«Ciò che mi interessa guardando il visibile, è al contempo ciò che si mostra e ciò che si lascia scoprire, la parte d'invisibile che affiora, traspare, fosse pure fugacemente», sostiene Sylvie Germain, l'acclamata autrice del recente Magnus. Delle originarie ricerche sulla mistica cristiana condotte dalla scrittrice, così come della sua continua frequentazione della Bibbia, resta molto in un'opera sorprendente e immaginifica che continua a sedurre non solo in Francia.

Qualche giorno fa, sulle pagine del Figaro, un'altra talentuosa e già pluripremiata figura della nuova letteratura francese, François Taillandier, ha cercato di abbozzare ed enumerare le ragioni della sua «riconversione» graduale e silenziosa al cattolicesimo dopo anni di profondo scetticismo: «Forse per lo splendore di Bourges, che dava a Stendhal voglia di essere cristiano. Forse per la modesta dolcezza della chiesa romanica d'Ennezat (Puy-­de-Dòme). Forse perché un giorno, ascoltando pronunciare attorno a me la parola catho con questo leggero disprezzo che considera di non aver più bisogno di fornire le proprie ragioni, ciò mi ha stancato e ho detto nel modo più affabile possibile: “Io sono cattolico”».

Nel 2005, ispirandosi alla Commedia umana di Balzac, Taillandier ha inaugurato un ambizioso progetto letterario in cinque volumi di cui è appena apparso il secondo, intitolato Telling.

Dopo un'iniziale notorietà acquistata come reporter, anche il successivo percorso creativo di Jean-Claude Guillebaud si è di recente imbevuto di accenti e contenuti legati alla fede. Colpito dall' opera di filosofi come René Girard e dall' atmosfera di raccoglimento del mondo monastico, Guillebaud ha pubblicato fra l'altro due saggi sulla centralità del credere intitolati La force de conviction: à quoi  pouvons-nous croire? («La forza di convinzione: a cosa possiamo credere?») e Comment je suis redevenu chrétien («Come sono ridivenuto cristiano»). Suscita un acuto interesse anche l'opera di Fabrice Hadjadj, scrittore e intellettuale di cultura ebraica e nome arabo convertitosi al cattolicesimo dopo «una fase di nichilismo». Il suo recente e paradossale saggio Réussir sa mort («Far bene la propria morte») analizza con passione e ironia la relativa indifferenza verso la morte delle società occidentali, lanciando al contempo un appello alla gioia fondato sulle ragioni della fede.

Nelle conversazioni letterarie francesi torna spesso anche il nome di Maurice Dantec, controverso scrittore dell' estremo che sostiene di iscriversi nel solco ‘futurista’. Di recente, quest'intellettuale eccentrico ma seguito da tempo dalla critica ha gridato in pubblico che «non vi è alcun avvenire per l'umanità al di fuori del Cristo».

Accanto ai narratori, anche i drammaturghi d'Oltralpe tornano ad attingere alla fonte cristiana sulla scia dell'acclamato autore belga di espressione francese Eric-Emmanuel Schmitt.

Un brillante esempio è quello di Valère Novarina, autore sperimentale la cui opera si è progressivamente «aperta sulla religione della parola».

Qualcosa di simile è accaduto anche a filosofi come Bernard Sichère e Jean-Louis Chrétien, giunti al cattolicesimo dopo lunghi esodi interiori fra le dune dello scetticismo. La scoperta del varco di luce della trascendenza, in questi casi, ha dato l'abbrivio a limpide riflessioni candidate a non restare lettera morta.

 

Sean Freyne

Gesù ebreo di Galilea. Una rilettura di Gesù storico

Esperto riconosciuto della Galilea, l'Autore spiega molti dei detti e degli atteggiamenti di Gesù in relazione al suo contesto galilaico, adottando uno stile estremamente ricco e convincente.

«Un altro tentativo di scoprire il Gesù storico! Il tema è stato così strapazzato negli ultimi decenni che dovrebbe prendersi un anno sabbatico. C'è, però, sempre la tentazione di credere - senza dubbio per ingenuità - che un particolare aspetto dell'argomento non sia stato ancora scoperto, o almeno trattato in modo appropriato.

I! mio particolare punto di vista assume la prospettiva della Galilea ed è sollecitato dal modo in cui la Galilea di Gesù è stata ricostruita da differenti studiosi nel passato più recente. Talvolta si ha l'impressione che la ricerca sul Gesù storico corra il rischio di diventare la ricerca sulla Galilea storica, con tutte le trappole ermeneutiche che quella particolare impresa ha fatto sorgere.

I! contesto più immediato del presente saggio è rappresentato da due serie di conferenze su diversi aspetti degli studi contemporanei dedicati alla Ga­liIea: le conferenze Gunning all'Università di Edimburgo (1998) e le conferenze J.J. Thiessen all'Università canadese dei Mennoniti a Winnipeg (Canada) nel 2002.

Il tema del II capitolo, tuttavia, Gesù e l'ecologia della Galilea, è del tutto nuovo negli studi contemporanei dedicati al Gesù storico. Sono grato agli organizzatori della conferenza Manson presso l'Università di Manchester per avermi dato nel 2003 l'opportunità di presentare le mie prime riflessioni sull'argomento, che qui presento ampliate e riviste in modo da offrire l'orizzonte entro il quale sviluppare altri aspetti dell'itinerario di Gesù» (Sean Freyne).

L' AUTORE

Sean Freyne è attualmente direttore del Programma di Studi sul Mediterra­neo e il Vicino Oriente Antico al Trinity College di Dublino, dove in precedenza ha occupato la cattedra di teologia. Ha tenuto corsi aperti al vasto pubblico e ha collaborato alla realizzazione di vari programmi televisivi dedicati al Gesù storico. È autore di numerosi saggi e articoli sulla Galilea nell'antichità, i vangeli e il primo cristianesimo.

L'Opus Dei batte il Codice da Vinci

 

Editoriale del Corriere della Sera del 20 maggio 2006.

 

19 maggio 2006

 

Gianni Riotta // Il Corriere della Sera

Le scuole di giornalismo, gli uffici public relations delle grandi aziende, i portavoce dei partiti e delle istituzioni dovrebbero organizzare seminari sul «Codice da Vinci». Non sul thriller di Dan Brown e neppure sul film di Ron Howard. Sulla reazione dell'Opus Dei al ritratto nefasto dell'organizzazione cattolica. Anziché denunciare, smentire, trascinare autore e regista in tribunale, la «prelatura personale» fondata da san Josemaría Escrivá, ha colto l'occasione per aprirsi al dialogo con i giornalisti, fin qui detestati e messi al bando.

Non trincerandosi dietro la tradizionale segretezza, l'Opus Dei — definita dalla stampa anglosassone «Octopus Dei» la piovra di Dio, per gli interessi riservati — ha chiesto ai suoi esponenti di ricevere e discutere con i cronisti, ha aperto gli archivi al più rispettato vaticanista americano, John Allen per un suo libro, e ha perfino scherzato sul cilicio, la maglia di ferro medievale che alcuni esponenti indossano per penitenza, come il monaco killer Silas nel romanzo di Brown e nel film polpettone deprecato a Cannes.

Funziona. Davanti a un tomo che rivaleggia con la Bibbia nelle librerie del mondo, se Javier Echevarrìa, erede di Escrivà, e i suoi collaboratori si fossero chiusi nel riserbo, nell'ambiguità, magari minacciando editori, giornalisti, esponenti dell'opinione pubblica, avrebbero solo confermato le cupe prospettive tinteggiate da Brown e Howard. Potevano aspettare in silenzio, arroccati nel mega edificio dello stato maggiore Opus Dei a New York che la bufera passasse.

Invece hanno compreso che il best seller di Brown, pur con le sue imprecisioni (il killer Silas è un monaco in saio e l'Opus Dei non ha un ordine monastico al proprio interno), ha però emozionato l'opinione pubblica, facendo leva sul culto per la chiusura che l'Opus Dei ha coltivato dalla fondazione, in Spagna, 2 ottobre 1928. Impugnando le critiche, anche le più radicali, al limite della diffamazione, con serenità, ironia, certezza della propria identità l'Opus Dei ha, in poche settimane, diradato le nuvole che la perseguitavano, quando era impossibile accertare se l'ex governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio, il giudice della Corte Suprema Usa Antonin Scalia, il senatore Santorum o la ministro inglese Ruth Kelly aderissero, o no, all'Opus Dei.

E John Allen, un liberal a lungo assai scettico sull'Opera, ne traccia nel suo saggio un ritratto simpatizzante, avversario conquistato dal libero accesso. «Il "Codice da Vinci"? Ci rende più forti», dice Echevarrìa a Vittorio Messori sul Corriere. «Per noi Dan Brown è un dono della Provvidenza. Grazie alle sue mistificazioni possiamo finalmente farci conoscere meglio per quel che siamo. Ecco perché...la nostra difesa oggi è l'attacco» dichiara a Panorama il portavoce italiano Opus Dei Giuseppe Corigliano e gli fa eco, su Newsweek il vicario americano dell'Opera, Thomas Bohlin che, per spiegare come la prelatura personale influenzi i suoi 85 mila aderenti nel mondo, non parla di cilici, non si affanna a smentire i transfughi che denunciano lavaggi del cervello e cultura da setta. Ricorda piuttosto i corsi per manager stile Dale Carnegie, dove si apprende un modello e poi lo si usa a modo proprio. E sulle critiche all'opulenza dell'Opus Dei, accusata spesso di sostenere gli affari meno limpidi del Vaticano con una cassaforte ricca di due miliardi di euro, Bohlin se la cava in battuta: «Beh, non siamo come i francescani che vanno in giro con le scarpe bucate guidando macinini scassati».

Una svolta, da studiare con attenzione. Quando Kenneth Woodward, lo studioso autore del saggio «La fabbrica dei santi», rilanciò le accuse di antisemitismo rivolte a Escrivà e al troppo rapido processo di beatificazione, l'Opus Dei tirò le fila dietro le quinte, protestando grazie ai suoi membri più influenti contro le critiche. Ora addio al «no comment» e via con le interviste.

Che la trasparenza sia sempre migliore della segretezza è lezione che la Casa Bianca imparò ai tempi della malattia di Ronald Reagan e che il Vaticano apprese, grazie agli sforzi del portavoce Joaquin Navarro-Valls (a sua volta spesso indicato come vicino all'Opera), quando ad ammalarsi fu Papa Wojtyla. Ascoltando i consiglieri più accorti l'avvocato Gianni Agnelli rese pubblica la propria cartella clinica, impedendo, con intelligenza, che pettegoli e speculatori agissero nell'ombra.

Sarebbe ora che, nell'era dei media globale, tutti i potenti, della politica, dell'economia, dello sport (anche del calcio!), della religione, comprendessero la lezione che l'Opus Dei ha colto con successo, grazie al Codice da Vinci: che è vero, come predica San Giovanni, che «gli uomini preferiscono le tenebre alla luce» ma al tempo stesso è vero che «la verità vi renderà liberi» perché in ogni critica c'è un seme di concretezza. Con un sorriso e più trasparenza l'Opus Dei fuga tante ombre, attrae nuovi possibili membri, magari presto diversi dai tradizionali tecnocrati e cristiani conservatori del passato. Chi, individuo o istituzione, si chiude in se stesso, è perduto. Chi si apre muta e si salva.

 

 

GESU' VOLTO DI DIO

Riflessioni per il nostro tempo Autore: FRANCO GIUDICE Edizione: 1 Anno di pubblicazione: 2001 Luogo di pubblicazione: MILANO Collana: SPIRITUALITA' SENZA FRONTIERE Destinatario: TUTTI Casa editrice: PAOLINE

Alla persona umana è impossibile conoscere Dio, se Lui stesso non si rivela! A partire da questa affermazione, inconfutabile, F. Giudice, ripercorre la vita di Gesù attraverso i Vangeli e ci presenta un itinerario privilegiato per entrare in contatto con il mistero. Infatti, per il cristiano, è in Gesù che il mistero di Dio è diventato accessibile e ci è dato conoscere e contemplare il Suo volto.

 

Trattato autorevole e completo per lo studio e la meditazione

CRISTOLOGIA

Trattato autorevole e completo per lo studio e la meditazione

Olegario Gonzàlez de Cardedal è professore alla Pontificia Università di Salamanca e alla Reale Accademia di Scienze morali e politiche di Madrid. alla presentazione dell'Autore

I temi centrali della cristologia sono i seguenti:

a) chi fu, come visse e come morì Gesù (storia, azione, destino); b) il segreto della sua persona, il contenuto della sua dottrina, l'esperienza che gli uomini ebbero di lui, oltre ai segni che Dio fece in suo favore, ovvero i miracoli e la risurrezione (relazione con Dio, identità personale, essere);

c) qual è stata fino ad ora la sua funzione e quale continua ad essere ancor oggi il suo significato per l'intera umanità (missione). Questa triplice suddivisione ha orientato l'organizzazione della materia in tre parti: Storia (chi fu), Persona (chi è), Missione (che cosa offre agli uomini).

La sistemazione data alla cristologia da Tommaso d'Aquino nella III parte della Summa Theologiae (1274) è rimasta quasi inalterata sino alla metà del XX secolo (1951).

La rinnovata coscienza storica, l'esegesi critica, il dialogo con le filosofie, le svolte storiche e sociali, il concilio Vaticano II, le due guerre mondiali, il pluralismo ideologico e religioso attuale... hanno creato una situazione nuova che obbliga a ripensare i problemi dalla loro origine e radice. Non è però ancora stata raggiunta un'integrazione che selezioni e coordini le nuove prospettive in un sistema universalmente accettato. Si aggiunga l'estensione del cristianesimo ai vari continenti e l'incontro della Chiesa con differenti culture e religioni, dalle quali sorgono nuove domande che attendono nuove risposte.

In questo quadro storico la proposta attuale si accontenta di presentare l'essenziale della cristologia com'è contenuto nel Credo, senza la pretesa di realizzare una visione sistematica che abbracci la totalità degli aspetti. Pur riconoscendo che la verità reclama un sistema, sappiamo che la fede non è legata ad alcun sistema. Colui che è la Via, la Verità e la Vita precede e oltrepassa ogni sistema umano di conoscenza, di appropriazione e di dominio della realtà; naturalmente va anche al di là di ogni sistema teologico.

Il secolo XX ha dibattuto in modo radicale quasi tutte le questioni filosofiche, morali, sociali e religiose, e ciò ha avuto ripercussioni sulla teologia aprendo nuovi orizzonti ai suoi problemi specifici. Quattro nomi principalmente hanno stimolato dall'esterno la cristologia: Kant, Hegel, Marx, Nietzsche. Essi hanno impostato in modo nuovo il nesso tra i seguenti poli: rivelazione divina e ragione umana, cristianesimo e storia, salvezza di Dio e liberazione messianica dell'uomo, beatitudini evangeliche e felicità umana. La cristologia ha pensato Cristo con il contributo di questi autori, anche se in parte contro di loro; in ogni caso spingendosi ben oltre loro. La Chiesa ha ripensato la fede in Cristo, la missione e la vita cristiana, mantenendo la necessaria fedeltà all'origine, ma anche aprendosi al dialogo ormai inevitabile con il mondo. La verità, elargita una volta per tutte da Cristo, viene dispensata dallo Spirito Santo al ritmo della crescita dell'uomo e dell'addentrarsi della Chiesa nelle realtà che la fondano. È lo Spirito che conferisce pienezza alla verità di Gesù nel tempo (Gv 16,13).

Presenteremo i grandi momenti e i sommi autori della cristologia: dall'età patristica ai nostri giorni. Il cristianesimo è storia, tradizione e tempo; perciò richiede memoria, esperienza e speranza. Soltanto chi si familiarizza con i quattromila anni che vanno dalla vocazione di Abramo fino al grande Giubileo del 2000, può cogliere tutta la pienezza, la bellezza e la verità di Cristo.

...]Durante l'ultimo secolo la teologia è cresciuta dialogando con i giganti del pensiero e dell'azione. Possiamo elencare vari momenti diversi, ciascuno con la sua gloria e i suoi limiti, ai quali è opportuno volgere lo sguardo per pensare Cristo in sintonia col nostro tempo. Sono i seguenti: 1.il liberalismo teologico o protestantesimo culturale (Harnack, Troeltsch);

2.la teologia dialettica (Barth, Brunner, Gogarten);

3.l'esistenzialismo teologico (Bultmann);

4.la teologia trascendentale (Rahner);

5.l'inversione delle prospettive classiche alla luce dei trascendentali dell'essere ("teoestetica", "teodrammatica" e "teologica" di Balthasar);

6.ermeneutica (Heidegger, Gadamer, Ricoeur);

7.filologia, filosofia, strutturalismi (metodi storici/critici dell'esegesi);

8.movimenti liberatori (decolonizzazioni multiple, teologia della liberazione, femminismi);

9.reazione contro il pensiero della totalità (Lévinas);

10.incontro del cristianesimo con le grandi culture e religioni del mondo (in-culturazione e teoria pluralista delle religioni);

11.reazione di fronte agli ideali e ai progetti della modernità, contemporaneamente alla crisi dell'illuminismo, della mondializzazione della coscienza e del commercio (postmodernità);

12.movimenti e nuove esperienze di Chiesa.

È su questo sfondo che oggi bisogna pensare Cristo quale Rivelatore di Dio e Salvatore assoluto della vita umana.

Intenti dell'opera

Quest'opera nasce nel quadro della storia occidentale degli ultimi cinquant'anni: in essa hanno radice le sue motivazioni, ad essa vuole portare nuova luce, da essa è inevitabilmente limitata. Altre voci, provenienti da altre culture e da altri continenti, parleranno di Cristo con la verità oggettiva che esige una conoscenza rigorosa tanto dell'oggetto trattato quanto del soggetto che ascolta, insieme con un incardinamento nella sua forma d'esistenza. Il mio contributo mira perciò a questo:

1. comprendere le origini cristologiche in una correlazione critica col passato e col presente (storia e dogma);

2. discernere i complessi elementi teorici e pratici che attualmente facilitano, oppure ostacolano, la fede in Cristo (esperienza umana e vita cristiana);

3. mostrare che la fede in Cristo è fermento di umanizzazione e potenza di salvezza (teoria e prassi).

[...] Le sue coordinate oggettive sono quelle di ogni trattato di teologia; quelle vitali dell'autore sono il Vaticano Il e la conclusione del XX secolo. Il Concilio mi ha trasmesso una convinzione profonda: da quando Dio si è in carnato in Cristo, "uno di noi" è Figlio di Dio, "uno della Trinità" è morto per tutti noi.

Dio, Cristo e l'uomo sono ormai congiunti e inseparabili, tanto nella loro realtà quanto nella nostra possibilità d'intellezione. Al di fuori di questo triangolo ermeneutico tutto il resto risulta inintelligibile.

Questo libro, prima che essere studiato, vuole farsi leggere e vuole far pensare. Dopo tutto ciò che la coscienza moderna ha significato per il cristianesimo, e dopo le trasformazioni avvenute nella Chiesa durante la seconda metà del secolo concluso, non si può ripetere pedissequamente o esporre con criteri semplicemente biblici, narrativi, positivistici o dogmatici il dato di fede. Occorre fare una proposta al contempo riflessiva e fondante… Ho perciò cercato di associare il dato positivo e la riflessione teorica, la tradizione secolare e l'innovazione attuale, il rigore accademico e l'approfondimento spirituale.

 

 

Le testimonianze della Passione: dal velo della Veronica alle spine e alla Sindone.

MICHAEL HESEMANN Testimoni del Golgota. Le indagini di un giornalista

Tutto cominciò con il 'Titulus crucis'

Michael Hesemann, giornalista e scrittore, è apparso alla ribalta scientifico teologica col suo precedente libro "Titulus crucis" (San Paolo, 2000, pp. 424), una ricerca sull'iscrizione posta sopra la croce di Gesù e conservata a Roma nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme.

La nostra epoca fa fatica a confrontarsi con dei reperti che hanno infiammato secoli di storia cristiana e che rimandano al Gesù di Nazaret. Pubblichiamo l'introduzione allo studio sul le testimonianze della Passione: dal velo della Veronica alle spine e alla Sindone.

La curiosità su un "pezzo d'antiquariato" piuttosto strano portò l'autore sulle tracce della formazione della tradizione: dalla reliquia passò infatti alla ricerca sul Gesù storico e sui vangeli. E terminò il cammino a favore della sua autenticità, sposando il principio "in dubio pro traditio", contro l'andazzo di tanti che nel dubbio vanno "contra traditio".

Nel nuovo libro TESTIMONI DEL GOLGOTA. Le reliquie della passione di Gesù (Edizioni San Paolo, 2003, 424 pp.) allarga l'orizzonte su tutte le altre reliquie importanti che risalgono alla passione di Gesù: il legno della croce, i sacri chiodi (ben 36 in giro), la corona di spine (50-60 spine), la lancia, la colonna della flagellazione, la tunica indivisa di Treviri, la tunica di Argenteuil (Parigi), il sudario della Veronica, il telo insanguinato di Oviedo (Spagna), e la Sindone di Torino, la madre di tutte le reliquie.

Una ricostruzione sul sepolcro vuoto, la cronologia e la bibliografia chiudono un'indagine storica e scientifica che si legge tutta d'un fiato, a volte con i ritmi di una spy-story.

"Nelle chiese più frequentate del mondo cristiano ci sono luoghi perennemente preclusi ai comuni mortali. Solo un pugno di canonici conosce i passaggi, spesso intricati che conducono a essi e i misteriosi oggetti che vi sono racchiusi. Persino nei pilastri che sorreggono la massiccia cupola della basilica di San Pietro vi sono alcune di queste stanze sigillate. Vi sono quattro cappelle, non indicate in alcuna mappa e raggiungibili, attraverso un dedalo di passaggi e scalinate, solo da coloro che serbano gelosamente il segreto. Una volta all'anno il loro contenuto viene mostrato per pochi minuti ai pellegrini, a una distanza di quaranta metri e a una altezza considerevole. Troppo poco per rendersi conto della loro esistenza e avvertire le loro emanazioni mistiche. L'atmosfera del labirinto della torre nelle pagine del cupo romanzo giallo di Umberto Eco Il nome della rosa, ambientato appunto in un convento, corrisponde qui a realtà. In questo caso tuttavia non ci si propone di nascondere libri proibiti, ma oggetti cui viene attribuita una sacralità che può essere violata dal contatto con una mano profana. Secondo la tradizione sono testimoni della passione di Gesù Cristo, reperti fisici della sofferenza, della morte e della risurrezione del Nazareno, testimonianze di quei tre giorni che hanno cambiato il mondo per l'eternità e fin dalle fondamenta. La loro storia e il percorso che li ha condotti fin lì sono avvolti nella leggenda, in un intreccio di mito e verità, che insieme offusca e illumina la traccia che hanno lasciato nelle tenebre della storia. 

 

La donna che asciugò il volto

Il più famoso è senza dubbio il velo di Veronica, che reca impresse le misteriose fattezze di Cristo da quando la pia donna gli asciugò il viso grondante di sangue lungo la strada che conduceva al Calvario. Non meno significativi sono però gli altri due reperti: quello che si suppone essere un frammento del legno della vera croce, su cui Cristo sofferse e morì, e la lancia del legionario, intinta del suo prezioso sangue. Per secoli questi testimoni hanno affascinato artisti e poeti, mistici ed eruditi, che hanno indagato la loro natura e si sono abbandonati a fantasiose teorie. Per quanto rilevante sia stato il loro ruolo, almeno all'interno della storia dell'arte e della Chiesa europea, sappiamo tuttavia pochissimo di loro. Non disponiamo neppure di buone riproduzioni fotografiche. Chi vuole andare a fondo del loro mistero, s'imbatte in ostacoli insuperabili. Precipita inesorabilmente nei gorghi della burocrazia vaticana, attende spesso per anni una risposta che non di rado sarà negativa e che per lo più sarà comunicata per vie traverse, solo oralmente e senza addurre motivazioni. Solo a due laici, uno storico dell'arte e un artista, è stato concesso nel XX secolo di visionare da vicino le reliquie. Un esame scientifico, per esempio l'analisi con il metodo del radiocarbonio, non è neppure ipotizzabile. Le reliquie sono custodite così gelosamente che poco tempo fa persino uno storico dell'arte, che lavora alla Pontificia Università Gregoriana, ha ipotizzato che almeno una di loro (proprio il famoso velo della Veronica) sia scomparsa da Roma forse già da tempo. Si sbagliava, ma è significativo che nessuno si sia dato pena di contraddirlo.

Pare che la Chiesa voglia custodire il proprio segreto. E forse è giusto che sia così. In un'epoca in cui tutto è sottoposto al vaglio del razionalismo scientifico, devono poter sopravvivere isole del numinoso, del sacro, dell'incognito e della promessa. Da questo punto di vista le reliquie della passione conservate a Roma nella basilica di San Pietro non rappresentano assolutamente un'eccezione. Ritroviamo i muti testimoni del Golgota nelle più importanti cattedrali d'Europa, anche là dove meno sospetteremmo la loro presenza: nel centro delle metropoli, come a esempio a Milano, frenetica capitale della moda, o nella cosmopolita Parigi, nella dolcemente romantica Venezia come nell'irrequieta isola delle vacanze di Maiorca, sulle povere montagne del Caucaso come sulle amene sponde della Mosella o nella medievale Siena. Per secoli hanno attratto folle di pellegrini, ansiose di poter attingere, guardandole o anche solo avvicinandosi a esse, alla loro forza taumaturgica. Alcune reliquie vengono mostrate solo sporadicamente, un'unica volta nel corso della vita di un'intera generazione, come la tunica di Treviri o la Sindone di Torino. Altre sono in esposizione permanente, accessibili in qualsiasi momento, nella camera del tesoro della cittadella imperiale di Vienna, nel tesoro della basilica di San Pietro a Roma o nel cuore del culto occidentale per le reliquie, la basilica romana di Santa Croce in Gerusalemme.

La vera croce di Cristo

In questo libro cerco di andare a fondo del mistero delle reliquie della passione. Perché sono qualcosa di più che misteriose testimonianze di fede. Hanno fatto la storia più di qualsiasi altro oggetto di valenza sia religiosa sia mondana. Sono state motivo di contesa per imperatori e re, papi e vescovi; per loro si sono sacrificati interi Paesi, si sono saccheggiate città e proclamate crociate. Sono state bramate da conquistatori, avventurieri e usurpatorí, che con il loro possesso volevano legittimare il proprio potere, dai signori longobardi fino a Carlo Magno, da Napoleone a Hitler. Su di loro si sono intessuti miti, come la leggenda del Sacro Graal, che hanno segnato profondamente la storia dell'arte. E, ciò nonostante, sono cadute per noi sempre più nell'oblio.

Eppure, continuiamo a imbatterci in loro. Proprio due nazioni europee, l'Ungheria e la Slovacchia, recano, nello stemma e nelle bandiere, l'immagine della croce a due braccia, il simbolo iconografico della vera croce dall'epoca bizantina, la reliquia della croce rinvenuta secondo la leggenda a Gerusalemme nel 325 d.C. dalla madre dell'imperatore Costantino, Elena. Come ho già potuto ampiamente spiegare nella mia opera "Titulus crucis", questo simbolo va verosimilmente ricondotto a una ricostruzione della croce cui fu inchiodato Gesù. La riproduzione grafica venne eseguita subito dopo il ritrovamento e prima che la croce venisse divisa: essa era dotata di una trave orizzontale della lunghezza di 1,80 m e della tavola con l'iscrizione della colpa della lunghezza di 50 cm. Per i primi re cristiani di Ungheria (del cui regno faceva parte una volta anche la Slovacchia), la reliquia della croce, omaggio dell'imperatore bizantino, era così sacra che vollero continuare a regnare proprio nel suo segno.

Il più fine capolavoro dell'architettura gotica, la Sainte-Chapelle di Parigi, è stata edificata proprio allo scopo di custodire le reliquie di re Luigi IX. Lo stesso compito assolveva la più bella e imponente cittadella boema, la fortezza di Karlstein nei pressi di Praga. Intere guerre furono combattute nel nome delle reliquie: la guerra condotta dall'imperatore bizantino Eraclio contro i persiani, l'assedio bizantino di Edessa, ma anche le crociate, che miravano alle reliquie gerosolimitane della croce oltre che alla riconquista del santo sepolcro. Questo vale in particolare per la fatidica quarta crociata, con il sacco di Costantinopoli, il cui bottino più prezioso non fu costituito dall'oro della città imperiale ma dalle sue reliquie.

Himmler e il Sacro Graal

Chi crede che la brama di reliquie si limitasse al Medioevo si sbaglia: anche l'invasione hitleriana dell'Austria, che pure aveva ben altre motivazioni, è culminata nel ratto delle reliquie imperiali, a cominciare dalla supposta lancia di Longino, traslate nel cuore del Terzo Reich, a Norimberga. Heínrích Himmler, altrettanto affascinato dalla forza magico-mistica della lancia fatale, progettò addirittura di ampliare la cittadella di Wewelsburg in Vestfalia fino a trasformarla in una città delle SS dalla pianta a forma di lancia, nella cui punta, nella fortezza triangolare, avrebbe dovuto essere custodita, dopo la vittoria finale, la pseudo reliquia o una sua riproduzione. Il comandante in capo delle SS era convinto di poter così nobilitare le sue orde di assassini trasformandoli in novelli cavalieri del Santo Graal.

In ogni epoca i miti hanno fatto la storia. Hanno generato visioni, ma sono spesso stati usati anche quale strumento di propaganda. Numerosi miti si sono intrecciati attorno a vere e supposte reliquie: la leggenda del rinvenimento della croce o quella del velo di Veronica, la leggenda di Nino, che ha per sfondo l'evangelizzazione della Georgia o il poema di Orendel sulla sacra tunica, sono solo esempi che saranno trattati in questo libro. Ma il mito più famoso, quello che ha improntato di sé un'intera epoca, è il poema del Sacro Graal. Sorto come strumento di propaganda in favore delle crociate, ruota attorno alla ricerca del calice dell'ultima cena di Gesù condotta dai più nobili cavalieri. Questo calice custodito da un gruppo di monaci cavalieri in una fortezza chiamata Montsalvatsch (Monte della salvezza) insieme alla lancia che il legionario conficcò nel fianco di Gesù.

Nei secoli successivi, re e imperatori, ordini cavallereschi come i templari e i cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, ma anche poeti, mistici, occultisti ed esoterici cercarono di emulare questi cavalieri del Sacro Graal, che divennero l'archetipo del cavaliere puro, di un ideale che non ha perso con il passare dei secoli la sua forza magnetica. Per questo criminali senza scrupoli, come Hitler e Himmler, non esitarono a servirsi dei motivi del poema del Sacro Graal, ma erano al contempo anche profondamente convinti di dover assolvere a una sacra missione al servizio della provvidenza.

Le aspettative di salvezza riposte

Le reliquie non hanno costituito solo la materializzazione di miti: nei secoli si sono proiettati su di esse timori e speranze. Vi erano connesse concrete aspettative di salvezza. Si credeva che attraverso esse si potesse entrare direttamente in contatto con il Redentore dell'umanità, con quella morte con cui si era espiato il peccato, con la gloria della risurrezione. Erano testimoni dirette, anche se silenti, sature della forza benedicente dei giorni che avevano suggellato la nuova alleanza di Dio con gli uomini. Da questo punto di vista, aveva spesso scarsa rilevanza l'attestazione dell'autenticità della reliquia. La tensione salvifica, che improntava di sé così profondamente il pensiero e le aspirazioni dell'uomo del Medioevo, trasformava le speranze in realtà e più di una riproduzione nell'originale.

La nostra sensibilità religiosa è forse molto diversa, segnata dal razionalismo e dall'illuminismo; e tuttavia, oggi come ieri, ci è impossibile sottrarci al magnetismo delle reliquie: solo nell'ultimo decennio del XX secolo milioni di pellegrini hanno reso omaggio alla Sindone torinese o alla sacra tunica di Treviri; oltre venti milioni nell'Anno santo 2000 si sono recati in pellegrinaggio alle chiese di Roma. Ma l'uomo del terzo millennio si pone interrogativi ed esige risposte dalla scienza: il culto delle reliquie si addice ancora alla nostra epoca? Che credibilità hanno la presunta corona di spine di Gesù, le innumerevoli piccole parti della croce e i 36 chiodi sacri? Si è trattato solo di un imbroglio, di una mistificazione, o è possibile un'altra risposta?

Dalla credulità allo scetticismo

Fu il famoso studioso di patristica Hippolyte Delehaye ad affermare, con sottile ironia, che "Non tutte le reliquie che sono al di sopra di ogni sospetto devono essere per forza false!". A un'epoca caratterizzata dalla credulità (il Medioevo) ne è seguita un'altra improntata allo scetticismo (l'Illuminismo). Tesi, antitesi, e ora forse è giunto il tempo di una sintesi che si può esprimere con le parole di san Paolo: «Esaminate ogni cosa, ritenete ciò che è buono» (1Ts 5,21). Compito di questo libro è proprio andare a fondo del mistero delle reliquie. Invece di scegliere la strada più attraente, quella di vedervi solo testimonianze di fede da condannare o accantonare, ho scelto la strada più scomoda, quella di prenderle sul serio. Penso che ogni presunta testimonianza riguardante il momento più significativo della storia del mondo meriti di essere sottoposta a vaglio critico. Sono consapevole dei rischi di questa impresa.

Persino i rappresentanti ufficiali della Chiesa hanno oggi difficoltà a misurarsi con l'eredità fisica del Nazareno e pare quasi che molti teologi occidentali, proprio come i monofisiti, preferirebbero negare o almeno rimuovere la natura umana di Cristo. Ma Gesù di Nazaret fu, secondo la definizione del concilio di Calcedonia del 451, «vero uomo e vero Dio».

Gesù di Nazaret ha segnato la storia dell'umanità come nessun altro. Questo è incontrovertibile, ed è di per sé un motivo sufficiente a eleggere la sua nascita (o meglio, il momento che fu individuato come tale nel VI secolo) quale asse temporale per iniziare a computare il tempo. Anche nel terzo millennio cristiano la sua luce continuerà a brillare e a segnare il percorso dell'umanità. È quindi tanto più importante per noi rimetterci sulle tracce del Gesù storico, riprendere ad analizzare i resoconti della sua vita e del suo agire, i vangeli, sulla base delle testimonianze storiche. Tra di esse vanno annoverate, oltre ai resoconti dei contemporanei, ai reperti archeologici e alle tradizioni cristiane, anche le sue presunte eredità materiali.

I più moderni metodi scientifici ci mettono oggi in grado, per la prima volta nella storia, di dare voce ai muti testimoni del Golgota. Ci guideranno in un viaggio esplorativo che rappresenterà per noi una sfida continua, ma al contempo ci condurranno sempre più vicino a lui, se solo noi glielo consentiremo. In questo senso le reliquie della passione rappresentano ancora oggi un messaggio non solo di natura storica ma anche spirituale.

 

Michael Hesemann

 

 

L. W. Hurtado, Signore Gesù Cristo. La venerazione di Gesù nel cristianesimo più antico,

2 vol, Paideia 2007, pp. 754

Un'opera voluminosa, scritta da un competente teologo scozzese, che oltre a valere per le attuali problematiche sui Vangeli e su Gesù, può costituire una ricchissima base per le ricerche di cristologia. L'Autore non parte dai dogmi del Credo ma dalle fonti scritte tra il 50 e il 170 circa e che testimoniano, pur con diversità e incertezze terminologiche e tematiche, una indiscutibile "venerazione" per Gesù: una venerazione davvero unica, che esprimeva comunque una fede in Gesù superiore a quella per la divina Toràh e per qualsiasi altra via di salvezza e di etica per la vita (v. per esempio pag. 217).

Tale venerazione, attestata anche da fonti pagane (Plinio in particolare), poneva e pose in crisi il tradizionale monoteismo ebraico, provocando il ri­schio di un monoteismo ''binitario''. A parte le moltissime voci moderne, che l'A. conosce ed esamina con acribia e perfino pedanteria, quelle antiche sono: Paolo e il complesso delle lettere sue o della sua tradizione, il materiale della fonte Q in quanto precedente ai Vangeli, i 4 Vangeli, la copiosa e fortunata (per diffusione) produzione apocri­fa (v. le conclusioni alle pagg. 489ss), scrittori e opere co­me Valentino, Marcione, Tertulliano, Pastore di Erma, Di­dachè, Policarpo, Giustino e altri.

La ricerca gira attorno alle domande: chi era Gesù, il cro­cifisso, per tutte quelle voci? In quale rapporto egli venne messo con l'Antico Testamento e con il suo Dio? Un rap­porto di rottura (Marcione) o di continuità pur con grosse novità? Quale cristologia appare alla base della venera­zione, comunque generale e assodata, che emerge da quelle fonti?

La risposta: una cristologia assai variegata. C'e­ra quella di marcioniti, valentiniani, apocrifi, gnostici ecc., e quella che prevalse e seppe trasmettere, pur in mezzo a difficoltà e persecuzioni, la fede in un Gesù vero uomo eppure, come, minimo 'divino’; questa fede si espresse poi nei secoli IV e seguenti e finì nel Credo di tutte le chiese "cattoliche" (ossia in quelle che lo accettarono e accettano tuttora), rivestita anche del linguaggio ellenistico e più chiara circa i rapporti tra Gesù e il Padre nella cornice di un fermo ‘monoteismo' (però trinitario).

Non tutto è chiaro e convincente, talvolta la trattazione è anche povera (come per Giovanni), ma il valore dell'opera dell’Hurtado è fuori discussione e può offrire un ottimo aiuto a chi, e sono per fortuna tanti, voglia parlare in modo serio di quel Crocifisso che ancora oggi suscita problemi, interesse, odio e amore.

Giovanni Giavini

 

 

Chi volle la morte di Gesù? La soluzione in due volumi

Della passione é morte di Gesù si è detto tutto quello che si poteva dire e in tutti i modi.

Questo lo credete voi! Da secoli si ripete il fenomeno del sangue esaurito che lascia spazio alle gocce di acqua, ossia alla spremitura totale dell' evento ‘morte di Gesù’, e da secoli si riparte per una ulteriore spremitura ... e c'è sempre qualcosa.

Lo sappiamo bene noi italiani che abbiamo fornito buona parte del cast (la moglie di Pilato: Claudia Gerini; il diavolo: Rosalinda Celentano; Seraphia: Sabrina Impacciatore; Maria Maddalena: Monica Bellucci; Giuda:

Luca Lionello) al film di Mel Gibson uscito nel 2003, e poi esportato nelle colonie, da noi, l'anno successivo (7 aprile 2004). Il marketing di quel prodotto eminentemente commerciale aveva messo in circolazione i soliti gadget incredibilmente kitsch: si potevano acquistare i chiodi griffati (in due dimensioni: 5 e 7 cm.), le catenine con tanto di medagliette, le finte monete, le magliette (bianche o nere) con il volto di Cristo coronato di spine, i portachiavi, i quadri e le tazze con le riproduzioni di fotogrammi della pellicola (cfr. www.thepassionofthechrist.com). Dunque, de passione numquam satis?

Dopo lo scherzo veniamo alle cose un po’ più serie. Contro questo genere di ‘eventi’ si pongono sicuramente Victor Loupan alain Noel, due ‘redattori’ che tempo fa risposero in modo alquanto documentato con un'inchiesta dal titolo Les démons de Dan Brown (Presses de la Renaissan­ce) a un altro ‘parto’ mediatico.

Ora esce nelle librerie una nuova indagine intitolata Inchiesta sulla morte di Gesù (San Paolo 2007, Cinisello Balsamo, pp. 389): un testo non scientifico, ma documentato, come può esserlo una ricerca giornalistica su un tema storico. E difatti gli autori articolano la loro presentazione nelle tre parti classiche di un'indagine giornalistica professionale: il contesto storico-geografico: la scena (parte prima); i singoli personaggi o le forze collettive messe in gioco: gli attori (parte seconda); e infine l'azio­ne, il complesso di trame che sostengono le singole partecipazioni e che costituiscono il dramma in sé (terza parte).

Così il lettore è come condotto per mano a comporre passo dopo passo, attraverso una serie di indizi, premesse, chiarificazioni che permettono di mettere a fuoco il cuore del racconto, il puzzle della morte di Gesù. Sono chiamati in causa i testimoni e gli esperti, ossia i documenti e gli studi condotti su di essi. Sono messi a confronto i Vangeli, in particolare la documentatissima testimonianza di Giovanni, gli storici del tempo e quelli attuali, le scoperte archeologiche e gli scritti rabbinici.

Dopo essere stati presentati con la maggiore obiettività possibile, sono invitati a testimoniare i protagonisti diretti: Anna, Caifa, Erode Antipa, Ponzio Pilato. Vengono alla luce le rivalità e gli inevitabili compromessi, le ingenuità crudeli e le paure politi­che, quelle componenti che sono, in fondo, l'eterna musica su cui si danza il diabolico balletto del potere a discapito dei giusti.

«Ma il vero compito del sommo sacerdote - Caifa -, molto più perverso, consisterà nel trovare un altro capo d'accusa (romano, questa volta), da poter fornire a Pilato» (p. 235). Con questa frase si introduce l'ultima scena, quella che vede Pilato ottenere, dopo una serie infinita di tergiversazioni, la famosa confessione da parte di un potere giudaico poco rappresentativo, ma politicamente ancora molto forte: «Non abbiamo altro re che Cesare» (Gv 19,15). A questo punto il balletto volge al termine e si può organizzare l'ultima coreografia e concede­re che venga ucciso Gesù.

Il lettore troverà una serie infinita di informazioni sui tempi di Gesù, sul signi­ficato delle parole e dei nomi, degli usi e dei riti. E in qualche modo capirà meglio le scelte degli evangelisti. Il volume è concluso da una discreta bibliografia, organizzata tematicamente, che permetterà a quanti lo desiderano un ulteriore approfondimento dell'argomento.

La passione di Gesù, come si diceva all'inizio, ha suscitato da sempre l'attenzione degli scrittori e degli studiosi, ma pure - ed è bene non dimenticarlo - ha nutrito la riflessione religiosa di schiere di fedeli. Sarebbe particolarmente utile compulsare, nella sua nuova edizione, un testo per certi versi analogo a quello presentato sopra, anche se imposta­to con tutt'altro metodo e curato dal Monastero cottolenghino Adoratrici del Preziosissimo Sangue di Pralormo (To), con il titolo La Passione di Gesù Cri­sto nelle fonti bibliche e pa­tristiche (San Paolo 2007, Cinisello Balsamo, pp. 527).

Nella sua breve e affettuosa presentazione, l'arcivescovo di Torino, cardinale Severino Poletto, lo descrive così: «Quasi una Summa di testi accuratamente scelti e accostati tra loro attingendo a piene mani dal tesoro degli scritti spirituali che attraversano praticamente tutta la lunga storia della Chiesa per favorire la contemplazione di quanto la parola di Dio propone al riguardo della passione del nostro Divin Redentore».

 

 

L’anti-cattolicesimo come «ultimo pregiudizio accettabile»

"Il Codice Da Vinci": ma la storia è un'altra cosa di Massimo Introvigne

1. L'anti-cattolicesimo come «ultimo pregiudizio accettabile»

Immaginiamo questo scenario. Esce un romanzo in cui si afferma che il Buddha, dopo l'illuminazione, non ha condotto la vita di castità che gli si attribuisce, ma ha avuto moglie e figli. Che la comunità buddhista dopo la sua morte ha violato i diritti della moglie, che avrebbe dovuto essere la sua erede. Che per nascondere questa verità i buddhisti nel corso della loro storia hanno assassinato migliaia, anzi milioni di persone. Che un santo buddhista scomparso da pochi anni – che so, un Daisetz Teitaro Suzuki (1870-1966) – era in realtà il capo di una banda di delinquenti. Che il Dalai Lama e altre autorità del buddhismo internazionale operano per mantenere le menzogne sul Buddha servendosi di qualunque mezzo, compreso l'omicidio. Pubblicato, il romanzo non passa inosservato. Autorità di tutte le religioni lo denunciano come un'odiosa mistificazione anti-buddhista e un incitamento allo scontro fra le religioni. In diversi paesi la sua pubblicazione è vietata, fra gli applausi della stampa. Le case cinematografiche, cui è proposta una versione per il grande schermo, cacciano a pedate l'autore e considerano l'intero progetto uno scherzo di cattivo gusto.


Lo scenario non è vero, ma ce n'è uno simile che è del tutto reale. Solo che non si parla di Buddha, ma di Gesù Cristo; non della comunità buddhista, ma della Chiesa cattolica; non di Suzuki e del suo ordine zen ma di san Josemaría Escrivá (1902-1975) e dell'Opus Dei da lui fondata; non del Dalai Lama ma di Papa Giovanni Paolo II. Il romanzo in questione ha venduto tre milioni e mezzo di copie negli Stati Uniti, è sbarcato anche in Italia e la Sony ne sta traendo un film, che sarà diretto da Ron Howard e per cui è già cominciata una propaganda internazionale. Come è stato correttamente osservato dallo storico e sociologo americano Philip Jenkins, il successo di questo prodotto è solo un'altra prova del fatto che l'anti-cattolicesimo è «l'ultimo pregiudizio accettabile» (1).

 

2. «Il Codice da Vinci» e il Priorato di Sion

Il Codice Da Vinci (2) mette in scena una caccia al Santo Graal. Quest'ultimo – secondo il romanzo – non è, come la tradizione ha sempre creduto, una coppa in cui fu raccolto il sangue di Cristo, ma una persona, Maria Maddalena, la vera «coppa» che ha tenuto in sé il sang réal – in francese antico il «sangue reale», da cui «Santo Graal» –, cioè i figli che Gesù Cristo le aveva dato. La tomba perduta della Maddalena è dunque il vero Santo Graal. Apprendiamo inoltre che Gesù Cristo aveva affidato una Chiesa che avrebbe dovuto proclamare la priorità del principio femminile non a san Pietro ma a sua moglie, Maria Maddalena, e che non aveva mai preteso di essere Dio. Sarebbe stato l'imperatore Costantino (280-337) a reinventare un nuovo cristianesimo sopprimendo l'elemento femminile, proclamando che Gesù Cristo era Dio, e facendo ratificare queste sue idee patriarcali, autoritarie e anti-femministe dal Concilio di Nicea (325).

Il progetto presuppone che sia soppressa la verità su Gesù Cristo e sul suo matrimonio, e che la sua discendenza sia soppressa fisicamente. Il primo scopo è conseguito scegliendo quattro vangeli «innocui» fra le decine che esistevano, e proclamando «eretici» gli altri vangeli «gnostici», alcuni dei quali avrebbero messo sulle tracce del matrimonio fra Gesù e la Maddalena. Al secondo, per disgrazia di Costantino e della Chiesa cattolica, i discendenti fisici di Gesù si sottraggono e secoli dopo riescono perfino a impadronirsi del trono di Francia con il nome di merovingi. La Chiesa riesce a fare assassinare un buon numero di merovingi dai carolingi, che li sostituiscono, ma nasce un'organizzazione misteriosa, il Priorato di Sion, per proteggere la discendenza di Gesù e il suo segreto. Al Priorato sono collegati i templari – per questo perseguitati – e più tardi anche la massoneria. Alcuni fra i maggiori letterati e artisti della storia sono stati Gran Maestri del Priorato di Sion, e alcuni – fra cui Leonardo da Vinci (1452-1519) – hanno lasciato indizi del segreto nelle loro opere. La Chiesa cattolica, nel frattempo, completa la liquidazione del primato del principio femminile con la lotta alle streghe, in cui periscono cinque milioni di donne. Ma tutto è vano: il Priorato di Sion sopravvive, così come i discendenti di Gesù in famiglie che portano i cognomi Plantard e Saint Clair.

 

3. «Fiction» o storia?

Molti obiettano a qualunque critica del romanzo che si tratta, appunto, di fiction che in quanto tale non è tenuta a rispettare la verità storica. Questi critici hanno semplicemente dimenticato di leggere la pagina Informazioni storiche, dove Brown afferma che «tutte le descrizioni [...] di documenti e rituali segreti contenute in questo romanzo rispecchiano la realtà» (3), e si fondano in particolare sul fatto che «nel 1975, presso la Bibliothèque Nationale di Parigi, sono state scoperte alcune pergamene, note come Les Dossiers Secrets» (4) con la storia del Priorato di Sion. Forse in risposta alle molte controversie, a partire dalla sesta ristampa la pagina Informazioni storiche, pagina 9 dell'edizione italiana Mondadori, è sparita sostituita da una pagina 9 interamente bianca: ma naturalmente rimane nell'edizione inglese (e nelle prime stampe italiane, per chi ha acquistato il volume nelle prime settimane di diffusione).

La parte che anche l'autore presenta come immaginaria ipotizza che il Priorato oggi si appresti a rivelare il segreto al mondo tramite il suo ultimo Gran Maestro, un curatore del Museo del Louvre che si chiama Jacques Saunière. Per impedire che questo avvenga, Saunière e i suoi principali collaboratori sono assassinati. Uno studioso di simbologia americano, Robert Langdon, è sospettato dei crimini, ma una criptologa che lavora per la polizia di Parigi – Sophie Neveu, la nipote di Saunière – crede nella sua innocenza e lo aiuta a fuggire. Il lettore è indotto a credere che responsabile degli omicidi sia l'Opus Dei, ma le cose sono più complicate. Sul conto di questi istituto si ripetono le più crude «leggende nere», cento volte smentite, ma dure a morire, desunte dalla letteratura internazionale che lo critica, esplicitamente citata. Nel romanzo, un nuovo Papa progressista ha deciso di rescindere i legami fra la Chiesa e l'Opus Dei che risalgono a Papa Giovanni Paolo II, e il prelato dell'Opus Dei accetta la proposta che gli proviene da un misterioso «Maestro»: pagando a questo personaggio una somma immensa, potrà ricattare la Santa Sede impadronendosi delle prove del segreto del Priorato di Sion – cioè della «verità» su Gesù Cristo – e minacciando di rivelarle al mondo. Un ex-criminale, ora numerario dell'Opus Dei, è «prestato» al Maestro, e proprio quest'ultimo lo spinge a commettere una serie di crimini. In realtà, il «Maestro» lavora per sé stesso: è un ricchissimo studioso inglese, anti-cattolico, che vuole rivelare il segreto al mondo e accusa il Priorato di tacere per timore della Chiesa. Fra morti ammazzati, enigmi e inseguimenti Robert Langdon e Sophie – fra i quali nasce anche l'inevitabile storia d'amore – finiscono per scoprire la verità: la tomba della Maddalena è nascosta sotto la piramide del Louvre, voluta dall'esoterista e massone presidente francese François Mitterrand (1916-1996), ma il sang réal scorre nelle vene della stessa Sophie, che è dunque l'ultima discendente di Gesù Cristo.

 

4. Errori e mistificazioni

Solo la diffusa ignoranza religiosa spiega come qualcuno possa prendere sul serio un tale cumulo di affermazioni a dir poco ridicole. Ci sono testi del primo secolo cristiano dove Gesù Cristo è chiaramente riconosciuto come Dio. All'epoca del Canone Muratoriano – che risale circa al 190 d.C. – il riconoscimento dei quattro Vangeli come canonici e l'esclusione dei testi gnostici era un processo che si era sostanzialmente completato, novant'anni prima che Costantino nascesse. Quanto alla Maddalena, lo gnostico Vangelo di Tomaso, che piace tanto a Brown, ben lungi dall'essere un testo proto-femminista ne fonda la grandezza sul fatto che «[...] si fa maschio» (5). A Simon Pietro che obietta «Maria deve andare via da noi! Perché le femmine non sono degne della Vita» (6), Gesù risponde: «Ecco, io la guiderò in modo da farne un maschio, affinché ella diventi uno spirito vivo uguale a voi maschi. Perché ogni femmina che si fa maschio entrerà nel Regno dei cieli» (7). La cifra di cinque milioni di streghe bruciate dalla Chiesa cattolica è del tutto assurda, e Brown si dimentica del fatto che nei paesi protestanti la caccia alle streghe è stata più lunga e virulenta che in quelli cattolici.

L'idea stessa di un «codice Da Vinci» nascosto nelle opere dell'artista italiano è stata definita «assurda» dalla professoressa Judith Veronica Field, docente alla University of London e presidentessa della Leonardo Da Vinci Society (8). A fronte di questi svarioni, quello del traduttore italiano che chiama la torre dell'orologio del parlamento inglese «Big Bang» (9) invece di Big Ben sembra quasi un peccato veniale. Inoltre, chi conosca un poco la storia delle mistificazioni sul Graal sa che nel Codice Da Vinci vi è ben poco di nuovo: tutto è già stato detto in centinaia di libri su Rennes-le-Château (10), e – benché il nome di questa località francese non sia mai menzionato nel romanzo di Brown – i cognomi Saunière e Plantard fanno chiaramente riferimento alle stesse vicende.

 

5. Il mito di Rennes-le-Château: una falsificazione già da tempo smascherata

Rennes-le-Château è un paesino francese del dipartimento dell'Aude, ai piedi dei Pirenei orientali, nella zona detta del Razès. La popolazione si è ridotta a una quarantina di abitanti, ma ogni anno i turisti sono decine di migliaia. Dal 1960 a oggi a Rennes-le-Château sono state dedicate oltre cinquecento opere in lingua francese, almeno un paio di best seller in inglese e un buon numero di titoli anche in italiano. Se ne parla anche in film e in fumetti di culto, come Preacher o The Magdalena. Il paesino si trova all'interno di quel «paese cataro», cioè della zona dove l'eresia dei catari ha dominato la regione ed è sopravvissuta fino al secolo XIII, che una sapiente promozione ha reso in anni recenti una delle più ambite mete turistiche francesi. Rennes-le-Château rimarrebbe però una nota a pie' di pagina nel ricco turismo «cataro» contemporaneo se del paese non fosse diventato parroco, nel 1885, don Berenger Saunière (1852-1917). È a lui che fanno riferimento tutte le leggende su Rennes-le-Château. Il parroco Saunière era soprattutto un personaggio bizzarro. Nel 1909 si rifiuta di trasferirsi in un'altra parrocchia e nel 1910, dopo aver perso un processo ecclesiastico, subisce una sospensione a divinis. Pure privato della parrocchia, rimane fino alla morte nel paese, che aveva arricchito con nuove costruzioni – fra cui una curiosa «torre di Magdala» – e scandalizzato con una serie di scavi nella cripta e nel cimitero, alla ricerca non si sa bene di che cosa. Diventato più ricco di quanto fosse consueto per un parroco di campagna, si favoleggia che abbia trovato un tesoro. Tutto poteva spiegarsi, peraltro – come sospettava il suo vescovo – con un meno romantico traffico di donazioni e di messe. In epoca recente si è sostenuto che Saunière avesse scoperto nella cripta importantissimi manoscritti antichi, ma quelli che sono emersi sono falsi evidenti del secolo XIX se non del XX. È possibile che, nel corso dei lavori per restaurare la chiesa parrocchiale – un'attività che va in ogni caso ascritta a merito dell'originale parroco – don Saunière avesse scoperto qualche reperto di epoca medioevale, ma in ogni caso non in quantità sufficiente da arricchirsi.

Si continua a ripetere anche che Saunière sarebbe stato in rapporti con ambienti esoterici di Parigi, ma di questo non vi è nessuna prova. La figura di Saunière non è priva d'interesse, e le sue costruzioni mostrano che si trattava di un uomo singolarmente attento alle allegorie e ai simboli, sulla scia di una tradizione locale. Ma nulla di più ha mai potuto essere provato. La leggenda di Saunière non sarebbe continuata nel tempo se la sua perpetua, Marie Denarnaud (1868-1953) – cui il sacerdote aveva intestato le proprietà e le costruzioni di Rennes-le-Château, per sottrarle al vescovo con cui era in conflitto – non avesse continuato per anni, anche per incoraggiare eventuali acquirenti, a favoleggiare di tesori nascosti.

E se un altro personaggio, Noel Corbu (1912-1968), dopo avere acquistato dalla Denarnaud le proprietà dell'ex-parroco per trasformarle in ristorante, non avesse cominciato, a partire dal 1956, a pubblicare articoli sulla stampa locale dove – animato certo anche dal legittimo desiderio di attirare turisti in un borgo remoto – metteva i presunti «miliardi» di don Saunière in relazione con il tesoro dei catari. Negli anni 1960 le leggende diffuse da Corbu su scala locale acquistano fama nazionale dopo aver attirato l'attenzione di esoteristi – fra cui Pierre Plantard (1920-2000), che aveva animato in precedenza il gruppo Alpha Galates ed era stato anche condannato per truffe a sfondo esoterico – e di giornalisti interessati ai misteri esoterici come Gérard de Sède, che pubblica nel 1967 L'or de Rennes (11). Tre autori inglesi di esoterismo popolare – Michael Baigent, Richard Leigh e Henry Lincoln – s'incaricheranno di elaborare ulteriormente le sue idee, trasformandole in una vera industria editoriale – grazie anche alla BBC, che batte la grancassa – avviata con la pubblicazione, nel 1979, de Il Santo Graal (12).

Secondo de Sède e i suoi continuatori inglesi, il parroco aveva scoperto il segreto di Rennes-le-Château, dove sarebbe depositato non solo un tesoro favoloso – variamente attribuito al tempio di Gerusalemme, ai visigoti, ai catari, ai templari, alla monarchia francese, e cui il sacerdote avrebbe attinto solo per una piccola parte –, ma anche – rivelato dalle presunte pergamene ritrovate da don Saunière, dalle iscrizioni del cimitero, dalle forme stesse degli edifici e di quanto si trova nella chiesa parrocchiale – un tesoro di tipo non materiale, la verità stessa sulla storia del mondo. Nel paesino pirenaico esisterebbero i documenti in grado di provare che Gesù Cristo – verità accuratamente nascosta dalla Chiesa cattolica – aveva avuto figli da Maria Maddalena, che questi figli portano in sé il sangue stesso di Dio e che pertanto hanno il diritto di regnare sulla Francia e sul mondo intero. Che il Santo Graal sarebbe, più propriamente, il sang réal, il «sangue reale» dei discendenti fisici di Gesù Cristo, è affermato da quando Plantard entra nella storia di Rennes-le-Château. Il Codice Da Vinci si limita a ripetere queste affermazioni. Per prudenza, afferma Plantard, la discendenza dei merovingi da Gesù Cristo sarebbe sempre stata mantenuta come un segreto noto a pochi. Ma i catari, i templari, i grandi iniziati – dallo stesso Saunière al pittore Nicolas Poussin (1594-1655), il quale ne avrebbe lasciato una traccia nel suo famoso quadro del Louvre I pastori di Arcadia, che raffigurerebbe precisamente il panorama di Rennes-le-Château – hanno custodito il segreto come cosa preziosissima, lasciando trapelare di tanto in tanto qualche indizio.

Oggi, naturalmente, un Priorato di Sion esiste. È fondato nel 1956 da Pierre Plantard – che si fa chiamare anche «Plantard de Saint Clair», inventandosi un titolo nobiliare di fantasia che è alle origini delle affermazioni de Il Codice Da Vinci secondo cui anche «Saint Clair» sarebbe un cognome merovingio –, con tanto di atto notarile e carte da bollo. Plantard ha lasciato intendere di essere egli stesso un discendente dei merovingi e il custode del Graal. La prova che il Priorato esiste da mille anni dovrebbe consistere nel nome di un piccolo ordine religioso medievale chiamato Priorato di Sion. Questo è effettivamente esistito – e finito –, ma non ha relazioni di sorta né con i merovingi né con presunti discendenti di Gesù Cristo. È difficile non concludere che il collegamento fra Rennes-le-Château, i merovingi e il Priorato di Sion è puramente leggendario, e che il Priorato è un'organizzazione esoterica le cui origini non vanno al di là dell'esperienza di Plantard e dei suoi collaboratori. Non è esistito nessun Priorato di Sion – nel senso in cui oggi se ne parla – prima dell'arrivo di Plantard a Rennes-le-Château. Ora, naturalmente esiste: ma solo dal 1956.

Nella pagina Informazioni storiche de Il Codice Da Vinci si afferma, come ho accennato, che tutta la storia è confermata da documenti inoppugnabili. Si tratta dei famosi documenti in parte «ritrovati» nel 1975 nella Biblioteca Nazionale di Parigi e in parte trasmessi in precedenza allo scrittore Gérard de Sède. I documenti, però, sono stati «ritrovati» dalle stesse persone che li avevano nascosti nella Biblioteca Nazionale di Parigi: Plantard e i suoi amici. Ed è certissimo che non si tratta di documenti antichi ma di falsi moderni. Il principale autore dei falsi, Philippe de Chérisey – morto nel 1985 –, ha confessato di aver partecipato alla loro falsificazione, lamentandosi perfino per la loro utilizzazione avvenuta senza versargli il dovuto compenso, argomento su cui esistono lettere dell'avvocato di Chérisey (13).

Quanto a Poussin, la «prova» del suo collegamento con Rennes-le-Château avrebbe dovuto essere la fotografia di una tomba presente nel territorio del paesino francese, oggi distrutta, ma cui Poussin si sarebbe ispirato per il suo quadro I pastori di Arcadia. Peccato però che della tomba siano stati ritrovati il permesso e i piani di costruzione, datati 1903, ancorché la tomba sia stata completata nel 1933 (14): la tomba è dunque posteriore di quasi trecento anni al quadro di Poussin. Nessun «documento» e nessuna «prova», dunque. Solo fantasie, buone per vendere romanzi più o meno appassionanti, ma che dal punto di vista strettamente storico devono essere considerate autentica spazzatura.

* Articolo sostanzialmente anticipato, in una versione più breve, senza note e con il titolo Il Codice Da Vinci, in il Timone. Mensile di formazione e informazione apologetica, anno VI, n. 31, Fagnano Olona (Varese) marzo 2004, pp. 47-49.

(1) Cfr. PHILIP JENKINS, The New Anti-Catholicism. The Last Acceptable Prejudice, Oxford University Press, New York 2003; in una comunicazione personale, l'autore ha confermato di ritenere Il Codice Da Vinci un esempio tipico della mentalità descritta nel suo studio.

(2) Cfr. DAN BROWN, Il Codice Da Vinci, trad. it., Mondadori, Milano 2003.

(3) Ibid., p. 9.

(4) Ibidem.

(5) Vangelo di Tomaso, 114, in LUIGI MORALDI (a cura di), I Vangeli gnostici. Vangeli di Tomaso, Maria, Verità, Filippo, trad. it., Adelphi, Milano 2001, pp. 3- 20 (p. 20).

(6) Ibidem.

(7) Ibidem.

(8) Cfr. GARY STERN, Expert Dismiss Theories in Popular Book, in The Journal News, Westchester (New York) 2-11-2003, p. 1.

(9) D. BROWN, op. cit., p. 438. (10) Cfr. un'introduzione all'immensa bibliografia sul tema, nel mio Rennes le Château: mistificatori e mistificazioni sul Graal, in Cristianità, anno XXIV, n. 258, ottobre 1996, pp. 7-9.

(11) Cfr. GERARD DE SEDE, L'or de Rennes ou la vie insolite de Bérenger Saunière, Curé de Rennes-le-Château, Julliard, Parigi 1967.

(12) Cfr. MICHAEL BAIGENT, RICHARD LEIGH e HENRY LINCOLN, Il Santo Graal, trad. it., Mondadori, Milano 1997.

(13) Cfr. lettera dell'avvocato B. Boccon-Gibod a Philippe de Chérisey, dell'8-10-1967, in cui parla di documenti «de votre fabrication et déposés à mon étude», all'indirizzo http://priory-of-sion.com/psp/id167.html, visitato il 20-5-2004. . percorso che li ha condotti fin lì sono avvolti nella leggenda, in un intreccio di mito e verità, che insieme offusca e illumina la traccia che hanno lasciato nelle tenebre della storia. 

(14) Cfr. PAUL SMITH, The Tomb at Les Pontils. The Real Truth, all'indirizzo http://priory-of-sion.com/psp/id33.html, visitato il 20-5-2004.

 

 

UN CASO LETTERARIO DA NON SOTTOVALUTARE

II Codice Da Vinci: tutta la verità. Massimo Introvigne

Il libro di Dan Brown ha venduto 17 milioni di copie in tutto il mondo, presto ne faranno un film. Non è solo un romanzo a sfondo esoterico, ma un attacco neanche troppo dissimulato alla Chiesa cattolica. La diffusa ignoranza religiosa ha fatto prendere per buone molte affermazioni e ha messo dei dubbi anche in molti fedeli. Massimo Introvigne, direttore del Cesnur, in questa sintetica guida offre un valido aiuto per far luce sulle mistificazioni contenute ne/libro e indica una pista di riflssione su cui è bene interrogarsi: perché la gente crede così facilmente a queste cose?

Il Codice Da Vinci è solo un romanzo: perché criticarlo come se fosse un'opera storica?

«Chi pone questa domanda di solito non ha letto la pagina de Il Codice Da Vinci intitolata "Informazioni storiche", dove l'autore Dan Brown affenna che "tutte le descrizioni [...] di documenti e rituali segreti contenute in questo romanzo rispecchiano la realtà" e si fondano in particolare sul fatto che "nel 1975, presso la Biblioteca nazionale di Parigi, so­no state scoperte alcune pergamene, note come Les Dossiers Secrets" con la storia del Priorato di Sion.

«Forse in risposta alle molte controversie, a partire dalla sesta ristampa la pagina "Informazioni storiche" - pag. 9 dell'edizione italiana Mondadori - era sparita, sostituita da una pag. 9 interamente bianca: ma naturalmente rimaneva nell'edizione inglese, e nelle prime sei tirature italiane in possesso di un numero relativamente ristretto di "fortunati". Forse dopo che chi scrive ha fatto reiteratamente notare la curiosa sparizione di pag. 9 in Italia nel corso di trasmissioni radiofoniche e televisive, questa è "miracolosamente" ricomparsa».

Le pergamene note come Les Dossiers Secrets esistono davvero?

«Presso la Biblioteca nazionale di Parigi sono stati non "scoperti" ma depositati nel 1967 (non nel 1975) Les Dossiers secrets de Henri Lobi­neau. Non si tratta di pergamene, ma di testi che parlano del modo di interpretare certe pergamene, le quali non erano allora né sono adesso alla Biblioteca nazionale di Parigi, ma erano state consegnate da Pierre Plantard (1920-2000), insieme a un manoscritto, a un autore di libri popolari sui "misteri della Francia", Gérard de Sède (1921-2004), che avrebbe poi rielaborato e pubblicato il manoscritto come L'Or de Rennes ou la Vie insolite de Bérenger Saunière, curé de Rennes-le-Chàteau (Julliard 1967, Parigi). Oggi le pergamene (ammesso che siano proprio quelle) sono in possesso di Jean­Luc Chaumeil, un controverso autore francese di libri sull'esoterismo che afferma di averle ricevute da Plantard negli anni '70, mentre Les Dossiers secrets si trovano ancora alla Biblioteca nazionale di Parigi».

Le pergamene e i Dossier secrets sono autentici documenti sulla storia dell' antico Priorato di Sion?

«È assolutamente certo che sia Les Dossiers secrets sia le pergamene sono documenti falsi compilati nello stesso anno 1967, e tutte le persone coinvolte nella falsificazione lo hanno ammesso, sia pure dopo qualche anno. Gérard de Sède, che li ha fatti conoscere per primo nel suo libro L'Or de Rennes, in un'opera pubblicata vent'anni do­po li definiva "apocrifi" ispirati da un "sensazionalismo mercantile" (G. de Sède, Rennes-le-Chàteau. Le dossier, les impostures, les phan­tasmes, les hypothèses, Robert Laf­font 1988, Parigi, p. 107), e sosteneva perfino di avere disseminato ne L'Or de Rennes sufficienti indizi perché un lettore attento potesse leggere tra le righe che si trattava di falsi (ibid., p. 108).

«Secondo Gérard de Sède le pergamene erano state fabbricate da Philippe de Chérisey (1925-1985), un marchese attore di sceneggiati televisivi e appassionato di enigmistica. In effetti, de Chérisey non solo ha ripetutamente ammesso di avere confezionato queste pergamene, sia in lettere sia in testi pubblicati a stampa (Circuit, presso l'autore, Liegi 1968; L'Or de Rennes pour un Napoléon, presso l'autore, Pari­gi 1975; L'Énigme de Rennes, Parigi 1978), ma a partire già dall'8 ottobre 1967 (come attesta una lettera del suo avvocato B. Boccon-Gibod, cortesemente trasmessa a chi scrive dal ricercatore inglese Paul Smith) si è mosso perché gli venisse riconosciuto il compenso pattuito e mai pagato da Pierre Plantard e dallo stesso de Sède.

«Infine, anche il terzo dei tre moschettieri coinvolti nella mistificazione, Pierre Plantard, ha ammesso che i documenti sono falsi. Nell'aprile 1989 sul numero l della se­conda serie della sua rivista Vaincre, Plantard si fa intervistare e dichiara che Les Dossier secrets (che sono firmati da un certo "Philippe To­scan du Plantier") sono documenti falsi fabbricati da Philippe de Chérisey e da Philippe Toscan du Plantier, che sarebbe stato un suo giova­ne discepolo che agiva però sotto l'influsso dell'Lsd (Noel Pinot, "L'Interview de M. Pierre Plantard de Saint-Clair", Vaincre [2a serie], n. 1, aprile 1989, pp. 5-6). È possibile che in realtà non esistesse nessun "Philippe Toscan du Plantier" e che co-autore dei falsi con de Chérisey sia Plantard stesso. L'essenziale è i tre autori dei Dossier secrets e degli altri "documenti" depositati negli stessi anni alla Biblioteca nazionale di Parigi abbiano ammesso la loro natura di falsi, pubblicamente e per iscritto».

Cosa contenevano di tanto interessante Les Dossiers secrets e perché secondo Dan Brown confermano l'essenziale de Il Codice Da Vinci?

«Secondo Les Dossiers secrets de Henri Lobineau (anche "Henri Lobineau" è un nome inventato dai tre moschettieri) i legittimi preten­denti al trono di Francia sono tuttora i Merovingi, detronizzati nel 751 dai Carolingi. E contrariamente a quanto si crede, i Merovingi non so­no estinti, ma hanno discendenti ancora viventi, l'ultimo dei quali era nel 1967 Pierre Plantard, che dunque era l'unico vero pretendente al ruolo di re di Francia (in caso di un'improbabile restaurazione monarchica).

«Per proteggere dai Carolingi e poi da altri nemici i discendenti dei Merovingi sarebbe nata una società segreta, il Priorato di Sion, che -sempre secondo i documenti falsi depositati alla Biblioteca nazionale di Parigi negli anni '60 - avrebbe avuto come Gran Maestri alchimisti ed esoteristi come Nicolas Flamel (1330-1418, personaggio storico ben noto anche ai lettori dei romanzi della serie Harry Potter), Robert Fludd (1574-1637) e il principale originatore della leggenda dei rosacroce, Johann Valentin Andreae (1586-1654), nonché scienziati come Leonardo da Vinci (1452-1519) e Isaac Newton (1642-1727). Gli ultimi Gran Maestri sarebbero stati gli scrittori Charles Nodier (1780-1844) e Victor Hu­go (1802-1885), il musicista Claude Debussy (1862-1918), il poeta e drammaturgo Jean Cocteau (1889-1963) e monsignor François Ducaud-Bourget (1897-1984), legato allo scisma di monsignor Marcel Lefebvre (1905-1991), che avrebbe trasmesso la carica a Plantard.

«Per puro caso la verità sul Prio­rato di Sion e le famose pergamene, nascoste nella chiesa parrocchiale di Rennes-le-Chateau, un un paesino francese di meno di cento abitan­ti nel dipartimento dell' Aude ai pie­di dei Pirenei orientali, sarebbero state scoperte nel 1897 dal parroco, Berenger Saunière (1852-1917), che grazie alla conoscenza del segreto sarebbe entrato in relazione con gli ambienti esoterici e politici dell'epoca e sarebbe diventato favolosamente ricco».

Un momento: ne Il Codice Da Vinci il punto essenziale è che i Merovingi, protetti dal Priorato di Sion, non sono solo i legittimi pretendenti al trono di Francia, ma i discendenti dei figli nati dal matrimonio fra Gesù Cristo e Maria Maddalena. Non parlano di questo Les Dossiers secrets e gli altri documenti?

«No, non ne parlano affatto. La parte della storia relativa a Gesù Cristo e a Maria Maddalena nasce tra il 1969 e il 1970, quando della vicenda del Priorato di Sion comincia a interessarsi un attore inglese che aveva recitato nello sceneggiato televisivo The Avengers (in Italia 'Agente speciale') negli anni '60 con il nome di Henry Soskin, ed era poi diventato regista di documentari su soggetti misteriosi con il nome di Henry Lincoln. Questo attore e do­cumentarista inglese entra in contatto con il trio de Chérisey - Plantard - de Sède e decide di riscrivere la storia de L'Or de Rennes in una forma più adatta al pubblico di lingua inglese, presentandola prima in tre documentari trasmessi dalla BBC tra il 1972 e il 1979 e poi in un libro pubblicato nel 1982 con l'aiuto di Michael Baigent e Richard Leigh: The Holy Blood and the Holy Grail (tradotto in italiano nello stesso anno come Il Santo Graal, Mondadori, Milano).

«Lincoln si rende conto che a chi spetti il titolo di pretendente al trono di Francia è di scarso interesse per il pubblico inglese. Nello stesso tempo era stato introdotto da Plantard nel piccolo mondo delle organizzazioni esoteriche francesi dove aveva conosciuto Robert Ambelain (1907 -1997), una figura notissima di questo ambiente, che nel 1970 aveva pubblicato Jésus ou Le mortel secret des templiers (Robert Laffont, Parigi). Egli sosteneva che Gesù Cristo aveva una compagna, pur non essendo legalmente sposato, e identificava questa "concubina" in Salomé. Lincoln mette insieme la  matrimonio di Gesù, che ricava da Ambelain,con quella dei Merovingi di Plantard e 'rivela' che i Merovingi protetti dal Priorato di Sion sono importanti, ben al di là della rivendicazione del trono di Francia, perché discendono da Gesù Cristo e dalla Maddalena».

ma Lincoln sapeva che i documenti erano falsi?

«Sì: non solo perché nell'ambienTe delle organizzazioni esoteriche in Francia lo sapevano più o meno tutti, ma perché glielo aveva detto Philippe de Chérisey, come risulta da lettere di quest'ultimo (alcune riprodotte in Pierre Jamac, Les Archives de Rennes-le-Chateau. Tome 2, Belisane 1988, Nizza). In effetti il punto debole de Il Santo Graal è proprio che troppe perso­ne conoscono l'origine spuria dei documenti su cui si fonda. Così, dopo aver trattato direttamente con de Chérisey dietro le spalle di Plantard, poi aver rinnegato anche il marchese-attore, nel 1986 Lincoln e soci procedono brutalmente alla "bonifica" o "de-plantardizzazione" del Priorato di Sion con The Messianic Legacy (in italiano L'eredità messianica, Tropea 1996, Milano).

«Presentano come grande scoperta quello che in un certo ambiente francese tutti sanno: Plantard è un mistificatore (forse non solo) e molti documenti sono falsi. Ma altri, insistono gli inglesi, sono veri: forse non è Plantard l'ultimo discendente di Gesù Cristo e il vero Priorato di Sion non è il suo, ma comunque esistono discendenti del matrimonio fra Gesù Cristo e la Maddalena: lo sono stati i Merovingi. E c'è un "vero" Priorato di Sion che sta dietro a molte vicende contemporanee: la P2, lo scandalo del Banco Ambrosiano, lo scisma di monsignor Le febvre, le vicende della mafia italiana e tante altre, in un tour de force che fa girare la testa al lettore e le cui componenti hanno in comune solo un'avversione quasi pa­tologica al "Vaticano" e alla Chiesa cattolica».

Il Codice Da Vinci deriva da Il Santo Graal?

«Ne deriva tanto direttamente che due autori de Il Santo Graal, Baigent e Leigh - offesi anche perché Brown, a loro dire, avrebbe aggiunto le beffe al danno chiamando il cattivo della storia Leigh di nome e Teabing (anagramma di Baigent) di cognome- hanno avviato nell'ottobre 2004 un'azione legale contro Dan Brown accusandolo di avere nella sostanza copiato il loro libro, dove ci sono già il collegamento con la cappella di Rosslyn, la chiesa di Saint-Sulpice, l'idea che il Santo Graal sia il "Sang réal", cioè una persona che ha in sé il sangue di Gesù Cristo. Lincoln "ha deciso di non partecipare all'azione per la violazione del diritto d'autore a causa delle sue cattive condizioni di salute, ma dichiara di sostener­la" (Elizabeth Day, "Da Vinci Code Bestseller Is Plagiarism, Authors Claim", The Sunday Tele­graph, 3 ottobre 2004).

Non potrebbe avere ragione 'L'eredità messianica', nel senso che documenti falsi sono stati fabbricati per corroborare una storia vera? Cominciando dall'inizio, il Priorato di Sion esiste?

«Esiste certamente. È stato fondato il 7 maggio 1956 ad Annemasse da Pierre Plantard con statuti regolarmente depositati presso la sottoprefettura di Saint-Julien-en-Genevois con il nome completo di "Priorato di Sion-C.I.R.C.U.I.T. (Cavalleria di Istituzione e Regola Cattolica e di Unione Indipendente Tradizionalista)" . Gli statuti all'articolo 3 danno anche conto delle origini del nome, che deriva non da Gerusalemme ma dal Monte Sion, una montagnola presso Annemasse, dove si intende realizzare "un Priorato che servirà da centro di studio, me­ditazione, riposo e preghiere" per uno dei tanti ordini esoterici che proliferavano in Francia all'epoca.

«Del resto, il Priorato di Sion riprendeva lo schema di altre organiz­zazioni che Plantard aveva fondato fin da quando aveva 17 anni nel 1937 con il nome rispettivamente di Union Française, Rénovation Nationale Française e Alpha Galates. Con esse il Priorato di Sion aveva in comune interessi politici (monarchici: Plantard era partito da un interesse per l'Action Française, ancorché ad Annemasse si occupasse soprattutto di sostenere un progetto di realizzazione di case popolari) e il fatto di non avere mai superato la dozzina di membri. Comunque, il Priorato di Sion fondato nel 1956 ad Annemasse esiste ancora oggi, come minuscola organizzazione nel variegato panorama degli ordini iniziatici francesi».

Il Priorato di Sion non è stato fondato da Goffredo di Buglione?

«Negli anni '60, quando preparava la falsificazione dei Dossiers secrets, Plantard - che, come sappiamo, aveva tratto il nome "Priorato di Sion" da una montagnola sopra Annemasse - ha ritrovato nella storia delle crociate (cui si è più volte ispirato per le sue fantasie) una "Abbazia di Nostra Signora del Monte Sion" fondata nel 1099 a Ge­rusalemme appunto da Goffredo (1060-1100), divenuto re della città in seguito alla prima crociata. La comunità di monaci dell'abbazia (e non "priorato", dal momento che il superiore è chiamato abate e non priore) in Palestina continua a esi­stere fino al 1291, quando è travolta dall'avanzata musulmana. I pochi monaci sopravvissuti si rifugia­no in Sicilia, dove la loro comunità si estingue nel XIV secolo. Si tratta di una normale comunità monasti­ca senza alcun collegamento con i Templari, la Maddalena o segreti esoterici, il cui "recupero" da parte di Plantard si risolve nel semplice ri­ferimento a un nome».

I vari personaggi famosi -Leonardo da Vinci, Newton, Victor Hugo- hanno avuto relazioni con il Priorato di Sion?

«Certamente no: né con quello di Plantard, fondato nel 1956, e neppure con l'abbazia di monaci fonda­ta in Palestina ed estinta nel XIV secolo. In realtà Plantard ha ricavato il suo elenco di Gran Maestri del Priorato di Sion dall'elenco di presunti "Imperator", cioè capi supre­mi e membri eminenti dell' Amorc, l'Antico e Mistico Ordine Rosae Crucis, fondato nel 1915 negli Stati Uniti da Harvey Spencer Lewis (1883-1939) e con esponenti della cui branca francese Plantard era in contatto fin dagli anni '40.

«Tranne Cocteau e monsignor Ducaud-Bourget, tutti i nomi di , Gran Maestri del Priorato di Sion si ritrovano, vedi caso, in genealogie mitiche costruite da esponenti dell'Amorc. In verità tutte le organizzazioni esoteriche fondate dal XVIII secolo a oggi si dotano di genealogie mitiche che risalgono ai Templari, a Noè, a san Giovanni o a Salomone e passano per personaggi famosi della storia, della letteratura e dell'arte. In genere i loro membri meno sprovveduti sono consapevoli del carattere meramente simbolico e mitico di queste genealogie».

Dan Brown scrive che Leonardo ha lasciato tracce della sua cono­scenza del segreto del Priorato di Sion ne L'ultima cena, dove il personaggio raffigurato alla destra di Gesù sembra proprio una donna.

«L'idea è stata definita "assurda" da una delle maggiori specialiste contemporanee di Leonardo, la professoressa Judith Veronica Field, docente alla University of London e presidentessa della Leonardo Da Vinci Society (cf Gary Stern, "Expert Dismiss Theories in Popular Book", The Journal News, 2 novembre 2003). Poiché tuttavia nei quadri ognuno vede quello che vuole vedere, più o meno suggestionato dalle letture fatte, è importan­te segnalare che se il personaggio raffigurato da Leonardo alla destra di Gesù Cristo sia una donna o un uomo non è poi così importante per tutta la questione che ci occupa. Né è necessario tornare sulla vexata quaestio se Leonardo fosse eterosessuale, omosessuale o bisessuale, su cui ormai esiste una vasta letteratura, e se il suo gusto per forme maschili talora effeminate non costituisca a suo modo un elemento di cui tenere conto in questa discussione. Chi si affanna a discutere di questo problema si lascia sfuggire l'essenziale.

«Ammettendo per assurdo che per Leonardo la persona seduta alla destra di Gesù Cristo nell'ultima cena fosse una donna, ci si deve an­cora chiedere in che modo questo dimostri che: (a) egli credeva che quella donna fosse la Maddalena; (b) il fatto che Leonardo lo credesse prova che sia vero; (c) la Maddalena ha partecipato all'ultima cena perché era la moglie di Gesù; (d) i due hanno avuto figli; (e) i quali avrebbero dovuto governare la Chiesa; (e) per preservare questa verità è nato un ordine occulto, il Priorato di Sion; (f) del quale faceva parte Leonardo. Come si vede, la strada da percorrere è molto, molto lunga. Di tutti questi passaggi non solo non ci sono prove ma si sa con certezza chi, quando, do­ve e come ha inventato la leggenda del Priorato di Sion».

 

Che valore hanno le pergamene trovate dal parroco Saunière a Rennes-le-Chateau e portate a esaminare a Parigi, in un viaggio in seguito al quale il parroco è diventato miliardario?

«Non sono mai esistite pergamene (benché il parroco, nel corso di lavori nella chiesa parrocchiale, abbia trovato diversi reperti archeologici, esposti nel museo di Rennes-le-Chateau e che non hanno niente a che fare con la Maddalena né con il Priorato di Sion). Saunière ha tenuto taccuini minutissimi su quel che faceva e quali somme spendeva giorno per giorno (anch'essi consultabili al museo), e non è mai stato a Parigi in vita sua. Non è neanche diventato miliardario, pur avendo potuto acquistare alcune proprietà e costruirvi una villetta e una torre-biblioteca.

«Questa non favolosa ma reale agiatezza è stata spiegata nel corso di processi canonici intentati a Saunière dal vescovo di Carcassonne, monsignor Paul Félix Beuvain de Beauséjour (1839-1930), i cui atti sono pure consultabili. Dal 1896, Saunière prende la strada -illegale dal punto di vista del diritto canonico e di quello civile, ma non inventata da lui e per nulla misteriosa- del "traffico di messe". Tra il 1896 e il 1915 dai suoi taccuini si ricavano elementi per concludere che egli ha ricevuto onorari per almeno centomila messe: cinquemila o seimila all'anno negli anni d'oro. La documentazione esiste: parte da lettere e annunci dove un "sacerdote povero" domanda onorari per la celebrazione di messe spediti a conventi e privati o pubblicati su riviste pie in tutta la Francia, nonché in Germania, Svizzera, Spagna, Italia, passa per liste di centinaia di donatori più volte sollecitati e arriva ai bollettini postali e ai conti tenuti mese per mese.

«L'obiezione, secondo la quale in un'epoca in cui non era tollerato (a differenza di oggi) cumulare diverse intenzioni per una sola messa era impossibile che Saunière potesse celebrare cinquemila o seimila messe all'anno, non mette in dubbio il traffico, ma semplicemente l'onestà del sacerdote: ed è un'obiezione che si risponde da sola. Molto semplicemente il parroco di Rennes-leChateau intascava regolarmente onorari per messe che non avrebbe mai celebrato».

A Rennes-le-Chateau non ci sono strani simboli lasciati da Saunière, di tipo diabolico o massonico, che confermano le sue frequentazioni esoteriche?

«Si tratta di pure fantasie. I lavori per il rifacimento della chiesa parrocchiale sono stati commissionati da Saunière nel 1896 a una ditta famosa, la H. Giscard Père et Fils di Tolosa, che è la sola responsabile del progetto. La H. Giscard, fondata nel 1885 e in cui la­vorano diversi membri della famiglia, ha servito numerose parrocchie nonché il Carmelo di Lisieux. La sua sede è oggi trasformata in museo, ma il pronipote del fondatore, Joseph, continua a lavorare come scultore.

«Lo stile convenzionale dei Giscard è famoso in Francia e solo l'ignoranza di alcuni diffusori della leggenda di Rennes-le-Chateau ha potuto scambiare per sinistri o diabolici simboli che si trovano in molte altre chiese: così il diavolo che sorregge l'acquasantiera (evidente­mente sconfitto dall'acqua santa) o la scritta sopra il portale della parrocchiale ("Terribilis est locus iste", Gen 28,17) che deriva dalla visione della scala di Giacobbe.

«Il tradizionalista vescovo di Carcassonne monsignor Félix-Arsène Billard (1829-1901), che viene a vedere la nuova chiesa nella Pentecoste 1897 in occasione di una missione popolare, certamente non ci trova nulla da ridire. Chi vede nella Via Crucis della parrocchiale simboli massonici dovrebbe riflettere sul fatto che molti simboli utilizzati dalla massoneria sono stati corporativi e cattolici ben prima di diventare massonici. I Giscard nell'Ottocento sono piuttosto noti e apprezzati, per il loro stile (fin troppo) convenzionaIe, del tutto privo di singolaritàe di sorprese».

Si dice anche che il pittore Nicolas Poussin (1594-1655) abbia raffigurato nel suo famoso quadro I pastori d'Arcadia una tomba che si trova a Rennes-le-Chateau, dando così un segnale della sua appartenenza al Priorato di Sion e della conoscenza dei suoi segreti.

«In un certo senso, fra le tante mistificazioni di Rennes-le-Chateau questa è la più divertente. La cosiddetta "tomba di Arques" è stata fatta costruire nel 1932 (sostituendo una tomba precedente del 1903 e che non asso­migliava neppure vagamente a quella de I pastori d'Arcadia) da Louis Bertram Lawrence (1884-1954), un imprenditore americano di origine francese. Vi sono state sepolte Emily Rivarès Lawrence (1863-1932) e Marie Rivarès (1843-1922), rispettivamente madre e nonna dell'imprenditore, nonché due gatti imbalsamati della stessa Marie Rivarès.

«Tutti i documenti amministrativi relativi a queste costruzioni e ricostruzioni sono tuttora esistenti. La tomba si può anche ritenere vagamente ispirata al quadro seicentesco di Poussin, del resto molto noto. Nel 1988 è stata demolita dall' attuale proprietario con l'autorizzazione del competente consiglio comunale di Peyrolles, stufo di vederla profanata da vandali alla ricerca di segreti del Priorato di Sion. Comunque sia, Poussin non poteva certo riprodurre nel XVII secolo una tomba costruita nel 1932».

Non ci sono prove nei vangeli apocrifi o "gnostici" che Gesù avesse sposato la Maddalena, e che la prima comunità cristiana non pensasse affatto che fosse Dio? E non ha la Chiesa cattolica per questo arbitrariamente scelto solo quattro vangeli "innocui" come canonici al concilio di Nicea del 325, appoggiata dalla forza delle armi dell'imperatore Costantino?

«Niente affatto: ci sono testi cristiani del primo secolo dove Gesù Cristo è chiaramente riconosciuto come Dio. All'epoca del Canone Muratoriano (che risale circa al 190 d.C.) il riconoscimento dei quattro vangeli come canonici e l'esclusione dei testi gnostici era un processo sostanzialmente completato, novant'anni prima che Costantino (280-337) nascesse. Quanto alla Maddalena, lo gnostico Vangelo di Tomaso, che piace tanto a Dan Brown, ben lungi dall'essere un testo proto-femminista ne fonda la grandezza sul fatto che "si fa maschio". A Simon Pietro che obietta "Maria deve andare via da noi! Perché le femmine non sono degne della Vita", Gesù risponde: "Ecco, io la guiderò in modo da farne un maschio, affinché ella diventi uno spirito vivo uguale a voi maschi. Perché ogni femmina che si fa maschio en­trerà nel Regno dei cieli" (114). Certo, vi è qui una nozione gnostica di androginia che non va presa neces­sariamente alla lettera: ma siamo co­munque ben lontani dal femmini­smo. Né si parla di figli di Gesù Cri­sto e della Maddalena»:

Il Codice Da Vinci lascia anche intendere che l'Opus Dei è una "setta" che è entrata in conflitto con la Chiesa in quanto a conoscenza della verità suI Priorato di Sion. C'è qualcosa di vero?

«Anzitutto, nessuno può ricattare altri sulla base della "verità sul Priorato di Sion", che è ben nota e docu­mentata: si tratta di una mistificazio­ne che passa da Plantard a de Sède, da de Sède a Lincoln, e da Lincoln a Dan Brown. Quanto all'Opus Dei (dove tra l'altro non ci sono "monaci", a differenza di quanto pensa Dan Brown), si tratta di un'istituzione non solo canonicamente approvata e lodata dalla Chiesa cattolica, ma il suo fondatore, Josemaria Escriva de Balaguer (1902-1975), è stato canonizzato come santo nel 2002.

«Le "informazioni" di Dan Brown provengono da un'associazione di ex membri e altre persone ostili alla pre­latura, cioè l'Opus Dei Awareness Network, esplicitamente menzionata nel romanzo, collegata a un più vasto "movimento anti-sette" e le cui faziose opinioni non sono in alcun modo condivise dalla gerarchia cattolica. Del resto, descrivere una qualsiasi realtà sulla base solo di quanto affermano gli ex-membri che l'hanno la­sciata equivale a informarsi su una persona divorziata prendendo per buono soltanto quanto ne racconta l'ex coniuge più o meno arrabbiato».

Un libro così come ha potuto vendere diciassette milioni di copie? E perché la gente ci crede?

«La questione è complessa sul piano sociologico. Mi limito a suggerire che incontra e mette insieme due tipi di mode molto diffuse: quella dei complotti e delle società segrete che dominerebbero il mondo (un modo di banalizzare la complessità della storia che riemerge sempre nei periodi di crisi) e quella di un anti-cattolicesi­mo sempre più manifesto e virulento. Ma c'è anche dell'altro. Nell'Occidente contemporaneo in genere la maggioranza delle persone (oltre l'ottanta per cento nell'Unione europea, oltre il novanta per cento negli Stati Uniti) si dice ancora religiosa, anzi l'ateismo e l'agnosticismo sono in calo dopo il crollo delle ideologie che ne fondavano le giustificazioni teoriche.

«Tuttavia, la maggioranza di queste persone "religiose" non è in contatto regolare con nessuna Chiesa o istituzione: né con le "vecchie" né con le "nuove religioni". Frequentano almeno mensilmente un luogo di culto circa il quaranta per cento degli americani e il venti per cento dei cittadini dell'Unione europea. La religione di maggioranza in Occidente non è più il cristianesimo: il fenomeno dominante diventa, secondo la fortunata formula della sociologa inglese Grace Davie, il "believingwithout be longing", credere senza appartenere.

«La stessa Davie, nelle Sarum Theological Lectures ("Conferenze teologiche Sarum", tenute nella catte­drale di Salisbury in Inghilterra nei mesi di aprile e maggio 2001), parlando da credente a credenti sembra in qualche modo lanciare - sia pure con la discrezione propria di un'impostazione che rimane sociologica - una sfida alla nuova maggioranza, in cui è difficile non cogliere anche una valenza morale. Chi "crede senza appartenere" non "appartiene" e non fre­quenta i luoghi di culto a causa di una forma di disimpegno, di un'ideologia della delega peraltro più diffusa in Europa che negli Stati Uniti.

«Si ha qui, scrive Grace Davie, un fenomeno di "religione vicaria", in cui più della metà degli europei vede le Chiese come "utili istituzioni sociali, di cui la grande maggioranza della popolazione avrà probabilmente bisogno in un'occasione o due durante la vita (non da ultimo, in occasione della morte)". Ma, per il resto della sua esistenza, "un numero significativo di europei si accontenta di lasciare che le Chiese e chi va in chiesa mantengano viva una memoria per loro conto (ed è questo il significato essenziale dell'aggettivo 'vicario')". Detto in termini più brutali, dal momento che "appartenere" costa, una maggioranza disimpegnata che "crede senza appartenere" delega a una minoranza impegnata il compito di "appartenere" e di andare in chiesa. Ma alla maggioranza rimane un certo senso di colpa.

«Dan Brown, e chi lo ha preceduto nella catena complottista che arriva fino ai suoi romanzi, danno al vasto e ormai maggioritario mondo del believingwithout belonging sia qualche ragione per credere, sia molte ragioni per non appartenere. Brown rassicura i suoi lettori confermandoli nell'idea secondo cui credere che ci sia­no più cose in cielo e in terra - e nella storia - di quante sia capace di vederne un razionalismo ormai fuori moda è più che legittimo, ed è anche politicamente corretto.

«Soprattutto li tranquillizza, e toglie loro ogni senso di colpa quanto al "non appartenere': fanno bene a non essere praticanti, hanno ragione a non andare in chiesa. Non si tratta di pigrizia o disimpegno: le chiese non vanno frequentate perché la Chiesa è un'istituzione fondata storicamente sulla mistificazione, sulla violenza e sull'inganno. L'offerta di Brown incontra così una vasta domanda che viene dal mondo del believing without belonging. A un popolo per definizione senza dottrine Brown offre un'ideologia: fate bene a credere, ma anche a non appartenere, perché la Chiesa è cattiva.

«Certo, non saranno questi untorelli a spiantare la Chiesa, che potrebbe rispondere, con Cicerone: "Alios vidi ventos, alias prospexi animo procellas", "Ho visto ben altri venti, ho affrontato senza paura ben altre tempeste". Ma la potenza della comunicazione di massa fa sì che Il Codice Da Vinci vada, a suo modo, preso sul serio».

Massimo Introvigne sociologo e direttore del Cesnur

www.cesnur.org, tel. 011.54.19.50, fax 011.54.19.05. Il Cesnur è stato fondato in Italia nel 1988 da un gruppo di accademici e studiosi europei e americani interessati allo studio delle minoranze religiose e spirituali di qualunque tipo, e alla costruzione di "mappe" delle appartenenze religiose in tutti i Paesi del mondo. Presieduto dal professor Luigi Berzano, ordinario di sociologia generale presso l'Università di Torino, è diretto dal professar Massimo Introvigne.

Per approfondire

Introvigne M., Gli Illuminati e il Priorato di Sion. La verità dietro Angeli e Demoni e Il Codice Da Vinci, Piemme 2005, Casale Monferrato (Alessandria). In libreria da settembre 2005.

Per rispondere e per educare: il Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni) offre conferenze, seminari e corsi su Il Codice Da Vinci e la relativa problematica. Informazioni e contatti: e-mail cesnur_to@virgilio.it.

 

 

«Nella sua lettera a monsieur Chauvet», scrive Claudio Magris, «Manzoni diceva che i poeti non hanno il dovere di "inventare i fatti", bensì quello di colmare gli spazi tra essi, le lacune della Storia, e di raccontare ciò ch'essa sottace, i sentimenti e i pensieri degli uomini, la loro speranza, la loro rabbia o la loro malinconia di cui si sono perdute le tracce. Lo storico accerta e racconta gli eventi e lo scrittore cerca di immaginare e di raccontare come gli uomini li hanno vissuti» (p. 205).

Stefano Jacomuzzi presta la sua anima di credente alla figura storica di Gesù, lo fa parlare in prima persona ed egli, come si fa in un'autobiografia, racconta le sue vicende terrene. Accanto a Gesù che si racconta, c'è anche un'altra voce, quella di Andrea, che è forse il primo dei discepoli a cui Gesù si è rivolto. Anche lui en­tra nell'animo delle vicende che accadono. Questo singolare modo di narrare porta il lettore a vivere dall'interno una storia che ha sempre visto dall'esterno. E questo lo coinvolge emotivamente e lo aiuta a unirsi all'anima di Gesù che scopre a poco a poco di essere Figlio di Dio. Bisogna dare atto all'autore di aver evitato accuratamente il rischio, insito in un simile approccio narrativo, di interpretare in modo non rispettoso o non corretto ciò che è accaduto allora, scivolando magari nel sensazionale o nello scandalistico.

Resta dunque un volume equilibrato e giova sia ai credenti che ai non credenti.

Jacomuzzi S. - Cominciò in Galilea. Romanzo. Postfazione di Claudio Magris - San Paolo 2005, pp. 228,

 

Gesù secondo Kahlil Gibran

Con una nuova traduzione dal testo originale particolarmente attenta alla dimensione letteraria e poetica di Kahlil Gibran e con un saggio sulla cristologia gibraniana, il libro ricostruisce la figura del Salvatore grazie alle testimonianze di personaggi dell' epoca, alcuni storici e altri di pura immaginazione, alcuni chiaramente innestati nei racconti evangelici e altri propensi a una libera affabulazione, alcuni sedotti dal suo messaggio, altri decisamente ostili. Un'opera unica di grande intensità poetica. Un esempio: Maria Maddalena.

Fu nel mese di giugno che lo vidi per la prima volta. Stava camminando in un campo di grano quando passai con le mie ancelle, ed era solo.

Il ritmo del suo passo era diverso da quello di tutti gli altri uomini, ed egli si muoveva come mai prima avevo visto fare. Non è con quell'incedere che gli uomini percorrono il mondo. E ancora oggi io non so se camminasse veloce oppure lentamente.

Le mie ancelle presero ad additarlo e a scambiarsi trepidi bisbigli. E io fermai il passo per un istante, e sollevai la mano per fargli un cenno di saluto. Ma egli non girò il suo volto, e non mi guardò. E io lo odiai. Vacillai nella sua ripulsa, e mi sentii raggelare come sotto un cumulo di neve. Avevo i brividi.

Quella notte, io lo vidi nel mio sogno; più tardi mi dissero che durante il sonno avevo gridato, agitandomi nel letto senza quiete.

Fu nel mese di agosto che lo vidi di nuovo, dalla mia finestra. Stava seduto all'ombra del cipresso, nel mio giardino, ed era immobile come fosse stato scolpito nella pietra, come le statue che si vedono ad Antiochia e nelle altre città del settentrione.

E il mio schiavo, l'Egizio, venne a dirmi: «Quell'uomo è di nuovo qui. Siede laggiù, in un angolo del tuo giardino». E io guardai, e guardai ancora, e la mia anima palpitò: perché egli era bello.

Il suo corpo era singolare e sembrava che ognuna delle sue parti vivesse in armonia con tutte le altre.

Allora io indossai vesti di Damasco, e lasciai la mia casa per camminare verso di lui.

Fu la mia solitudine, o la sua fragranza, ciò che mi spinse verso di lui? Fu l'avidità dei miei occhi affamati di bellezza, o la sua avvenenza, a invocare la luce dei miei occhi? Ancora oggi non lo so. Camminai verso di lui con le mie vesti odo­rose e i miei sandali d'oro, i sandali che ho avuto in dono dal generale romano: proprio questi. E quando lo ebbi raggiunto, dissi: «Buongiorno a te». Ed egli mi disse: «Buongiorno a te, Miriam».

E mi guardò, e la notte che era nei suoi occhi mi vide come mai nessun uomo mi aveva vista. E d'improvviso mi sentii come nuda, e provai vergogna. Eppure mi aveva detto soltan­to: «Buongiorno a te».

E poi gli dissi: «Non vuoi venire nella mia casa?». Ed egli rispose: «Non sono già in casa tua?». Non capii cosa intendesse dire, allora; ma adesso lo so.

E gli chiesi: «Non vuoi dividere con me vino e pane?». Ed egli rispose: «Sì, Miriam, ma non ora».

Non ora, non ora, egli disse. E in quelle due parole udii la voce del mare, e la voce del vento e degli alberi, udii. Quando le pronunciò, den­tro di me la vita parlò alla morte.

Perché ricordalo, amico mio, io ero morta. Ero una donna che aveva divorziato dalla propria anima. Vivevo divisa dal mio essere che tu vedi ora. Appartenevo a ogni uomo, e a nessuno. Mi chiamavano prostituta, e posseduta dai sette diavoli: così mi chiamavano. Ero maledetta, ed ero invidiata.

Ma quando l'aurora che era nei suoi occhi guardò nei miei, tutte le stelle della mia notte si dissolsero: e io fui Miriam, solo Miriam, una donna che si era perduta in una terra che le era nota e che ora stava ritrovando se stessa in luoghi che non aveva mai visto.

E di nuovo gli chiesi: «Vieni nella mia casa a dividere con me il pane e il vino». Kahlil Gibran

L' AUTORE

Kahill Gibran, scrittore, poeta e pittore, nonché drammaturgo, nacque in Libano (villag­gio di Bisharri, la Valle dei Cedri) il 6 gennaio del 1883. Trascorse la giovinezza tra Boston, Beirut e Parigi. Nel 1912 si stabilì a New York, dove visse fino alla morte (10 aprile 1931). Nella sua ampia produzione in inglese, spiccano testi di carattere mistico-filosofico, come The Madman (Il folle), The Forerunner (Il precursore). il celeberrimo The Prophet (Il profeta), Sand and Foam (Sabbia e spuma), Jesus the Son of Man (Gesù, il Figlio dell'uomo), The Wanderer (Il vagabondo) ecc.

La sua corrispondenza con Mayy Ziyadah, grande scrittrice araba, è stata raccolta postuma nel volume Love Letters (Lettere d'amore). Le Edizioni San Paolo hanno inoltre pubblicato il romanzo giovanile Broken Wings (Ali spezzate), le prose lirico-narrative di The Storm (La tempesta), gli atti unici Lazarus and His Beloved (Lazzaro e il suo amore) e The Blind (Il cieco) e alcuni scritti e frammenti inediti, riuniti sotto il titolo ‘La stanza del profeta’.

 

KLAUS-STEFAN KRIEGER   I veri 'detti di Gesù'. Il messaggio della fonte 'Q'

Un libro, anche per i non addetti, che vogliono però capire i dati delle ricerche storico-esegetiche e la loro utilità nella lettura della Bibbia. San Paolo 2006, pp. 138.

Gli esperti sanno da tempo che gli evangelisti Matteo e Luca hanno in comune molte parole e detti di Gesù. Ma questi detti non possono essere stati copiati da Marco (a sua volta fonte dei due evangelisti) dato che sono assenti in quest'ultimo.

Come spiegare questi dati comuni? Da circa 200 anni si è ipotizzata l'esistenza di una fonte scritta chiamata fonte Q (dal tedesco Quelle = fonte:) che conterrebbe parole e detti di Gesù. Da questa fonte Matteo e Luca avrebbero copiato e composto - attingendo allo stesso tempo anche a Marco i propri vangeli.

Il dato interessante è che questa fonte Q non riporterebbe semplici resoconti sulla vita pubblica di Gesù ma soltanto le parole e i detti di lui. Per questo la fonte è stata anche denominata «fonte di detti».

L:autore del volume spiega in modo facilmente comprensibile tale risultato storico-esegetico, rendendo il volume accessibile anche ai non esperti. La fonte Q inoltre rivelerebbe la situazione delle prime comunità cristiane: le domande che esse avevano su Gesù e cosa le spingeva ad aderire al Figlio dell'Uomo.

Che cos'è la «fonte Q», perché è così importante? Finalmente una spiegazione alla portata di tutti.

Con un linguaggio accessibile a tutti il giornalista e teologo Klaus­ Stefan Krieger spiega cos'è la fonte Q (dal tedesco Quelle, fonte) e perché è importante. Gli esperti sanno da tempo che Matteo e Luca hanno in comune molte parole e detti di Gesù, che non possono essere stati copiati da Marco (a sua volta fonte dei due evangelisti) perché in lui sono assenti.

Come spiegare i dati comuni? Da circa 200 anni è stata ipotizzata l'esistenza di una fonte scritta, chiamata fonte Q, da cui Matteo e Luca avrebbero copiato e composto - attingendo in pari tempo anche a Marco - propri vangeli. Il dato interessante è che la fonte Q non riporterebbe resoconti sulla vita pubblica di Gesù, ma soltanto le sue parole. Per questo è stata anche denominata "fonte dei detti".ò Inoltre, essa rivelerebbe la situazione delle prime comunità cristiane: le domande che esse ponevano su Gesù e cosa li spingeva a credere in lui.

La ricostruzione della fonte è frutto del Progetto internazionale Q, fondato da James M. Robinson e John S. Kloppenborg. Ad essi si sono aggiunti nel 1993 l'esegeta neo testamentario Paul Hoffmann e un folto gruppo di specialisti di tutto il mondo, che hanno raccolto «il lavoro di ricerca di quasi due secoli relativo ad ogni versetto e ogni sezione dei vangeli secondo Matteo e Luca, dietro i quali si suppone la presenza della fonte dei loghia. [...] In tal modo sono stati attribuiti alle ricostruzioni gradi di probabilità dettagliati - fino alle singole parole -, gradi che vanno da "al limite della certezza", "convincente" e "debole" fino ad "altamente sicuro" e "impossibile de­cifrare"» (p. 36).

L'AUTORE

KRIEGER Klaus Stefan, nato nel 1959, dottore di ricerca in teologia, lavora come giornalista e nelle pubbliche relazioni.

Ha svolto il dottorato di ricerca in esegesi del Nuovo Testamento ed è un esperto dell'epoca di Gesù e del Paleo Cristianesimo.

 

GESU', IL GRANDE ROMPI

Autore: TONINO LASCONI

Edizione: 1

Anno di pubblicazione: 2004

Luogo di pubblicazione: MILANO

Collana: GENERAZIONE GIOVANI

Destinatario: Ragazzi - Operatori past. – catechisti

Casa editrice: PAOLINE

Come era Gesù? Non tanto fisicamente, ma come carattere, come comportamento.

Cioè: come reagiva alle situazioni che gli si presentavano? Come trattava le persone? Come si rapportava con gli amici, con le autorità, con i compaesani, con i parenti, con le folle, con la mentalità dominante? La risposta è importante. Il cristiano, infatti, non è chi crede in certe cose, o chi fa o non fa certe cose, ma chi accetta di diventare discepolo di Gesù, cioè di vivere come lui. E come si fa a vivere come lui se non si sa come lui viveva?

T. Lasconi ci offre una risposta in questo libro, commentando vivacemente i gesti e le parole di Gesù seguendo il percorso dei vangeli.

Prima parte: Gesù grande rompi con la sua vita.

Seconda parte: Gesù grande rompi con il suo messaggio.

Terza parte: Gesù grande rompi come comunicatore.

 

 

Jean-Yves Leloup

Il sacro abbraccio. Gesù, Maria Maddalena e l’Incarnazione

Lindau, Torino 2007

Il volume si accredita per un editore di qualità, mentre resta sfuggente in quale filone letterario si collochi. Ricerca teologica o elevazione mistica? Esprimo questo dilemma per restare negli ambiti più nobili. Perché è difficile scrollarsi di dosso l’impressione prima, che cioè l’autore cavalchi quella che ormai è la moda imposta da Dan Brown e dal suo Codice da Vinci. Sembra cioè che non si possa scrivere di Gesù se non si tiran fuori i suoi supposti rapporti con la Maddalena, di diritto o di rovescio.

La materia sconfina nello psicologismo da una parte e nell’esoterico dall’altra, se non altro perché l’autore si presenta come studioso di testi poco noti, del cristianesimo antico, ma non canonici.

La difficoltà è forse accresciuta dall’essere l’autore di confessione ortodossa, erede perciò di un mondo e di una teologia di cui il semplice lettore italiano non possiede grandi punti di riferimento.

Il tema è effettivamente affascinante, ma chi lo tratta non rifugge da luoghi comuni, accusando il cristianesimo di opposizione storica a mai superata alla gaia gioia di vivere, incarnata invece non si sa bene da chi e da che cosa.

Più che lo svolgimento, risulta interessante il tema: la sacralità della sessualità nella storia cristiana.

Ma forse pure in questa espressione c’è già una parola di troppo: sacralità. Il Cristo dei Vangeli in certo modo è un dissacratore, non ama sacralizzare nulla. La sessualità nella visione cristiana ha un ruolo e una funzione altissima eppure laicissima: vissuta tra due sposi diventa il segno dell’amore fecondo, indissolubile e assolutamente fedele di Dio per l’umanità sua sposa. Non sarebbe male conoscere qualche altro testo di questo autore, per inquadrarlo meglio.

 

 

L'autocoscienza di Gesù

Giovanni Marchesi, articolista per Civiltà Cattolica e docente di cristologia presso l'Università Gregoriana, studioso del teologo Hans Urs von Balthasar è autore dell'importante saggio GESU' DI NAZARETH CHI SEI? LINEAMENTI DI CRISTOLOGIA. San Paolo, Cinisello Balsamo.

Spero che il libro possa risultare utile e stimolante a molti giovani in ricerca del senso della vita, ai laici cristiani e a "coloro che credonono di non credere", agli studenti delle facoltà teologiche e e degli Istituti di scienze religiose. Molte parti dell'opera si prestano oltre che allo studio, anche alla meditazione e alla riflessione spirituale, e di conseguenza sono in grado di alimentare la preghiera.

Padre Marchesi avrebbe potuto dare al suo libro il titolo: Gesù sapeva di essere Dio? La risposta a questa domanda necessita di un'indagine a due livelli, quello della coscienza implicita o vissuta e quello della coscienza esplicita o riflessa. Non a caso gli studiosi parlano da tempo di una cristologia implicita, che si esprime soprattutto nelle parole e nella prassi del Gesù terreno, e di una cristologia esplicita che ricorre ai titolo cristologici e alle profonde riflessioni di alcune pagine del Nuovo Testamento, in particolare del Quarto Vangelo.

Le due cristologie sono entrambe essenziali e in sostanziale continuità fra di loro. Bene ha fatto Marchesi a insistere sulla cristologia implicita la quale, oltre a offrire la base di quella esplicita, consente di inserire il vissuti di Gesù nella Cristologia, evitando l'aridità che caratterizzava alcuni manuali scolatici del passato.

L'intenzione ha sempre a che fare con la coscienza dell'uomo e quindi la sua ricerca è di capitale importanza anche per scoprire la coscienza di Gesù. Tale coscienza di essere Dio emerge in maniera inequivocabile nella singolare autorità (in greco: EXOUSIA) con la quale Gesù parlava e agiva. Marchesi stigmatizza la posizione del teologo E. Schillebeeckx che non tiene sufficientemente conto della coscienza filiale di Gesù che emerge dalla pretesa di essere lui stesso la parola del Padre e l'agire di Dio in mezzo agli uomini. Basti pensare all'annuncio centrale di Gesù riguardante il regno di Dio da cui traspare che Gesù stesso è il regno di Dio. Si pensi soprattutto allo specialissimo rapporto di Gesù con Dio Padre, espresso nella preghiera con l'appellativo di 'Abbà', e all'obbedienza filiale verso il Padre fino alla morte in croce.

L'individuazione della coscienza di Gesù esige inoltre che si prendano in esame gli 'eventi e le parole' di Gesù, a cominciare dai suoi miracoli, dal suo rapporto con lo Spirito Santo e dal significato che Gesù attribuì alla sua morte. Ma non si può neppure trascurare la formazione graduale della Chiesa, l'istituzione dell'eucarustua e soprattutto la risurrezione di Gesù dai morti. Tutte queste considerazioni trovano postonei 14 capitoli del volume.

Il libro dovrebbe trovare buona accoglienza anche tra i non credenti, interessati almeno sotto l'aspetto storico e culturale alla 'storia più bella che mai sia stata raccontata', quella appunto di Geù di Nazareth.

 

 

Jack Miles, Gesù. Una crisi nella vita di Dio, Garzanti 2003

 

Con un altro volume (Dio. Una biografia), il californiano Miles ha vinto il premio Pulitzer. Ora viene tradotto questo poderoso testo che si propone di leggere il Nuovo Testamento e l'intera Sacra Scrittura come opera letteraria, oltre ogni metodo storico-critico, come un'opera di immaginazione, che va ammirata per la sua consistenza artistica, come il rosone di una cattedrale. A fronte di questa dichiarazione d'intenti, però, Miles segue come canovaccio prevalentemente il vangelo di Giovanni, ignorando i Sinottici e la complessività del Nuovo Testamento.

Ma al di là del metodo, quello che fa maggiormente problema nella lettura di Miles è la disinvoltura linguistica con cui maneggia i contenuti, parlando abbondantemente di mito, di pentimenti di Dio, di adattamenti divini dell'antica alleanza, per cui Dio sarebbe passato da guerriero a pacifista, fino a indicare in Gesù l'elemento principale della crisi divina attraverso la non-condanna dell'adultera, l'accettazione del suicidio (del Figlio di Dio) e l'accettazione della schiavitù del popolo eletto. Nondimeno, proprio per l'originalità dell'approccio, Miles riesce a dare delle forti suggestioni sulla novità che rappresenta Gesù di Nazaret nella storia religiosa di Israele.

 

 

GESU' AL GETSEMANI

De Tristitia Christi

Autore: TOMMASO MORO (s.)

Altri autori: PEZZINI DOMENICO curatore

Edizione: 1

Anno di pubblicazione: 2000

Luogo di pubblicazione: MILANO

Collana: LETTURE CRISTIANE II MILLENNIO

Destinatario: TUTTI

Casa editrice: PAOLINE

 

E' l'ultima opera scritta da Tommaso Moro, mentre si trovava in carcere, in attesa dell'esecuzione capitale, prima che gli venisse tolta la possibilità di scrivere e l'opera si conclude significativamente nel punto in cui i soldati mettono le mani addosso a Gesù.

Si tratta di una lunga riflessione che lo statista inglese scrive in uno stile che va dalla meditazione, all'esortazione, all'ironia, all'enfasi oratoria, alla lucidità argomentativa, se sono in gioco questioni teologiche. Profondità del contenuto ed eleganza della forma documentano la statura culturale e spirituale di un grande personaggio che ha segnato l'Inghilterra del 1500 e che tutt'ora di grande attualità. Volume curato da D. Pezzini.

 

 

BIOGRAFIE
Murphy-O’Connor propone la versione «narrativa» delle sue monumentali ricerche sull’Apostolo e sui suoi viaggi per il Mediterraneo

San Paolo in carne e ossa

Di Gianfranco Ravasi

«Il vero cristianesimo, che durerà eternamente, viene dai Vangeli, non dalle epistole di Paolo. Gli scritti di Paolo sono stati, in verità, un pericolo e uno scoglio; sono stati la causa dei principali difetti della teologia cristiana. Paolo è il padre del sottile Agostino, dell'arido Tommaso d'Aquino, del tetro calvinista, del bisbetico giansenista. Gesù è, invece, il padre di tutti coloro che cercano nei sogni dell'ideale il riposo delle loro anime». Forse non lo diranno così enfaticamente come faceva Ernest Renan nel suo Saint Paul (1869), ma sono in molti a pensarla ancora in questo modo. Ben venga, allora, un libro come quello di Jerome Murphy-O'Connor, uno degli attuali maggiori studiosi dell'Apostolo, che basandosi su una sua precedente poderosa Vita di Paolo, tradotta in italiano da Paideia nel 2003, propone ora a una più vasta cerchia di lettori un ritratto del grande protagonista della Chiesa delle origini.

Definire il genere di quest'opera è facile se si ricorre al sottotitolo dell'originale inglese, ove si parla di una story. Come è noto, il termine significa, certo, anche "storia" ma non nel senso più tecnico di history, bensì in quello più generico di racconto, di ricostruzione narrativa di un personaggio o di un evento. Intendiamoci bene: questo approccio potrebbe implicitamente condurre verso un altro genere apparentato ma nettamente differente, quello del romanzo storico. Ebbene, l'autore, che è docente nella prestigiosa École Biblique di Gerusalemme, è molto attento nell'evitare questa deriva, pur distanziandosi dal saggio accademico, quale era la sua precedente biografia paolina.

Proprio perché siamo davanti a un ritratto, il profilo di Paolo risultante è vivo e diretto, non meramente ancorato al documento e alle fonti, tra le quali Murphy-O'Connor a ragione colloca in primo piano le Lettere. Sì, perché questi scritti paolini, con buona pace della "vulgata" codificata da Renan, non sono solo testi ad alta densità teorica, sono anche specchi di sentimenti e tensioni personali e hanno in filigrana l'evocazione di dati e fatti. In particolare essi riflettono il dinamismo missionario che è stata quasi l'egida dell'esistenza dell'Apostolo. Si pensi che in questo libro si ricostruiscono almeno quarantadue itinerari seguiti da Paolo, partendo da quello che condusse i suoi genitori da Giscala, il loro paese galileo, a Tarso, capitale della Cilicia, ove egli nacque quando i suoi genitori erano ormai liberti e quindi in grado di trasmettergli la cittadinanza romana.

Questa trama comprende anche ricostruzioni ipotetiche, come quella del viaggio in Spagna, programmato in Romani 15, 24, ma del quale non si hanno altre attestazioni. Tuttavia la rete dei percorsi non è disegnata come in una mappa topografica, bensì in una documentata e avvincente narrazione, resa possibile non attraverso la fantasia dell'autore che racconta "in soggettiva" (come si usa dire nel linguaggio televisivo), cadendo così nel romanzo storico, bensì dando reviviscenza a tutto ciò che è attestato a livello storico e culturale. Infatti, noi sappiamo, ad esempio, dalle testimonianze letterarie antiche come si svolgeva allora un viaggio per terra o in navigazione, come si trascorreva una notte in locanda, come si snodava la vita quotidiana, mentre l'archeologia ci permette di ricomporre il profilo di una città antica (si pensi solo al fascino che ancor oggi produce Efeso coi suoi monumenti rimessi in luce).

È per questo che Murphy-O'Connor tiene davanti a sé il Barrington Atlas of the Greek and Roman World, pubblicato nel 2000 dall'università americana di Princeton: là c'è la possibilità di seguire le strade romane, si possono calcolare le distanze reali di allora tra l'una e l'altra meta, c'è dunque lo schema esteriore di un'esistenza che aveva, però, un turgore interiore la cui ricomposizione è possibile solo attraverso il ritorno a quelle Lettere da cui si deve sempre partire e, naturalmente, anche a quel racconto degli Atti degli apostoli, il secondo scritto lucano da vagliare con finezza critica. Dodici sono le tappe dell'itinerario biografico e interiore proposto in quest'opera, dai primi anni e dalla conversione fino all'addio nei confronti dell'Oriente e l'avvio a Roma per quell'ultimo periodo, destinato a sfociare nella sentenza capitale, un dato da ricostruire fuori del perimetro documentario neotestamentario e che il nostro autore colloca nel 67 (sempre secondo la sua ricerca, Paolo avrebbe avuto allora 73 anni).

Naturalmente sono molti i dati offerti in questo ritratto biografico attraente: un esempio per tutti, l'assegnazione della Seconda Lettera a Timoteo al tempo della prigione romana e quindi alle soglie della morte dell'Apostolo. I fondali sono campiti con pennellate vivaci, eppure nessun tratto è frutto di mera fantasia. Il cuore e la mente di Paolo appaiono in azione e si intuiscono pure i motori segreti che li fanno agire, ossia Cristo col suo messaggio ma anche la teologia biblica e giudaica. Si compie, così, il progetto di questo esegeta che ha voluto - come egli stesso confessa - dare carne e vita a quel volto, proprio perché cadano gli equivoci sulla sua figura ed essa torni a parlare all'uomo di oggi. Un po' come aveva sognato di fare Pasolini con la sua sceneggiatura incompiuta per il film San Paolo, mai realizzato. La sua idea, infatti, era quella di trasporre la vicenda dell'Apostolo ai nostri giorni, sostituendo le antiche capitali del potere e della cultura con New York, Londra, Parigi, Roma, la Germania, perché - scriveva - «Paolo è qui, oggi, tra noi con la semplice forza del suo messaggio».

Jerome Murphy-O'Connor

PAOLO

San Paolo. Pagine 319.

 

GESU'

Pagine scelte

Autore: JOHN HENRY NEWMAN

Altri autori: GIOVANNI VELOCCI curatore

Edizione: 1

Anno di pubblicazione: 1992

Luogo di pubblicazione: MILANO

Collana: LETTURE CRISTIANE II MILLENNIO

Destinatario: TUTTI

Casa editrice: PAOLINE

Antologia di sermoni di John Henry Newman, uno dei più grandi pensatori cristiani, universalmente riconosciuto come precursore del Concilio Vaticano II. Il lettore è accompagnato nella rivisitazione dei misteri della vita di Gesù, meditati con cuore appassionato e trasmessi con un linguaggio convincente per la semplicità e il realismo.

Le sue intuizioni mistiche, fondate su una profonda conoscenza della Scrittura e della Tradizione, si uniscono a una geniale comprensione della realtà, frutto di una acuta analisi psicologica e di una raffinata percezione morale: parole che ancora affascinano per la straordinaria attualità. A cura di G. Velocci.

 

 

Il vangelo secondo Pilatodi Eric-Emmanuel Schmitt (San Paolo 2002)

E' introdotto da un prologo intitolato Confessioni di un condannato a morte la sera del suo arresto.

Nella tenebra del Getsemani Gesù ripercorre il suo cammino esistenziale segnato dalla progressiva presa di coscienza della propria missione: la dimensione ‘divina’ si fa strada con la fine dell'infanzia quando, nel gioco ‘a rialzo', cade incontrando il rischio della morte; si fa strada attraverso le ‘mille domande’ poste al maestro della scuola rabbinica e attraverso la ribellione alla Legge, quando essa segna pesantemente il destino di persone inermi, donne soprattutto; attraverso tanti incontri, come quello con Giovanni, il battezzatore e, soprattutto, con la discesa in se stesso, ‘nel pozzo’, la ‘caduta nel cuore del cuore della terra’, coMe gli accade per la prima volta nel deserto. Lì, in fondo a quel deserto, non trova se stesso ma Dio, in una esperienza che ribalta completamente la sua visione del mondo.

La seconda parte ha la forma del romanzo epistolare che racconta, sostanzialmente, di un'inchiesta po­liziesca. Scomparso il cadavere di Jeshua inizia una ricerca che si svolge nei labirinti delle viuzze di Gerusalemme e dintorni, e insieme nei meandri della coscienza di Pilato. Protagonista di questa specie di th­riller storico-religioso è il romano pragmatico, dotato di buon senso e realismo, nutrito della razionalità del pensiero greco. Se il cadavere è scomparso, qualcuno deve averlo rubato: bisogna scoprire immediatamente chi e perché, prima che si alimentino strane leggende. Qualcuno, per prime voci di donne segnate dalla follia o dalla passione, lo annuncia risorto e vivo e Pilato pensa immediatamente a qualche suo sosia. Il ‘sosia’, l'apostolo Giovanni che assomiglia sempre di più a Jeshua, perfino nel fisico, è arrestato e imprigionato, ma le ‘apparizioni’ continuano: Gesù è vivo. Se è vivo, procede con logica ferrea Pilato, significa che non era morto...

Alla fine, scartata ogni ipotesi razionale e alle prese con il mistero insolubile della scomparsa e riappari­zione del Nazareno, spinto anche dall'appassionato amore per la moglie Claudia che si dichiara cristiana, si mette anch'egli in viaggio per raggiungere la Galilea, dove il ‘risorto' ha dato appuntamento ai suoi. Per la strada incontra tanta gente che, in modi molto diversi, lo ha ‘visto’; morti costoro, pensa, finirà anche la fede in quel presunto figlio di Dio.

Io dunque non sarò mai cristiano, Claudia. Perché non ho visto niente, tutto mi è sfuggito, sono arrivato troppo tardi. Se volessi credere, dovrei in pri­mo luogo credere alla testimonianza degli altri.

Allora sei forse tu, Pilato, il primo cristiano?

Marco Ballarini

 

RATZINGER letto da MARTINI.

1.

Dal Corriere della sera del 22 maggio 2007

Ieri, a Parigi, l’arcivescovo emerito di Milano ha offerto una sua analisi del libro del Papa «Ammiro il Gesù di Ratzinger, ma non è l’unico»

Martini: «Una lettura alla luce di Fede e Ragione, che si oppone al metodo storico- critico»

Cercherò di rispondere a cinque domande: 1. Chi è l’autore di questo libro? 2. Qual è l’argomento di cui parla? 3. Quali sono le sue fonti? 4. Qual è il suo metodo? 5. Che giudizio dare sul libro nel suo insieme?

1. L’autore di questo libro è Joseph Ratzinger, che è stato professore di teologia cattolica in varie Università tedesche a partire dagli anni Cinquanta e, in questa veste, ha seguito l’evolversi e le diverse vicissitudini della ricerca storica su Gesù; ricerca che si è sviluppata anche presso i cattolici nella seconda metà del secolo scorso. L’autore ora è Vescovo di Roma e Papa con il nome di Benedetto XVI. Qui si pone già una possibile questione: è il libro di un professore tedesco e di un cristiano convinto, oppure è il libro di un Papa, con il conseguente rilievo del suo magistero? In verità, per quanto riguarda l’essenziale della domanda, è l’autore stesso nella prefazione a rispondere con franchezza: «Non ho bisogno di dire espressamente che questo libro non è in alcun modo un atto magisteriale, ma è unicamente espressione della mia ricerca personale del "volto del Signore". Perciò, ciascuno è libero di contraddirmi. Chiedo soltanto alle lettrici e ai lettori di farmi credito della benevolenza senza la quale non c’è comprensione possibile» (p.19). Siamo pronti a fare questo credito di benevolenza, ma pensiamo che non sarà facile per un cattolico contraddire ciò che è scritto in questo libro. Comunque, tenterò di considerarlo con uno spirito di libertà. Tanto più che l’autore non è esegeta, ma teologo, e sebbene si muova agilmente nella letteratura esegetica del suo tempo, non ha fatto studi di prima mano per esempio sul testo critico del Nuovo Testamento. Infatti, non cita quasi mai le possibili varianti dei testi, né entra nel dibattito circa il valore dei manoscritti, accettando su questo punto le conclusioni che la maggior parte degli esegeti ritengono valide.

2. Di cosa parla? Il libro ha come titolo Gesù di Nazaret. Penso che il vero titolo dovrebbe essere Gesù di Nazaret ieri e oggi. E questo perché l’autore passa con facilità dalla considerazione dei fatti che riguardano Gesù all’importanza di quest’ultimo per i secoli seguenti e per la nostra Chiesa. Il libro è pieno di allusioni a problematiche contemporanee. Per esempio, parlando della tentazione nella quale dal demonio viene offerto a Gesù il dominio del mondo, egli afferma che il «suo vero contenuto diventa visibile quando constatiamo che, nella storia, essa prende continuamente una forma nuova. L’Impero cristiano ha cercato molto presto di trasformare la fede in un fattore politico per l’unità dell’Impero… La debolezza della fede, la debolezza terrena di Gesù Cristo doveva essere sostenuta dal potere politico e militare. Nel corso dei secoli questa tentazione—assicurare la fede mediante il potere—si è ripresentata continuamente» (p. 59). Questo genere di considerazioni sulla storia successiva a Gesù e sull’attualità, conferiscono al libro un’ampiezza e un sapore che altri libri su Gesù, in genere più preoccupati dalla discussione meticolosa dei soli eventi della sua vita, non hanno. L’autore dà anche volentieri parola ai Padri della Chiesa e ai teologi antichi. Per esempio, per quanto concerne la parola greca epiousios, egli cita Origene, il quale dice che, nella lingua greca, «questo termine non esiste in altri testi e che è stato creato dagli Evangelisti» (p. 177).

Circa l’interpretazione della domanda del Padre Nostro «E non indurci in tentazione», egli richiama l’interpretazione di San Cipriano e precisa: «Così dobbiamo riporre nelle mani di Dio i nostri timori, le nostre speranze, le nostre risoluzioni, poiché il demonio non può tentarci se Dio non gliene dà il potere» (p. 187). Quanto alla storia di Gesù, il libro è incompleto, perché considera solo gli eventi che vanno dal Battesimo alla Trasfigurazione. Il resto sarà materia di un secondo volume. In questo primo volume sono trattati il Battesimo, le tentazioni, i discorsi, i discepoli, le grandi immagini di San Giovanni, la professione di fede di Pietro e la Trasfigurazione, con una conclusione sulle affermazioni di Gesù su se stesso. L’autore parte spesso da un testo o da un evento della vita di Gesù per interrogarsi sul suo significato per le generazioni future e per la nostra generazione. In questo modo il libro diventa una meditazione sulla figura storica di Gesù e sulle conseguenze del suo avvento per il tempo presente. Egli mostra che, senza la realtà di Gesù, fatta di carne e di sangue, «il cristianesimo diviene una semplice dottrina, un semplice moralismo e una questione dell’intelletto, ma gli mancano la carne e il sangue» (p. 270). L’autore si preoccupa molto di ancorare la fede cristiana alle sue radici ebraiche. Gesù, ci dice Mosè, «è il profeta pari a me che Dio susciterà… a lui darete ascolto» (Deuteronomio, 18,15) (p. 22). Ora, Mosé aveva incontrato il Signore.EIsraele può sperare in un nuovo Mosè, che incontrerà Dio come un amico incontra il proprio amico,ma al quale non sarà detto, come a Mosè, «Tu non potrai vedere il mio volto» (Esodo, 33,20). Gli sarà dato di «vedere realmente e direttamente il volto di Dio e di potere così parlare a partire da questa visione» (p. 25). E’ quel che dice il prologo del Vangelo di Giovanni: «Dio, nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Giovanni 1,18). «E’ qui il punto a partire dal quale è possibile comprendere la figura di Gesù» (p. 26). E’ in questo reciproco intrecciarsi di conoscenze storiche e di conoscenze di fede, dove ognuno di questi approcci mantiene la propria dignità e la propria libertà, senza mescolanza e senza confusione, che si riconosce il metodo proprio dell’autore, di cui parleremo più avanti.

3. Quali sono le sue fonti? L’autore non ne tratta direttamente, come spesso avviene in diverse opere dello stesso genere. Forse ne parlerà all’inizio del secondo volume, prima di affrontare i Vangeli dell’infanzia di Gesù. Ma si vede con chiarezza che egli segue da vicino il testo dei quattro Vangeli e gli scritti canonici del Nuovo Testamento. Egli propone anche una lunga discussione sul valore storico del Vangelo di Giovanni, respingendo l’interpretazione di Rudolf Bultmann, accettando in parte quella di Martin Hengel e criticando anche quella di alcuni autori cattolici, per poi esporre una propria sintesi, vicina alla tesi di Hengel, sebbene con un equilibrio e un ordine diversi. La conclusione è che il quarto Vangelo «non fornisce semplicemente una sorta di trascrizione stenografica delle parole e delle attività di Gesù, ma, in virtù della comprensione nata dal ricordo, ci accompagna, al di là dell’aspetto esteriore, fin nella profondità delle parole e degli eventi; in quella profondità che viene da Dio e che conduce verso Dio» (p. 261). Penso che non tutti si riconosceranno nella sua descrizione dell’autore del quarto Vangelo quando egli dice: «Lo stato attuale della ricerca ci consente perfettamente di vedere in Giovanni, il figlio di Zebedeo, il testimone che risponde con solennità della propria testimonianza oculare identificandosi anche come il vero autore del Vangelo» (p.252). 

 

4. Tutto questo rivela con chiarezza il metodo dell’opera. Si oppone fermamente a quello che recentemente è stato chiamato, in particolare nelle opere del mondoanglosassone americano, «l’imperialismo del metodo storico-critico». Egli riconosce che tale metodo è importante, tuttavia corre il rischio di frantumare il testo come sezionandolo, rendendo così incomprensibili i fatti ai quali il testo si riferisce. Egli piuttosto si propone di leggere i vari testi rapportandoli all’insieme della Scrittura. In questo modo, si scopre «che esiste una direzione in tale insieme, che il Vecchio e ilNuovo Testamento non possono essere dissociati. Certo, l’ermeneutica cristologica, che vede in Gesù Cristo la chiave dell’insieme e, partendo da lui, comprende la Bibbia come un’unità, presuppone un atto di fede, e non può derivare dal puro metodo storico. Ma questo atto di fede è intrinsecamente portatore di ragione, di una ragione storica: permette di vedere l’unità interna della Scrittura e, attraverso questa, di acquisire una comprensione nuova delle diverse fasi del suo percorso, senza togliere ad esse la loro originalità storica» (p. 14). Ho fatto questa lunga citazione per mostrare come, nel pensiero dell’autore, ragione e fede siano implicate e «reciprocamente intrecciate», ciascuna con i suoi diritti e il proprio statuto, senza confusione né cattiva intenzione dell’una verso l’altra. Egli rifiuta la contrapposizione tra fede e storia, convinto che il Gesù dei Vangeli sia una figura storica e che la fede della Chiesa non possa fare a meno di una certa base storica.

Ciò significa, in pratica, che l’autore, come dice egli stesso a pagina 17, «ha fiducia nei Vangeli», pur integrando quanto l’esegesi moderna ci dice. E da tutto questo scaturisce un Gesù reale, un «Gesù storico» nel senso proprio del termine. La sua figura «è molto più logica e storicamente comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni» (p. 17). L’autore è convinto che «è soltanto se qualcosa di straordinario si è verificato, se la figura e le parole di Gesù hanno superato radicalmente tutte le speranze e tutte le attese dell’epoca che si spiega la sua crocifissione e la sua efficacia», e questo alla fine porta i suoi discepoli a riconoscergli il nome che il profeta Isaia e tutta la tradizione biblica avevano riservato solo a Dio (cf. pp.17-18). Applicando questo metodo alla lettura delle parole e dei discorsi di Gesù, che comprende parecchi capitoli del libro, l’autore rivela di essere persuaso «che il tema più profondo della predicazione di Gesù era il suo proprio mistero, il mistero del Figlio, nel quale Dio è presente e nel quale egli adempie la sua parola» (p. 212). Questo è vero per il Sermone della montagna in particolare, a cui sono dedicati due capitoli, per il messaggio delle parabole e per le altre grandi parole di Gesù. Come dice l’autore affrontando la questione giovannea, cioè il valore storico del Vangelo di Giovanni e soprattutto delle parole che egli fa dire a Gesù, così diverse dai Vangeli sinottici, il mistero dell’unione di Gesù con il Padre è sempre presente e determina l’insieme, pur restando nascosto sotto la sua umanità (cf. p. 245). In conclusione, bisogna «che noi leggiamo la Bibbia, e in particolare i Vangeli come unità e totalità —come richiesto dalla natura stessa della parola scritta di Dio — che, in tutti i suoi strati storici, è l’espressione di un messaggio intrinsecamente coerente» (p. 215).

5. Se tale è il metodo di lettura dell’autore, cosa dobbiamo pensare della riuscita globale dell’opera, al di là del numero di copie vendute nel mondo intero, che tutto sommato non è un indice particolarmente significativo del valore del libro? L’autore confessa che questo libro «è il risultato di un lungo cammino interiore» (p. 19). Se pure ha cominciato a lavorarvi durante l’estate 2003, il libro è tuttavia il frutto maturo di una meditazione e di uno studio che hanno occupato un’intera vita. Ne ha tratto la conseguenza che «Gesù non è un mito, che è un uomo di carne e di sangue, una presenza tutta reale nella storia. Noi possiamo seguire le strade che ha preso. Possiamo udire le sue parole grazie ai testimoni. E’ morto ed è risuscitato ». Questa opera è quindi una grande e ardente testimonianza su Gesù di Nazareth e sul suo significato per la storia dell’umanità e per la percezione della vera figura di Dio. E’ sempre confortante leggere testimonianze come questa. A mio avviso, il libro è bellissimo, si legge con una certa facilità e ci fa capire meglio Gesù Figlio di Dio e al tempo stesso la grande fede dell’autore. Ma esso non si limita al solo dato intellettuale. Ci indica la via dell’amore di Dio e del prossimo, come quando spiega la parabola del buon Samaritano: «Ci accorgiamo che tutti noi abbiamo bisogno dell’amore salvifico che Dio ci dona, al fine di essere anche noi capaci di amare, e che abbiamo bisogno di Dio, che si fa nostro prossimo, per riuscire ad essere il prossimo di tutti gli altri» (p. 226). Pensavo anch’io, verso la fine della mia vita, di scrivere un libro su Gesù come conclusione dei lavori che ho svolto sui testi del Nuovo Testamento. Ora, mi sembra che questa opera di Joseph Ratzinger corrisponda ai miei desideri e alle mie attese, e sono molto contento che lo abbia scritto. Auguro a molti la gioia che ho provato io nel leggerlo.


(traduzione dal francese di Daniela Maggioni)

Carlo Maria Martini

2.

«Il cardinale declassa il libro a pura meditazione spirituale»

Dopo la lettura di Carlo Maria Martini a Parigi, si apre la discussione sul testo del Papa. Fede e ricerca: confronto sul Gesù di Ratzinger…

di Vittorio Messori, Corriere della sera, 25 maggio 2007

Carlo Maria Martini merita sempre un ascolto attento. Naturalmente, nella consapevolezza che in lui vive un grande interprete della tradizione della Compagnia di Gesù. Per i figli di sant'Ignazio, nulla è univoco («numquam nega, raro adfirma», recita un loro motto), la doverosa strategia cattolica dell'et et — mai dell'aut aut — può spingersi sino all'ambiguità. Nel senso, ovviamente, più nobile.

Così, il lettore non smaliziato può equivocare, leggendo gli elogi finali di Martini al testo su Gesù scritto da Benedetto XVI, ma come professor Joseph Ratzinger: «A mio avviso, il libro è bellissimo, si legge con una certa facilità e ci fa capire meglio Gesù Figlio di Dio e al tempo stesso la grande fede dell'autore». Così il già metropolita di Milano, apparentemente entusiasta. Ma chi abbia orecchio esercitato si allarma a quel riferimento alla «fede dell'autore». Allarme che già era suonato, deciso, nella frase che immediatamente precede: «Quest'opera è una grande e ardente testimonianza su Gesù di Nazareth e sul suo significato per la storia dell'umanità». Con, inoltre, un'aggiunta dal suono edificante ma nella quale un malizioso potrebbe scorgere un sorriso: «È sempre confortante leggere testimonianze come questa».

In effetti, la recensione di Martini — letta nella sede dell'Unesco, alla presenza dei rappresentanti della smagata e diffidente Conferenza episcopale di Francia — sembra costruita per traslocare il libro di Ratzinger dallo scaffale della esegesi biblica a quello dei testi di spiritualità, di riflessione edificante, di testimonianza personale. 

Il cardinale, già illustre docente di critica neotestamentaria al Pontificio istituto biblico, ricorda subito che Ratzinger «non è biblista ma teologo e, sebbene si muova agilmente nella letteratura esegetica del suo tempo, non ha fatto studi di prima mano, per esempio sul testo critico del Nuovo Testamento».

Quasi un profano, per giunta non aggiornato, fermo alla esegesi non «del nostro» ma «del suo tempo»: di quando, cioè, trent'anni fa, il teologo bavarese teneva cattedra. In effetti, il professor Martini addita subito alcuni errori, equivoci o conclusioni che uno specialista come lui non può condividere, come l'attribuzione del quarto vangelo a Giovanni di Zebedeo. Non, dunque, questo di Ratzinger, un libro «scientifico», in grado di confrontarsi con il metodo storico-critico che pure vorrebbe ridimensionare, bensì un testo di pastorale e di apologetica, «una meditazione sulla figura di Gesù e sulle conseguenze del suo avvento per il tempo presente». Un declassamento soave, elegante e al contempo drastico che non contrasta con le righe finali martiniane: «Pensavo anch'io, verso la fine della mia vita, di scrivere un libro su Gesù (...) Ora, mi sembra che quest'opera di Joseph Ratzinger corrisponda ai miei desideri e alle mie attese e sono molto contento che lo abbia scritto...» Parole che vanno lette alla luce di quelle dove si ricorda l'avvertimento di Ratzinger che qui si propone come studioso e non come Papa. D'accordo, osserva Martini, «ma pensiamo che non sia facile per un cattolico contraddire ciò che è scritto in queste pagine». Dunque, come fare, se si è cardinali, seppure ritirati a Gerusalemme, a proporre un libro con una lettura ben diversa dei rapporti tra il Gesù della storia e il Cristo della fede? Meglio soprassedere, almeno per ora: anche la lunga pazienza è una virtù ignaziana.

3.

PARIGI

Alla sede dell’Unesco il cardinale Martini presenta il libro del Papa: non solo un esame dei Vangeli che sconfessa «l’imperialismo del metodo storico critico», ma una «riflessione sulle conseguenze della incarnazione per il presente». E alla fine l’arcivescovo rivela: anch’io volevo scrivere un saggio su Cristo

Un «Gesù» molto attuale di Carlo Maria card. Martini

«È confortante leggere testimonianze così. Il testo è molto bello e ci fa comprendere meglio sia il Figlio di Dio sia la grande fede dell’autore»

da Parigi Daniele Zappalà. Avvenire 24 maggio 07

In mezz'ora, la lettera «Q» apre 5 volte tutti i capitoli di un denso discorso. Ma in quest'occasione, per il cardinale esegeta, non si tratta di confrontarsi col mistero della fonte originaria dei testi evangelici. «Quelle» non sta per «fonte» in tedesco, ma per «quale» in francese: «Qual è il suo metodo?», si chiede infatti Carlo Maria Martini davanti a un uditorio che parla francese ma travalica l'Europa. E ancora: «Quali sono le sue fonti?». E naturalmente: «Qual è il soggetto di cui si parla?». E alla fine, davanti a un pubblico rapito: «Quale giudizio dare sul libro nel suo insieme?». E invece, per introdurre l'intero discorso con una domanda solo in apparenza retorica: «Chi è l'autore di questo libro?». Il Gesù di Nazaret di Benedetto XVI avrebbe ben potuto prendere il titolo di «Gesù di Nazaret ieri e oggi», ha sostenuto ieri mattina all'inizio della sua esposizione all'Unesco l'arcivescovo emerito di Milano. E non si tratta solo del trampolino argomentativo scelto da Martini per illustrare la «bellezza» dell'ultimo libro del Papa.

Pare anche, a un altro livello, l'incipit appena velato di una spiegazione più emotiva e interiore. La spiegazione del viaggio da Gerusalemme a Parigi di un lettore d'eccezione che vuole divulgare, in quella «casa della cultura universale» che è proprio l'Unesco, le proprie intime riflessioni a proposito di «una grande ed ardente testimonianza su Gesù di Nazaret e sul suo significato per la storia dell'umanità e per la percezione della vera figura di Dio». All'inizio, il lettore Martini inforca per qualche istante le lenti dell'esegeta. E con queste lenti esigenti sostiene ad esempio di non trovare sufficientemente chiara nel Gesù di Nazaret la presentazione del passaggio 32,8 del Deuteronomio. Segue la citazione di alcuni refusi di stampa o di certe rese di traduzione dall'originale tedesco lievemente ambigue che il vigilissimo lettore ha subito localizzato. Fra l'altro, sostiene il cardinale, la frequenza di questi nei è maggiore nell'edizione italiana rispetto a quella francese che viene pubblicata oggi da Flammarion. Ma la dotta ouverture lascia presto il passo alle soglie di livelli di lettura ancor più profondi. Osservando che «il libro è pieno di allusioni alle questioni contemporanee» - come quelle sulla relazione fra fede e potere politico -, Martini sostiene che «questo genere di considerazioni sulla storia posteriore a Gesù e sull'attualità conferisce al libro un'ampiezza e un sapore che altri libri su Gesù, preoccupati dalla discussione meticolosa dei soli eventi della sua vita, non hanno».

Per questa via, argomenta il cardinale, Gesù di Nazaret «diventa una meditazione sulla figura storica di Gesù e sulle conseguenze del suo avvento per il tempo presente». Dopo aver osservato che il Papa è «molto preoccupato di ancorare la fede cristiana nelle sue radici ebraiche», il presule vede proprio nella fede una componente centrale del «metodo» scelto da Joseph Ratzinger per avvicinarsi alla figura di Cristo: «È in questa sovrapposizione di conoscenze storiche e di conoscenze di fede, dove ciascuno di questi approcci mantiene la sua dignità e la sua libertà, senza mescolanza né confusione, che si trova il metodo proprio dell'autore». Poco dopo, Martini precisa ulteriormente la sua analisi osservando che Benedetto XVI «si propone di leggere i diversi testi rapportandoli alla totalità della Scrittura», ponendosi così a distanza rispetto a ciò che soprattutto nel mondo anglosassone viene descritto come «l'imperialismo del metodo storico-critico». Secondo la lettura dell'arcivescovo, dunque, il Papa «rifiuta la contraddizione fra fede e storia, convinto che il Gesù dei Vangeli è una figura storicamente sensata e coerente e che la fede della Chiesa non può fare a meno di una certa base storica». Fede e ricerca storica non confliggono ma si completano.

E questo metodo, osserva ancora Martini, è pienamente coerente con la convinzione del Papa della centralità del mistero di Cristo nelle Sacre Scritture. Brevemente introdotto alla tribuna da monsignor André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi, e affiancato anche da Joseph Doré, arcivescovo emerito di Strasburgo, il cardinale Martini riserva per la conclusione i suoi apprezzamenti di lettore più calorosi: «È sempre confortante leggere testimonianze come questa. A mio parere, il libro è molto bello, si legge con una certa facilità e ci fa meglio comprendere al contempo Gesù figlio di Dio e la grande fede dell'autore». Prima di congedarsi fra gli applausi, il cardinale rivela di aver concepito di recente egli stesso il progetto di «un libro su Gesù». Ma il lavoro di esegesi sui più antichi manoscritti integrali delle Sacre Scritture ha poi preso il sopravvento: «Mi sembra che questo libro di Joseph Ratzinger corrisponda ai miei desideri e alle mie aspettative e sono molto felice che sia stato scritto». Alla fine, pare quasi di dover cogliere le 5 «Q» di Martini già nella trasparente semplicità del loro abito grafico. Cinque cerchi concentrici - 5 pozzi interpretativi - dentro cui si insinua una pista, un cammino. Cinque varchi profondi e discreti per calarsi nello spessore delle pagine di un autore divenuto, in corso d'opera, successore di Pietro.

4.  card. VANHOYE

Il biblista cardinal Vanhoye appoggia la posizione del Papa sul metodo storico-critico: «L’interpretazione dei Vangeli non è soltanto scienza»

Esegesi: non è detta l'ultima Parola

«La ricerca ha fatto progressi, ha inventato nuovi sistemi, ma la Sacra Scrittura resta un messaggio divino»

da Illegio (Ud) Francesco Dal Mas. Avvenire 12 giugno 2007

«Vogliamo sapere chi era Gesù? Le indagini condotte con metodo storico critico non danno risposte esaurienti». Non ha dubbi il cardinal Albert Vanhoye, uno fra i biblisti più illustri ed autorevoli: «È un metodo utile, in tempi come i nostri, perché la scienza storica ha fatto molti progressi, ha inventato nuovi sistemi, quindi l'esegesi si deve adattare a tali nuovi livelli. Ma...».

«Ma - aggiunge lo studioso -, come fa ben capire il Papa, questo è soltanto un approccio secondario con la Bibbia. Che è e resta un messaggio divino: di fede, di speranza e di amore. Discutere sui dettagli della storicità è utile. Difficilmente, però, si arriva a conclusioni precise, salde…». Dove si arriva, invece? «Soltanto a congetture. Ma, nelle condizioni attuali della scienza, si tratta di una prospettiva abituale».

Vanhoye, già rettore del Pontificio Istituto Biblico e già segretario della Pontificia Commissione Biblica, definito «un grande esegeta» da Benedetto XVI, è salito domenica ad Illegio, sulle montagne della Carnia friulana, per riflettere su «La santità dei redenti e il cantico nuovo nell'Apocalisse», nell'ambito della mostra internazionale dedicata - appunto - all'Apocalisse. Un appuntamento che sta muovendo migliaia di fedeli, ma anche di ricercatori, spinti a riscoprire quanto di meglio offrono le interpretazioni dell'Apocalisse.

Ed è appunto sulla lettura più opportuna dei testi sacri che, prima del convegno, il cardinale si sofferma con gli organizzatori. Gli si chiede del libro di Ratzinger Gesù di Nazaret, ovviamente, e dei rilievi anche critici che ha ricevuto. La conversazione si appunta sul metodo storico critico nell'esegesi. E Vanhoye non perde occasione di precisare: «Le conclusioni di questo tipo di ricerca non possono essere degli assoluti, da sole non sono in grado di ricostruire tutta la verità contenuta nella Sacra Scrittura e che era intenzione degli autori trasmettere; ci vuole l'integrazione con altri tipi d'approccio».

Ricorda, il cardinale, quando Ratzinger volò negli Usa - allora era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede - per una conferenza durante la quale prese le distanze da alcuni fondatori del metodo storico, osservando che determinati presupposti «ideologici» compromettevano la correttezza della ricerca stessa. Vanhoye va con la memoria anche ai lavori della Commissione pontificia sull'interpretazione della Sacra Scrittura nella vita della Chiesa: «Ratzinger non intervenne direttamente sulla valutazione del metodo storico, ma nella prefazione del documento conclusivo ribadì chiaramente che su questa materia il dibattito non poteva ritenersi affatto completato. Qualche riserva, insomma, ce l'aveva. Il che non significa fissare limiti alla libertà di ricerca».

Il biblista riconosce infatti che l'indagine storica può dare «risultati buoni ed accettabili». Ma - raccomanda - è uno strumento che va utilizzato con molto acume. E Gesù di Nazaret? Sono in molti, ad Illegio, a chiedere giudizi, negli intervalli tra la visita alla mostra, il convegno sul canto dell'Apocalisse (in una cornice musicale offerta dalle corali della valle), i solenni vespri nella tipica melodia illegiana, la processione del Corpus Domini fra le strette strade del paese cosparse di petali di rosa.

«Il libro - risponde infine il porporato - dimostra che il cardinale Ratzinger seguiva le opere degli esegeti, manifestava pertanto una profonda conoscenza delle questioni in campo. E, nel contempo, esprime una posizione precisa contro un'esegesi troppo strettamente scientifica». Anzi - riprende Vanhoye - «un'esegesi scientificamente arida. E proprio per questo il Santo Padre non vuole che il metodo storico-critico sia riconosciuto come quello esclusivamente valido. Si tratta di un metodo necessario in tempi come i nostri, ma bisogna completarlo con una modalità diversa di accogliere il messaggio della Bibbia».

Anche gli illegiani sanno che il loro ospite è molto stimato da Benedetto XVI. E cercano di strappare altri particolari sul libro. «Il Papa ha espresso l'intenzione di completare la sua opera, dove non si parla - per esempio - né dei Vangeli dell'infanzia, né della Passione. Si tratta evidentemente di una prima parte, che è importante ma ha necessità di un compimento». Gli appunti critici arrivati da alcune parti le sembrano fondati? «No, questo è un lavoro serio - risponde senza esitazione il biblista -, è la ricerca di un uomo di grande fede, che conosce i metodi scientifici, ma che non vuole esserne schiavo. Va veramente a contatto col Signore, attraverso la Parola di Dio».

«Ribadisco, non dev'essere un approccio aridamente scientifico. Il Papa ci dà un esempio corretto di come leggere ed interpretare i testi sacri. Ci dice, appunto, che bisogna leggere la Bibbia con fede, e non soltanto con preoccupazioni di storicità. La Parola di Dio non ha bisogno di essere minuziosamente dettagliata. Bisogna, insomma, andare al suo cuore più profondo, che è un messaggio religioso essenziale. La Bibbia non è un libro di storia, non è nemmeno un libro di filosofia, ma una testimonianza di fede. E, quindi, una guida per la fede».

Ma il libro del papa è per specialisti? Il cardinale riprende fiato: «Gesù di Nazaret presuppone, ovviamente, lettori con un minimo di cultura religiosa. Ma è evidente il beneficio che deriva dalla sua lettura. Come ha detto anche il cardinale Martini, è un libro scientificamente serio e, allo stesso tempo, una grande testimonianza di fede».

Ratzinger: “Vi racconto Gesù”

 

1.

Venerdì 13 aprile 07 in Vaticano la presentazione con Schonborn, Garrone e Cacciari. Avvenire 5 aprile 07

«Gesù di Nazareth», il libro di Papa Ratzinger sarà presentato il 13 aprile nell'Aula del Sinodo in Vaticano dal cardinale Christoph Schonborn, arcivescovo di Vienna, dal professor Daniele Garrone, decano della Facoltà Valdese di Teologia di Roma e dal professor Massimo Cacciari, ordinario di estetica all'università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Coordinerà padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa della Santa Sede. Pubblicato con la firma «Joseph Ratzinger - Benedetto XVI», il volume «Gesù di Nazareth» sarà in vendita nelle librerie da lunedì 16 nelle edizioni italiana (Rizzoli), tedesca (Herder) e polacca (Wydawnictwo M).

Dalla prefazione che il Papa ha scritto per questo volume, emerge chiaramente che il Gesù della fede e dei Vangeli non è altra cosa dal Gesù storico.

Fin dalle prime battute il Papa mette, in campo l'argomento fondamentale del libro: liberare l'orizzonte dai rischi di rendere Gesù una figura mitica, considerandolo solamente un prodotto della fede che ha costruito un'immagine della sua divinità per sopperire alle scarse notizie che abbiamo di lui. «Questa impressione - scrive - è penetrata profondamente nella coscienza comune della cristianità. Una simile situazione è drammatica per la fede perché rende incerto il suo autentico punto di riferimento: l'intima amicizia con Gesù, da cui tutto dipende, minaccia di annaspare nel vuoto». Di questo ritorno alla storicità di Cristo, alla sua concretezza, testimonia fin dall'inizio il titolo, che non evoca un'immagine di Gesù fuori dal tempo e dallo spazio, bensì quella di una persona la cui storicità è sottolineata dal luogo di nascita: Nazareth.

2.

Ricostruzione della lunga preparazione a questo testo

di Elio Guerriero. Avvenire 5 aprile 07

 

1. Ratzinger, Gesù di Nazaret.

I miei quattro ‘maestri’ dell’esegesi

di Elio Guerriero.  Avvenire 14 aprile 07

«Al libro su Gesù, di cui ora presento al pubblico la prima parte, sono giunto dopo un lungo cammino interiore». Così Benedetto XVI nella premessa a Gesù Nazaret. A meglio delineare questo percorso presento quattro incontri che, come suggerisce il Papa, sono stati altrettante pietre miliari nel suo cammino verso Gesù.

IL TEOLOGO

Romano Guardini

Nato a Verona nel 1885, ma formatosi e vissuto in Germania, Guardini fu libero docente di Dogmatica cattolica a Bonn e Breslau, ricoprì dal 1923 la cattedra di Filosofia della religione e di Weltanschauung cattolica a Berlino, Tubinga e infine Monaco, dove morì nel 1968. Così scriveva il cardinale Ratzinger nell' «Introduzione allo Spirito della Liturgia»: «Una delle mie prime letture dopo l'inizio degli studi teologici, al principio del 1946, fu l'opera prima di Romano Guardini "Lo spirito della liturgia", un piccolo libro pubblicato nella Pasqua del 1918. Quest' opera contribuì in maniera decisiva a far sì che la liturgia, con la sua bellezza, la sua ricchezza nascosta e la sua grandezza che travalica il tempo, venisse nuovamente riscoperta come centro vitale della Chiesa e della vita cristiana».

Romano Guardini (1885-1968) divenne famoso in Germania nei decenni 1920-1930. Egli collaborò con forza al movimento liturgico, lo sottrasse ai circoli specialistici e lo fece diventare un fenomeno di popolo. Nella sua autobiografia il Papa racconta dello Schott, il messalino curato dall'abate del monastero benedettino di Beuron, che accompagnò la crescita della sua devozione. Guardini, inoltre, fu autore di una biografia di Gesù, Il Signore, importante tanto per la passione che riesce a trasmettere ai giovani, quanto per il metodo seguito. Il pensatore italo - tedesco obiettava di principio a un metodo incentrato precipuamente sull' analisi storica e psicologica per ricostruire la vita di Gesù.

Egli definisce, invece, pneumatico il modo corretto per accostarsi al Maestro e alla sua vita. Questo metodo accoglie, certo, tutte le altre conoscenze, ma lascia spazio alla libertà dello Spirito, alla libertà della fede. Diversamente, obietta Guardini, la Sacra Scrittura sarebbe a disposizione solo degli esperti e dei dotti. Inoltre la rivelazione non conosce i limiti di tempo, non è racchiusa nel tempo in cui il racconto evangelico venne pronunciato o scritto. In questo Guardini è vicino a Kierkegaard per il quale ogni cristiano è contemporaneo di Cristo. A differenza di Kierkegaard, tuttavia, questa contemporaneità non è opera del singolo, essa avviene invece per l'opera della Chiesa che nella liturgia e nei sacramenti offre ai fedeli la possibilità di incontrare Cristo in ogni tappa e momento della loro vita. Per Benedetto XVI la lezione di Guardini è all' origine della centralità dell'Eucarestia per avvicinarsi a Gesù.

IL ‘PADRE’

Henry de Lubac

Nato nel 1896, entrò giovanissimo nella Compagnia di Gesù, fu professore di teologia fondamentale nella Facoltà Teologica di  Lione e diresse l’importante collana intitolata ‘Sources chrétiennes’. I suoi scritti hanno avuto una grande influenza sui lavori del Concilio Vaticano II. Centrale nel suo pensiero è l’attenzione alla Tradizione, in particolare ai Padri della Chiesa. Tornare alle fonti potrebbe essere uno slogan che riassume il suo intento e nelle fonti della tradizione patristica egli riscoprì soprattutto la centralità del soprannaturale , la chiesa come mistero di unità, la bibbia come vivente ricchezza di significati simbolici raccordati al Verbo incarnato. Nel 1972, insieme a Hans Urs von Balthasar, Joseph Ratzinger e altri grandi teologi, dette inizio alla rivista di teologia ‘Communio’. E’ morto nel 1991.

Un' altra pietra miliare nel viaggio del Papa è rappresentata dall'incontro con il gesuita francese Henri de Lubac. Negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale lo studioso francese aveva fondato la collezione Sources Chrétiennes e aveva dato avvio a un movimento di riscoperta del pensiero e

del sentire dei Padri della Chiesa. Insieme con Gaston Fessard, Henri Bouillard, Jean Daniélou e Hans Urs von Balthasar, de Lubac si rivolgeva ai Padri per restituire all'uomo il desiderio di Dio, l'ansia di

entrare in comunione con lui nella libertà dello spirito e nella gratuità dell' amore. A de Lubac Ratzinger approdò alla fine degli anni '40, lavorando al tema del suo dottorato, Popolo e casa di Dio nell'insegnamento di sant'Agostino sulla Chiesa. Ad approfondire l'argomento, lesse Cattolicismo di de Lubac, nella traduzione tedesca di Hans Urs von Balthasar: «Questo libro è divenuto per me una lettura di riferimento. Esso non solo mi trasmise un nuovo e più profondo rapporto con il pensiero dei Padri, ma anche un nuovo e più profondo sguardo sulla teologia e sulla fede in generale» (Autobiografia). Nel 1950 de Lubac pubblicò un volume, Storia e Spirito, dedicato alla ricostruzione del pensiero di Origene. In esso vi figura un capitolo dedicato al rapporto tra i testamenti che è decisivo per la comprensione di Gesù di Nazaret di Benedetto XVI. Scriveva de Lubac: «C'è un solo Dio, autore dell'uno e dell'altro Testamento, fedele a se stesso attraverso l'uno e l'altro, e l'uno e l'altro, a loro modo, manifestano la stessa azione di questo Dio: essi annunciano la stessa salvezza. Per ogni cristiano il primo Testamento contiene già misteriosamente Cristo e, inoltre, si comprende solo per mezzo di lui».

Un assioma che si può verificare quasi in ogni pagina di Gesù di Nazaret.

IL BIBLISTA

Rudolf Schnackenburg

Nato nel 1914, ordinato sacerdote nel 1937, è stato uno dei più importanti docenti di esegesi neotestamentaria del '900. Docente all'università di Monaco, venne nominato ordinario di esegesi del Nuovo Testamento presso l'università di Bamberga. Infine dal 1957 al 1982 fu professore all'università di

Wurzburg. Negli ultimi anni della sua vita fu assistente spirituale della Comunità di Sant'Egidio. E’ morto nel 2002. La sua opera più famosa è il Commento in 4 volumi al Vangelo di Giovanni. Tra i suoi libri tradotti in italiano: «La chiesa del Nuovo Testamento: realtà, interpretazione teologica, essenza e mistero» (Morcelliana, 1966), «La nascita di Cristo»  (Queriniana, 1981).

Un terzo autore con il quale il Papa intesse un fitto dialogo nella Premessa metodologica al volume ci avvicina decisamente al nostro tempo. E’ Rudolf Schnackenburg che il Papa stesso definisce il più noto esegeta cattolico del secolo ventesimo. Dapprima docente all'università di Monaco, venne poi nominato ordinario di esegesi del Nuovo Testamento presso l'università di Bamberga. Infine dal 1957 al 1982 fu professore all'uhiversità di Wiirzburg. La sua opera più famosa è il Commento in 4 volumi al Vangelo di Giovanni. Dopo quest' opera di una erudizione imponente, tutto sommato deluso dai risultati del metodo storico critico tentò di avvicinarsi alla persona di Gesù partendo dalla fede degli evangelisti. Scrive a conclusione di La Persona di Gesù Cristo nei quattro Vangeli: «mediante gli sforzi della ricerca coi metodi storico-critici non si riesce, o si riesce solo in misura insufficiente, a raggiungere una visione affidabile de!la figura storica di Gesù di Nazaret...». E’ certo, invece, che la persona di Gesù non è comprensibile se non sulla base del suo riferimento a Dio e della sua unione a lui. Conclude affermando che le immagini evangeliche di Gesù «vogliono per così dire rivestire di carne il misterioso figlio di Dio apparso sulla terra. Il Papa prende al volo quest'ultima affermazione per ribattere: «esse non avevano bisogno di rivestirlo di carne, egli infatti si era veramente incarnato». Di conseguenza, al di là degli sforzi lodevoli di Schnackenburg, il Papa è convinto che si possa scrivere una vera biografia di Gesù, a partire dalla sua comunione con il Padre, che è il vero centro della sua persona.

IL RABBINO

Jacob Neusner

Nato nel 1932 a Hartfourd, nel Connecticut, Neusner è considerato il più importante studioso del giudaismo dei primi secoli dell'era cristiana. Così scriveva il cardinale Ratzinger del suo «Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù» (Piemme 1996): «La mia impressione è che questo sia di gran lunga il saggio più importante per il dialogo ebraico­-cristiano, fra quelli pubblicati nell'ultimo decennio. La precisione dell'analisi, il rispetto per l'altra parte unito ad una ben radicata lealtà verso la propria posizione, caratterizzano il libro e lo rendono una sfida, specialmente per i cristiani, che dovranno riflettere bene sul contrasto tra Mosé e Gesù».

L'ultimo compagno del Papa nel viaggio verso Gesù è il più sorprendente. Si tratta del rabbino ortodosso nordamericano Jacob Neusner. Professore alla Columbia University, Neusner è membro dell'Institute for Advanced Study a Princeton e membro a vita del Clare Hall di Cambridge. Conosciuto per la sua prolificità (gli vengono attribuiti più di 900 volumi), è soprattutto ritenuto l'inventore di un metodo che «decostruisce» la convinzione secondo cui il Giudaismo rabbinico è un movimento religioso unitario, all'interno del quale sono stati prodotti i singoli testi rabbinici. Al contrario Neusner considera ogni documento rabbinico anzitutto come un prodotto singolo, frutto della formazione e dell' originalità dell' autore.

Per quanto riguarda il dialogo con i cristiani, egli è autore di un libro su Gesù. Disputa  immaginaria tra un rabbino e  Gesù, sinceramente lodato dal pontefice. In quest' opera il rabbino nordamericano, che ha colleghi cristiani ed ha rispetto per loro, superando la barriera del tempo, immagina di unirsi per qualche tempo ai discepoli per ascoltare con loro il giovane rabbino Gesù.

In particolare egli assiste al Discorso della Montagna. Dopo questo confronto, tuttavia, decide di non seguire il Maestro di Nazaret perché ha l'impressione che egli lo inviti a trasgredire tre comandamenti: quello del rispetto del sabato, quello dell' onore per i genitori e la famiglia, quello della santificazione (Lv 19). Il Papa prende molto sul serio le obiezioni di Neusner e vi risponde con attenzione: Gesù non infrange il comandamento del sabato, che viene ripreso nella domenica cristiana quando si festeggia sia il riposo di Dio alla creazione, sia l'agire storico salvifico nella redenzione; egli non sovverte l'ordinamento basato sull'appartenenza familiare, bensì estende questa a tutti i popoli e a tutti gli uomini. Da ultimo è vero che Gesù si presenta e opera come Figlio di Dio. Di fronte a questa pretesa, Neusner sceglie di tornare sui suoi passi e il Papa sembra salutarlo con lo sguardo di rammarico di Gesù verso il giovane ricco. La risposta di Benedetto e di ogni cristiano è, invece, quella della confessione di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».

Gesù di Nazaret di Benedetto XVI è un libro ricco e impegnativo, vario e appassionante come le biografie che il Papa dice di aver letto da giovane, di loro ben più profondo. I quattro incontri appena ricordati, permettono di icostruire l'atteggiamento spirituale in cui Gesù di Nazaret è stato scritto.

2.

Gesù di Nazaret e la storia

 

Intervista di Paolo Viana alla storica Marta Sordi.

Avvenire 26.aprile 07

Si potrebbe dire che da de­cenni si confronta con Gesù, ma solo per caso. Nel senso che l'interesse scientifico di Marta Sordi, una delle massime stu­diose di storia romana, si concentra proprio su quell'età imperiale all'inizio della quale si svolse la vicenda storica di Cristo, ma non su di Lui. Leggere il Gesù di Nazaret di Benedetto XVI per lei significa confrontarsi con un metodo, oltre che con un'epoca, una persona e una fede. In quest'intervista analizza la via seguita da Ratzinger per descriverli.

Il libro del Papa, nel sancire l'unità tra due profili spesso alternativi nell'esegesi, cioè il Cristo della storia e quello della fede, mette sotto esame il metodo storico-critico. Quali sono i suoi limiti?

«Ratzinger non nega il metodo storico-critico ma ne individua effettivamente limiti e rischi, che nascono, come scrive il Papa, dalle distinzioni sempre più sottili di tradizioni stratificate e dal­la trasformazioni di ipotesi in verità indiscutibili. Il metodo storico-critico applicato ai Vangeli è nato tra il XIX e il XX secolo nell'ambito di una storiografia impostata sull’ipercritica. Quest'ap­proccio però è stato superato, al­meno in parte, dalla storiografia recente.

Studiando il mondo greco e romano coevo ai Vangeli, non ci si è accontentati più delle fonti letterarie, ricorrendo anche a quelle numismatiche, papirologiche, epigrafiche, ecc. Quanto quest'evoluzione sia stata proficua lo dimostrano vari esempi: Valerio Publicola, personaggio chiave nel passaggio tra la monarchia e la repubblica romana, è rimasto avvolto nella leggenda finché non fu trovata un'epigrafe che permise di riscriverne la storia. Ebbene, molti esegeti, anche attuali, non hanno seguito que­st' evoluzione e sembrano aver perduto ogni contatto con le fonti. Essi continuano a costruire le loro interpretazioni sulle ipotesi dei loro predecessori, stratificazioni che per loro diventano dei dogmi!».

Quindi lo strappo tra il Cristo della storia e quello della fede che Ratzinger ‘ricuce’ non è il figlio del metodo storico-critico ma rappresenta la Sua degenerazione.

«Esattamente. E questo vale anche per la scoperta e l'applicazione dei Generi letterari alla Bibbia. Così, se è stato fondamentale, per comprendere l'Antico Testamento, riconoscere il carattere sapienziale e non storico di libri come quelli di Giobbe e di Giona, un'acquisizione che dobbiamo precisamente al metodo storico-critico, è devastante quando si pretende di applicare ai Vangeli un genere letterario differente da quello storico o storico-biografico».

Come capiamo che i Vangeli appartengono al genere storico?

«Dal prologo di Luca. Il suo Vangelo è uno dei sinottici, non un testo scollegato dagli altri, e utilizza un linguaggio e un' architettura tipici della storiografia scientifica di tipo tucidideo, con quel richiamo all’akribia, il senso critico, e all' autopsia, che esalta la testimonianza oculare dei fatti raccontati. Del resto, i Vangeli sono scritti in un' epoca critica, segnata dalla trasmissione scritta delle conoscenze, e quanto si tenesse a una testimonianza diretta degli eventi lo dimostra la scel­ta degli stessi Apostoli, che dopo l'Ascensione, scegliendo il dodicesimo di loro, individuano Mattia perché era stato testimone della vita di Gesù dal battesimo di Giovanni fino alla Resurrezione».

Qual è la personalità di Cristo che emerge dalla sintesi ratzingeriana?

«Il centro della personalità di Gesù - Benedetto XVI lo dice a più riprese - è il suo rapporto con Dio Padre. Devo aggiungere che la persona che emerge da quest'esegesi che "unifica" i due profili è molto più coerente e stori­camente attendibile di quella che ci propongono certuni esegeti, che vedono nel Cristo il rivoluzionario fallito o il mite moralista che tutto permette, come sottolinea anche l'autore. Su questa personalità di Gesù non avrei dubbi perché il Papa ci ritorna continuamente nel libro: dalla confessione di Pietro, al racconto della Trasfigurazione, sino al fa­moso "Io sono" con cui afferma l'identità col Padre».

Se non prometteva né rivoluzioni, né riforme, quale fu, per i contemporanei, la novità del messaggio cristiano?

«Ratzinger risponde: Gesù ha portato Dio. Rileggiamo il suo libro: non il pane, non la pace, né il benessere, o meglio tutto questo ma nel giusto ordine, che vede Dio al primo posto... Una novità che emerge dalle pagine sul­le tentazioni, sulla moltiplicazione dei pani e dei pesci, sull'istitu­zione dell'Eucaristia. Nel mondo pagano e soprattutto in quello romano, la grande novità del cristianesimo si spiega con l'attesa, particolarmente sentita nel pe­riodo augusteo, di una comunione tra il mondo degli uomini e quello degli dei. Catullo rimpiangeva l'età degli eroi perché allora gli dei camminavano in mezzo agli uomini e condividevano con loro nozze e mense. Virgilio rivela nella quarta egloga la stessa esigenza. Non dimentichiamo che nozze e mense sono simboli anche nella Rivelazione biblica. Individuano la comunione con Dio».

Questo significato può valere anche per i moderni?

«Anche noi abbiamo un immenso bisogno di comunione con Dio e l'angoscia di oggi non è molto diversa dal sentimento che pervadeva i romani negli anni delle guerre civili, quando, scrive Catullo, il fas e il nefas, il diritto divino e il suo rovesciamento, si mescolano e vige il totale disor­dine, gli dei si allontanano e la luce sul mondo si spegne...»

3.

Gesù di Nazaret. I pregiudizi del laico

di Gian Maria Vian. Avvenire 27 aprile 07

Papa Ratzinger lo ha messo nero su bianco: il suo Gesù di Nazaret (Rizzoli) può ovviamente essere criticato, ma ha bisogno di un «anticipo di simpatia senza il quale non c’è alcuna comprensione».

E la prima ampia critica del libro, che viene pubblicata oggi su «Micromega» a firma del suo direttore Paolo Flores d'Arcais, conferma quanto ha scritto Benedetto XVI. Il lungo testo infatti è del tutto privo di quell' atteggiamento necessario alla conoscenza di qualsiasi realtà e anzi dimostra un pregiudizio ­nel senso etimologico di giudizio a priori - che finisce per trascurare il libro del papa e impedisce di capirlo.

 

Il saggio del filosofo italiano, intitolato Gesù e Ratzinger tra storia e teologia, è molto lungo e tuttavia avverte di essere «un provvisorio e parziale (anzi parzialissimo) insieme di appunti» che sarà sviluppato in un libro, annunciato per l'autunno. In effetti il testo si presenta come una raccolta di osservazioni ricavate da una bibliografia «soprattutto anglosassone» (molto lacunosa) - sulla questione del Gesù storico e sul suo rapporto con la tradizione cristiana. Osservazioni che intendono criticare a fondo il Ratzinger dell' Introduzione al cristianesimo (il commento al Credo apostolico che già nel 1968 ebbe in Germania un clamoroso successo) e del recentissimo libro su Gesù.

In realtà la critica di Flores d'Arcais non «smentisce e demolisce in modo analitico e dettagliatissimo le pretese di Papa Ratzinger) - come recita con enfasi pubblicitaria il sommario del saggio - ma si contrappone soprattutto alle affermazioni generali di Ratzinger affastellando, senza troppo ordine e con una certa approssimazione, argomenti risaputi, come per esempio quello della pluralità dei cristianesimi: fenomeno ben noto agli storici e che non contraddice per nulla l'argomentare di Benedetto XVI, il quale ne è naturalmente al corrente, e dimostra anzi di avere uno sguardo molto più largo e aggiornato di quello degli autori utilizzati dal direttore di «Micromega». Basti ricordare l'attenzione di Ratzinger, puntuale e rigorosamente storica, rivolta all'importanza di tutto il giudaismo ellenistico e degli scritti di Qumran oppure al rapporto fra la tradizione giovannea e quelle sinottiche.

Poco persuasiva storicamente è poi la considerazione indistinta delle diverse correnti del cristianesimo primitivo - da quelle giudeo-cristiane ai sistemi gnostici - e, per quanto riguarda la formazione del corpus neotestamentario, il prescindere completamente sul piano storico dalla prospettiva "canonica" che il Gesù di Benedetto XVI invece valorizza. E ancora, per quanto riguarda il contesto ebraico e il rapporto con l'ebraismo attuale, appare meno anacronistico il confronto di Ratzinger con Jacob Neusner rispetto all'utilizzazione che Flores d'Arcais fa di Geza Vennes, altro autorevole studioso ebreo.

Per essere davvero stringente (ed eventualmente convincente) la critica del filosofo a Ratzinger dovrebbe insomma confrontarsi sul Gesù storico - e sui punti trattati nel Gesù di Nazaret, tutti trascurati a eccezione della discussione sul termine abbà ­tenendo conto del dibattito scientifico maturato nell'ultimo ventennio, cioè almeno sfogliando le opere di Raymond E. Brown, John P. Meier, K1aus Berger (tradotte dalla Queriniana) e di James D. G. Dunn (Paideia).

Il tono pregiudiziale di Flores d'Arcais scivola poi in un livore accusatorio ben sintetizzato dalla chiusa del lungo articolo pubblicato su «Micromega», che citiamo per esteso proprio per dar prova del tono generale con cui ­l'autore conduce le sue critiche: 

 

«Questo suo libro - conclude Flores d'Arcais - si iscrive dunque in quella vera e propria crociata di ‘Riconquista’ con cui la chiesa gerarchica di Papa Ratzinger non vuole più limitarsi a criticare con veemenza le conquiste della modernità (fragilissime, mai coerentemente sviluppate e oggi più che mai a repentaglio), cioè l'«etsi Deus non daretur» che pone fine alle guerre di religione, l'autonomia dell'uomo, il kantiano «sapere aude!», la lezione darwiniana che vanifica ogni finalismo e ci rende ‘sovrani’, ma punta a colonizzare nuovamente le società, a realizzare un nuovo ‘costantinismo’ sulle macerie di ogni vestigia del Concilio Vaticano II, ad imporre come ‘legge naturale’ i propri dogmi morali e come reati penali ciò che considera ’peccati mortali’, dopo aver rovesciato con interpretazioni oscurantiste tutti i valori critici dell'illuminismo, per sequestrarli e annetterseli».

Che dire? Bisogna soltanto sperare che Flores d'Arcais riveda questo «insieme di appunti» ed eviti nel suo prossimo libro l'immancabile e gratuita accusa di oscurantismo fideista che su «Micromega» rivolge al Gesù di Benedetto XVI. Che nella prospettiva di fede va al di là del metodo storico, ma certo non ne prescinde. Proprio come la fede non prescinde dalla ragione.

4.

Gesù di Nazaret: Ratzinger sfida l’esegesi

 

Intervista di Giorgio Bernardelli al biblista Rinaldo Fabris.

Avvenire 8 maggio 2007

Uno sguardo suiVangeli non appiattito su un unico registro. E con la convinzione che chiudere gli occhi su ciò che agli occhi dei propri contemporanei ha reso la sua figura unica, non è cercare davvero il Gesù della storia. È con questo sguardo che Rinaldo Fabris, presiqente dell’Associazione biblica italiana, invita ad affrontare le pagine di Gesù di Nazaret, il libro di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI. Un volume che, da biblista, invita a considera­re all'interno di un dibattito che viene da lontano.

«Il rapporto tra il Gesù della storia e il Cristo della fede è un tema teologico centrale già da due secoli - commenta -. Oggi, però, se escludiamo le posizioni più radicali (quelle per cui il cristianesimo è solo ideologia o una mera ricostruzione storiografica), nessuno in campo esegetico mette in dubbio che i Vangeli si fondino sull' evento storico di Gesù e sulla sua morte e risurrezione. Ma il nodo che solleva Ratzinger è un altro: la ricerca storiografica - chiede - si deve comunque fermare al dato minimale suffragato dalle diverse fonti o attraverso i Vangeli può provare ad addentrarsi nel mistero di questa persona? Questa seconda è la prospettiva che il libro propone».

Il Papa parla dei limiti del metodo storico-critico, che pure - riconosce - ha dato risultati importanti.

«Il problema è l'impossibilità di arrivare con questo metodo preso da solo a un'immagine a tutto tondo di Gesù, capace di fondare davvero la fede. Per lui invece leggere i Vangeli con onestà porta a scoprire che il Gesù storico è proprio il Cristo della fede. Perché nelle pa­role di Gesù si ritrova la consapevolezza di una relazione unica col Padre: si presenta come il profeta definitivo, Colui che porta a compimento la Torah. Del resto lo stesso Kasemann, allievo di Bultmann, parlava di un'autorità, di un'immediatezza nei rapporti con Dio, presente nella figura di Gesù e che non può essere spiegata se non ammettendo un'eccedenza che rimanda al mistero. In pratica ciò che Kasemann afferma per via dogmatica, Ratzinger lo presenta come un dato storico offertoci dalla Scrittura».

Ratzinger invita a ritrovare il Gesù storico non solo nei sinottici, ma anche nel Vangelo di Giovanni.

«Parecchi ricercatori oggi seguono questa linea: il quarto vangelo, infatti, contiene alcune informazioni riguardo alla geografia e alla storia, che lette nel contesto ebraico del tempo si rivelano molto puntuali e precise. Del resto la tesi di Bultmann, che nel suo commento al Vangelo di Giovanni nel 1941 attribuiva i discorsi di Gesù a una fonte gnostica, alla luce delle successive scoperte non è più sostenibile. E dunque si riscopre l'attendibilità di Giovanni. Anche se poi è interessante notare che il Papa, dopo la premessa sulla dimensione storica, si concentra sui simboli giovannei: il pane, l'acqua, il pastore... Presentato così il simbo­lo non contraddice la storia, ma coglie la sua dimensione profonda e dunque anche contemporanea. Rivela l’attualità del messaggio di Gesù».

Il Papa rilancia anche il metodo dell' «esegesi canonica». In che cosa consiste?

«Propone una lettura dei testi alla luce dell'intero canone biblico. E’ una reazione a un certo frammentarismo del metodo storico-critico: al suo concentrarsi solo sui livelli, sulle fonti...»

Che cosa si perde con questo frammentarismo?

«L’idea della Bibbia stessa come documento storico. Perché i suoi libri sono stati conservati, trasmessi, letti e interpretati non isolatamente, ma come un corpus. E dunque è necessaria questa lettura complessiva, che poi è quella del canone ebraico. A questo proposito anche il tema dell'unità tra Antico e Nuovo Testamento è molto importante nel libro. Non a caso il Papa inizia con una citazione del Deuteronomio e dei simboli giovannei offre la radice biblica. Ci rende comprensibile Gesù dentro la storia ebraica, perché il suo lin­guaggio, le sue immagini, sono quelle della Bibbia. Anche questo è un dato storico: non è dai libri a­pocrifi, ma dall'Esodo, dai Profeti, dai Salmi soprattutto, che Gesù trae il suo linguaggio sul Regno di Dio. sulla promessa riguardo alla vita futura, sul suo rapporto con Dio creatore».

Questa impostazione del libro, aiuterà anche il dialogo tra ebrei e cristiani?

«Già come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede Ratzinger aveva firmato il documento Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana, che sottolineava espressamente questa continuità. Tenendo però conto anche della differenza: non si può appiattire la figura Gesù dicendo che era solo un maestro ebreo illuminato o un profeta ma­linteso dall'autorità. Ratzinger lo colloca nella sua specificità sullo sfondo delle attese ebraiche. E ha l'abilità di introdurre anche le tesi di Jacob Neusner, questo rabbino molto ‘simpatizzante’ che non perde però la sua identità di ebreo. Questo è dialogo nel senso vero».

C'è una pagina del libro che l'ha colpita particolarmente?

«Ho già citato la rilettura dei simboli giovannei. Perché nel libro sì, c'è l'attenzione ai risultati, alla ri­cerca esegetica. Ma il Papa apre anche delle finestre che vanno al di là dei dibattiti teologici o cristologici. Pone la domanda chiave: che cosa ha portato di nuovo Gesù rispetto a ciò che era l'ebraismo o a ciò che avevano già detto le altre grandi esperienze religiose dell'umanità? È la questione della differenza, della novità cristiana, a lui tanto cara.

Con Gesù - è la sua risposta – è cambiata l'immagine di Dio e l'immagine dell'uomo. Ha portato l'immagine di Dio Padre dentro l'umanità. Questo, alla fine, è il cuore dei Vangeli».

 

Il primo «studio» di papa Ratzinger si presenta come un aiuto prezioso per conoscere la figura storica di Cristo e uno strumento per dare ragione della fede cristiana.

I contributi inviati al Forum online nel sito di Avvenire. 4 maggio 2007

1. «Gesù di Nazaret» un libro che conquista

AIUTA A NON «CONFORMARSI»

L'amante della Maddalena, il rivoluzionario che ha cercato invano di rovesciare il potere, il liberale generoso…. Non sono soltanto i romanzi alla stregua del Codice da Vinci a dipingere con questi tratti Gesù. Anche una certa saggistica - fino al recente "Perché non possiamo essere cristiani" di Odifreddi - pretende di eroderne ogni fondamento di storicità, collocandola in un orizzonte mitico che la rende evanescente. Per noi, che in questo contesto viviamo, il libro di Benedetto XVI è un dono. Il Papa sa l'atmosfera anonima che respiriamo, che rende "ridicola la fede" e spinge a "seguire il branco". Del resto, chi ancora "non lascia che il proprio cuore si indurisca di fronte al dolore e al bisogno dell'altro"; chi "supera in sé il male ricevuto" e impara "il prezzo del perdono"; chi esce dalla mentalità che spinge ognuno a vivere isolato in se stesso, per intuire invece "il profondo intreccio di tutte le nostre esistenze"… costui deve prepararsi a fare i conti con un mondo, che invece "esige che si partecipi" al ballo del Titanic e "non sopporta la resistenza di quanti non si conformano". La via alla vita, avverte il Papa aprendo pagine evangeliche, è quella dell'Uomo di Nazaret e di quanti ne hanno accolto la proposta, riassunta in quel grumo: "Seguimi". Sulle sue orme passa la novità della vita cristiana, "il vero sentiero di alta montagna", percorso dai semplici, dagli umili, da coloro che, senza stancarsi, "chiedono di Dio e cercano il suo volto".

Ivan Maffeis

LA PASSIONE PER SANT'AGOSTINO

È un testo che si inscrive nel pensiero teologico di Joseph Ratzinger derivato sicuramente dalla sua passione intellettuale per Sant'Agostino: ricercare la verità nella Bibbia e nell'anima dell'uomo e realizzare le tesi del pensiero filosofico nell'assunto scritturistico. Quello che colpisce è l'onestà e la chiarezza del pensiero del Papa che diventa pellegrino davanti alla Scrittura, consapevole che la ricerca filosofica con l'anelito all' eternità della metafisica trova appagamento solo nell'instaurazione del Regno di Dio inaugurato dalla tradizione giudaica, ma portato a compimento dalla Risurrezione di Gesù. Ci si chiede allora come non aderire con spirito e ragione all'evidenza del messaggio cristiano. Con la sua limpida esposizione, il Papa conferma la sua presa di posizione contro il nonsenso del relativismo etico e filosofico per dare spazio ed ampio respiro alla ragione illuminata dallo Spirito del Vangelo.

Omar Giacinto

OLTRE IL RELATIVISMO

Ancora una volta il Santo Padre propone al cuore e alla ragione il motivo per cui la nostra vita ha un senso: Gesù Cristo. La lettura del libro è un'"avventura" intellettuale e insieme una nuova riscoperta dell'immenso dono della fede. Ci fa sentire la gioia di una presenza: Gesù non è distante, non è un'astrazione o una filosofia consolatoria. È un avvenimento, è il centuplo quaggiù! È Cristo che affascina, che sconvolge: Benedetto XVI, con la sua tenerezza e sapienza, ha compiuto un altro prodigio e di questo gli siamo grati.

Maurizio Rizzolo

UN 'REGALO' PER L'ALBANIA

Torno da cinque giorni in Albania. A Scutari la gente è spesso povera, ma ha fede. In cattedrale ho visto le foto di 39 sacerdoti e un pope uccisi durante la persecuzione. La gente, molti i giovani, prima di uscire appoggia le mani al muro, qualcuno lo bacia, fa il segno di croce e si inginocchia. Gesù di Nazaret qui è vivo, morto e risorto. Perché l'essere cristiani è fatto anche di teologia, ma prima di tutto è passione, morte e risurrezione, vita eterna, gioia, fedeltà, carne, speranza nella fatica di vivere. Lo è per un'Italia dove fa tristezza veder portare a spasso più guinzagli che passeggini, o un'Albania con tanti bambini e scarse risorse per loro se non l'amore di famiglie unite. Sono stato in casa di musulmani, una di loro in ricerca delle «ragioni della fede». Ho trovato un bambino cattolico di 10 anni che conosce a menadito tutto il Vangelo. In casa evidentemente ne parlano. Al suo papà ho regalato il libro del Papa che avevo portato con me. Lo ricomprerò, ma Gesù è diventato proprio il centro della sua ininterrotta lettura.

Ruggero Sangalli

LA PAROLA LEGATA AI FATTI

Questo Papa mi sembra un principe della parola, ma una parola legata anche a dei fatti, a un modo di porsi, di dialogare, non una parola astratta che come tale è inutile. Forse quello che è incominciato da Lutero, la parola "libera" ma svincolata dalla realtà, può anche essere lentamente superato.

Annamaria Nobile

UN DIALOGO CON GESU' PRESENTE

Quello che mi colpisce e commuove è il coinvolgimento umano del Papa con Gesù. È da subito evidente che Benedetto XVI, pur svolgendo un'analisi di alto livello teologico, biblico, storico, culturale, non si fermi ad essa, perché Gesù non è l'oggetto di una riflessione, ma una presenza amica con cui il Papa cammina dentro la vita. Risulta così evidente che il libro che lui ha scritto non è un discorso su Gesù, bensì un dialogo con Gesù presente. Per questo mi affascina.

Gianni Mereghetti

UNA SANA LAICITA'

Questa lettura mi ha fatto riscoprire il gusto di dare fondamenta razionali alla mia fede. Nel suo richiamare all'essenza della fede in Cristo, risulta anche un grande testo di sana laicità. Richiamo per tutte una frase a pagina. 146: «Le forme giuridiche e sociali concrete, gli ordinamenti politici, non vengono più fissati letteralmente come diritto sacrale per tutti i tempi e quindi per tutti i popoli».

Alberto Tomat

INNAMORATO DI CRISTO

Grazie, Benedetto XVI, per questo "tuo" Gesù, che è il nostro. Leggere le pagine sul Battesimo di Gesù e scoprire tutti i legami della vita di Gesù fino alla Passione e Resurrezione è stato un momento molto bello. Ho trovato una sorgente spirituale profonda . È un libro scritto da un maestro ma anche da un innamorato di Cristo. Ratzinger non parla solo alla mente ma anche al cuore. Mi auguro che tante persone lo leggano, soprattutto coloro che hanno bisogno di scoprire la bellezza della storia della Salvezza. Leggiamolo e facciamolo conoscere.

Teresa Belgiojoso

IN ITALIA SI PENSA?

È lodevole lo sforzo di rendere plausibile una religione complicata come la nostra e offrire una guida alla presuntuosa autosufficienza che oggi ci soffoca. Ho notato che quasi tutti gli autori moderni citati sono tedeschi, qualche francese, qualche anglofono, gli italiani sono un paio... Mi sembra che da noi la religione sia diventata una questione politica a discapito di una franca discussione sulle sue finalità e forse questo non ci aiuta a renderci interessanti. In Germania, il Papa è anche primo, secondo Cicero, fra gli intellettuali germanofoni, e non ci sono secondi fini nei dibattiti sulla religione. Spero che il successo di questo libro riesca a renderci meno faziosi e meschini.

2. Un'opera che «chiama» la ragione e il cuore dell'uomo

Risponde alla curiosità, al desiderio di meditazione, alla volontà di confrontarsi con la ricerca contemporanea

Di Gian Maria Vian. Avvenire 4 maggio 2007

Ancora una volta Joseph Ratzinger, oggi vescovo di Roma con il nome di Benedetto XVI, ha scritto un libro che coinvolge tanto la ragione quanto il cuore. Così ha fatto altre volte con libri divenuti veri e propri best seller, sin dall'«Introduzione al cristianesimo» il cui successo nella Germania del 1968 (cinquantamila copie in pochi mesi) sorprese lo stesso autore. Che si conferma, tra l'altro, come uno scrittore che sa rivolgersi a un pubblico progressivamente sempre più largo. Ed è anche quello che il papa teologo e pastore sta dimostrando, da oltre due anni, con i suoi discorsi e le sue omelie, semplici e profonde. Che non hanno bisogno di tante citazioni perché Ratzinger è così imbevuto della grande tradizione cristiana e cattolica da averla fatta sua e da esserne parte viva: "un principe della parola" lo definisce a ragione Annamaria Nobile in uno dei tanti messaggi inviati ad Avvenire.

Sì, il «Gesù di Nazaret», prima parte di un dittico al cui completamento il Papa sta lavorando, è un libro riuscito. Che coglie nel segno perché risponde a un bisogno profondo, che va dalla curiosità al desiderio di meditazione, sino alla volontà di confrontarsi con i risultati della ricerca contemporanea. Lo testimoniano quanti hanno già letto il libro.

Molti ringraziano il Papa per il regalo che ha fatto ai lettori il giorno dei suoi ottant'anni - come ha sottolineato anche l'autorevole Frankfurter Allgemeine Zeitung - e in qualche modo richiamano il detto popolare "il santo fa le grazie". Nel senso che non di rado è il festeggiato a donare, magari offrendo un brindisi o un pranzo. In questo caso il libro su Gesù. "Grazie, Benedetto XVI, per questo 'tuo' Gesù, che è il nostro", scrive Teresa Belgiojoso cogliendo benissimo il coinvolgimento di Ratzinger e quello di chi con lui riscopre - o scopre per la prima volta - la figura di Cristo, che si rivela "una presenza amica con cui il Papa cammina dentro la vita", secondo le parole di Gianni Mereghetti.

Il libro affascina proprio perché è il racconto in prima persona dell'incontro con «una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte», per riprendere l'affermazione dell'enciclica Deus caritas est che tanto ha colpito per la sua semplice verità. Richiamando quella dimensione che corre per tutto il vangelo giovanneo, dove chi scopre in Gesù il Cristo chiama altri a incontrarlo e a vederlo: così fanno Andrea e Filippo, al quale alcuni greci chiederanno di "vedere Gesù". Anche il papa ascolta il desiderio del suo cuore e cerca il volto del Signore, come ripetono le parole del salmo che Ratzinger ha scelto per la quarta di copertina.

E questo ha colpito tanti lettori, al di là dell'autosufficienza di tanti intellettuali. Anche perché il libro non elude, ma affronta gli interrogativi dell'esegesi contemporanea: con questi Ratzinger "con grande riconoscenza" ha voluto e saputo confrontarsi. Pure di questo si mostrano consapevoli i lettori, grati di questa aria nuova e di riscoprire (come Alberto Tomat) che la fede non è contro la ragione. Un libro che si sta dunque rivelando un successo, certo. Ma soprattutto qualcosa di molto più importante.

 

1. Lo studioso ebreo citato nel «Gesù di Nazaret» di Ratzinger ha pubblicato un articolo sul «Jerusalem Post». Elogiando il Pontefice

RATZINGER Gesù di Nazaret   Il rabbino sta col Papa

Neusner: «Col suo libro le dispute ebraico-cristiane entrano in una nuova era. Possiamo incontrarci in un promettente esercizio di ragione e di critica» «Negli ultimi due secoli ci siamo parlati per fare riconciliazione sociale; ora finalmente si torna a confrontarsi sulla questione della verità»

di Giorgio Bernardelli. Avvenire 1 giugno 2007

«Benedetto XVI è un cercatore della verità. Quelli che stiamo vivendo sono tempi interessanti».

Parola di Jacob Neusner, il rabbino newyorkese ampiamente citato dal Papa nel suo libro Gesù di Nazaret. Parola resa ancora più significativa dall'uditorio ebraico cui è stata rivolta. Si tratta infatti del passaggio finale di un lungo articolo di Neusner pubblicato l'altro giorno sul quotidiano israeliano Jerusalem Post. Un testo in cui il rabbino ripercorre la storia dei suoi studi e il suo rapporto con Ratzinger. «Immaginate il mio stupore quanto mi è stato detto che una risposta cristiana al mio libro 'A Rabbi talks with Jesus' era contenuta nel capitolo quarto del libro di Benedetto XVI», scrive. Ma soprattutto l'articolo di Neusner è un invito a considerare il volume di Joseph Ratzinger come l'apertura di una pagina nuova nel rapporto tra ebrei e cristiani.

Prende le mosse da lontano, l'autore. «Nel Medio Evo - scrive - i rabbini erano costretti a impegnarsi, davanti a re e cardinali, in dispute con i sacerdoti su quale fosse la vera religione, l'ebraismo o il cristianesimo. Il risultato era scontato: i cristiani vincevano perché avevano la spada. Poi nell'era del secondo dopoguerra le dispute hanno lasciato il posto alla convinzione che le due religioni dicano la stessa cosa; le differenze sono state perciò ridotte a questioni secondarie. Ora invece è iniziato un nuovo tipo di disputa, nel quale è la verità delle due religioni a essere al centro del dibattito». È la prospettiva scelta da Neusner in 'A Rabbi Talks with Jesus', il suo libro pubblicato nel 1993 (in italiano 'Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù', Piemme 1996). «Negli ultimi due secoli il dialogo ebraico-cristiano è servito come un mezzo per politiche di riconciliazione sociale - spiega l'autore -, non è stato più un'indagine religiosa sulle convinzioni dell'altro. Il negoziato ha preso il posto del dibattito, e si è pensato che la pretesa di verità della propria religione violasse le regole di buona condotta. Nel mio libro invece ho preso sul serio l'affermazione di Gesù secondo cui in lui la Torah trova compimento e ho messo a confronto questa affermazione con gli insegnamenti di altri rabbini, in una sorta di colloquio tra maestri della Torah. Spiego in una maniera lucida e niente affatto apologetica perché, se fossi vissuto nella Terra di Israele del primo secolo e fossi stato presente al Discorso della Montagna, non mi sarei unito al gruppo dei discepoli di Gesù. Avrei detto no (anche se in maniera cortese) e sono sicuro di avere dalla mia parte solide ragioni e fatti».

È una prospettiva - precisa il rabbino - che non indebolisce il dialogo, ma all'opposto lo rafforza. «Per molto tempo - si legge ancora nell'articolo apparso sul Jerusalem Post - gli ebrei hanno lodato Gesù come rabbino, un ebreo veramente come noi; ma per la fede cristiana in Gesù Cristo questa affermazione è assolutamente irrilevante. D'altra parte i cristiani hanno lodato l'ebraismo come la religione da cui è venuto Gesù, ma per noi questo è difficilmente un vero complimento. Io - aggiunge ancora Neusner - sottolineo le scelte diverse che sia l'ebraismo sia il cristianesimo compiono davanti alle Scritture che condividono. I cristiani capiranno meglio il cristianesimo se saranno consapevoli delle scelte che hanno compiuto; e lo stesso vale anche per gli ebrei rispetto all'ebraismo. Voglio spiegare ai cristiani perché io credo all'ebraismo; e questo dovrebbe aiutare loro a identificare quali sono le convinzioni che invece li portano in chiesa ogni domenica».

Un compito sul quale ora Benedetto XVI rilancia. «Quando il mio editore mi chiese di consigliargli a quali colleghi chiedere di presentare il mio libro - scrive -, suggerii il rabbino capo Jonathan Sacks e il cardinale Joseph Ratzinger. Avevo ammirato gli scritti del cardinale Ratzinger sul Gesù della storia e gli avevo scritto per dirglielo. Lui mi aveva risposto e ci eravamo scambiati scritti e libri. La sua volontà di confrontarsi con la questione della verità e non solo con le politiche della dottrina, mi era sembrata coraggiosa e costruttiva. 

 

Ora però Sua Santità ha compiuto un passo ulteriore e ha risposto alla mia critica con un esercizio di esegesi e teologia. Col suo Gesù di Nazaret le dispute ebraico-cristiane entrano in una nuova era. Siamo in grado di incontrarci l'un l'altro in un promettente esercizio di ragione e critica. Le parole del Monte Sinai ci portano insieme a rinnovare una tradizione lunga duemila anni di dibattito teologico al servizio della verità di Dio».

2.

RIFLESSIONE

Nel libro «Gesù di Nazaret» di Benedetto XVI la proposta di una rinnovata amicizia fra ebrei e cristiani in nome dell'unico Dio

L'unica alleanza

Il dialogo a distanza con il rabbino americano Jacob Neusner, che si pone sinceramente la domanda sulla divinità di Cristo

di Elio Guerriero. Avvenire 29 maggio 2007

Le molte religioni e l'unica alleanza, l'uomo alla ricerca del sacro e la rivelazione di Dio, le vie molteplici delle religioni e Dio che si rivela al Sinai, anzi scende dal cielo per porre la sua tenda tra gli uomini. Sto parlando dell'introduzione a Gesù di Nazaret di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI che la critica ha finora passato sotto silenzio. In essa il Papa accenna alla via delle religioni che in Mesopotamia, in Egitto o nel mondo indoeuropeo hanno aiutato l'uomo a scoprire la sua dignità, sono state all'origine della formazione della società, della costruzione della polis.

All'apice di questo percorso, Dio si manifesta ad Abramo. Cominciava, allora, il tempo della Rivelazione. Come scrive Julien Ries: «Alla lunga ricerca dell'uomo, Dio risponde con la sua manifestazione». Da questo momento, ha inizio il cammino della promessa che, come la stella dei Magi, sostiene il viaggio delle generazioni: «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te… un profeta pari a me, a lui darete ascolto» (18,5). Il Nuovo Testamento, di conseguenza, si apre con l'annuncio che l'antica promessa si è avverata, che sul Nuovo Sinai, la Montagna delle beatitudini, siede ora il nuovo Mosè, che insegna non come un rabbi che arriva all'incarico dopo lunga preparazione, ma come l'inviato di Dio. Più di Mosè che vide Dio solo di spalle, egli può parlare del Padre, perché « Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio Unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18).

Questo permette al Papa di affermare che non solo vi è concordia tra Antico e Nuovo Testamento, ma che l'alleanza stretta al Sinai e quella proclamata da Gesù sul monte delle beatitudini è unica. Gesù è venuto per portare a compimento, a pienezza l'alleanza. Così hanno insegnato quei personaggi umili e grandi (il Magnificat) che hanno adempiuto la Legge e segnato il passaggio dall'Antico al Nuovo Testamento. Il Papa pensa anzitutto alla Vergine Maria, ma poi anche a Giuseppe, Zaccaria ed Elisabetta, a Simeone ed Anna e agli apostoli tutti. Pii israeliti, essi non smisero di osservare la Legge e conservarono il cuore puro, che li predispose alla chiamata di Colui che è più grande. Per questo sono immagine tipo di tutti i discepoli di Gesù.

Si inserisce a questo punto il dialogo, che ha suscitato scalpore, tra il Papa e il rabbino ortodosso americano Jacob Neusner. Autore di un volume dal titolo Disputa immaginaria tra un rabbino e Gesù, Neusner pone due importanti quesiti nella sua opera. Egli immagina di essere contemporaneo di Gesù e di recarsi, piacevolmente sorpreso dalla fama che precede il giovane Rabbi della Galilea, a sentire il discorso della Montagna. Non trova, tuttavia, alcunché di nuovo nella Torah di Gesù. Tutto gli era già noto dall'Antico Testamento e dalle tradizioni rabbiniche fissate nella Mishnah e nel Talmud.

E' inevitabile, allora, la domanda: perché è venuto Gesù, quale è il senso della sua Torah rispetto a quella di Mosè? Risponde il Papa: «Israele non esiste semplicemente per se stesso, per vivere nelle "eterne" disposizioni della Legge, esiste per diventare la luce dei popoli». Con il passare dei secoli era divenuto sempre più evidente che il Dio di Israele era Dio di tutti i popoli e di tutti gli uomini. Gesù è venuto per annunciare l'eudochìa di Dio, il suo beneplacito verso gli uomini tutti. Del resto una delle immagini più care alla tradizione cristiana è quella dei Magi, venuti a Gerusalemme per adorare il re dei Giudei (Mt 2,2). «Alla luce messianica della stella di Davide, cercano in Israele colui che sarà il re delle nazioni» (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 528) Ricordato nell'epifania, una delle grandi feste cristiane, l'episodio manifesta il senso della venuta di Gesù: la realizzazione della promessa fatta ad Abramo per la quale la grande massa delle genti entra nella famiglia dei patriarchi e ottiene la dignità israelitica.

L'altra domanda sollevata da Neusner riguarda la divinità di Gesù. Egli legge con interesse l'episodio del giovane ricco e come il Maestro di Nazaret guarda a lui con simpatia. Ma perché il Maestro non si accontenta del suo rispetto della Legge, perché gli chiede di vendere tutto e seguirlo? Non si pone, così, allo stesso livello di Dio? San Giovanni e il Concilio di Nicea che hanno proclamato la divinità di Gesù non si sono sbagliati. Gesù chiede veramente di essere riconosciuto come Dio. Per questo il rabbino americano si allontana, mentre: «Con tanta cortesia e gentilezza, egli mi saluta con un cenno del capo e va via, per la sua strada. Senza "se" o "ma"…; proprio da amici». Al distacco, tuttavia, segue un ultimo gesto di comunione, che è particolarmente significativo per il rapporto fra ebrei e cristiani: alla sera nella sinagoga: «Noi offriamo la nostra preghiera serale al Dio vivente. E in alcuni villaggi lungo la valle, così fecero Gesù e i suoi discepoli e tutto l'eterno Israele».

La pubblicazione di Gesù di Nazaret di Benedetto XVI è stata affidata a un editore laico, forse un segnale rivolto agli uomini di cultura perché si rendano conto della portata del dialogo ebreo-cristiano. L'invito, tuttavia, è rivolto soprattutto agli ebrei. Come dicono il Papa e Neusner qui non si tratta affatto di un dibattito per stabilire la superiorità di una religione sull'altra ma di ritrovarsi nella discendenza di Abramo e di Mosè, per coltivare l'amicizia e la fraternità nel riconoscimento dell'unico Dio.

3. GESÙ DI NAZARET

Più del suo «maestro» Guardini, addirittura più di sant’Agostino... Nel suo recente volume, il Pontefice cita volentieri Jacob Neusner, ebreo osservante che indaga su Cristo. Parla padre Stock, segretario della Commissione Biblica Internazionale

Ratzinger & il rabbino

«Il libro del Papa faciliterà il dialogo col giudaismo, ma aiuterà pure gli esegeti ad approfondire ed entrare con più rispetto e rigore nella storicità dei Vangeli»

di Filippo Rizzi. Avvenire 23 maggio 2007

«Un libro che aiuterà ancora di più gli esegeti e gli esperti di critica testuale a studiare, ad approfondire ma anche a entrare, con più rispetto e rigore, nel mistero di Gesù e nella storicità dei Vangeli».

Così, dal suo studio romano del Pontificio Istituto Biblico, (un luogo simbolo per gli studiosi di Sacra Scrittura, dove si sono formati biblisti di fama internazionale come Martini, Bea, Lyonnet, Vanhoye, Schoekel), Klemens Stock - un gesuita tedesco dai tratti gentili, tra i più autorevoli esperti dei Vangeli sinottici, chiamato proprio dall'allora cardinale Ratzinger a rivestire dal 2004 il ruolo di segretario della Pontificia commissione biblica internazionale - legge l'ultima fatica di Benedetto XVI, Gesù di Nazaret. «Mi ha colpito da subito, sfogliando le prime pagine - racconta padre Stock - il grande apprezzamento che il Santo Padre dà, e cito le sue parole, al "metodo storico, che è e rimane una dimensione irrinunciabile del lavoro esegetico". Ma non solo: il rispetto di un papa-teologo verso il lavoro di noi esegeti».

Lei ha lavorato per tanti anni a fianco del cardinale Ratzinger, prima come membro e poi come segretario della Pontificia commissione biblica internazionale. Si aspettava un libro su Gesù e sui Vangeli?

«Non saprei dare una risposta esaustiva. Ho potuto notare come il Papa ha voluto ribadire che non c'è una contrapposizione tra il "Gesù storico" e il "Cristo della fede". E mi è sembrato bellissimo che un Papa abbia voluto ribadire un fatto che, a causa della distorsione di certe pubblicazioni, non è più accettato come verità: cioè che la fede biblica è basata su fatti storici e che Gesù è una persona realmente esistita, vissuta in un determinato Paese».

Un libro, comunque, che prende le distanze da una certa «esegesi liberale». Penso ad esempio ad alcune osservazioni sollevate da Papa Ratzinger sugli scritti di Jaspers, di Adolf von Harnack o di John Meier.

Il Papa prende le distanze proprio da alcune teorie ultimamente in voga: non accetta che il vero Gesù storico sia visto come un grande maestro e moralista, un contadino galileo, un filosofo itinerante, un rivoluzionario e così via. Basti vedere come il Papa, quasi a bilanciare questa tendenza, riparta dai Padri della Chiesa e dalla loro esegesi. (Cita più volte, e non a caso, uno dei massimi studiosi di patristica del '900, Jean Daniélou, con il suo famoso libro Bibbia e liturgia). Chiede dunque al lettore di entrare più nel profondo, che è poi il messaggio centrale del libro, riconoscere in Gesù il figlio di Dio. Ma non solo. Scoprire in lui il rapporto particolare con il Padre nella cui volontà e conoscenza si rivela il Gesù vero, quello trasmesso dai Vangeli».

Un altro aspetto che ha impressionato, nel libro, è il riconoscimento che il Pontefice dà agli studi del rabbino statunitense Jacob Neusner, citato più del suo maestro Romano Guardini o di sant'Agostino. Qual è la sua impressione?

Mi è sembrato un grande riconoscimento anche per sottolineare che Gesù era veramente ebreo e osservava la Torah, ma anche per ribadire ai cristiani di oggi che "Gesù viene chiamato figlio di Dio in riferimento al Dio di Israele e non di qualsiasi dio pagano". Ratzinger si riferisce spesso a Neusner e al suo libro Un rabbino parla con Gesù, specialmente nella spiegazione che l'autore dà del Discorso della Montagna. Neusner cerca di comprendere Gesù con grande rispetto e simpatia e dice con sincerità di non essere in grado di accettare i suoi insegnamenti».

Un «Gesù di Nazaret» che permetterà di facilitare dunque il dialogo tra ebraismo e cristianesimo?

«Credo di sì. Devo dire che vedo una grande continuità ideale, in questo libro, con due documenti della Pontificia commissione biblica internazionale: uno del 1993 L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa e quello del 2001 Il popolo ebraico e le sue sacre Scritture nella Bibbia cristiana. Documenti che portano la firma del cardinale Ratzinger. Per noi cristiani viene ribadita una verità chiara: il Nuovo Testamento porta all'Antico, di cui Gesù è il compimento».

Si evince la passione del Papa-teologo per la Parola di Dio.

Mi sembra che il Santo Padre riconosca il grande valore dello studio della Parola di Dio non solo per noi esegeti, ma anche per la teologia contemporanea. Bellissima mi è sembrata la frase: "L'uomo avverte la necessità di abbeverarsi alla Parola di Dio". Mi è parso che il Pontefice, con questo libro, abbia voluto ricordare che Gesù attraverso i Vangeli parla all'uomo di oggi e che essi devono continuare ad essere il terreno e la base di meditazione di ogni singolo credente, nella preghiera personale e comunitaria».

Quale altro aspetto infine l'ha colpita di questa pubblicazione?

«Ho trovato grandi affinità con uno dei libri che fece conoscere il giovane teologo bavarese al mondo scientifico: Introduzione al cristianesimo, scritto quasi 40 anni fa, nel 1968. Mi è sembrato, come allora, che al centro della ricerca del Papa ci sia la figura di Gesù. Difatti Ratzinger, in questo libro, non fa altro che ribadire che Gesù è il cuore del cristianesimo. Mi auguro che il Pontefice possa pubblicare anche il secondo volume e farci entrare così ancora più nel vivo delle verità fondamentali e centrali della fede».

 

Clemente Rebora

Il Natale è un tema che ­ricorre spesso nell'opera di Clemente Rebora e al Signore in una poesia il sacerdote-scrittore chiede strenuamente: «Gesù Signore, dammi il tuo Natale / di fuoco interno nell'umano gelo». Di quanto il Natale rappresentasse per lui il momento in cui ha iniziato ad avere, attraverso Gesù il Fedele, «visibile volto sublime la inesprimibile misericordia di Dio», sono testimonianza molti suoi testi, alcuni raccolti vent' anni fa in un libretto della Locusta che si intitolava appunto Dammi il tuo Natale, e altri ora, riuniti in un bellissimo libro di Interlinea, intitolato semplicemente Il tuo Natale (pp. 140).

Non si tratta di un'antologia poetica, ma di un attraversamento del tempo di Natale vissuto da Rebora, attraverso poesie, lettere, pagine di diario e riflessioni inedite; un libretto raro e prezioso. Ci sono testi noti come «Davanti al presepio», un adattamento da Jacopone da Todi del 1940, e il poemetto di una lucida e straziante bellezza «Gesù il fedele», in cui è riassunta la percezione del Natale come festa della salvezza e che trova la sua parafrasi in prosa in un' omelia del 1956, «Per il Santo Natale», sempre riportata nel libretto.

Per Rebora, con la nascita di Gesù <<nuovo incanto di beltà pervase / con intimo fremito l'universo / fra linee terrene presagio di Cielo / per educarci lassù, al Paradiso». Gesù Bambino è simbolo della radicalità cristiana, di una conversione che si rinnova attraverso la scelta della purezza: «In ogni modo il Natale riaccende 1'anelito all'innocenza cristiana, con l'ideale della verginità; e l'attenzione devota è chiamata verso il Bambino, fatta di simbolo e emblema di ogni cosa pura, veniente da Dio e a Lui richiamata». Troviamo però soprattutto materiali in prosa come le lettere scritte tra il 1907 e il 1955 a diversi destinatari, dal cardinal Schuster ai familiari o gli appunti che don Clemente faceva stampare, negli anni della guerra, quand'era direttore spirituale del Collegio Mellerio-Rosmini di Domodossola, per i ragazzi che durante le vacanze nata1izie ritornavano in famiglia, o le meditazioni e le omelie in cui Rebora rilegge non solo i testi evangelici, ma anche la grande tradizione letteraria, come ad esempio quella dei Promessi sposi manzoniani. Le riflessioni sulla fede di Lucia sono per Rebora «una preparazione adeguata al Santo Natale» perché «la figura di Lucia è un simbolo. In lei vi è coerenza perfetta alla grazia del Battesimo: "prendi la lampada perché quando verrà il Signore bisogna andargli incontro". Lucia vive la sua fede. Il tormento dell'anima è il bisogno della certezza di Dio». Proprio su quest'ultimo punto si fonda tutta la grandezza della poesia religiosa di Rebora e il bisogno della «certezza di Dio» aiuta a spiegare l'importanza che Rebora attribuisce ad un'altra festa del calendario natalizio, quella dell'Epifania.

Il 6 gennaio è il giorno della sua nascita, ma anche quello della rinascita alla pienezza di Dio, «primo giorno di mia vita dopo 45 anni da cui ebbi l'esistenza». Infatti è il 6 gennaio 1930 che segna la conversione di Rebora, cui seguirà la sua scelta vocazionale. Si compie così la lunga attesa che da tempo agita il suo cuore, dopo un viaggio che somiglia a quello dei Magi, in quel gesto del «deporre le "proprie ricchezze" ai piedi del poverissimo Bambino, Signore Gesù, che non parla». Tra le pagine inedite dei molti appunti scritti da Rebora e riportati nel libretto rifulge proprio la meditazione sull'Epifania e sull’esemplarità dei Re Magi, simbolo di «coloro che adorano Dio nella piccolezza di Gesù».

Nei Magi sembra riflettersi l'esperienza personale di Rebora, il suo dramma alla ricerca di Dio attraverso Cristo, la necessità di intuire la vita come dono al Signore: «E allora fina1mente nei doni offerti dai Magi è il dono di noi stessi (come Egli a noi): il contenuto sostanziale della nostra vita: l'oro delle opere per la carità, l'incenso della preghiera, la mirra del patire per vivere in modo risorto. Per noi pure è spuntata e ductore sic Te praevio splende la stella». I Re diventano emblema della vita di fede ed esempio per l'uomo: «Oggi la manifestazione del Salvatore ai pagani, nella persona dei Magi, prende il sopravvento: essi rappresentano la vocazione nostra alla luce del Vangelo, e il trionfo della fede generosa».

Rebora li pone al centro di un cammino di redenzione, loro che hanno accolto la fede seguendo una stella; loro che riconducono al mistero dell'Epifania, che Rebora spiega con parole lucidissime, affacciandosi sopra un abisso di strenua verità: «Gesù è Dio alla nostra portata: il velo dell'umanità impedisce al fulgore infinito e abbagliante della divinità di accecarci... Questa manifestazione di Dio all'umanità è un mistero (di misericordia) così inaudito che rende l'Epifania quasi troppo arcana per noi... nelle sue tre manifestazioni divine: manifestazione ai Magi, sulle rive del Giordano per il Battesimo di Gesù, alle nozze di Cana».

“Ecco l’aurora del Redentore, Dio si è messo alla nostra portata”

La fede dei Magi: «Non potevano trovare Gesù se non tra le braccia della madre sua, non potevano prostrarsi davanti al Divino Re senza trovarsi anche ai piedi della Immacolata Regina. E’ il primo atto di culto solenne a Gesù e Maria». Essi adorano Dio nella piccolezza di Gesù. Era appena l'aurora del Redentore e già la Sua luce aveva superato le distanze e, nei luoghi più disparati, penetrato e vinto i cuori: essi scorgevano già in Gesù la regalità (oro), la divinità (incenso), la umanità (mirra; usata con l'aloe nella sepoltura di Gesù): e l'oro si purifica nel crogiuolo, e l'incenso si brucia, e la mirra si stilla da una ferita fatta a una pianta orientale - simboli quindi o richiami al Sacrificio Amore (<<Solamente per mezzo della Croce possiamo giungere all'unione divina»). Ed ecco l'antitesi di questo mondo: contro la premurosa e  amorosa ricerca dei Magi prima l'indifferenza, indi la agitazione e l'inquisizione metodica per sopprimere il Salvatore, l’auctor  vitae (a morte come un Uragano a devastare quell'angolo dove aveva palpitato la vita divina - strage degli innocenti -). Onde la tremenda prova della fuga in Egitto... Gesù è Dio messo alla nostra portata: il velo dell'umanità impedisce al fulgore infinito e abbagliante della divinità di accecarci. [...] Questa manifestazione di Dio all'umanità è un mistero (di misericordia) così inaudito che rende l'Epifania quasi troppo arcana per noi... nelle sue tre manifestazioni divine: manifestazione ai Magi, sulle rive del Giordano per il Battesimo di Gesù, alle nozze di Cana. Oggi la manifestazione del Salvatore ai pagani, nella persona dei Magi, prende il sopravvento: essi rappresentano la vocazione nostra alla luce del Vangelo, e il trionfo della fede generosa: abbiamo veduto la Sua stella e siamo venuti... Così si arriva a Cristo, e in Cristo.

Clemente Rebora

 

Anticristianesimo: i nuovi guru

di René Rémond.  Avvenire 1 maggio 2007

Mi sorprende molto che in un momento in cui la scienza raggiunge livelli estremi di complessità e tanti ricercatori si interrogano su spaventose questioni etiche, alcuni siano ancora tentati da uno scientismo tanto primordiale da poter suscitare l'interesse dei positivisti del XIX secolo. Quanto alla riflessione di Michel Onfray, autore del Trattato di ateologia, io la definirei volentieri neopagana, per il rimpianto verso l'antichità pagana che sembra ispirarla. A un mondo antico idealizzato, considerato felice e gaio, ricco di saggezza e gioia di vivere, la fede cristiana avrebbe sostituito un universo di pessimismo, incupendo l'orizzonte del senso con la sua insistenza sull'uomo peccatore, e rendendo profondamente infelice quell'umanità che un tempo godeva di felicità e spensieratezza.

Questo rimprovero appare già durante l'Illuminismo, ad esempio nella figura di Diderot, per il quale il cristianesimo aveva frenato lo slancio della natura e la pulsione dei sensi, parte integrante dell'individuo: lo testimonia la forma che assume il suo anticlericalismo ne La Religiosa.

 

Lo stesso tipo di critica viene espressa nel XIX secolo da scrittori come Anatole France e da coloro che tessono le lodi di una figura storica come quella di Giuliano l'Apostata, il nipote dell'imperatore Costantino, che rinnegò il cristianesimo per ristabilire i culti pagani nell'Impero. Tesi molto simili sono state elaborate dalla «nuova destra», una scuola di pensiero di stampo più politico che morale, che oggi non è più sotto le luci della ribalta, ma ha fatto parlare di sé alla fine degli anni '70. Attraverso autori come Alain de Benoist e la rivista Éléments, questa scuola denunciava - e denuncia tuttora - il cristianesimo in quanto responsabile dei mali che affliggono l'umanità al giorno d'oggi, imputandogli in particolare la responsabilità del totalitarismo, che sarebbe contenuto in germe in ogni forma di monoteismo, al quale va contrapposto il politeismo dell'antichità o quello delle mitologie germaniche e scan­dinave. Secondo i sostenitori di questa ideologia, il politeismo sarebbe per sua natura pluralista e più rispettoso della libertà e della tolleranza rispetto al monoteismo, il quale sostenendo la fede in un Dio unico, esclude qualsiasi forma di pluralismo.

Ma questa visione improntata di nostalgia e idealizzazione non è che una chimera. Il vero mondo dell'an­tichità non corrisponde affatto a questo quadro idilliaco: sappiamo bene che quello che, nell'universo greco, gli antichi definivano regime democratico ha poco a che vedere con i nostri sistemi politici attuali e con le libertà che essi concedono. Città come Sparta e Atene non erano esattamente note per la mitezza dei loro costumi.

In generale, tutta questa tradizione di pensiero invoca la liberazione dalle catene imposte dalla fede cristia­na, e, in fin dei conti, le importa po­co discutere sulla base della Rivelazione. Secondo questo modo di pen­sare, il cristianesimo ha rubato al­l'individuo il suo diritto alla felicità e lo ha reso infelice vietandogli di fare esperienze diverse, imponendo­gli la monogamia e la fedeltà coniugale.

Ritroviamo lo stesso tipo di critiche in André Gide, quando attacca i principali precetti religiosi, oppure quando esalta il valore del godimento attraverso una riscrittura dello stile profetico ed evangelico. Provi a rileggere, ad esempio, I nutrimenti terrestri, che hanno tanto segnato le giovani generazioni agli inizi del XX secolo: per poter godere di tutti i piaceri e delle esperienze della vita, occorreva liberarsi della vecchia morale giudeo-cristiana...

Tutto sommato, Michel Onfray si colloca perfettamente nelle tendenze del momento, una sorta di era del vuoto in cui ci si concentra piuttosto sull'idea che l'uomo sia libero di agire secondo la sua natura che sul concetto di regola in sé. Come abbiamo già detto, non vi è dubbio che il piacere ricopra un ruolo positivo e che contribuisca allo sviluppo della personalità, ma la natura umana è proprio così univoca? E davvero tutta protesa al bene? Come non vedere le zone d'ombra e le forze o­scure che si annidano nel cuore di ogni uomo?

Personalmente mi rifiuto di vedere nel cristianesimo una qualunque forma di invito alla rassegnazione, anzi lo considero un appello straordinario alla volontà e alla libertà dell'uomo. Scorrendo le pagine dei Vangeli, si vede quanto spazio abbia lasciato il Cristo alla libera scelta di ognuno, dall'invito a seguirlo rivolto al giovane ricco all'atteggiamento verso i suoi discepoli.

Del resto, se le società cristiane si sono evolute di più delle altre nel corso della storia, non è forse a causa di questa scintilla? Secondo il cristianesimo, la storia degli uomini, pur avendo un suo senso, non è già stata scritta. Al contrario, questa religione rifiuta qualunque idea di fatalità o destino, a vantaggio dell'esercizio della libertà e della responsabilità dell'uomo, aiutato dallo Spirito.

Da questo punto di vista, siamo ben lontani sia dalle società primitive, in cui il tempo appare ciclico e sotto­messo all’onnipresenza del divino, sia dalle religioni orientali, che continuano a mettere in stretta relazione le azioni di quaggiù e la ricompensa dell' aldilà. Eppure, a volte, i nostri contemporanei sembrano at­tratti più dal buddhismo che dai Vangeli.

Un' altra forma di anticristianesimo è espressa nel romanzo di Dan Brown Il Codice da Vinci. Di sicuro, i milioni di lettori non vi si sono accostati per un approccio storico erudito al cristianesimo, e ancor meno alla ricerca di un trattato teologico. Ciò non toglie che esso affascini parecchie persone, pur facendo passare per informazioni precise molti pseudo-fatti o concetti discutibili, come ad esempio l'interpretazione dei quadri di Leonardo da Vinci. Ed è impressionante il numero di lettori, dai livelli di cultura o di educa­zione più disparati, che si lascia ingannare. Volendo andare più a fondo in questa faccenda, va detto che Il Codice da Vinci rispolvera la famosa teoria del complotto, del grande segreto che alla fine verrà finalmente svelato. La Chiesa da secoli ci nasconderebbe delle cose, fatti storici sulfurei, in particolare che Gesù sarebbe stato sposo di Maria Maddalena e avrebbe avuto con lei una discendenza, presente ancora oggi. Non è un caso che Dan Brown faccia, l'occhiolino a figure e temi della letteratura esoterica, come ad esempio quello del tesoro dei Templari o del mistero di Rennes -le- Chateau, del Graal, degli enigmi e di altre società segrete... Fatto ancora più inquie­tante, una parte del suo libro allude a un gruppuscolo che ha frequentato gli ambienti dell' estrema destra (il famoso Priorato di Sion). Pieno di riferimenti estremamente ostili alla Chiesa e al cristianesimo, questo libro è anche pericoloso per la democrazia, perché dà credito all'idea che le élite ci nascondono delle informazioni e che dei poteri occulti guidano il mondo da secoli a nostra insaputa, mescolando politica e religione. A tal proposito, è bene ricordarci dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion e di tutto ciò che si diceva a quell' epoca in merito al po­tere occulto di una «lobby ebraica»che governava il mondo...

Certamente non è la prima volta che un brutto libro ha successo; ciò che sorprende è la credulità e la man­canza di cultura del pubblico, che sembra incapace di prendere le dovute distanze e di discernere tra realtà e inganno.

L'AUTORE. Accademico di Francia, è morto dieci giorni fa

L'inizio del nuovo millennio non è stato facile per il cristianesimo. Se certe forme di antidericlericalismo del passato sono ormai defìnitivamente tramontate, una nuova. leva di detrattori e de critici è apparsa all'orizzonte, fomentando una violenta polemica anticristiana che riscuote un certo consenso presso il grande pubblico. Nel libro-intervista «Il nuovo anticristianesimo» (pagine 128 , che l'editrice Lindau manda in libreria da giovedì 3 maggio, René Rémond riflette, insieme a Marc Leboucher; sulle motivazioni di una tale ostilità e risponde alle obiezioni di questi odierni accusatori. Qui proponiamo un brano. Rémond, scomparso il 21 aprile scorso, è stato uno dei più grandi storici francesi. Nato nel 1918, accademico di Francia, è stato autore di diverse opere di analisi politica, storia contemporanea e religiosa. Tra i libri pubblicati in Italia ricordiamo: «La secolarizzazione. Religione e società nell'Europa contemporanea» e «La destra in Francia; Introduzione alla storia contemporanea».

 

Una panoramica sulla cristologia africana preparata da Diane Stinton, una teologa protestante

Una panoramica sulla cristologia africana preparata da Diane Stinton, una teologa protestante canadese che insegna in un'università di Nairobi

PADRE KIZITO SESANA

E' il tardo pomeriggio, e sono nel cortile di Koinonia, nella zona di Tubalange alla periferia di Lusaka, in Zambia. Mi siedo sul grande tronco della jacaranda caduta di recente. Dominava il cortile nel 1982, quando son venuto a vivere in questa casa con i primi ragazzi. Ogni settembre l'enorme cupola di foglie verdi si trasformava in una cupola di fiori di azzurro intenso, come un piccolo cielo, ma quest'anno un colpo di vento è riuscito ad abbatterla.

Ho in mano un bel libro di recente pubblicazione, "Jesus of Africa", una panoramica sulla cristologia africana preparata da Diane Stinton, una teologa protestante canadese che insegna in un'università di Nairobi. Il libro mi affascina per il tema, e anche perché conosco personalmente parecchi dei teologi africani che vi sono citati. La lettura ha il vantaggio di non essere troppo impegnativa.

La ricerca della Stinton è importante. Gesù è la figura centrale della nostra fede: come viene visto dagli africani? Che rilevanza ha nella loro vita cristiana? Con ricchezza di documentazione e grande competenza la Stinton esamina le radici profonde della teologia in particolare della cristologia africana, e propone quattro modelli fondamentali di come gli africani vedono Gesu':

Gesu' Fonte di Vita e guaritore, Gesu' il Mediatore e Grande Antenato; Gesu' l'Amato, amico e fratello; e infine Gesu' come il Leader, capo e liberatore.

E' pubblicato a Nairobi dalle Paoline, che nell'Africa anglofona stannno giocando un ruolo importantissimo per l'emergere di una nuova teologia africana.

 

Benoit Standaert Lo spazio Gesù

Lo spazio Gesù è il risultato di più di venticinque anni di ricerca, sia esegetica che spirituale, per «conoscere Lui e la potenza della sua risurrezione» (Fil 3,10). La categoria ‘spazio’ riferita a Gesù è piuttosto inconsueta nella cristologia recente, ma può essere intrigante per il lettore. In un primo momento siamo introdotti in uno spazio spirituale ben definito che si apre con il nome di ‘Gesù’, per passare poi ad altri spazi spirituali, quali quelli dell'islam o del buddhismo. Esplorare, conoscere, incontrare è il ritmo dell'esposizione che si muove dentro e da quello spazio. È un libro per la vita e che vuol dischiudere la vita. «Lo si legge con un grande senso di pace e lo stesso modo di scrivere invita ad entrarvi senza l'attrezzatura dello specialista o l'impegno di uno studio oneroso. Lo si può tenere accanto a sé come un buon compagno di viaggio» (dalla Prefazione di F.G. Brambilla).

Ed. Ancora

AA. VV., Il Dio di Gesù Cristo e i monoteismi, Città Nuova, Roma 2003, pp. 376

Nella molteplicità delle pubblicazioni riguardo al monoteismo in chiave interreligiosa, il saggio, che insieme ad altri costituisce gli atti del convegno del Dipartimento delle religioni della Facoltà Teologica di Sicilia, si propone di elaborare una teologia delle reli­gioni che abbracci un'interpretazione teologica del pluralismo religioso nel suo insieme e delle singole altre religioni e che articoli continuità e differenze nel rispetto dell'identità di ciascuna. All'interrogazione circa la pertinenza della categoria "monoteismo" applicata alle tre religioni suddette si questiona sul fatto che ogni "monoteismo" ha una sua inconfondibile concezione di Dio; in questo contesto risulta significativa le lettura del teolinguismo coranico e della tradizione islamica anche nella sua componente fondamentalista al fine di mostrare la rigida comprensione dell'unità ed unicità di Dio irriducibilmente "trascendente" alla radice di ogni incomprensione verso il "mistero trinitario" e verso una storia fondata sull'economia cristocentrica. Si richiama perciò l'esigenza di non accreditare i facili irenismi basati sulla teoria dei "tre monoteismi" perdendo di vista i percorsi epistemologici che li contraddistinguono e li caratterizzano dal punto di vista della fede e dell'elaborazione culturale.

M. VIRONDA, Gesù nel vangelo di Marco. Narratologia e cristologia (Supplementi alla Rivista Biblica 41), EDB, Bologna 2003, pp. 304

Davvero ben fatto, si propone di perlustrare la compattezza della cristologia di Marco. L'autore, serven­dosi del metodo narrativo che padroneggia con maestria, giunge alla conclusione che il progetto narrativo di Marco non procede per assemblaggio di titoli, quasi a costruire una cristologia "per addizione". La sua cristologia procede "dall'alto". Dio dichiara chi è Gesù, solleva il velo sulla sua identità. La costruzione narrativa di Marco pone in gerarchia i titoli (Figlio di Dio, Figlio dell'uomo...) perché prevede l'uso privilegiato del primo di essi. Dunque l'elemento caratteristico dell'identità di Gesù è di tipo relazionale, così che la questione cristologica non possa essere indipendente da quella teologica.

G. ANGELINI - F.G. BRAMBILLA ­- A. COZZI - B. MAGGIONI - G. SEGALLA - P. SEQUERI - R. VIGNOLO, La figura di Gesù nella predicazione della Chiesa (Disputatio 17), Glossa, Milano 2005, pp. 250

Il volume raccoglie gli Atti del Convegno di Studio promosso dalla Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale nel febbraio 2005 e dedicato al tema dell'immagine di Gesù nella predicazione ecclesiastica.

All' origine del tema sta per un primo lato un' impressione di questo genere: la predicazione della chiesa pare non riesca fino ad oggi a proporre un'im­magine del Si­gnore proporzionalmente univoca; in tal senso essa manca di disporre l'antidoto necessario agli usi proiettivi, allegorici e in ogni modo arbitrari che della sua figura, sono fatti ad opera della religione soggettiva della stagione tardo moderna. Per altro lato, sta la persuasione che la ricerca specialistica sui Vangeli abbia ormai prodotto acquisizioni tali, da rendere virtualmente possibile un racconto della vicenda di Gesù abbastanza preciso, il quale potrebbe e dovrebbe costituire il referente indispensabile per la stessa confessione della fede in Lui.

Che cosa manca perché questa possibilità sia di fatto realizzata? Quali sono le responsabilità proprie della teologia a tale riguardo? A questi interrogativi intendono rispondere i saggi qui raccolti.

Antonio Thellung prende spunto per il suo Nel nome di un Cristo clonato (Gribaudi 2005, Milano, pp. 160, € 10) dal gran parlare di clonazione per inventare un racconto che ha il sapore di una parabola. Attraverso un intrigo tenero e delicato - «racconto simbolico fantareligioso», recita il sottotitolo -lascia trapelare il senso cristiano della vita e dà una mano a quanti cercano una speranza non vana in mezzo all'effimero di un postmoderno in salsa New Age.

Basterà riferirne la trama per intuire la portata evangelica di questo testo e invogliare a leggerlo.

La giornalista romana Teresa deve scrivere un pezzo su Tommaso, un laico in missione di pace - anch' egli romano - che, volontario in Darfur per cercare di aiutare quegli infelici, era finito inchiodato alla porta della sua baracca. Fortunosamente salvato e riportato in patria, ormai convalescente è ricoverato nel reparto di psichiatria: forse è schizofrenico - «certe volte pare che si creda Gesù Cristo» (p. 44) -; parla poco, ma dice cose toccanti. Teresa ne è colpita e, per approfondire il caso, va a trovare la mamma di Tommaso che via via le confida di essersi resa disponibile, trent'anni prima, a una gestazione per conto terzi: una fecondazione eterologa.

Ignora di chi sia figlio Tommaso, ma aggiunge che un tempo intorno al ragazzo giravano molte persone importanti, poi tutte morte. Solo un cer­to padre Battista, domenicano dell' Angelicum di Roma, potrebbe essere ancora vivo.

Proseguendo le sue ricerche con le informazioni ricevute all' Angelicum, Teresa finisce in uno scantinato dove un imbonitore propone tesi conturbanti ma positive sulle catastrofi presenti e future. Alla fine della con­ferenza Teresa gli parla a quattr'occhi e capisce d'essere in presenza di padre Battista (che ora si fa chia­mare Lazzaro). Perciò, dando per scontato che lui sappia mol­to su quella fecondazione eterologa, gli pone alcune domande indiscrete.

Risultato: è cacciata via bruscamente. Ma Teresa non demorde e, la sera dopo, ritorna da lui e finalmente si apre un dialogo, peraltro evasivo. Lazzaro infatti butta là paradossi e ironie sulla natura di Cristo, tipo: «Se lo Spirito ci ha messo 23 cromosomi, e gli altri 23 sono rimasti quelli di Maria, allora si è trattato di fecondazione eterologa. Se invece i 46 cromosomi erano tutti dello Spirito Santo, allora si è trattato di clonazione» (p. 87). Teresa scoppia a ridere, ma l'ipotesi è affascinante. Lazzaro, che sente vicina la fine e scaricherebbe volentieri a qualcuno il segreto che, tremendo e fascinoso, lo schiaccia da trent'anni, vede in quella ragazza la persona adatta, e sospetta di nuovo che a soffiargliela tra i piedi fosse «il caso, ossia lo Spi­rito Santo in incognito» (p. 88).

E così l'indomani, quando si rivedono, le svela che trent'anni pri­ma erano riusciti a clonare Gesù Cristo. E quando Teresa gli chiede scettica dove avessero trovato i tessuti di Gesù, dai quali estrarre i cromosomi, Lazzaro le consegna il diario di un prelato.

Sul diario Teresa legge di una reliquia custodita a Calcata (Vt), considerata tradizionalmente il prepuzio di Gesù e misteriosamente scomparsa intorno al 1970. Su questo fatto, autentico e storicamente documentato, il racconto procede descrivendo le ricerche via Internet di Teresa, che le fanno ricostruire la provenienza: incoronazione di Carlo Magno, sacco di Roma, e quant'altro. Ora tutto è più chiaro e Teresa, ritornata a trova­re la madre di Tommaso, apprende che questi - dimesso dal reparto psichiatrico - è ripartito per altre missioni di pace. Torna quindi da Lazzaro e apprende che Tommaso non sa di essere un clone di Gesù, ma evidentemente lo vive appieno.

E così il testimone passa dall'ormai vecchio Lazzaro alla giovane Teresa, né l'effetto tarda a manifestarsi. Lei ha un corteggiatore, sicuro e in gamba: un benestante che le prospetta un tranquillo futuro borghese. Ma, durante un pranzo insieme, Teresa confronta le scelte di Tommaso e quelle che le vengono offerte e matura un'opzione sconcertante. Quella vita comoda, piccolo borghese, non le interessa più e, raggiunto Lazzaro dopo una notte in giro per la città, in un dialogo prevalentemente silenzioso, non ha più dubbi. La mattina lascia tutto e va a raggiungere Tommaso, per seguire anche lei Gesù Cristo e il paradosso del Vangelo.

In conclusione, una metafora originale per sottolineare che non c'è alcun bisogno di clonare Gesù Cristo perché, chiunque lo viva dentro di sé, è di fatto un suo clone e, inevitabilmente, lo manifesta agli altri.