01. ALLE ORIGINI C'E' UN GESU' TRISTE

Ritorniamo all’inizio del tragitto cinematografico. La rappresentazione di Gesù ad inizio secolo assorbe i grandi limiti con cui l’Uomo-Dio era rappresentato e presentato ai fedeli: un uomo che soggiace alla missione affidatagli dal Padre, decisamente votato alla tristezza, al dolore, al patimento anche nei momenti che invece il cinema posteriore avrebbe rappresentato con toni di gioia, quali l’incontro con i bambini, le nozze di Cana, i miracoli…

 

02. GLI INIZI (1897-1912)

Grande la commozione del pubblico nell’assistere alle scene della passione di Gesù. Le lacrime sgorgano abbondanti al momento del tradimento di Giuda, la flagellazione, l’incoronazione con una corona di spine, la crocifissione. Il colonnello Henry H. Hadely afferma: “Queste immagini in movimento diventeranno i migliori insegnanti e i più bravi predicatori nella storia del mondo”.
E’ il 1897. Il cinema da semplice “attrazione” inizia a prendere consistenza e si rivolge alla più grande storia del mondo per attingere materiale primario e di sicuro successo per i suoi film. Siamo comunque agli inizi. L’invenzione del cinema e le prime proiezioni in pubblico risalgono a due anni prima. Le riprese sono incerte e il montaggio inesistente. L’interpretazione risente della lunga tradizione teatrale. Ma tutto questo non scoraggia i produttori e i primi operatori-registi, che si lanciano con grande entusiasmo nell’utilizzo di questo nuovo e rivoluzionario mezzo di comunicazione. 

Nei primi anni del cinema, in Francia Léar e Coissac realizzano Passion, Lumière la Passion de Horitz, Hatot La vie et la passion de Jésus Christ, Méliès Christ marchant sur les eaux, Léar la Vie du Christ ; in USA troviamo una Passion Play di L.J.Vincent, una Passion Play di Sigmund Lubin e The Passion di Rich Hollaman; in Italia Luigi Topi gira Passione, interpretata dal famoso Fregoli; in Gran Bretagna Walter Haggar dirige The Sign of the Cross. 
Questo è solo l’inizio di una lunga serie di film che ripropongono la vita di Gesù e il suo messaggio evangelico. Viene soprattutto evidenziata la sua Passione. Iniziano, timidamente, anche i primi film su Maria, colta nella sua sofferenza, e sui primi cristiani. 
Ogni artista che racconta Gesù traduce in realtà il desiderio di dargli volto, riconoscerlo, capirlo. I tentativi di delinearlo sono molteplici e corrispondono alla nostra tensione a tradurre in un’immagine l’inesauribile ricchezza e potenzialità della Parola. Punto di partenza è sempre la narrazione evangelica, ma questa può essere proposta, ricostruita, interpretata o semplicemente evocata… La Passione di Cristo costituisce per i primi cineasti un valore sicuro. Andando a vedere una Passione cinematografica, il pubblico non doveva scoprire una nuova storia ma solo apprezzare la rappresentazione di una Passione da parte del cinema.

 

03. PERFEZIONAMENTO DI UN’ARTE NUOVA (1913-1944)

Col passare del tempo il cinema si perfeziona. Termina la fase di invenzione e di “artigianato”. Anche se continua la sperimentazione per scoprire tutte le possibilità espressive di questo nuovo linguaggio. Il montaggio ha una parte sempre più rilevante e il linguaggio trova nuove soluzioni espressive. Intervengono anche le prime attualizzazioni, trasgressive come narrazione e accostamenti. La storia di Gesù viene messa insieme a storie di uomini, trovando nella correlazione nuovi spunti di riflessione o agganci per comprendere la realtà presente. 
La durata aumenta progressivamente. Il pubblico si interessa sempre di più di tali spettacoli. E i produttori trovano interessante investire grosse cifre certi del guadagno che ne sarebbe venuto. C’è sempre più spazio per scenografie imponenti e scene di massa che rendono spettacolare la visione e il pubblico ne è entusiasta.

Continua, infine, la presentazione di personaggi: Maria Maddalena, Giuda, San Paolo e si girano film sul Calvario, la Passione, la Madonna. 

 

04. DOPO LA SECONDA GUERRA MONDIALE (1948-1961)

Negli anni dopo la seconda guerra mondiale la spettacolarità ha un peso sempre più dominante. Forse anche per allontanare, nel passato, il dramma della guerra che ha sconvolto il mondo. La voglia di cambiare o di precorrere nuove strade spinge a utilizzare i temi biblici scoprendone differenti significati, aggiungendovi storie e personaggi e romanzando gli intrecci. Come la Salomé di Dieterle, in cui la protagonista è decisamente a favore del Battista, e non riesce a salvarlo solo perché preceduta dalla madre che ne chiede la condanna. O la storia d’amore tra la cristiana Licia e il console Marco Vinicio nel Quo vadis? di Mervin Le Roy. 
Fa il suo ingresso il cinemascope che offre la possibilità di uno schermo molto più ampio e il 70 millimetri con una definizione di immagine straordinaria: la resa spettacolare è assicurata e il pubblico ne rimane affascinato. Sempre più possibili le riprese di scene di massa e d’azione. Lo stupore del pubblico è assicurato. Gli effetti speciali concorrono al miracolo, come la divisione delle acque del Mar Rosso ne I dieci comandamenti di Cecil B. De Mille, o come la battaglia navale o corsa delle bighe in Ben-Hur di William Wyler.

Vengono preferite le storie che permettono scenografie maestose o di grande effetto emozionale: Erode il Grande, Salomé, Maria di Magdala, Barabba. Al primo posto, naturalmente, è la vita di Gesù: Il Re dei re di Nicholas Ray ne è un esempio.

 

05. MAGGIORE ATTENZIONE AL 'GESU’ REALE' (1962-1978)

Risolti i guasti della guerra, poco per volta la gente ritrova la sicurezza economica. Negli anni Sessanta e Settanta il consumismo diventa l’immagine più concreta del benessere. 
Contro il dominio del materialismo e dell’esteriorità emerge però anche una nuova sensibilità che vuole qualcosa di più profondo. I colori, la spettacolarità, i grandi divi, pur ancora acclamati non bastano più. Sono richieste anche idee, un modo di guardare e di affrontare la vita che dia significato al lieto fine, scena necessaria di chiusura. 
Pubblico e artisti vogliono qualcosa di più profondo. Il ricorso alla Scrittura diventa così motivo di indagine e di nuove proposte. Si va verso opere forti, anche se più difficili. Numerosi autori se ne fanno carico, riuscendo ad imporsi a un’industria culturale che negli ultimi anni aveva condizionato le idee e banalizzato anche i testi sacri.

“Il buon Dio immischiato nelle faccende di cinema, proprio non ce lo vedo. Se il cinema è un’arte, lasciate che voli su, verso Dio. Se è un’industria, non costringete il Padreterno a diventare amministratore unico di una società per la produzione di film. Tanto più che la società fallirebbe ed Egli sarebbe immischiato in faccende poco pulite” (Giorgio Moser). 
Continuano i film spettacolari, con lo sforzo però di evidenziare gli aspetti psicologici e drammatici dei personaggi, come in Barabba (1962) di R.Fleisher o La più grande storia mai raccontata (1966) di G.Stevens. ma è soprattutto la riflessione personale del regista il tema che interessa. Ecco allora Il Vangelo secondo Matteo (1964) di Pasolini, Atti degli Apostoli (1964) di Rossellini, Godspell (1973) di D. Greene, Jesus Christ Superstar (1973) di N. Jewison, Il Messia (1976) di Rossellini, Gesù di Nazareth (1978) di Zeffirelli. 
Gesù diventa il modello e la risposta alle aspirazioni esplicite o segrete dell’uomo, con una differenza rispetto al passato: il Figlio di Dio viene rappresentato in maniera sempre più libera rispetto ai canoni tradizionali e in forme più vicine alla realtà di ogni giorno e all’umanità vissuta dalla gente. Accessibile all’uomo di oggi, alla sua sensibilità, ai suoi problemi. 
Viene meno la messa in opera di effetti di grandiosità a favore del tema: Gesù modello per ogni persona (Rossellini), la sua assoluta unicità ed individualità (Zeffirelli), il suo messaggio rivoluzionario (Pasolini), il suo essere veramente uomo, suscitatore di interrogativi (Jewison).

 

06. ORIENTAMENTI DI QUESTI ULTIMI ANNI (DAL 1979 A OGGI)

In questi ultimi quindici anni il panorama dei film su Gesù è abbastanza variegato. Riprendono le trasposizioni, ferme all’atto descrittivo delle storie. Si aggiungono opere trasgressive come Brian di Nazareth (1979) di T. Jones o Il ritorno di J. Jorgen Thorsen. Ma soprattutto prosegue la riflessione: Cammina cammina (1983) di Olmi, L’inchiesta (1986) di Damiano Damiani, Secondo Ponzio Pilato (1987) di Magni, L’ultima tentazione di Cristo (1988) di M. Scorsese, Jesus of Montreal (1989) di D. Arcand.

 

07. FILM RAPPRESENTATIVI DELLE DIVERSE CORRENTI

Se si volessero scegliere dei film che rappresentino i diversi percorsi di stile, di indagine e di fede, potremmo iniziare cronologicamente da Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964), per passare a Jesus Christ Superstar di Norman Jewison (1973), a Il Messia di Roberto Rossellini (1975), a Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli (1977) fino a Jesus di Roger Young (1999) per il piccolo schermo. In questi film, la rappresentazione di Gesù è a diverso titolo efficace anche o soprattutto quando l’autore tende all’attualizzazione del messaggio evangelico. 
Non dimentichiamo inoltre che la rappresentazione “indiretta” del Figlio di Dio è riconoscibile in "Roma città aperta" ancora di Rossellini (1945), in "Ordet-La parola" di Carl Theodor Dreyer (1955), in "Au hazard Balthazar" di Robert Bresson (1966), ne "Il Decalogo" di Krzysztof Kieslowskij (1989), ne "La settima stanza" di Marta Meszaros (1995).

 

08. I MIGLIORI PROFESSIONISTI DEL CINEMA E BUDGET ALTI

Dario Edoardo Vigano’, responsabile settore cinema e spettacolo dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Conferenza Episcopale Italiana. 
“Certo è che in questi film (su Cristo), agli albori della storia della nuova arte, ma anche negli anni d’oro di Hollywood, hanno lavorato i migliori professionisti di ogni settore della macchina cinema. Budget alti, insomma, a testimonianza di una fiducia senza limiti nella materia trattata. I tempi cambiano, sensibilità e modalità di rappresentazione pure, ma non è mai venuta meno la volontà e la capacità di raccontare, attraverso il dispositivo cinema, storie che riprendessero in qualche modo frammenti della più grande storia mai raccontata, quella di Cristo. Anche la saggistica non ha mai terminato di sondare le radici di un fenomeno straordinario com’è appunto il cinema cristologico. Dove ritrovare i motivi di questo legame originario? 

Il legame tra settima arte e vicenda di Gesù vive certamente per motivi di tipo narrativo. Il film di Giulio Antamoro, ora restituito al suo originario splendore grazie ad un accuratissimo restauro, presenta – a questo riguardo – alcuni meriti particolari rispetto alle varie rappresentazioni sacre dell’epoca. Queste ultime avevano come limite strutturale e stilistico una tale staticità e frammentarietà che le rendeva una successione di quadri edificanti, ripresi per lo più in modo frontale e privi di reale profondità. Il Christus invece supera di slancio la bidimensionalità per aprirsi ad una straordinaria profondità di campo, anche in virtù di esterni girati in Egitto e Palestina. E, quanto a modalità narrative, propone per la prima volta una linearità espositiva priva di stacchi e di fratture… L’attribuzione al Christus di Antamoro della qualifica di film eterno è sicuramente pomposa, ma certamente credibile. 

A. L. Lucano in Cultura e religione nel cinema, Torino 1975, p.42 racconta: “Il gran salto la cinematografia italiana lo compie nel 1914 allorché produce Christus. Questo film venne ricavato da un poema di Fausto Salvatori intitolato Il Canto dell’Agonia e realizzato da Giulio Antamoro con grande impiego di capitali. Vi concorse anche il cardinale Vannutelli. Gli esterni vennero girati in Egitto e Palestina con l’impiego di squadroni di soldati e la ricostruzione di colossali edifici romani. Ad interpretarlo furono chiamati attori allora di grido, quali Alberto Pasquali per la parte di Cristo, Amleto Novelli per Ponzio Pilato e Leda Gys per Maria Maddalena”

 

09. POLEMICHE E SCANDALI

Negli ultimi anni abbiamo assistito a vari e repentini mutamenti del “comune senso di pudore”. Tuttavia vivaci polemiche e accese discussioni hanno accompagnato l’uscita di alcuni film che hanno affrontato in modo provocatorio fino all’ardito le tematiche religiose e bibliche. 
Nell’ultimo decennio si è spesso parlato per esempio di Je vous salue, Marie di Jean-Luc Godard. Maria è una giovane benzinaia fidanzata con il tassista Giuseppe che scopre di essere incinta, pur essendo ancora vergine, dopo avere ricevuto la visita di un certo Gabriele accompagnato da una bambina. Questa rilettura di Godard esprime il punto di vista di un laico di formazione calvinista sul mistero della religione e della rivelazione. Ricordiamoci che Godard è uno dei più geniali e tenaci sperimentatori del cinema contemporaneo e padre della Nouvelle Vague e autore di capolavori come Fino all’ultimo respiro (1959). Godard con il suo film non voleva certo scandalizzare ma anzitutto mostrare la nostalgia per il trascendente e l’ansia dell’uomo come dell’artista di trovare una risposta alla domande rivolte dalla coscienza e dall’intelligenza. Il film, delicato e pudico, fa riflettere e inizia l’ultima fase della poetica godardiana in cui il regista accantona lo spirito rivoluzionario e si mette a confronto con l’Uomo grazie alla riflessione profonda sul cinema e il suo linguaggio. 
Fra i vari film che hanno suscitato scalpore, non si può dimenticare L’ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese, tratto dall’omonimo romanzo di Nikos Kazzantzakis che già alla sua uscita aveva destato clamore e polemiche. Il film viene presentato al Festival di Venezia nel 1988 in un clima di discussioni anche un po’ surriscaldato artificiosamente. Quest’opera è una chiara rilettura della vita di Gesù che risente della cultura italo-americana del suo autore. Il travaglio interiore di Cristo visto più come uomo che Uomo-Dio mette a nudo la sua fragilità, le sue paure e le sue tentazioni umane. Tutto ciò viene filtrato dalla sensibilità e professionalità di Scorsese ma il film, intenso e difficile, non ha raccolto il favore del pubblico. 
Recentemente un altro film italiano ha riaperto antiche discussioni. Per amore, solo per amore di Giovanni Veronesi, tratto dal romanzo di Pasquale Festa Campanile, dipinge la figura di un San Giuseppe “umano, troppo umano”. Ovviamente siamo lontani dalle provocazioni intimistiche e laceranti di Godard e dalle visioni di Scorsese, ma Veronesi riesce a non essere volgare e grazie all’interpretazione di Diego Abatantuono vengono resi visibili gli smarrimenti e le incertezze di un uomo di cui si sa ben poco.

 

10. VARI FILONI

E’ stupefacente prendere atto di quanti film su Gesù sono stati realizzati dal 1895 ad oggi, cioè nel lasso di tempo che costituisce la storia del cinema. 
Il tema che più di ogni altro ha interessato i registi è decisamente quello della Passione di Nostro Signore; anzi la Passione è il momento della vita di Cristo che apre il cinema a Gesù: 15 film fino al 1910 portano questo titolo. 
Gesù è personaggio umano e contemporaneamente Figlio di Dio. Come rappresentare, quindi, la divinità attraverso l’immagine cinematografica? 
Di fronte a scelte stilistiche e narrative diverse, per sensibilità, capacità, motivazioni, il cinema religioso si divide in filoni: c’è l’autore che racconta attraverso le immagini la storia di Cristo, illustrando i momenti essenziali o emotivi capaci di grande presa sul pubblico; c’è l’autore che si lancia in analogie, interpretazioni, visioni simboliche, che a volte hanno assai poco di ortodosso e di teologicamente corretto e ciò prevede ovvi anche se affascinanti pericoli; c’è infine – ma chi? – riesce a superare le rappresentazione del Divino sforzandosi di rendere un contenuto trascendentale attraverso forme visibili. 
Certi autori preferiscono parlare di Gesù in maniera indiretta, laica, operando così una scelta narrativa che più facilmente predispone alla riflessione ed al dialogo anche con il non credente: un Cristo immanente nell’umanità, parte egli stesso di essa, sofferente con i suoi simili e incarnato nell’uomo, quasi a esaltare la scheggia di divinità presente in ogni essere vivente sublimata poi nel momento del sacrificio estremo e della passione. Gesù, quindi, è rappresentato dalle virtù che l’essere vivente ha ereditato da Dio e che sono i suoi strumenti di santificazione: l’amore, la pazienza, la solidarietà, il dolore, il sacrificio, l’annientamento di sé fino alla morte.

 

11. JESUS CHRIST SUPERSTAR

JESUS CHRIST SUPERSTAR 
– film di Norman Jewison, 1973, USA - musical teatrale, di A. Lloyd Webber (musiche) e Tim Rice (parole), 1970, Londra 

SCHEDA FILMICA liberamente tratta da più autori 

Raccomandabile ma difficile è questo musical che porta sullo schermo la figura del Cristo dei Vangeli con i moduli espressivi della musica rock del regista di origine canadese (nato a Toronto 1926) ma che ha lavorato in America per il cinema e la televisione. 
Origine: Stati Uniti - Genere: Dramma musicale - Produz.: Norman Jewison, Robert Stigwood - Regia: Norman Jewison Interpr.: Ted Neeley, Carl Anderson, Yvonne Elliman, Barry Dennen Bod Bingram, Larry T. Marshall. Joshua Mostel, Kurt Yaghjan, Phili Toubus - Sogg. e scenegg.: Melvin Bragg, Norman Jewison tratto dal Rock opera «Jesus Christ Superstar» di Tim Rice-Fotografia (Cinescope, technicolor): Douglas Slocombe - Musica: Andrew Lloyd Webber - Durata: 105’ -Distribuz.: C.l.C. 

L’OPERA ROCK
Le opere rock sono un fenomeno tipico della cultura teatrale soprattutto americana degli anni Settanta, periodo in cui vivono il loro massimo, trasgressivo splendore. La loro denominazione significa che la storia è sì cantata in ogni sua parte, ma su musica rigorosamente rock. 
Il consenso clamoroso a questo genere di spettacolo contribuisce in maniera determinante alla sopravvivenza della commedia musicale, i cui fasti languono alla metà degli anni Cinquanta. L’epoca moderna, così ricca di anticonformismi e di attualità, non avrebbe mai potuto favorire uno spettacolo sofisticato, inverosimile, all’insegna della più totale evasione dalla realtà. 
La diffusione inesorabile della musica rock durante gli anni Sessanta e in seguito di quella pop nel corso degli anni Settanta apportano nuova linfa al musical, altrimenti destinato a scomparire. Il predominio della musica caratterizza fortemente questo tipo di performance e, conseguentemente, ampio spazio è dedicato alla danza e al canto piuttosto che alla narrazione fondata sulla recitazione. 
I temi principali di queste messinscene teatrali (adattate anche al cinema) riguardano solo parzialmente grandi questioni storiche, religiose, morali. Sono soprattutto le trasposizioni teatrali e cinematografiche dei fenomeni di costume come la droga e il pacifismo ad attirare l’attenzione di una parte speciale di pubblico, cioè i giovani. Alle porte degli anni Ottanta, poi, le ultime novità tematiche trattano di guerra, di fantasie fantascientifiche e di stranezze dell’orrore. 

Jesus Christ Superstar è una delle opere rock più famose degli anni Settanta: essa appartiene ad una gloriosa, lunga lista di creazioni teatrali di un celeberrimo duo inglese, Sir Andrew Lloyd Webber (autore delle musiche) e Tim Rice (paroliere).
Purtroppo, l’adattamento cinematografico del regista Norman Jewison del 1973 - la pellicola arriva in Italia solo nel 1974 – è causa della massima diffusione dell’opera, diventando la versione maggiormente conosciuta grazie alla grande distribuzione commerciale nei cinema di tutto il mondo. Infatti, è pressochè sconosciuta la curiosa genesi dell’opera, tutt’altro che destinata a Broadway o Hollywood. 
I due ventenni inglesi compongono i primi due brani musicali (il singolo Superstar e il pezzo strumentale John 9,41) di quella che diventerà una famosa colonna sonora già nel 1969. Il successo che arride a Webber e Rice negli Stati Uniti con questi due brani isolati (in Gran Bretagna non si raccolgono particolari consensi) spinge la casa discografica MCA ad investire su un album doppio, la cui lavorazione si protrae dal marzo al luglio del 1970. Un’orchestra sinfonica di ottantacinque membri sostiene ben sessanta sessioni per dar luce al long playing più venduto negli Stati Uniti nel 1971. Un dato indubbiamente sorprendente è che la presentazione dell’album a New York avviene nella chiesa di S. Peter, nell’ottobre del 1970, dando così inizio ad una fortunatissima tournée all’interno dei luoghi di culto di molti stati dell’Unione. 

Dopo quest’avventura puramente musicale, ecco che un produttore teatrale all’avanguardia come Robert Stigwood ne trae uno spettacolo teatrale che va in scena a Broadway, al Mark Hellinger, nell’ottobre del 1971. Soltanto l’anno dopo Jesus Christ Superstar approda in Europa, a Londra, giungendo a superare nel 1978 il record di performances nella storia del teatro inglese dopo 01iver Twist. 

VALUTAZIONE CRITICA GLOBALE
Prescindendo dalla sua particolare forma, questa pellicola potrebbe scandalizzare per il modo sbrigliato di riferirsi alla teologia e per il disegno aggressivo e apparentemente irriverente del Redentore e delle altre figure evangeliche. E’ indispensabile, per una sua obiettiva valutazione, analizzarla tenendo conto della sua particolare configurazione artistica: un moderno dramma musicale che si esprime con tutti i mezzi propri del linguaggio teatrale e cinematografico. Il valore dialettico è quasi sempre nascosto nei simbolismi delle immagini sia per il montaggio interno (= analogie o antitesi fra persone diverse, tra persona e scenografia, per cui, ad esempio, la figura umana del Cristo viene sublimata dalla sua emergenza rispetto alle civiltà tramontate o alla natura fantasticamente spettrale), sia per il montaggio esterno (= evoluzione tra quadri, scene e sequenze, per cui, ad esempio, le indelicate fantasie della Maddalena peccatrice trovano positiva risposta nelle reazioni della stessa, una volta redenta). L’efficacia drammatica, a momenti effettistica e violenta, è affidata tanto alla musica quanto alle interpretazioni e alle risorse ricavate dall’ insieme dell’opera. La figura del Cristo non vuole essere, e non è, nè quella della storia, nè quella dei Vangeli; è invece la figura umana e fortemente contrastata che gli autori raccolgono nel contesto dell’umanità odierna variamente rappresentata, anche se con preferenza per quella giovanile. Su questa imponente e misteriosa immagine, essi non esprimono giudizi definitivi, anche se, nelle canzoni e nella struttura narrativa a volte richiamano atteggiamenti rapportabili a determinate matrici: es. la rivendicazione di un Giuda “strumento provvidenziale”, o la presentazione di un Cristo umanamente perplesso circa la propria missione. In definitiva, gli autori - rivolgendosi più al cuore degli spettatori che alla loro mente - invitano a contemplare il Cristo; a meditare sul fatto del suo permanere perenne, sul suo suscitare entusiasmi e ripulse, lasciando a ciascuno di trarre giudizi e deduzioni pratiche di cui neppure propongono le direzioni. 

Una tale fisionomia di spettacolo di fantasia religiosa è esaltante e stimolante, anche per la ricchezza artistica del lavoro, merita perciò una raccomandazione, ma esige, tuttavia, accostamento avveduto e cosciente. Gesù si occupa disinteressatamente degli altri fino alla morte; al tempo stesso, con la propria parola e le proprie azioni, si eleva al di sopra di tutti: segno di ammirazione per alcuni, segno di contraddizione per altri.

« Jesus Christ Superstar è la storia degli ultimi giorni di Cristo sulla Terra secondo canoni non ortodossi, ovvero vicini ad una sensibilità di tipo calvinista. La matrice clamorosamente hippy resa ancora più evidente dagli accessori e dall’abbigliamento indossati dagli attori - cantanti è marcatamente presente nel film di Jewison. Questi, infatti, ha trasformato l’idea originale dei due autori rigorosamente fedele alla tradizione naturalistica del teatro inglese, in una commedia musicale dove l’eternità dei temi e l’attualità dei giovani pacifisti dell’epoca si fondono. 
Mentre sulle tavole del palcoscenico Webber e Rice rispettano l’ambientazione e i costumi dell’antica Palestina, Norman Jewison confeziona un prodotto modellato sulla gioventù scanzonata e ribelle degli anni Settanta, quasi si trattasse di ricreare l’atmosfera di uno psichedelico raduno rock. Invano gli autori si opposero alla distribuzione del film che non proponeva affatto come grande forza emotiva quella unicamente suscitata dai testi delle canzoni: alla fine il colorato cast del film e le coreografie impressionano maggiormente lo spettatore di quanto non riescano a fare certe partiture. 
Le figure principali della storia di Gesù Superstar (è utilissimo distinguere subito il Messia da questa versione profana e immanentista) sono innanzitutto Giuda (un uomo nero, vestito di rosso) e Maria Maddalena. I Dodici prescelti restano anonimi, eccetto Simone Zelota e Pietro. Caifa ed Anna sono i due leaders della casta sacerdotale, distinguendosi per la spietatezza e la furbizia. Re Erode è una figura abbastanza fedele alla fama di cortigiano a noi tramandata. Nel caso di Ponzio Pilato abbiamo un tentativo di riabilitazione perfettamente riuscito, come per il personaggio di Giuda: entrambi sono vittime di un disegno divino che cercano di sovvertire fin dall’inizio. 
Quello di Gesù Superstar è un mondo di giovani alla ricerca dell’amore universale: essi sono l’unica famiglia che viene concessa a Gesù. La famiglia di origine del Maestro è un tema totalmente ignorato: la Madre di Gesù non compare e l’unica menzione a Giuseppe il falegname viene fatta da Giuda. La sola voce di donna è quella di Maddalena, la donna perduta e riscattata da Gesù, segretamente turbata dai sentimenti di devozione e di protezione che lo stesso provoca in lei. 
Gli ultimi giorni di Gesù Superstar prima del martirio e della crocifissione sono caratterizzati da profonde crisi di paura: egli non riesce ad accettare l’idea del sacrificio e l’abbandono di una vita normale desiderata da pressochè tutti i personaggi. Gesù Superstar soffre terribilmente del tradimento di Giuda e del suo suicidio, egli si sente ferito dal comportamento di Pietro e dalla generale indolenza dei suoi seguaci. Purtroppo il popolo di Gerusalemme è interessato ad un leader politico che conduca la Palestina verso un futuro di libertà dall’oppressione romana, quindi tutte le parole d’amore e di fratellanza predicate da Gesù cadono nel vuoto. 

In quest’opera non viene fatto mai alcun cenno alla vita eterna. Lo stesso presunto Figlio di Dio combatte disperatamente per rimanere fra i suoi simili. C’è una grande solitudine che aleggia su tutti i protagonisti, non c’è alcuna prospettiva che renda l’uomo qualcosa di più che un mammifero uguale a se stesso da duemila anni a oggi. Così, alla fine, non restano che l’omicidio di un falso profeta e il suicidio di un delatore di dubbia fama. Ogni personaggio vive isolatamente ed egoisticamente un’avventura di libertà finalizzata a scopi terreni, nessuno vuole guardare oltre i bisogni e le ambizioni umane. 
L’immagine finale del Gòlgota con una sola croce che vi troneggia mentre la comitiva di attori sale sul bus che li ha accompagnati nel deserto per recitare nell’ouverture, lascia lo spettatore nell’impotenza e nella perplessità. Sembra un sacrificio inutile, quello dell’ennesimo profeta, lasciato solo ad affrontare una morte atroce. Non c’è alcuna speranza per i diseredati e gli oppressi della Terra, non c’è gloria per colui che ha creduto negli uomini più del necessario. Una storia che comincia e finisce in terra di Palestina, nulla di ultraterreno, nulla che offra asilo a tante anime mediocri e sofferenti. (Monica Donato) 

I PERSONAGGI

La figura del Cristo
Sotto l’aspetto narrativo Jesus Christ Superstar si concentra sull’ultima settimana di vita di Gesù, ripercorrendone gli episodi principali esposti nei Vangeli: dall’ingresso trionfale a Gerusalemme alla morte sulla croce. Sottolinea quel che avvenne nel gruppo che seguiva il Maestro, le preoccupazioni del Sinedrio, la passione e morte di Gesù. Particolare risalto conferisce alle persone. Mostra due gruppi corali: i discepoli di Gesù e il Sinedrio, e Lui, il grande protagonista. 
Accanto a Lui, due personalità antitetiche: Giuda e la Maddalena. E poi una gran folla di personaggi, più o meno importanti. Assente Maria, madre di Gesù, che i Vangeli ricordano ai piedi della croce e che ha tanto rilievo nella tradizione cristiana. Il film cerca di sottolineare, spesso con elementi simbolici, certe caratteristiche esclusive di Gesù «superstar». Dopo la sua incarcerazione - in uno dei brani più espressivi e significativi del film - gli intimi di Gesù parlano con la sua «ombra»: la Maddalena chiede conforto e sicurezza; Pietro dice: «Fermati!»; il coro degli apostoli e dei discepoli implora. Ma Gesù è lontano e s’allontana sempre di più: dovranno sapere misurarsi col proprio desiderio di Lui e col significato della sua presenza nella loro vita. 
Gesù è un uomo «superiore». Dopo la condanna a morte viene rivestito della tunica. E’ di spalle; si gira su se stesso: appare rinnovato. Una croce luminosa scende dal cielo sull’anfiteatro, e trasporta Giuda che vi sta aggrappato. Giunto a terra inizia un canto frenetico rivolto al Cristo, che sempre più splendente osserva la scena. 
Gesù è uomo di luce. 
E la croce lo svela in pieno. Inchiodato, Gesù è sollevato nel sole. Mentre spira, scoppia un fulgore abbagliante. Ma anche in altre occasioni il suo volto è illuminato; spesso in contro luce, come se fosse abbagliato lo spettatore. 

Maria Maddalena e Giuda
Sono rari i momenti, nel film, in cui Gesù è solo; abitualmente è con gli altri o in rapporto dialettico con loro. Giuda e la Maddalena spiccano su tutti. Essi rappresentano le due anime (razionalistica e fideistica) dei discepoli di Gesù e, al tempo stesso, quasi una doppia coscienza del Salvatore. Cercano di capire Gesù e cercano anche di forzare le barriere della sua personalità, tentando quasi di sostituirsi alla sua volontà quando sembra loro che Egli rallenti troppo il ritmo delle proprie decisioni. La differenza sta nel fatto che la Maddalena mette a prova l’umanità di Gesù, Giuda ne mette a prova la missione. La Maddalena si appoggia a Gesù e lo vorrebbe quasi tutto per sè; Giuda vuole stanarlo e costringerlo a imporsi alle autorità e al popolo. C’è da notare che, per tutto il film, Giuda e la Maddalena fanno da contrappunto a Gesù. Ma nell’epilogo sembrano quasi trasformarsi nella coscienza o, almeno, nello sguardo dello spettatore: dopo la «rappresentazione» la troupe risale sul pullman; la Maddalena si volta a guardare verso il Golgota. Giuda pure si volta a guardare verso il Golgota, come se qualcosa fosse davvero successo o si fosse rinnovato, e non solo rappresentato. Nei riguardi di Gesù la Maddalena è confortatrice e consolatrice, anche quando non capisce i suoi moventi o le sue azioni. é onnipresente accanto a Lui. Gli asciuga il volto, lo accudisce e lo unge d’unguento; gli sta a lato nell’osanna festante; lo addormenta e lo veglia; è prostrata ai piedi della croce. 
Inoltre, narrativamente e tematicamente, la figura di Maria Maddalena è bilanciata da quella di Giuda, vero e proprio antagonista di Gesù. Giuda ha, fin dall’inizio del film, un proprio spazio esclusivo e determinante. Si autopresenta come interlocutore privilegiato del Maestro, convinto d’esser l’unico ad averlo capito e di essere il suo braccio destro. Ma è scandalizzato perchè Gesù non si comporta come lui vorrebbe (subendo le attenzioni della Maddalena e il faticoso assedio di bambini e adulti) e perchè s’è lasciato prender la mano dagli avvenimenti e dall’entusiasmo degli ingenui. Perciò è perplesso alla cacciata dei mercanti dal tempio e, all’ultima cena, gli grida: «Ti ammiravo, ora ti disprezzo!». Per costringerlo a rientrare in sè, lo tradisce: così sarà obbligato a prender posizione pubblicamente e definitivamente come un vero capo. 
Gesù, che sembra accettare le attenzioni della Maddalena con la condiscendenza dell’uomo superiore, ribatte invece colpo su colpo a Giuda: lo accetta come interlocutore. Qualche volta gli risponde seccamente; un’altra volta lo invita alla speranza, lo carezza e gli stringe la mano (le due mani strette, mostrate sullo schermo in primo piano, sottolineano l’unione dei destini di Giuda e di Gesù). All’ultima cena lo affronta apertamente e poi cerca di trattenerlo. E’ uno spirito tormentato, Giuda. Esprime gli stessi dubbi della Maddalena riguardo a Gesù: è solo un uomo? Però, mentre la Maddalena si interroga: «come l’amo?», lui si chiede se Gesù l’ama. 

Dopo il tradimento Giuda si pente e s’impicca. Segue, sullo schermo, un silenzio rispettoso che sembra una muta risposta all’interrogativo del traditore a Dio: «Perchè hai scelto me per eseguire i tuoi piani?». Anche dopo morto, benchè pacificato (è vestito di bianco, segno del rinnovamento operato in lui dal suo pentimento e dall’imminente sacrificio del Salvatore), chiede a Gesù il significato delle sue parole e delle sue promesse. 
Altri sensi e altri simboli si possono identificare nella stessa immagine “fisica” di Giuda. Lui è nero, mentre Gesù è biondo. Un contrasto romantico, simbolizzante il contrasto delle personalità: l’uno tenebre l’altro luce, l’uno morte l’altro vita. Ma, a livello della tematica della salvezza, Giuda è l’emblema di tutti gli oppressi («neri») e di tutti coloro che anelano alla salvezza ma non la trovano, perchè non sanno cercarla. E’ questa l’interpretazione specifica attribuita dal film alla figura di Giuda. 

Gli altri personaggi
Degli altri personaggi, alcuni si confondono - chi più chi meno - nell’anonimato dei gruppi, altri assolvono un compito nei confronti di Gesù. Fra questi ultimi: Caifa, Pilato, Erode. Essi agiscono parte in proprio e parte in contrappunto col gruppo che rappresentano: Caifa e il Sinedrio, Pilato e i soldati romani, Erode e la sua corte. 

Caifa è l’unico ad aver le idee chiare su Gesù e ad aver coscienza del pericolo che rappresenta: non possiamo lasciarlo libero, per il bene del paese deve morire. 

Il Sinedrio, pieno di paure e di preoccupazioni per il proprio potere, segue pedissequamente Caifa. Gesù dà importanza al personaggio Caifa. All’ingresso a Gerusalemme gli fa notare l’incoercibilità del trionfo. E nell’interrogatorio supremo gli tiene testa. 

Come dà importanza pure a Pilato, un personaggio moralmente piuttosto squallido, nella rappresentazione del film. Pilato esprime, fin dal primo apparire, perplessità su Gesù. Ne uscirà fuori non con una decisione ma con l’aggirare il problema attraverso l’ironia: nei riguardi di Gesù, del Sinedrio, di Erode. Ma quando dovrà affrontarlo, nonostante tutto, se ne laverà le mani. Non sapendo cavarsela di fronte alle minacce e alle richieste del popolo, passa dall’ironia alla rabbia impotente che scarica sull’indifeso Gesù: «Muori se vuoi morire, martire fuorviato, innocente fantoccio!». 
Sulla sua ironia, nata dalla paura e non da un superiore senso di sicurezza, è passata invano la parola chiarificatrice di Gesù che parlava di verità e di autorità proveniente dall’alto. Più meditativa la moglie che avverte qualcosa d’insolito nel personaggio Gesù, in linea con quanto appare di lei nei Vangeli. 

Mentre vengono forzati un po’ i Vangeli nella rappresentazione di Erode e della sua ambigua e folcloristica corte. Un Erode da operetta che sembra uscito da uno spettacolo parodistico di Paolo Poli. Si vuol divertire a spese del «giocoliere» Gesù e sghignazza sadicamente alla flagellazione. Al suo silenzio s’infuria - Gesù lo ricusa come interlocutore - e lo caccia istericamente: «Vattene dalla mia vita!». Ma così risulta una figura un po’ pleonastica o solo coreografica, essendo quasi completamente assente l’ambivalenza della sua psicologia così bene illustrata dai Vangeli (ammira Giovanni Battista e lo fa uccidere, teme Gesù e lo irride, vuol essere autonomo ed è succube di Roma). C’è che da aggiungere che il clima farsesco che emana dal personaggio e dal suo contorno stona un po’ col tono abituale del film. 

Gli apostoli non hanno una parte molto attiva nella vicenda. Spiccano sugli altri Pietro, al cui rinnegamento viene dato un certo spazio, e Simone lo Zelota che fa balenare agli occhi di Gesù suadenti tentazioni di riscatto politico. Anche sugli apostoli, Gesù esprime perplessità e dubbi. Non è sicuro della loro comprensione e della tenuta della loro fedeltà e del loro ricordo. Ma affronterà ugualmente la morte: loro e gli altri capiranno in seguito. 

VALUTAZIONE ETICO-SOCIALE
Il Gesù di Jesus Christ Superstar non è esattamente il Gesù dei Vangeli. I quattro evangelisti annunziano lo stesso Cristo, ma ognuno in modo diverso. Il Gesù dei Vangeli: 
Marco sottolinea la concretezza della vicenda umana di Gesù nelle componenti di povertà, di nascondimento, di sofferenza. 
Matteo ricorda l’attesa nel Vecchio Testamento di un intervento di Dio tra gli uomini che instaurasse definitivamente la sua sovranità salvifica sul mondo: in Gesù questo regno è venuto tra noi, si è fatto vicino; nella Chiesa si realizza e cresce fino al suo compimento. 
Luca identifica in Gesù, Figlio di Dio, «il Signore» di tutta la storia il Salvatore di tutti gli uomini; non però col dominio trionfante ma con la passione e la morte; e Dio Padre lo porrà alla sua destra. 
Giovanni testimonia che Gesù è colui nel quale si compiono tutte le promesse e le attese antico testamentarie, colui dal quale soltanto può dipendere la salvezza del mondo, perchè Figlio inviato dal Padre: i «segni e le opere» di Gesù nella vita pubblica preludono alla sua passione - glorificazione. 

In Jesus Christ Superstar manca qualunque accenno al compimento delle promesse di Dio nell’Antico Testamento e a quelle caratteristiche che vengono assegnate al Messia: re, profeta, sacerdote. E la sua fedeltà ai Vangeli è piuttosto materiale ed esteriore, anche se sufficiente (salvo certe omissioni, come Maria madre di Gesù e i miracoli, e certe parafrasi banalizzanti delle parole e dei personaggi). 
Comunque, anche se appare una «laicizzazione» dei Vangeli, Jesus Christ Superstar contiene elementi significativi che collocano Gesù e il suo messaggio in una dimensione super. 

Il messaggio di Gesù è un messaggio d’amore, di fraternità, di convivenza comunitaria, di dedizione; lo si vede dalle sue parole e dalle sue azioni. 
Anche gli altri personaggi illustrano la cosa; o per somiglianza - la Maddalena, sopra tutti - o per contrapposizione: Giuda pensa troppo e ama poco, Pietro rinnega, Simone vuole la rivolta, Pilato ironizza, Erode disprezza, Caifa giudica secondo la ragion di stato, i discepoli più che dare aspettano qualcosa, anche i malati pretendono e assediano Gesù fino a infastidirlo. 
Tematicamente la figura di Gesù è all’insegna della croce e del gregge. I due motivi si fondono nelle inquadrature finali, accentuando l’importanza fondamentale attribuita al sacrificio oblativo di Gesù. 
La croce, oltre a campeggiare sul Calvario, appare e spicca sul pullman della troupe e gli attori la sollevano in alto prima di tirarla giù. Ma anche il sole brilla a forma di croce e luci a forma di croce illuminano più volte i personaggi. 
Il motivo del gregge - in linea con le silouhettes finali - sarebbe l’equivalente simbolico del piccolo gregge degli apostoli e discepoli e, in linea con la tematica, quello dei futuri seguaci di Gesù. 
Un gregge appare in momenti cruciali della vicenda, con significati collegati anche al contesto immediato. Si vedono soldati romani e poi un branco di pecore nere (i pagani?). Un pastore col gregge s’intravede poco prima dell’ultima cena (cioè l’ultima volta che Gesù raduna il gruppo dei fedelissimi). Giuda scappa dall’ultima cena; dietro di lui pecore rossastre corrono (il gregge di Gesù cosparso del suo sangue?). I soldati che conducono Gesù al patibolo incrociano un gregge (l’umanità per la quale Cristo s’immola?). Nella sequenza finale: il pullman va via; campeggia la croce; dietro la croce il sole; un’ombra umana, seguita da un gregge. 

VALUTAZIONE FILMICA
Cronologicamente Jesus Christ Superstar si colloca in un periodo in cui tendenze mistiche serpeggiavano nella società americana coinvolgendo giovani e adulti in movimenti e comportamenti a volte esaltanti, altre volte drammatici. 

Ma intenzionalmente il film s’inserisce nel Christ - revival e nella Jesus - revolution, vigorosa ripresa di elementi cristiani iniziata in America a metà degli anni ‘60. Vi si suole assegnare una data di nascita: una inchiesta del Time sulla «morte di Dio» che rivelò quanto fosse in crisi tra gli americani l’idea di Dio e quanto poco attirasse una entità «astratta». Il rimedio sembrava essere quello di far convergere l’attenzione e l’interesse delle masse su Cristo personaggio concreto: «eroe spirituale» con idee chiare e precise. 
Oltre tutto la Jesus revolution era più sicura e meno aberrante del ricorso alla droga o a certe esperienze mistiche spersonalizzanti. La cosa incontrò il gradimento delle autorità religiose cristiane e soprattutto quello del mondo degli affari che la sfruttò ampiamente. 
Jesus Christ Superstar si colloca a uguale distanza tra l’esaltazione dell’idea e il suo sfruttamento commerciale. 

E’ un oratorio sacro modernizzato e americanizzato. O, se si vuole, è una sacra rappresentazione in cui gli spettatori stanno soltanto a guardare: invitati più a stupirsi (per la tecnologia, la musica, le scenografie) che a partecipare. Tale impressione è accresciuta dalla circostanza che il film dà la vicenda come «rappresentata» da una troupe, ma non mostra spettatori che si trasformano in partecipanti. 
Comunque, sembra più oratorio sacro da teatro che sacra rappresentazione medievale (o, ancora oggi, «popolare», in tante parti del mondo, proprio in occasione della settimana santa), dove l’essenziale era la proposta o il rinnovamento dell’avvenimento sacro con l’intento pedagogico di formare o, almeno, d’informare. 
Jesus Christ Superstar ha poco di «liturgico», a causa della prevalenza della componente «spettacolo», cioè del divertimento. Però può rappresentare molto per uno spettatore che sappia passare dall’emozione alla riflessione. 
L’intonazione corale del film - propria del genere musical - risponde all’interpretazione di Gesù come Salvatore universale. Gli apostoli e i discepoli vengono mostrati non come un blocco di ingenui e di fanatici ma con diversificazioni che arrivano fino alla critica e sofferta adesione al messaggio e alla persona di Cristo. 
Lo stesso Gesù, in linea con una moderna esegesi, viene analizzato anche nei dubbi sulla propria missione e sulla riuscita di essa. Il finale del film - abbiamo già sottolineato - precisa il senso di lieto presagio della croce, dietro la quale splende il sole, e allude ellitticamente, almeno per un cristiano, alla Resurrezione: la troupe risale sul pullman, manca però l’interprete di Gesù. E sotto il legno della croce si muovono le sagome di un pastore e di un gregge: con reminiscenza evangelica potrebbero riferirsi alla Chiesa o a tutti coloro che nei secoli ascolteranno la parola di Cristo. 
Ma sono suggestioni, più che accenni, sia pure incompleti. Il Gesù della tradizione cristiana, invece, non balugina - come nel film - in una atmosfera flou (i pascoli del cielo? la seconda vita della superstar nella memoria trasfigurante dei fans?), ma risorgerà e continuerà a vivere nel suo definitivo stato di risorto. 
Comunque non si può negare che Jesus Christ Superstar esprima il desiderio di constatare la presenza fisica di Gesù nella storia umana e di esaltarsi alla sua figura d’uomo superiore, divo - e chissà - divino. Ma nonostante tutto, la «confezione» dello spettacolo sembra prevalere sull’intento edificante della tematica: belle musiche, interpreti adatti, scenografie grandiose, ritmo travolgente. 
Certe sottolineature spettacolari e certe omissioni tematiche dipendono dalla forma scelta: un musical, per giunta a tempo di rock. 
Senz’altro il rock è diventato un linguaggio universale e ha dimostrato, alla fonte, di sapere trattare anche l’argomento religioso (Godspell, Jesus Christ Superstar) e quello sacro – simbolico (Tommy, Hair). 
Il problema è, allora, se il rock (e Jesus Christ Superstar in particolare), anche alla foce, (ascoltatori, spettatori) veicola i contenuti o se questi vengono eclissati dalla forma (e forse sono un pretesto già alla fonte). 
Tuttavia si può riconoscere al rock di Jesus Christ Superstar la capacità di far accertare, in maniera emotiva, che Gesù Cristo è una superstar della storia. Ma non molto più di questo, anche se all’uscita del film ci furono in campo cattolico riconoscimenti abbastanza lusinghieri. Vi si vide un’opera di elevato livello artistico e di sofferta meditazione che può costituire, per i non credenti, un richiamo ai valori spirituali e una riproposta di Cristo in termini etici; e, per i credenti, una conferma alla fede nei Vangeli. 
In effetti può diventare tutto ciò se vi si aggiunge qualcosa di essenziale: il rapporto tra la morte di Cristo e la sua risurrezione, il legame tra l’umanità di Cristo e la sua divinità. Un appiglio a questa indispensabile aggiunta può essere fornito da due elementi del film che vi sembrano particolarmente predisposti: le opere e le parole di Gesù, da una parte, e, dall’altra, la scenografia. 

Quanto alle parole e alle opere, Gesù, Parola di Dio, è il culmine della «rivelazione» che Dio fa di se stesso all’umanità, di quel suo voler «conversare» con gli uomini. Gesù dà senso alle parole e agli avvenimenti che lungo i secoli avevano manifestato la presenza di Dio agli uomini. 
Quanto alla scenografia, soprattutto nei suoi elementi «naturali» (la maestà del deserto, la luce): le cose create sono già un primo modo di Dio di manifestarsi agli uomini. In questo senso certe accentuazioni scenografiche si potrebbero considerare come indizi di realtà profonde e misteriose. Come pure, negli elementi «attualizzanti», si potrebbe intravedere la coestensione della presenza di Dio alla storia umana. 
Partendo da queste suggestioni e aggiungendo quel che manca, il Cristo dell’esaltazione poetica e musicale del film – Superstar - può diventare il Cristo della fede: salvatore del mondo. Gesù è superstar non solo perchè è il «migliore», ma perchè è sopra a tutti e a tutto; non solo perchè è il «primo di tutti», ma perchè è il «Principio» di tutto. 

OPINIONI DELLA CRITICA
«Quale Cristo? E’ l’interrogativo importante. Non urliamo al sacrilegio. La veste spettacolare indossata da Jesus Christ Superstar non ci disturba. Un’espressione rappresentativa (fino a un certo punto) vale l’altra: conta il discorso che propugna. Le deformazioni narrative e le variazioni linguistiche rispetto all’originale evangelico di un’operazione di fantasia sono naturali. Urti, stridori, irriverenze ci paiono cautamente girate. 
Semmai agli occhi del credente la massiccia “falsificazione” consiste in un’imperdonabile omissione. Parlare della croce tacendo della risurrezione è un non - senso. Morte e glorificazione sono le due inseparabili componenti dell’esaltazione del Cristo. Si vede che il Vangelo di Giovanni, quale Jewison dichiara di essersi prevalentemente ispirato, non l’ha alcun modo capito». (Luigi Bini in «Letture», 1974, n. 3, p. 244). 
«Il discorso, se mi è permesso dire, è cristologico e non teologico. Dal punto di vista teologico il Cristo di Superstar è a posto. Ma non così, pare, lo spessore cristologico. Con questo voglio dire una cosa che pare essenziale se si discute circa la reale novità della proposta, e novità non solo formale ed espressiva ma contenutistica. E la cosa è questa: non è sufficiente che il Cristo ci dica e confessi che è Dio; è invece necessario che si prenda coscienza totale e profonda che egli è uomo, l’uomo che nella Passione ha assunto, assorbito, vissuto tutto l’umano tragico e provocante della sofferenza e dell’assurdo. In questo caso egli è veramente rivelazione di Dio, cioè dice realmente chi è Dio per noi, e cosa fa Dio per noi». (Vittorino Joannes in «Cineforum», 1974, n. 133, p. 455).

 

12. PROBLEMI INSITI

Ma come raccontare questa meravigliosa storia? Quella più classica e semplice sarebbe stata quella cronologica, dalla nascita alla morte in croce. Invece si è optato per una scelta più ambiziosa: raccontare sì Gesù ma anche interpretarlo. L’autore sensibile presto si accorge che non è facile parlare di Gesù tenendo presente che è anche Dio: rappresentare la storia di un uomo è semplice e normale, ma portare sullo schermo o sul palcoscenico la storia di un Uomo-Dio è assai più problematico. Infatti il problema sta nel credere che l’uomo Gesù sia pure Dio. Il dubbio non poche volte ha attraversato le mente dei discepoli fra i più intimi; immaginiamoci a distanza di duemila anni!! 
Inoltre non dobbiamo trascurare l’interpretazione che ogni artista dà di Gesù. Ognuno è sempre tentato quando si avvicina ad una persona carismatica di aggiungere qualcosa di suo. Ed è giusto che lo faccia, soprattutto se vi si accosta con intelligenza e sensibilità. Tuttavia, anche chi si ripropone la più rigorosa fedeltà agli avvenimenti reali o ai testi d’origine può compiere un atto artistico di rilievo: se testi, fatti, tempi, personaggi sono quelli noti, può essere, invece, assai personale l’utilizzo del linguaggio. Quello cinematografico è assai ricco e complesso, per cui ricco e complesso si manifesterà il racconto. 
Infine, che cosa va rispettato della storia di Cristo? La sua vera natura di uomo, con tutti i suoi limiti, le gioie e le debolezze, e la sua natura divina, che non può però lasciare spazio in Cristo al peccato.

 

13. LO STUDIO CRITICO DI MARCO VANELLI

Marco Vanelli, direttore di Ciemme in Quaresimali di celluloide. I segni della Passione nel cinema muto
I cineasti del primo decennio della storia del cinema, al momento in cui cominciarono a realizzare promettenti guadagni grazie a un mercato che si rivelava straordinariamente in espansione, sentirono il bisogno di crearsi una maggiore rispettabilità con prodotti che potessero essere considerati seri e edificanti, lasciandosi così alle spalle le scene di strada e i treni in arrivo. La Bibbia in generale e i Vangeli in particolare, offrivano uno sterminato repertorio per narrazioni al tempo stesso popolari e moralmente ineccepibili. 

Una nuova immagine di Gesù, fatta di celluloide, cresce e matura col cinema, e la sua vicenda umana, conosciuta da chiunque nelle sue tappe fondamentali, diventa la base per un racconto filmico articolato e ambizioso. 
Le "sacre rappresentazioni" che per secoli avevano fatto breccia nella spiritualità e nella fantasia popolare, trovano una forma di diffusione capillare nel nuovo mezzo, impregnato di magia e di fascino visionario, in cui confluisce anche tutta la tradizione iconografica occidentale (affreschi, bassorilievi, sculture, vetrate, mosaici) che da sempre era stata un sostegno efficace alla predicazione. Nascono così le tante Passioni cinematografiche, a partire da quella degli stessi inventori del cinematografo, i Lumière, che nel 1897 realizzano tredici inquadrature indipendenti fra loro, ma tutte dedicate a episodi della vita di Gesù, che pur non presentando "nessun nesso organico di continuità narrativa" potevano essere proiettate in successione, gettando in questo modo le basi per l'elaborazione successiva del montaggio. 

Qualche mese prima dei Lumière c'era già stata una Passion realizzata da Kirchner, detto Léar; poi, tra le altre, viene quella statunitense del 1898, detta «di Oberammergau», quella di Sigmund Lubin (1898), girata a Philadelphia, per tornare di nuovo in Francia, col visionario Méliès (Christ marchant sur les eaux, 1899), e passare in Italia con la Passione (1900) di Luigi Topi, divisa in dieci scene... Dovunque si moltiplicano e si diffondono questi film, che incrinano l'originaria diffidenza degli uomini di fede verso il cinematografo. Intanto la tecnica di ripresa si perfeziona e nuove meraviglie visive vengono a sovrapporsi all'originario impianto teatrale delle prime Passioni filmate. 

In questo senso le più celebri resteranno quelle prodotte dalla Pathé Freres a partire dal 1900, quasi una "vulgata" dell'iconografia cinematografica del Cristo che si viene formando, concepita come progressivo perfezionamento di un medesimo repertorio, cui potevano aggiungersi nuovi ‘tableaux vivants’ a integrazione del racconto - base. Esistevano i cataloghi annuali di vendita della Pathé, aggiornati con le novità che potevano integrarsi ai film precedenti. 
Poco importava che gli attori cambiassero, i costumi non fossero esattamente gli stessi e le scenografie venissero riciclate per ambienti diversi. 
Restava l'intuizione di un ‘work in progress’, componibile nel suo farsi, adattabile ai gusti e alle disponibilità economiche dei singoli gestori delle sale che acquistavano le copie. 

Forse la più famosa delle Passions Pathé è: La Vie et la Passion du Christ realizzata nel 1907 e oggetto di varie "manipolazioni". Riccardo Redi, che ne ha fatto un'analisi filologica puntuale, ricorda come oggi sia "praticamente impossibile reperire una copia integra del film, mentre sono accessibili numerose copie in cui sono arbitrariamente mescolati tra loro quadri tratti dalle diverse edizioni dello stesso soggetto". Così lo studioso, sulla base di un precedente tentativo di Fausto Montesanti, mette a confronto le quattro copie conservate in Italia dalla Cineteca Nazionale, che si rivelano «incredibili collages, che mescolano quadri di anni diversi, senza preoccuparsi neppure della continuità delle situazioni e degli ambienti: a volte persino i personaggi principali - lo stesso Gesù Cristo - cambiano volto improvvisamente. 

Se noi oggi siamo in grado di cominciare a metter ordine è perché il materiale è divenuto abbondante e gli studi sono progrediti». 
Infatti, a complicare di più le cose interviene una successiva edizione (1913), la cui sceneggiatura è stata pubblicata di recente da Emmanuelle Toulet, sorta di summa delle Passioni precedenti. 
Questa negli Stati Uniti uscì nel 1914 col titolo: The Life of Our Saviour. Oltre alla consueta aggiunta di nuove riprese si trattò di una versione colorata a mano. Il critico di "Variety" (aprile 1914) ne parlò con entusiasmo senza riconoscervi il vecchio film, rieditato e integrato: «Non importa ciò che questi o quegli si accinge a dire: il film [The Life of Our Saviour] ci lascia una durevole impressione che non verrà mai cancellata. Anche il gestore della sala proverà un sussulto e dovrà aggrottare un bel po' di volte le sopracciglia quando mostrerà questo film sullo stesso schermo dove qualche settimana o mese prima egli proiettava qualche malsana e scadente pellicola sul vizio».

Sempre in America avvenne un ulteriore passaggio. Nel 1921 la precedente versione colorata fu inserita a mo' di contrappunto biblico in una storia contemporanea, in bianco e nero, filmata da Spencer Gordon Bennet, cui fu assegnato il nuovo titolo: Behold the Man! [Ecce homo!]. "Variety", nel gennaio di quell'anno, nuovamente non sembra accorgersi del vecchio materiale Pathé: «Si potrebbe dire che questa "rappresentazione plastica" è forse interessante, ma non eccessivamente. Ci viene il dubbio che una qualsiasi versione per lo schermo della vita di Cristo, nel senso strettamente ortodosso del termine, sarà mai interessante per il grosso pubblico».

Evidentemente il critico sbagliava, dato che il filone evangelico aveva già cominciato a fruttare film di maggior respiro narrativo e spettacolare, da From the Manger to the Cross (1913) di Sidney Olcott, al Christus (1914) di Giulio Antamoro; da The Man Nobody Knows (1925) di Errett LeRoy Knepp al Re dei Re (1927) di Cecil De Mille. 
Dove "Variety" sembra invece cogliere nel segno è in quel "senso strettamente ortodosso del termine", dato che per raggiungere una maggiore drammaticità ed efficacia spettacolare i nuovi film tendono a lasciarsi alle spalle l'originaria fonte dei Vangeli per attingere a soggetti dove la storia sacra viene rielaborata con disinvoltura. 

Ecco allora che si moltiplicano le edizioni di Quo Vadis? (1902, Zecca / 1911, Guazzoni / 1925, Ambrosio), di Ben-Hur (1907, Kalem / 1925, Niblo), di Salomè (1918, Edwards / 1923, Strass / 1923, Allied) o de L'ebreo errante (1913 / 1918 / 1923, Elvey), e salgono alla ribalta personaggi marginali come Salomè o la Maddalena che permettono una suggestiva rappresentazione del vizio prima del trionfo della virtù. 

E come la Passion Pathé (1913) era stata inserita nel 1921 in una cornice contemporanea con funzione allegorica, allo stesso modo nascono le "attualizzazioni", «trasgressive come narrazione e accostamenti. Così è di storie bibliche messe insieme a storie dell'umanità, per farne notare la correlazione". E se per queste ultime si tratta spesso di capolavori, quali Satana (1912) di Luigi Maggi, Intolerance (1916) di Grifiith, Civilization (1916) di Thomas H. Ince, Pagine dal libro di Satana (1921) del giovane Dreyer o I.N.R.I. (1923) di Robert Wiene, non altrettanto si può dire per le innumerevoli "attualizzazioni" frutto della neonata industria hollywoodiana. 

Qui troviamo moralità assortite in cui storie moderne vengono messe a confronto con quella sacra, tramite sogni, visioni, visualizzazioni di prediche o di pagine evangeliche, oppure grazie a più arditi accostamenti extradiegetici. Si va dal Gesù interpretato da Howard Gaye (lo stesso di Intolerance) che combatte il moderno Anticristo, cioè il Kaiser Guglielmo (Restitution, 1918, dello stesso Gaye, rieditato col titolo: The Conquering Christ) alla campagna anti - abortista di Lita Lawrence (Motherhood: Life's Greatest Miracle, 1928) che fa leva sulle immagini della Natività. Senza contare la Maddalena che ammonisce in sogno un genitore troppo severo, mostrandogli le conseguenze sociali dell'intolleranza (The Eternal Magdalene, 1919, di Arthur Hopkins) o il Cristo consolatore che si materializza in una statua, scolpita in cella da un condannato a morte (The Man Who Dared, 1920, di Emmett J. Flynn). 

Ancora qualche titolo di questo genere: 
- The Carpenter (1913) di Wilfred North, 
- The Three Wise Men (1913) di Colin Campbell, 
- A Daughter of the Hills (1913) di J. Searle Dawley, 
- Business Is Business (1915) di Otis Turner (da Mirabeau), 
- Light at Dusk (1916) di Edgard Lewis, 
- The Warfare of the Flesh (1917) di Edward Warren, 
- The Passing of the Third Floor Back (1917) dell’inglese Herbert Brenon (da Jerome K. Jerome), 
- The Unbeliever (1918) di Thomas Edison (con Erich von Stroheim nella parte dell'ufficiale tedesco), 
- What Shall We Do With Him?, 1919, di Harry Revier (ancora il Kaiser-Anticristo), 
- Thou Shalt Not (1919) di Charles J. Brabin, 
- The Woman of Lies (1919) di Gilbert Hamilton, 
- The Great Redeemer (1920) di Clarence Brown, 
- The Servant in the House (1921) di Jack Conway. 

Infine vogliamo ricordare anche qualche esempio di inserimento dei segni della Passione nel cinema dei primi maestri. Sono casi diversi fra loro, sia per la resa filmica, sia per il significato che assumono all'interno dell'opera, ma che qui accomuniamo per l'eccezionalità dei loro autori, capaci di richiamarsi al Cristo sofferente sia con valore di metafora, sia di icona da infrangere. 

- Il primo è Il monello (1921) di Charles Chaplin, dove troviamo una rapida similitudine visiva, grazie al montaggio, tra la via crucis della ragazza madre e la Via crucis propriamente detta. Quando Edna esce dall'ospedale della carità dove ha appena partorito, sotto lo sguardo severo della custode si incammina lentamente, senza soldi né lavoro, verso un mondo che, come sapremo più avanti, non è fatto di angeli; poi si ferma un attimo, incerta sulla direzione da prendere, e infine esce di campo verso destra. In quel punto Chaplin fa continuare idealmente il suo calvario montando per dissolvenza un'inquadratura del Cristo in silhouette, sul monte, con la croce sulle spalle, anche lui rivolto verso destra. Metafore verbali come «via crucis», «calvario», «povero cristo» vengono qui ricondotte all'immagine archetipica che le ha generate, per semplice accostamento poetico. 

- Veniamo a Metropolis (1926) di Fritz Lang. La simbologia cristiana abbonda in tutto il racconto, ma c'è un momento indimenticabile in cui il paragone tra le due vicende avviene senza forzature e quasi per intima conseguenza. Ci riferiamo alla sequenza in cui Freder scende nei sotterranei di Metropolis, si commuove per le condizioni degli schiavi e prende il posto di uno di loro, "condannato" a lavorare a una macchina - orologio i cui bracci devono essere mossi al ritmo delle lampadine intermittenti che la circondano. Al termine del turno di lavoro Freder, che dà le spalle alla macchina da presa, si volta, restando con le mani afferrate a quella sorta di lancette, le braccia distese come un crocifisso, mentre si rivolge in alto, dove risiede il padre - padrone di Metropolis, e geme: «Non avranno mai fine queste dieci ore?». 

- E chiudiamo con Luis Bunuel, l'iconoclasta per antonomasia, al quale, quindi, l'iconografia, compresa quella della Passione, serve per mettere in atto il suo progetto di un cinema che frantuma le immagini assodate e incide lo stesso strumento della visione, l'occhio. In Un chien andalou (1929) fra i tanti accostamenti onirici, surreali, attraenti e repulsivi, troviamo una mano stigmatizzata dalla quale escono formiche brulicanti, la cui visione esercita un fascino ambiguo sul suo stesso possessore. 

- E ancora più sconcertante risulta il finale del film successivo, L'Age d'or (1930), tecnicamente ed espressivamente sonoro, per quanto realizzato con stilemi ancora apparentabili al cinema muto. Dopo una lunga didascalia che rimanda al romanzo sadiano Le 120 giornate di Sodoma, inizia l'ultima sequenza che mostra, all'uscita dal Castello di Selliny, «la testa aureolata di un uomo con barba e baffi, vestito alla moda degli ebrei nel primo secolo della nostra era». È Gesù, che incede lentamente sul ponte coperto di neve come se fosse sul Calvario, seguito dai suoi compari, per rientrare nel Castello e compiere l'ultima nefandezza. Ne uscirà poco dopo, ma senza barba e baffi. 

L'allegra dissacrazione di Bunuel sembra chiudere definitivamente un'epoca cinematografica, quella che si era aperta con le ingenue e approssimative Passioni dai fondali di cartapesta, ma che aveva finito per trasformare Gesù in una star dello schermo. E per affondare ancor di più la sua lama di rasoio, il regista spagnolo ha scelto l'attore «Lionel Salem, che recita sempre in quella parte nei film francesi per la Pasqua».
Doppia iconoclastia, quindi. Per cui l'ultima inquadratura, che mostra una croce coperta da capigliature femminili «agitate dal vento e rese biancastre dalla neve» con il suo improvviso accompagnamento di un allegro valzerino dopo l'ossessivo ripetersi dei tamburi di Calanda, non è che la paradossale provocazione di chi ha saputo condensare il suo credo con le parole: «Io, grazie a Dio, sono ateo!».

 

BERTAGNA G. - IL VOLTO DI GESÙ NEL CINEMA

Bertagna G. - Il volto di Gesù nel cinema

Pardes Edizio­ni 2005, pp. 110, € 12,00.

Il volume del gesuita  padre Bertagna, diretto­re del centro culturale San Fedele di Milano, è l'ultimo dei quattro sag­gi pubblicati nella colla­na "Laboratorio".

Fin dalle origini il cinema ha cercato di racconta­re il volto di Gesù. Opere come Il Van­gelo secondo Matteo di Pier Paolo Paso­lini o The Passion of Christ di Mel Gib­son, pur con notevoli differenze di sti­le, lo mettono in evidenza. Ma, come mostra padre Bertagna, esistono anche tanti altri "volti" di Cristo nel cinema, non così evidenti a un primo sguardo, tuttavia altrettanto efficaci.,

Così è per la figura di Olivier ne Il figlio dei fratel­li Dardenne. Oppure figure di antieroi, di "poveri cristi" come in The Elephant Man di David Lynch, in Toro scatena­to di Martin Scorsese, in Onde del desti­no di Lars Von Trier, Au hasard Bal­thazar di Robert Bresson e in Andrej Rublev di Andrej Tarkovskii.

La lettu­ra è volutamente mirata per far riflette­re il lettore su come anche il cinema sia figlio della cultura cristiana.

 

CENTOCHIODI DI ERMANNO OLMI E IL 'CASO' GESÙ

Perché?   Su Gesù si polemizza da oltre 20 secoli e «Centochiodi», film del regista Ermanno Olmi, ha riacceso

la discussione. Perché i personaggi del film chiamano «Gesù» il protagonista Raz Degan? E perché il cattolico Olmi ha dato vita a un personaggio così controverso? Il suo Gesù, che fa il professore, distrugge i libri che contengono il sapere della Chiesa, sceglie di vivere come un barbone e dice che nessuna religione ha mai salvato il mondo. Che cosa pensare di questo Gesù? In queste pagine Mauro Anselmo, Filippo Di Giacomo, Adriano Sofri, monsignor Ignazio Sanna (intervistato da Ignazio Ingrao), Vito Mancuso e Goffredo Fofi hanno risposto alla domanda.

di Mauro Anselmo su Panorama del 12. 04. 2007

Ancora Gesù. Eccolo qua, a occupare ancora una volta la scena, a dettare oggi i tempi televisivi e gli spazi del confronto culturale. Del resto, chi può re­sistere al fascino del falegname di Naza­reth?

-Lunedì sera la prima parte del film L'inchiesta, su Raiuno, ha fatto il 28 per cento di share stracciando Carabinieri su Canale 5.

-In soli sei mesi Inchiesta su Gesù (Mondadori), il volume di Corrado Au­gias e Mauro Pesce messo sotto accusa dal­la gerarchia cattolica, si avvia a superare il mezzo milione di copie.

-E Centochiodi, il film di Ermanno Olmi in questi giorni su­gli schermi, è diventato un caso. Anzi, il caso. Se ne parla su tutti i fronti: per re­spingerlo, come ha fatto Giuliano Ferra­ta, o per esaltarlo, come ha scritto Euge­nio Scalfari. E questo perché il protagoni­sta del film, il professorino bello e casual che gli altri personaggi chiamano «Gesù», è un tipo che divide.

Insegnante di filosofia della religione, rifiuta in blocco il sapere della Chiesa. Ha studiato Aristotele e Tommaso, sa che co­sa sono la metafisica e la legge naturale, e proprio in questi tempi nei quali la Chie­sa innalza il vessillo del proprio pensiero per entrare in conflitto con lo stato laico in materia di morale, lui, il docente di una non meglio precisata facoltà teologica del Nord Italia, fa scempio di 100 preziosis­simi volumi inchiodandoli al pavimento della biblioteca. Perché? Non sono forse proprio questi volumi a custodire il sape­re della Chiesa? E i precetti che si leggo­no in quelle pagine non sono forse stati ispirati dal soffio della Verità divina? O forse è vero il contrario? E cioè che il sa­pere dei sacerdoti e dei dotti ha ridotto quella Verità a lettera morta, a legge lon­tana dall'uomo e incapace di pietà?

Il professorino distrugge i libri e se ne va. Lascia la Bmw lungo la strada, sceglie di vivere in una baracca lungo il fiume e di voler bene alla gente. Non annuncia la salvezza, non promette la vita eterna. Non si rivolge mai al Padre e non spiega la pre­senza del male nel mondo con «il disegno imperscrutabile di Dio». Anzi, quando il vecchio sacerdote gli grida che nel giorno del Giudizio dovrà rispondere a Dio per la distruzione dei 100 libri, lui risponde così: «Sarà Dio che nel giorno del Giudi­zio dovrà rispondere di tutta la sofferenza che c'è nel mondo».

Ci piace questo Gesù? Lo riteniamo un impostore o lo vorremmo come amico?

 

Oggi continua a fare scandalo

E non è a colpi di revisionismo storico che riusciremo a capire fino in fondo la sua figura.

di FILIPPO DI GIACOMO

Gesù ritorna sulla piazza. E subito spo­pola. Sia che si parli male di lui, sia che lo si lodi, il successo è assicurato. I libri vendono, i giornali tirano, i programmi fanno audience e i film incassano. Senza forzare eccessivamente l'analogia, sem­bra uno di quei fenomeni che l'antropologia definisce «crisis cults», culti deri­vati da una crisi di carattere culturale.

Il concetto di crisi rimanda sia a una frustrazione profondamente sentita sia (ma le due cose possono anche coesiste­re) a un problema di base che nessun metodo ordinario, sacro o profano, è in grado di affrontare. Ed è un fenomeno ricorrente: qualunque disperazione di massa, qualunque momento di tensio­ne può essere una crisi.

Di fronte alla quale è facile ri­correre ai mezzi che una cultura ritiene capaci di attenuare gli stati di tensione psicologica e sociale: la magia, la religione, la psicodinamica...

I più anziani tra coloro che hanno visto Cen­tochiodi, il film di fine carriera di Ermanno Ol­mi, non hanno potuto fare a meno di ripen­sare al suo primo film, a quel E venne un uomo chiamato Giovanni dove, con la voce narrante di Rod Steiger, Papa Roncalli e il Concilio Vaticano II venivano raccontati con gli occhi dello stu­pore. Quello con il quale i cattolici del postconcilio guardavano una Chiesa che, abbandonata ogni apologetica, si rimetteva in cammino nel mondo, pronta a testimoniare sia il bene che voleva compiere sia quello che Cristo

seminava nel cuore delle culture e della storia. Un messaggio, questo, che Centochiodi mantiene intatto, con­segnandolo alla riflessione di persone che, in tanti modi, sono state abitua­te a vedere la religione, tutte le reli­gioni, come una sorta di «pragmati­ca sanctio» in mano ai professionisti del sacro.

II Venerdì santo di quest'anno le oltre 6.500 processioni del Cristo morto che percorrono le strade dei nostri paesi so­no affiancate da centinaia di «passioni viventi». Nelle parrocchie lo sanno tut­ti: questa è la ricaduta di The Passion, il film di Mel Gibson che Panorama ripor­ta in edicola questa settimana e con il quale il cineasta australiano ha restitui­to ai cattolici una rinnovata comprensio­ne delle stazioni della Via crucis che guardavano, senza vederle, sui muri del­la loro chiesa [Vedi in questa stessa area del sito critiche di vario orientamento su questo film (n.d.r.)].

E anche le Storie della Bib­bia, il progetto che Ettore Bernabei ha iniziato nel 1994 e che in questi anni, insieme a varie vite di santi, ha raccolto in media solo in Italia oltre 11 milioni di spettatori a puntata, nonostante la non sempre eccelsa qualità biblica e cinema­tografica, ha rappresentato un fenome­no che certamente esula dal mero fatto identitario.

In fondo, come sempre, se Cristo torna in piazza è per sentire le risposte che i cristiani di oggi danno alla domanda da lui rivolta nei Vangeli ai credenti di ogni tempo: «Voi chi dite che io sia?».

-Milioni di persone gli avranno certa­mente dato l'impressione di credere che egli sia il personaggio vagamente, e ri­dicolmente, esoterico che Dan Brown ha immaginato nel suo Codice da Vinci.

-Almeno mezzo milione di italiani han­no tentato di rispondergli attraverso il sapere degli esperti che la recente In­chiesta su Gesù di Corrado Augias e Mauro Pesce ha tentato di rendere ac­cessibile a tutti.

-Verosimilmente, sa­ranno numerosi anche quelli che in Gesù non lo ha mai detto, di Bart R. Ehrmann, presto in libreria per la Mon­dadori, scopriranno le ricchezze che gli sviluppi delle scienze umane, dalla fi­ne degli anni Quaranta in poi, hanno consegnato alle religioni del mondo per una più profonda comprensione dei lo­ro testi sacri.

La prima volta che Gesù fu portato al tempio fu subito riconosciuto come «skandalon», pietra d'intralcio. Perché la storia può essere raccontata anche al rovescio. E quella di Cristo non fa ecce­zione: dicerie e calunnie sul suo conto so­no state sempre dette e verranno ancora ripetute. C'è una sua storia che può esse­re raccontata con gli occhi di chi non crede, di chi non sa. Sulla sua vicenda esisto­no documenti che non han­no sempre lo stesso valore. Ci sono Scritture che han­no un'attendibilità che in­vece i testi apocrifi, quelli tardivi e quelli fantasiosi, non possono in alcun modo vantare.

Anche le invenzioni «ar­tistiche» sui presunti rap­porti tra Gesù e la Madda­lena, e altre e variegate os­sessioni sessuali seminate nei racconti dei nostri giorni, possono rivendica­re una tradizione anch'es­sa basata solo sulle fonti del Se­condo secolo dell'era vol­gare, nei testi apocrifi e in quelli gnostici.

Ne abbiamo traccia anche nelle lettere di Gerolamo e di altri padri della Chiesa. Tutto questo ora ritorna in piazza, portato dalla gente, per sapere ancora una volta chi è Gesù. È revisionismo, è bisogno di comprendere? E se fosse solo il vero miste­ro di Cristo? .


Come Francesco rompe le righe

Nel film colpisce con i chiodi la lettera morta dei vecchi volumi. Ma non credo che disprezzi i libri.

di ADRIANO SOFRI su Panorama del 12. 04. 07

La festa della comunità di pescatori sul­l'argine si dissolve nel ballo sul battel­lo illuminato che scende lungo il fiu­me, con la stessa canzone da poveri, Non ti scordar di me, la vita mia è legata a te, versione impicciolita e affabile del pas­saggio maestoso e silenzioso del Rex. Federico Fellini era maestro del mare di spiaggia, Rimini e Fregene, Ermanno Olmi è maestro di alberi e di fiumi.

Il professore, bello come un attore pub­blicitario, «il più fico di tutti», dice Ze­linda, che da piccola pensava di essere ve­nuta al mondo «solo per quello», come Maddalena, rompe con la prima vita vir­tuale, solo carta, e si procura la sua ‘se­cond life’, vita vera, pietre angolari e ca­sa riedificata.

Il professore sta in bilico fra l'imitazio­ne di Cristo e di Francesco e l'imitazio­ne di nessuno, la storia di uno che di col­po rompe le righe e scompare, un famo­so professore, e comunque uno dei mille barboni trascinati dai cartoni e dallo spa­go per le vie delle metropoli.

Bisogna stare in guardia quando si in­contra una barbona o un barbone, perché potrebbe essere Gesù, o Francesco, o un professore di filosofia morale, o almeno un poeta (Elsa Morante era spaventata di incontrare Arthur Rimbaud, e non rico­noscerlo). Il professore non ha potuto «semplicemente» scomparire, benché la semplicità sia il segreto della gioia e del­la verità. Anche Gesù, che chiamava bea­ti i poveri di spirito e ammoniva a farsi piccoli come un bambino, dovette passa­re attraverso il clamore della cacciata dal tempio e di un processo capitale.

Il professore passa per una crocefissio­ne di libri (libri sacri, oltretutto, e tutta­via incapaci di un gemito) per risuscita­re la vita. Inchioda col mazzo di chiodi degli affreschi medievali la lettera mor­ta per andare verso la vita vera.

Gesto temerario: non perché sia un sa­crilegio (è un sacrificio, non un sacrile­gio, non una provocazione da rivendica­re nell'ombra), ma perché sfiora la be­stemmia di contrapporre una religione del Libro a una della Vita e di estrarre Gesù dall'Ebraismo.

E ardito, perché, nel ripudio della lettera morta e tanto più su­perstiziosamente venerata e obbedita, sfiora una retorica dell'umiltà cordiale, la carezza scambiata con la giovane indiana che vale più di tutti i libri del mondo.

 

Olmi e il suo disertore di coscienza amano i libri, ne traggono citazioni illu­minanti, sanno che Socrate non scrisse una riga, ma senza l'amore di Platone per la sapienza non sapremmo niente di So­crate, e Gesù non scrisse nemmeno un li­bro, e forse non scrisse niente (quella vol­ta, con l'adultera e gli infuriati, scaraboc­chiava sulla terra), ma senza i Vangeli non avremmo un Gesù da immaginare. Anzi Olmi è l'evangelista del suo professore che ha buttato via le bozze di stampa, e anche tanti film aspettano di essere in­chiodati per far riguardare il fiume e le stelle, e ricordarsi di com'era trasparen­te l'acqua e com'era terso il cielo.

Il professore non promette a quei sem­plici, che continuano ad aspettarlo, di far di loro pescatori di anime. Avvisa solo che la natura offesa si ribellerà. Restino così, come il più umile fra loro, e più for­te di fede, il pittore d'argine, che fa ri­cordare quell'Antonio Ligabue capace di spogliarsi. Se ne incontrate uno, di quei fiumaroli superstiti, state attenti: potreb­be essere un grande pittore, o Gesù redi­vivo, oppure un povero cristo qualunque. Se state attenti, avrete riguardo anche per un barbone nei cui panni si nasconda so­lo un barbone. È quello il segreto.


Olmi dà ragione a Papa Benedetto

Monsignor Sanna: lui ha sempre sostenuto che la vera teologia è sol­tanto quella che riflette sulla vita.

di IGNAZIO INGRAO

«Non è un atto di accusa contro Ratzinger, ma contro un certo modo di fare teologia». Ignazio Sanna assolve Ermanno Olmi. Anzi a suo avviso le parole di Gesù in Centochiodi ( «C'è più sapienza in un caffè preso con un amico che nei libri») sono una conferma di quanto Benedetto XVI ripete continua­mente, e cioè che «la teologia autentica riflette sui problemi della vita».

Sanna è uno dei teologi italiani più apprezzati da Joseph Rarzinger, che lo ha voluto al suo fianco nella Commissione teologica internazionale. Docente di antro­pologia teologica, è stato prorettore dell'Università Lateranense, prima di essere nominato arcivescovo di Oristano. Il pre­sule va controcorrente e trova molta sin­tonia tra Olmi e Papa Rarzinger: «C'è più verità in una carezza che in tutti questi libri» afferma Gesù nel film. Allo stesso modo, «l'insistenza di Benedetto XVI non è nella verità astratta ma in quella profes­sata e testimoniata» fa notare il teologo.

«La sapienza del mondo è una truffa. Dio non parla con i libri» dice Il Cristo di Olmi. Allora il Vangelo è inutile?

Che la sapienza del mondo sia inganne­vole non lo dice solo il protagonista di Centochiodi ma anche la Bibbia. La mia parola e il mio messaggio, ha scritto San Paolo, non si basano su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la fede non si fondi sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio.

I veri protagonisti del film di Olmi sono le persone semplici, le uniche a cui viene annunciato il Vangelo. Perché il Papa invece insiste tanto sulla centralità della ragione?

I semplici non sono degli sprovveduti. Sono, piuttosto, coloro che accettano di essere istruiti dalla Parola di Dio, anche quando questa va oltre la loro capacità di esperienza. La fede cristiana, per essere trasformata in uno stile di comportamento, deve essere capita. La centralità della ragione, perciò, sta nella necessità di capire quello che si fa e quello che si vive. Il vero cristiano non può vivere di sole emozioni, ma ha bisogno di motivazioni. La fede, se accolta con intelligenza, dà significati alla vita e alla morte, alla gioia e al dolore. 

«Le religioni non hanno mai salvato il mondo» denuncia il Cristo di Olmi.

Con la pretesa di difendere la dignità e i diritti di Dio le religioni spesso sono state strumentalizzate per negare la dignità e i diritti degli esseri umani e, soprattutto, dei propri seguaci. La reli­gione, se bene intesa, ha la capacità di pro­durre santi, ma se male intesa e vissuta peggio può anche produrre criminali.

 

«Giudicheremo Dio per Il suo silenzio davanti alla distruzione» grida il prota­gonista. Il dolore innocente è una prova dell'assenza di Dio?

La fede non elimina i problemi dell' esi­stenza umana ed è sempre un rischio. L'in­capacità umana di capire il mistero del male non dovrebbe essere una ragione suf­ficiente per affermare la debolezza di Dio e la sua impotenza. Può essere debole la fede ma non necessariamente deve essere debole anche Dio. Noi crediamo ferma­mente che Dio è Signore del mondo e della storia. Ma le vie della sua Provvidenza

spesso ci rimangono sconosciute.

Il successo di film come «The Passion» e «Nativity» e del libro di Corrado Augias su Gesù testimonia un rinnovato interesse per la figura di Cristo. Perché la Chiesa prende le distanze?

Perché teme il rischio che Gesù venga ridotto a un maestro di morale fra i tanti. E invece Egli va considerato come salva­tore, colui che non solo garantisce la sal­vezza parziale nella storia, ma la vita eterna. La morale dei potenti non può accogliere la morale di un crocifisso. Eppure, il bisogno di salvezza radicato nel cuore dell'uomo può accogliere un salvatore che liberi in maniera definitiva dal male.


Un film lontano dal Vaticano

Mette in discussione Dio, il Papa e la Chiesa. E toglie loro le maiuscole per parlare di ciò che è essenziale.

di GOFFREDO FOFI

Si stanno accendendo battaglie attorno al film di Olmi, che il regista vuole sia il suo ultimo film narrativo, ma non l'ulti­mo documentario, e insomma un film ­testamento. Ma qualcosa che non appar­tiene solo a lui e che mette il dito nella piaga, se si è tanti a discuterlo, a difen­derlo, ad attaccarlo.

Centochiodi ha un soggetto semplice semplice: un illustre intellettuale, filoso­fo tra i 30 e i 40 di cui non sapremo mai il nome, lascia tutto e si rifugia in un mi­sero rudere sulle rive del Po ricomincian­do da capo, e non da intellettuale. Ma pri­ma di lasciare inchioda al pavimento di legno gli importantissimi libri di una bi­blioteca che conserva il meglio della sa­pienza del mondo, perché «tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico». Il rudere è vicino a un ritrovo di pensionati e a un paese dove il Nostro si fa amico un giovane postino e una giova­ne fornaia. Tutti lo aiutano a rendere il rudere vivibile, la vita scorre tranquilla, il Nostro diventa senza volerlo una sorta di sacerdote della piccola comunità.

Ha anche un piccolo amore, dopo aver incontrato una ragazza indiana che gli ha parlato della donna come mediatrice del sacro. I vecchi lo chiamano ri­dendo Gesù Cristo, un Gesù Cristo terreno e alla mano. Di­ce quel che ha capito della vi­ta e lo ripete ai carabinieri che lo ritrovano e all'affranto pre­te bibliotecario che fu suo pro­tettore e amico. Dice che ognuno deve tornare a nasce­re, che l'amore spira dove vuo­le. Ma dice anche che Dio non parla con i libri, servitori di qualsiasi padrone, e contesta a Dio i massacri del mondo, le ingiustizie del mondo. Il giorno del Giu­dizio, dice, non saremo noi a dover ren­dere conto a lui dei nostri peccati, ma do­vrà lui rendere conto delle nostre soffe­renze, delle sofferenze del mondo.

La parabola termina semplicemente, il pacifico ribelle è assegnato agli arresti do­miciliari e al rudere, ma non vi fa ritorno benché atteso dai suoi amici. Di lui non si saprà più nulla: da qualche patte sta forse portando testimonianza del suo di modo di reagire al presente, a questi tempi di confusione, di disastro, di virtù distrutte.

La canzone anni Trenta Non ti scordar di me, dolcemente arrangiata da Paolo Fresu e Antonello Salis, fa da leitmotiv e diventa un inno laico-religioso: «Non ti scordar di me, / la vita mia è legata a Te».

Il film di Olmi cui questo pacifico e tolstoiano Padre Sergio senza tormenti e violenze somiglia di più è Cammina cam­mina, del 1983, che era una parabola sul­l'attesa del Cristo, sul viaggio di ricerca di re magi molto simili a noi. Lo stesso anno di Milano 1983, un documentario forte, che non si dimentica.

Considerando Centochiodi come il suo ultimo film, il regista parla di un «ulti­mo atto che riassume il senso di tutta l'esistenza». E racconta non l'attesa del Cristo, ma il Cristo come egli pensa di aver incontrato in uomini comuni, in esempi di umanità di quelli che aiutano a capire e a vivere degnamente la vita.

La sua religiosità Olmi, che fu in cine­ma biografo di Giovanni XXIII e che, mi sembra di capire, non deve provare trop­pa simpatia per il teologo retrò che sie­de oggi sul soglio di Pietro, l'ha espres­sa in molti modi nella sua lunga opera, ma quine fa dichiarazione netta e defi­nitiva: questo ho capito e questo voglio trasmettere, ci dice, e se qualcuno potrà accusarlo di troppa semplicità, è per la volontà di un messaggio chiaro, di arri­vare al cuore della propria esperienza e del proprio pensiero.

Con la meravigliosa libertà dei vecchi che non hanno più nulla da perdere, dei «persuasi» e non dei «retori», Olmi si permette di mettere in discussione Dio e il Papa, la società e la Chiesa, l'ordine del mondo, l'insensatezza della storia, l'inu­tilità della cultura. Toglie loro le maiu­scole, così come toglie il nome a Gesù, profeta ricorrente, comune (cui Raz De­gan è purtroppo incapace di dare

espressione, un errore del regista.)

L'appello non è tanto al pensiero e al giudizio individuale (in un'epoca, poi, in cui essi scarseggiano, soprattutto tra co­loro che pensano di pensare, che credono di saper giudicare, e sono di fatto travol­ti dalla più insulsa mondanità e, come tutti, dalla cospirazione dei poteri affin­ché noi non si pensi ma si consumi) ma a saper vedere, saper capire, saper pensa­re ricominciando dall'essenziale.

È ovvio che questo film non può pia­cere alla Chiesa e ai suoi alleati, e sono patetici i salti mortali di monsignor Gianfranco Ravasi (nel libro sul film) per tener testa al convinto Olmi, così come sono prevedibili le ripulse di Giuliano Ferrara dalFoglio, nuovo alleato di Co­munione e Liberazione, e lo saranno quel­le gridate o sussurrate di tanti altri.

In un paese come il nostro, in cui la po­litica si è frantumata in guerra per ban­de ma non prima di aver assoggettato e smembrato le istituzioni, il padronato non ha visioni d'insieme e soffoca della sua insipienza, la società civile si è lascia­ta corrompere e ammazzare dalla politica, la cultura si è fatta «comunicazione di massa», merce, notte bianca, fiera delle va­nità, e l'unico potere forte e saldo è rima­sto la Chiesa (ma per quanto, con questa sua arroganza e invadenza e questo suo non voler capire cos'è diventato il mondo, ad­dirittura schierandosi contro le sue poche istanze morali?), in un paese come il nostro dove la Chiesa è la sola istituzione mu­scolosa, è ovvio che il libero pensiero de­gli Olmi, merce scarsissima, non possa tr0ovare molte adesioni.

Intanto molti altri film (In memoria di me, il più sincero fra tutti, quello di Saverio Costanzo: pensate, il figlio di Maurizio) si rivolgono alla religione e si allontanano dal Vaticano.

Intanto l'interrogazione sul senso tra­volge chi si ferma un momento e si guar­da attorno, e vede la desolazione, la fine della speranza. Né pensiero forte, né pen­siero debole, gli intellettuali non hanno certo salvato il mondo, nel Novecento, né l'hanno migliorato, come giustamen­te insiste Olmi.

Non c'è bisogno di essere intellettuali per cercare il vero e il giusto senza lasciar­si frastornare dal rumore di fondo che riempie i nostri vuoti. Al vero e al giu­sto, avrebbe detto Lev Tolstoj, bisogna saper sacrificare anche il bello, se non vi si integra. Olmi ha cercato di integrarlo molto pacatamente, senza pompose pre­diche da prima pagina, da telegiornale o da sedia gestatoria. È questa convinta semplicità a farci convinti: Centochiodi ha i suoi limiti, ma ne ha meno di tutti i li­bri e i film italiani di cui si è parlato di più in questi anni e i libri e film-testa­mento di Kurosawa e di Fellini, di Boll e di Bresson. 

Perché la sofferenza del mondo?

Alla domanda del protagonista, nel film il monsignore se ne va. E su questo punto Wojtyla e Ratzinger hanno scritto cose diverse.

di VITO MANCUSO

Nell'Albero degli zoccoli, film girato da Ermanno Olmi nel 1978, una donna si alza e va in chiesa a pregare, poi riempie una bottiglia e l'acqua guarisce la mucca. In Centochiodi nessuna preghiera, nessun miracolo, solo un'immensa, dura, negazione: Dio non è così! Olmi è uno di quei cattolici che vogliono credere in Dio ma insieme guardare il mondo per quello che è, un'operazione che talora conduce alla lacerazione dell'anima. Tra i chiodi che più la fanno sanguinare c'è lo scandalo del male. Centrale nel film è il dialogo del protagonista col vecchio monsignore: «Lei ama i suoi libri più degli uomini, ma Dio non parla coi libri». Il monsignore l'ammonisce di non bestemmiare e gli ricorda il giorno del Giudizio. Lui risponde: «In quel giorno sarà Dio a dover rendere conto di tutta la sofferenza del mondo».

Il monsignore se ne va, non sa cosa replicare.

Neppure la Chiesa lo sa. La sua dottrina al riguardo è in­certa, ci sono contraddizioni tra gli scritti di Giovanni Pao­lo II e di Benedetto XVI, persino tra gli articoli del Catechi­smo. La voce dei preti trema quando si chiede loro per­ché, se Dio è amore e onnipotenza, vi è tanto dolore in­nocente. La Chiesa non riesce a trovare una risposta sod­disfacente al problema del male perché ha un'immagine del mondo antiquata, un mondo governato dall'alto do­ve l'autonomia e la libertà sono sinonimi di disobbedien­za e peccato.

A questo proposito il film di Olmi è altamente cristiano, del Cristianesimo umile e spirituale, quello che sa che Dio lo si adora in spirito e verità. Olmi dice che la verità non è quella dei libri, ma quella che coincide con l'autenticità della vita, con l'esperienza di unità e fratellanza tra gli uomini, con l'onestà intellettuale verso se stessi che fa rifiutare antiche dottrine dogmatiche e morali che hanno perso ogni contatto vitale con l'evoluzione del mondo. Il primo a inchiodare i libri sacri è stato Gesù quando diceva: «Vi è stato detto, ma io vi dico».

Quella serie di ma erano i suoi chiodi.

Il novello Messia di Olmi nell’Eden nazionalpopolare.

Regia Ermanno Olmi, 2007. Con Raz Degan, Luna bendandi, Amina Syed, Michele Zattera, Damiano Scaini

Centochiodi di Tullio Kezich  Corriere della Sera venerdì 30 marzo 2007

Se qualcuno mi chiede «chi vorresti essere?», da quando ho letto che è il felice possessore di 130 mila volu­mi rispondo: lo stilista Karl Lagerfeld! Mi ha sempre stupito, invece, vedere pochissimi libri nel rifugio asiaghese del mio amico Ermanno Olmi.

La verità è che l'autore di Centochio­di diffida del libro come se provenisse dal lato oscuro della Forza; e fa quindi entrare in casa un titolo alla volta, lo soppesa guardingo e nei rari casi in cui gli capita d’innamorarsene, lo considera un motivo in più per tenere lontani gli altri. Ricordo come si impadronì di La leggenda del Santo bevitore prima di ricavarne il famoso film Leone d'oro: lo lesse, lo rilesse, ne assimilò ogni frase. Provai allora a mettergli sotto il naso altre opere di Joseph Roth, lo scrittore in cui si stava compe­netrando; ma lui eluse l'offerta, indu­giando nelle sue fertili meditazioni sul Bevitore.Poiché sono un libro-dipen­dente alla Lagerfeld, figuratevi il mio disagio quando capii che Olmi stava progettando la beatificazione di un Erostrato 2000, il distruggitore di una biblioteca. Paventai la fine di una bel­la amicizia, nel corso della quale le no­stre diversità non sono mai diventate divergenze; ma di fronte all'apologia di un assassino dei libri...

Se Dio vuole, non è proprio così. Prendiamo Centochiodi dall'inizio, quando a Bologna il custode di uno storico archivio di libri scopre dietro la grata della sala maggiore l'allucinan­te spettacolo degli incunaboli sparsi per ogni dove e trafitti con dei grossi chiodi. «È la strage degli innocenti» ge­me un anziano sacerdote; ed è quello che avrei detto io.

Quanto poi ai carabinieri che affer­mano «È l'opera di un pazzo squilibra­to», sottoscrivo anche questo. Non ci mettiamo molto a identificare il colpe­vole: un anonimo Professorino che nel­l'incarnazione dell'israeliano Raz De­gan (con voce di Adriano Giannini) as­somiglia a un moderno Gesù. In fuga lungo il Po, eccolo abbandonare l'automobile, gettare il telefonino, liberarsi perfino della giacca... Appare chiaro che sta cercando spazi di libertà la cui visuale il muro libresco gli aveva finora negato.

In un remoto angolo del paesaggio fluviale l'eroe scopre il classico paese zavattiniano «dove buon giorno vuol dire veramente buon giorno»: la panet­tiera Zelinda lo incanta con la sua fre­sca disponibilità, una tribù di anziani (dialettofoni e sottotitolati) lo adotta spontaneamente, lui li ricambia duran­te l'agape comitale evocando «il Suo primo miracolo» alle nozze di Canaan ed è pronto a salutare il ripetersi dell'eterno ritorno del figlio prodigo. Si balla sotto le frasche e si balla anche sul battello in transito sull'Old Man Ri­ver dal quale arrivano le note di «Non ti scordar di me...». Dopo la sosta rige­neratrice in questo Eden nazionalpo­polare, che diventa presto una patria d'elezione da difendere contro la mici­diale voracità dei filistei, (ancora una strizzata d'occhio allo Za di Miracolo a Milano) il novello Messia proseguirà la sua fuga senza fine.

La strage dei libri (meno male!) non vuol essere un'ipotesi reale, ma lo spunto di una parabola. Come il Pro­fessorino, Ermanno si confessa «del tutto responsabile ma non colpevole»; e concede a lui e a se stesso, in flash­back, un momento di esitazione nel piantare l'ultimo chiodo sull'ultimo li­bro. C'è dunque in tanta cultura tradi­tora qualcosa che va salvato? Olmi si conferma lo spregiudicato teologo ru­spante che esaltando i pastori condan­nò i Re Magi nel sottovalutato Cammi­nacammina, un uomo di fede più scomodo di un miscredente.

Attiene ai segreti della poesia il suo dono di fondere neorealismo e cinema dell'anima in un connubio tanto conta­gioso che dopo questa ispirata e ispi­rante rigenerazione rusticana balena per un attimo la tentazione di buttar fuori dalla porta tutti i libri che ci in­gombrano la casa.

 

CENTOCHIODI. ERMANNO OLMI RISPONDE ALLE DOMANDE SUL FILM

Ermanno Olmi:

«La mia speranza è sempre salda»

Caro Direttore,
grazie dell’accoglienza sulle "pagine amiche" di Avvenire e dell’invito a rispondere alla vibrata reazione del signor Pippo Emmolo al film "Centochiodi", stigmatizzata in quattro punti.
1) Scrive il signor Emmolo: «Olmi... non evoca alcuna presenza (?) e lascia presagire una furtiva apocalisse...». Quali presenze? La domanda non mi risulta chiara. Se intende le presenze umane, mi pare sia abbastanza percepibile la contrapposizione fra umili e supponenti, che si regolano più volentieri sulle dottrine e meno sul rispetto del prossimo. E a proposito di apocalisse; non so se il signor Emmolo vuole riferirsi all’apocalisse della catastrofe o a quella della della rivelazione secondo l’apostolo Giovanni: quella del «perché il tempo è vicino, e tutte le nazioni sulla terra si batteranno il petto», oppure: «Ecco – il Cristo – viene sulle nubi e ognuno lo vedrà». Ogni giorno uomini di scienza ci ricordano che la vita sul nostro pianeta è alla soglia estrema del rischio: c’è nell’aria sentore di minaccia apocalittica (non furtiva ma esplicita) e le acque del grande Fiume sono avvelenate e abitate da mostri. Per l’Apocalisse della rivelazione, invece, la venuta finale del Cristo è nell’attesa degli uomini di fede, come lo sanno essere soprattutto gli umili, allo stesso modo di quegli anziani "fiumaroli" del film che imbandiscono la tavola della comunione, ma che al mio "interrogante" non ha suggerito nulla. E le lacrime della giovane panettiera innamorata del professorino (paradigma del Cristo) non ricorda forse altre Donne?
2) Riferendosi a una frase del film «Il calore di una carezza vale più di tutti i libri del mondo» il signor Emmolo mi attribuisce, secondo lui, l’intento di stigmatizzare la riduzione della fede a dottrina. Rispondo: purtroppo, e molto spesso, è proprio così. È più facile affermare principi religiosi attraverso esercizi concettuali rispetto alla volontà di testimonianza pratica attraverso gli atti del vivere. La fede non si conquist a con filosofie e dottrine, ma con lo smarrimento di se stessi di fronte al mistero dell’esistenza.
Tutti sono disposti a sottoscrivere il valore dell’Amore come icona concettuale, difficile è praticare il verbo "amare" nei confronti del prossimo.
Poi il signor Emmolo cita Tommaso d’Aquino che sul letto di morte, a proposito della filosofia confessa: «...a me pare che sia tutta paglia». Ma subito lo stesso Emmolo lo assolve perché, sempre secondo lui, dal sant’uomo morente «non ne sortiva deprezzamento della sapienza». Certamente. Ma nemmeno io mi sono mai sognato di deprezzare la sapienza; che tuttavia è conquista di pochi eletti. Nutro invece molte riserve sul cumulo del sapere senza sbocchi nella realtà. Non voglio citare altri santi, ma citerò una frase dello scrittore Raymond Chandler: «Sapeva veramente tutto, ma solamente quello».
Non mi stupisco, signor Emmolo che la mia parabola umana raccontata in "Centochiodi" non le sia piaciuta e neppure se le sembro uno che guarda indietro e – sempre secondo lei – ...mi chiamo fuori dalla realtà. Se lei si riferisce a quelle realtà configurate e chiuse in elaborati di concettuosità per il compiacimento di poche menti, allora le garantisco che, non solo mi chiamo fuori, ma ne prendo volentieri prudente distanza. Semplicemente perché sono più attratto da altre realtà, esattamente opposte alle sue. Senza alcun risentimento. Ringrazio il direttore Dino Boffo per l’ospitalità su Avvenire e salutandolo con sincera cordialità voglio rassicurarlo circa la mia buona disposizione nei confronti della speranza, che è sempre salda nei miei pensieri e, per quel che posso, anche nel viverla.
Ermanno Olmi
Asiago, 15 maggio 2007

Il maestro Ermanno Olmi ha prontamente accolto l’invito col quale chiudevo il 15 maggio, in questa pagina, la risposta al nostro lettore Pippo Emmolo che avanzava dei rilievi critici sostanziali al film "Centochiodi". Onorati che il maestro Olmi riconosca quelle di Avvenire "pagine amiche" – tali sono realmente, lo assicuro – volentieri do alle sue parole, intense come i suoi film, lo spazio del capolettera. Con tutta la mia stima e ammirazione.

 

CHARLIE CHAPLIN E PAPINI 

“Corriere della Sera” 23 maggio 2004.
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Scoperte. Nella versione cinematografica del libro il Messia doveva essere un «uomo qualunque che aspiri alla dignità».
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Charlot: caro Papini, il tuo Gesù sono io. Chaplin voleva portare a Hollywood la «Storia di Cristo». Un'idea rimasta incompiuta. .
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di Sergio Luzzatto.
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Qualche settimana fa, al momento dell'uscita in Italia del film di Mel Gibson La Passione di Cristo, mi è occorso di rilevare - sulle colonne di questo giornale - le impressionanti analogie tra il nuovo kolossal hollywoodiano e un vecchio libro di Giovanni Papini, la Storia di Cristo del 1921. Identico il dolorismo voyeuristlco della sacra rappresentazione; identico l'antisemitismo sotteso nell'idea che il figlio di Dio sia caduto vittima del popolo maledetto. .
Numerosi lettori hanno scritto al Corriere per contestare la mia provocazione intellettuale. In particolare, hanno scritto a Paolo Mieli due nipoti di Papini, renitenti al pensiero che il dolcissimo nonno della loro infanzia avesse mai potuto detestare qualcuno, men che meno un ebreo. Purtroppo per loro, è capitato anche a un Adolf Hitler di accarezzare qualche testa di bambino ariano. Quanto a Papini, il suo dolorismo postbellico era il rovescio di un crudelismo che lo aveva spinto a vergare, nel 1914, pagine fra le più sinistre dell'intera letteratura europea sulla Grande guerra. Con toscana incoscienza di vocabolario, Papini aveva inneggiato al «caldo bagno di sangue nero» che finalmente irrorava la terra del Vecchio Continente, «bella innaffiatura di sangue per l'arsura dell'agosto», «rossa svinatura per le vendemmie di settembre»....
Sul «caso» Papini-Gibson, la lettera più notevole non l'ha comunque ricevuta Mieli; l'ho ricevuta io stesso, da un lettore che voleva rimproverarmi di persona per l'incauto accostamento tra lo scrittore fiorentino e il cineasta australiano. Almeno ai miei occhi il meglio della colta missiva non stava però in questo rimprovero: stava nell’accenno a un piccolo episodio di storia del cinema, che forse non è poi così piccolo. Perché già negli anni Venti del Novecento la Storia di Cristo rischiò di diventare un film di Hollywood, girato da un attore-regista che non veniva dall’Australia, ma dall’Inghilterra e che non si chiamava Mel Gibson, ma Charles Spencer Chaplin. .
Bisogna sapere che il libro di Papini - bestseller nell’Italia su marcia su Roma – fu prestamente tradotto in inglese, nel 1923; e che anche sul mercato statunitense la Life of Christ conobbe un successo straordinario, attestandosi ai vertici delle classifiche di vendita. Subito i dirigenti di una casa di produzione hollywoodiana, la First National, si organizzarono per allestirne una versione cinematografica. Ma certo non si aspettavano di ritrovarsi, di lì a poco, a discutere della cosa con Charlie Chaplin: la star che li aveva appena lasciati – dopo il trionfo del Monello – per fondare una casa di produzione che fosse anche sua, la United Artists. .
Successe che Chaplin invitò a pranzo i capi della First National, per verificare se davvero avessero acquisito i diritti cinematografici della Life of Christ. Il presidente della casa di produzione, Robert Leiber, non poté che confermarlo. Allora, quasi incredibilmente, Chaplin replicò: «Il ruolo di Gesù lo voglio per me». I suoi ospiti rimasero di stucco. Senza scomporsi, l’inventore del personaggio di Charlot spiegò le ragioni che lo rendevano la più logica delle scelte nel casting per il personaggio di Cristo: «Gli assomiglio. Sono ebreo. E sono un attore». .
Se dobbiamo credere alle memorie di una signora presente quel giorno in casa Chaplin, la scena andò avanti così: l’attore-regista si sforzò di illustrare ai suoi ex datori di lavoro l’ineludibile contiguità fra il comico e il tragico. Aggiunse di ritenersi tanto più tagliato per la parte di Gesù, in quanto ateo: sicché la sua interpretazione avrebbe posseduto il valore aggiunto dell’obiettività. Chaplin si lanciò poi in una gag banale quanto blasfema: fingendosi crocifisso, urlò che Dio non esisteva e sfidò il Padreterno a provare il contrario facendolo morire sul colpo….
Quel pomeriggio, i dirigenti della First National tornarono in ufficio con il mal di testa. Ammisero che un Papini riletto da Chaplin prometteva di riuscire la più grande rappresentazione religiosa nella storia delle arti, ma finirono per giudicare assurda la prospettiva di uno Charlot incamminato alla sua inconfondibile maniera sulla strada del Calvario. .
La vicenda di questo film mai girato non appartiene soltanto alla petite histoire di Hollywood, né soltanto ai sorprendenti successi della biografia di Chaplin. Per l’artista, quelli compresi tra Il monello e Luci della città furono notoriamente anni di crisi estetica e morale. Non era soltanto l’arrivo del sonoro a disorientare il maestro del cinema muto. Era, in generale, la volontà di sottrarre Charlot (dunque se stesso) alla maschera del vagabondo col bastoncino in mano. Perciò Chaplin si trovò a contemplare i soggetti più diversi: un milionario tentato dal suicidio, un Napoleone pacifista e anche – per l’appunto – un Gesù di Nazareth. .
Il progetto cristologico gli frullava ancora in testa durante l’autunno del 1925, dopo l’ennesimo trionfo ottenuto con La febbre dell’oro. A un critico che lo interrogava sul libro di Papini, l’artista dichiarò peraltro senza mezzi termini di non voler interpretare «il tradizionale, scialbo personaggio di uomo-dio». Non era in quanto incarnazione del divino che la figura di Cristo affascinava Charlie Chaplin. Al contrario, il personaggio di Gesù gli sembrava prestarsi a meraviglia per veicolare il principio fondamentale della sua poetica cinematografica: «Voglio rappresentare un qualunque uomo medio dai venticinque ai cinquanta anni, di un qualunque Paese del mondo, che aspiri alla dignità».
Era dunque questo - geniale, se non devoto – il nocciolo del progetto di Chaplin: si trattava di riconoscere l'universalità di Gesù nella sua medietas, per fare del Sacrificio sovrumano il migliore attestato dell'umana nobiltà. Inutile dire che, una volta fondato su simili basi, il film americano avrebbe avuto ben poco in comune con il bestseller italiano da cui pure era parso prendere le mosse. In ogni caso, la progettata pellicola rimase tutta intera nella testa di Chaplin o sotto la bombetta di Charlot. .
A noi resta da chiederci se l'antisemitismo di Papini sia tale da reggere - per così dire - la prova di Chaplin. Nell'America degli anni Venti, un famoso artista (ritenuto) ebreo fu sì colpito dal successo della Storia di Cristo da pensare di ricavarne un film. Ciò significa forse che il libro di Papini non aveva nulla di antigiudaico? Di fatto, io temo che l’argomentazione vada esattamente capovolta. In America come in Europa, i pregiudizi storici, morali e religiosi contro gli ebrei risultavano tanto diffusi e intimamente condivisi, che neppure a un uomo della sensibilità di Chaplin era dato di turbarsi per il delirio antisemita di un Papini. .
Si sarebbe dovuto attendere un'altra decina d'anni - e l'avvento di Hitler alla Cancelleria di Berlino - perché il nesso fra stereotipi antisemiti e furori omicidi si facesse chiaro, almeno sguardo di chi voleva vederlo. Allora, senza immaginarsi nudo come Nazareno, Chaplin avrebbe vestito i panni mirabilmente corrosivi di Hynkel, nel Grande dittatore.

 

DAI LUMIÈRE A OGGI

Dai Lumière a oggi    di Mirella Poggialini  Avvenire 12. 11. 06

Appartiene al primo anno del cinema l’apparizione di un filone che non si è mai esaurito, quello

del cinema che si definisce «cristologico» perché incentrato sui testi evangelici e sulla figura di Cristo. I fratelli Louis e Auguste Lumière, che nel 1895 -precisamente il 28 dicembre-  ­presentarono al pubblico, nel Salon Indien del Grand Café di Parigi, il primo spettacolo cinematografico della storia, proiettando fra i vari brevi film il celebre Arrivo del treno nella stazione, che terrorizzò molti dei presenti, si dedicarono anche a un genere che ebbe poi molta fortuna: la trascrizione per immagini della vita di Cristo. E nel 1896 realizzarono, con lo stile ieratico della sacra rappresentazione, la loro Passion Lumiére o Passion di Oberammergau, ispirata alla celebre sacra rappresentazione bavarese e risolta in tredici quadri. Ebbe molti seguaci l’idea dei pionieri del cinema: fra il 1896 e il 1907 furono realizzati almeno altri venti film con il medesimo tema, legati a una rappresentazione ispirata dall’arte figurativa e diffusi ampiamente nell’ambito della Chiesa. Spesso filmati che raccontavano la storia di Gesù furono proiettati all'interno delle chiese, come opera di catechesi popolare destinata a una immediata comprensione: fino a quando, nel 1912, papa Pio X intervenne a vietare questo uso, per «non impiegare ad altri usi le chiese consacrate a Dio, tanto meno per tenervi spettacoli sia pure onesti e pii». In effetti, il cinema nasce come spettacolo che induce stupore, si apparenta in qualche modo, alle sue origini, al circo e ai varietà con maghi e illusionisti, è destinato a divertire e a creare meraviglia: ovvio che le sacre rappresentazioni tradotte in pellicola potessero lasciare perplessi coloro che vi vedevano una distrazione più che un insegnamento, una volgarizzazione, magari anche semplicistica, più che una predicazione.

Ma lungo tutto il ventesimo secolo il richiamo dei temi cristologici resta forte in ogni paese: il cinema periodicamente, ma con regolarità, affronta soggetti legati alle pagine evangeliche e alla vita di Cristo, anche se prevalgono, in ampia misura, i film dedicati agli ultimi anni di Gesù, culminanti nella Passione, rispetto a quelli che ne raccontano la vita dell’infanzia. E in sordina si colgono i riferimenti alla vita di Maria, che appaiono come soggetto qualche tempo dopo le rappresentazioni degli episodi legati alla vita di Gesù. Nei primi anni del cinema, due sono i titoli di cui si conserva memoria, entrambi legati al 1912. Uno è Dalla mangiatoia alla Croce (From the manger to the Cross) di Sidney Olcott, sceneggiato da Gene Gauntier, 1500 metri di pellicola nei quali la scenografia fu ispirata dagli acquarelli dipinti nel 1894 da James Tissot, serie intitolata Vie de notre seigneur Jesus Christ. Il film fu proposto a Londra e poi a New York davanti a religiosi, prima di esser presentato a un pubblico pagante (il film è stato riversato in dvd insieme a quello che è considerato il primo kolossal religioso, La vie et la passion de Jesus Christ di Ferdinand Zecca, che lo realizzò per la Pathé). Il secondo, The star of Bethlehem di Lawrence Marston, constava di 900 metri di pellicola e la narrazione prendeva avvio dall’Annunciazione, per finire con la strage degli innocenti. Girato con la spesa per allora enorme di ottomila dollari, durante un mese di lavoro che vide l’impiego innovativo di più macchine da ripresa contemporaneamente, il film ebbe un grande successo ma fu distrutto rovinosamente in un incendio tre settimane dopo la sua presentazione, e ne rimangono solo frammenti.

Tuttavia, scorrendo la filmografia davvero imponente dei film che sono stati dedicati alla figura di Gesù, non si può non riconoscere che l’evento capitale descritto nelle varie opere - comee del resto è ovvio - è quello della Passione, mentre la Nascita è solo, a volte, un momento della narrazione, dal quale si prende avvio per snodare la vicenda terrena del Figlio di Dio. Al contrario, l’arte figurativa, dalla quale il cinema ha tratto esempi e illuminazioni, ha prediletto per molto tempo la descrizione della Nascita, forse per la serena bellezza di un episodio di umana dolcezza universalmente comprensibile. Sono familiari a tutti le visioni immerse nella luce dei "fondi oro", la grazia di Gentile da Fabriano; la semplicità rigorosa e fedele di Giotto, che si riconduce al teatro della natività al quale San Francesco ha dato origine con il presepe, scena di volta in volte ricostruita anche nel cuore, in cui ogni anno si ricrea la storia tenera e affascinante di un dono misterioso di immensa generosità.


ELENCO DELLE OPERE ANNO PER ANNO.

I film che vedono Gesù protagonista sono circa 170 (ovviamente l'elenco presenta delle lacune che possono essere colmate solo con il vostro aiuto!). 
Molti di più sono i film che toccano altri personaggi e momenti della religione cristiana. 
Queste opere hanno dato voce alla nostalgia di infinito che percorre l'animo umano, voce che ha stregato generazioni di spettatori o che semplicemente hanno fatto riflettere anche i più dubbiosi. 
Questo elenco - necessariamente incompleto - presenta in ordine cronologico le opere di maggior interesse o maggior impegno. Un doveroso ringraziamento lo dobbiamo a don Walter Lobina per il materiale fornitoci e per le analisi dei film. 

1897


La Passion de Christ di Léar, Francia
Idea derivata dai quadri viventi sulla vita di Cristo. Ma il cinema aveva ancora una dimensione profana per un tema così sacro. I direttori della scuola Vaugirard si opposero a che i loro allievi interpretassero il film. Così il regista dovette ripiegare su una compagnia di girovaghi. 

Passion de Horitz di Lumière, Francia
Tredici scene, tutte della lunghezza di 17 metri: L'adorazione dei Magi, La fuga in Egitto, L'arrivo in Gerusalemme, Tradimento di Gesù, Risurrezione di Lazzaro, La Cena, L'arresto di Gesù Cristo, la Flagellazione, L'Incoronazione, La Crocifissione, Il Calvario, La deposizione nel Sepolcro, La Risurrezione. 
Si tratta della ripresa della sacra rappresentazione fatta a Horitz, in Boemia, sullo stile di quelle più famose di Oberammergau, ma visto che si svolgevano ogni dieci anni, si sarebbe dovuto attendere troppo per riprenderli. E' il primo film a costituire da solo uno spettacolo. Lunghezza totale: 250 metri. 

Passion Play di L.J.Vincent, USA
Prodotto da Hollaman, che aveva acquistato in blocco i costumi di una Sacra Rappresentazione mai messa in scena per motivi di censura, e girato sulla terrazza del Grand Hotel Palace, con attori professionisti. Hollaman non badò a spese e mise a disposizione persino alcuni cammelli che furono issati in cima al grattacielo con un montacarichi. Girato nel mese di dicembre, fu proiettato per la prima volta nel gennaio del 1898. Hollaman fu sicuro del successo quando vide le lacrime sgorgare abbondantemente dal pubblico. Tanto più che il pubblico era convinto di assistere alla rappresentazione di Oberammergau. 

La passion de Christ di G.Hatot, France

Passion Play di S.Lubin, USA

Passione di L.Topi, Italia (interpretato dal famoso Fregoli) 

The Sign of the Cross di W.Haggar, Gran Bretagna
Viene colto solamente l'aspetto storico, per svolgere un discorso di giustapposizione o meramente agiografico. 

1898

The Passion di Rich G.Hollaman, USA

La vie et la passion de Jésus Christ di G.Hatot, Francia

1899

Vie de Christ di Léar, Francia
Si compone di undici scene ispirate a celebri dipinti. Per l'ultima cena il modello è Leonardo. 

Le Christ marchant sur les eaux di G.Méliès, Fancia

La vie du Christ di F.Zecca, Francia

1901

Quo vadis? di Zecca e Nouget, Francia

1902

Passion di Gaumont, Francia

Vita e Passione di Gesù Cristo di F.Zecca, Francia
In cinque anni, dal 1902 al 1907, il regista realizza il film a puntate, composto di 42 scene che illustrano i seguenti episodi: L'Annunciazione, La stella misteriosa, L'adorazione dei Magi, La fuga in Egitto, La Sacra Famiglia, L'infanzia di Gesù, Gesù tra i dottori, Le nozze di Cana, La samaritana, Gesù cammina sulle acque, La risurrezione di Lazzaro, La Trasfigurazione, L'entrata in Gerusalemme, I mercanti del Tempio, L'ultima Cena, Il giardino degli ulivi e il bacio di Giuda, Pilato, La flagellazione, Gesù presentato al popolo, Gesù cade sotto la croce, La crocifissione, La morte di Cristo, La sepoltura, La risurrezione, L'apoteosi. Si tratta di un film a colori, reso con il paziente lavoro di coloritura a mano di ogni fotogramma. Il film ebbe successo in Europa e in America con proiezioni fino al 1920. 

1904

La vie et la passion de notre Seigneur Jésus Christ di L.Nonguet e F.Zecca, Francia

Passion di Gaumont, Francia
220 metri di pellicola sui capolavori pittorici che trattano la Passione e la morte di Cristo. 

Passion di Gaumont, Francia
Sacra Rappresentazione realizzata dai parrocchiani della chiesa di Saint Joseph di Nancy. 

1905

Passion de Horitz prod.Warwick Company, Inghilterra

1906

La vie du Christ di V.Jasset, Francia
25 quadri, per la durata di 35 minuti, basati per la sceneggiatura e la scenografia sugli acquerelli che James Tissot aveva realizzato durante un suo viaggio in Palestina: tutti nel rispetto per le immagini più popolari del Cristianesimo. 
Per gli interni viene utilizzato il teatro di posa delle Buttes-Chaumont e le scenografie dipinte dai migliori scenografi di Parigi. Gli esterni sono stati ambientati in luoghi più suggestivi, come il paesaggio di Fontainebleau per "Il Giardino degli Ulivi". Da notare le luci e i costumi finemente elaborati. Numerose le comparse e tutte ben dirette. 

Passione di Nostro Signore Gesù Cristo di C.Pathé, Francia
Per la prima volta vengono usati attori di teatro. Lunghezza della pellicola 950 metri suddivisa in 4 parti: La nascita di Gesù, L'infanzia di Gesù, I miracoli e la vita di nostro Signore Gesù Cristo. E' un film in concorrenza con quello di Jasset. 

Passion di L.Deutsch, Germania (ripresa della passione di Oberammergau) 

1907

Passion de Jésus di Maitre, France

Ben-Hur di S.Olcott, USA

1908

Passione di Chomon, Francia

Nerone e l'incendio di Roma di Porter, USA

1909

Il bacio di Giuda di A.Boure A.Calmettes, Francia
Il dramma, scritto da Lavedan, presenta l'interrogativo di come un uomo, vissuto accanto alla verità, si sia lasciato persuadere poi da satana. Gli interpreti sono Mounet-Sully nella parte di Gesù e Albert Lambert in quella di Giuda. Le scenografie sono al naturale girate nel bosco di Fontainebleau. La regia presta attenzione ai particolari. 

San Paolo di De Liguoro, Italia

La leggenda della Croce di G.Vitrotti, Italia

Résurrection di A.Calmettes, Francia

1910

Nativité di Feuillade, Francia

Mater Dolorosa di Feuillade, Francia

Christ en croix di Feuillade, Francia

Ai tempi dei primi cristiani di A.Calmettes, Francia
In origine doveva essere un Qua vadis? tratto dall'opera di Sienkiewicz. Poi l'autore non diede l'autorizzazione e così nacque il nuovo titolo. Interpreti d'eccezione: Lambert, Dorival e la Greuze. 

1911

Il danaro di Giuda di L.Maggi, Italia

Il regista si rifà al vangelo di Matteo che presenta soprattutto l'avidità del traditore. Ciò viene reso anche a livello esteriore del personaggio in maniera negativa: disordine, occhi sbarrati, gesti inconsulti. . . 
Jésus de Nazareth di A.Calmettes, Francia

Résurrection di A.Calmettes, Francia

Mater Dolorosa di V.Jasset, Francia

1912

Il Miracolo di M.Carré, Francia

Mater Dolorosa di M.Camerini, Italia
Rientra nella tradizione pietistica e devozionale del popolo. I personaggi e i costumi richiamano le statue del '700 presenti in numerose chiese. 

Quo vadis? di E.Guazzoni, Italia
Decisamente un colossal. Scenografie imponenti, personaggi ben caratterizzati. Una proiezione di circa due ore. La spettacolarità veniva completata dal commento musicale, scritto da Jean Noguès e cantato da un coro di 150 persone. 

1913
Il terzo ladrone di C.Burguet, Francia

Il vecchio San Paolo di H.Ainsworth, Gran Bretagna

Remember Mary Magdalena di A.Dwan, USA/Canada

Under Skaebnens hjul (Il giorno della Passione) di F.H.Madsen, Danimarca

Dal presepio alla croce di S.Olcott, USA
"Il cinema ha trovato la sua vera strada" scriveva di questo film lo scrittore Israel Zangwill. Un vero trionfo artistico e di pubblico, tanto che la pellicola, ancora nel 1950, veniva proiettata in istituti religiosi. In realtà, questo film, qualcosa di diverso lo aveva. Finalmente erano stati abbandonati i soliti luoghi comuni di ambiente, di costumi e di interpretazione sulla vita di Cristo. Il regista, infatti, si documenta su luoghi e costumi in modo che il film sia il più realistico possibile. Non solo, ma arditamente accomuna episodi della vita di Gesù a fatti simili della vita contemporanea, quasi come fosse un prolungamento della sua passione. 

1914

Le Calvaire di L.Feuillade, Francia

Le rose della Madonna di L.Maggi, Italia

Giuda di Febo Mari, Italia
Buone le intenzioni, ma scarsa la regia e ancor più l'interpretazione. Tutto ciò rende poco credibile il film che ebbe infatti un successo molto limitato. 

Passion di F.Zecca, Francia (nuova edizione della precedente Passion) 

.1915

Vita dell'uomo evangelico di Madsen, Danimarca

En opstandelse di Madsen, Danimarca

Judaspengar di V.Sjostrom, Svezia

Alma Mater di E.Guazzoni, Italia
Il film cura gli aspetti pietistici della storia. Ebbe grande presa emotiva in quanto molte madri vivevano in prima persona il dramma della sofferenza per un figlio: Maria per il figlio in croce e il pubblico per il figlio al fronte. 

The soul of a Magdalene di H.Brenon, USA

An innocent Magdalene di A.Dwan, USA/Canada, con Lillian Gish

1916

Christus di G.Antamoro, Italia
Primo film girato sui luoghi storici, Palestina ed Egitto, e interpretato da Alberto Pasquali (Gesù), Amleto Novelli (Ponzio Pilato), Leda Gys (Maria Maddalena). Enorme il suo .successo: viene considerato il film più completo tra i film religiosi, tanto da ricevere l'appellativo di "Film eterno". Nel 1925 veniva ancora proiettato nelle sale. 

Il canto dell'agonia di G.Antamoro, Italia

Il buon ladrone di G.Antamoro, Italia

The making of Maddalena di F.Lloyd, USA

The Passion (Episodio di Civilization) di T.Ince, USA
In questo episodio viene evocato il sacrificio di Gesù per la salvezza e la felicità dell'umanità. Ma ora, ed è il resto del film, questa armonia è rotta da un imperatore che spinge il suo popolo contro i vicini. Il regista non badò a spese. Tanto che Civilization fu annunciato come il film da un milione di dollari. Ne costò molti di meno: centomila e ne guadagnò 800.000. Imponenti le scenografie e le scene di massa, con quarantamila comparse, tutte accuratamente preparate. 

lntolerance di Griffith, USA
Il film comprende quattro episodi: moderno (La madre e la legge), del Cristo, del massacro di S.Bartolomeo, e Babilonese. La novità consiste nello svolgimento simultaneo e non consecutivo delle storie. "Gli episodi avranno inizio come corsi d'acqua visti dalla cima di una collina. Al principio le quattro correnti scorrono lentamente e quietamente, ciascuna per conto suo. Ma scorrendo si avvicinano sempre di più l'una all'altra finché, in ultimo, si uniscono in un solo, potente fiume di commozione", così affermava Griffith. Il legame tra gli episodi era dato dall'intolleranza che perseguita l'amore, e questo attraverso i secoli e fatti diversi. Il Cristo era interpretato da Howard Gaye, Olga Grey la Maddalena e Erich von Stroheim un fariseo. 

1917

Judas di M.Curtiz, USA

Mater Dolorosa di A.Gance, Francia
Il regista padroneggia la nuova arte, lavorando sulla psicologia dei personaggi dei quali mette in evidenza gestualità e mimica. La luce enfatizza questo lavoro di cesello. 

1918

Maria di Magdala di A.Molinari, Italia

Redenzione o Maria di Magdala di C.Gallone, Italia

Barabbas di Feuillade, Francia

Giuda di Febo Mari, Italia

Via Crucis di A.Lindt e sceneggiatura di C.Dreyer, Danimarca

1920

Quo vadis? di G.Jacoby, Russia

Fogli del libro di Satana di Dreyer, Danimarca
E' la storia del tradimento di Gesù ad opera di Giuda, che si è lasciato comprare da un fariseo, incarnazione di Satana. 

1923

I.N.R.I. di R. Wiene, Germania
La passione di Cristo posta in parallelo alla passione di un uomo contemporaneo, un rivoluzionario condannato a morte per aver ucciso un dittatore. Prima di morire si converte rinunciando alle proprie idee rivoluzionarie. La tragedia del Cristo è la tragedia di ogni tempo e quindi anche di oggi. E Cristo in croce rimane come salvezza e riscatto per gli uomini. 

1925
Ben-Hur di F.Niblo, USA
Film epico e d'azione. Il più costoso della Metro Goldwyn Mayer: quattro milioni di dollari ma anche il suo maggior successo. La figura del Cristo fa da premessa e da conclusione a quella di Ben-Hur. Il film inizia con l'arrivo a Betlemme di Maria (Betty Bronson) e Giuseppe (Winter Hall), la nascita di Gesù e l'adorazione dei Magi. Ritroviamo Gesù al momento culminante del film e della vita di Ben-Hur. Prima della crocifissione, Gesù compie ancora il miracolo guarendo dalla lebbra la madre e la sorella di Ben-Hur. 

1926

Il Re dei re di C.B.De Mille, USA

1928

Quo vadis? di Jannings

1929

Il bacio di Giuda di J.S. Tinling, USA

L'agonia di Gerusalemme di J.Duvivier, Francia

1930

Redenzione di F.Niblo, USA

1932

Il segno della croce di C.B. De Mille, USA

Non c'è amore più grande di L.Seiler, USA

Le croci di legno di R.Bernard, Francia

1935

Golgota di J.Duvivier, Francia con Jean Gabin

1936

The green pastures di M.Connelly e W.Keighley, USA

1942

Jesùs de Nazareth di J.Diaz Morales, Messico

1944

Le chiavi del Paradiso di J.M.Stahl, USA

1948

L'ebreo errante di G.Alessandrini, Italia con Vittorio Gassman e Valentina Cortese
Racconto della leggenda dell'ebreo errante, così punito per aver impedito alla moglie di aver dato un sorso d'acqua a Gesù in cammino verso il Calvario. 

1949

Wich will ye bave? di D.Taylor, Gran Bretagna

Matthaus Passion (La passione secondo Matteo) di E.Mariscka, Austria. Film documentario musicale

Es war ein Mensch di C.Oertel, Germania. Documentario sul nuovo Testamento

1950

Passion (Documentario) di E.Martin, Germania

Barabbas di A.Sjoberg, Svezia Girato in Palestina, fu un fiasco di pubblico

. 1951

Behold the Man di W.Rilla, Gran Bretagna

Maria di Magdala di M.Contrero- Torres, Spagna/Messico
Vita di Maria di Magdala, dalla frivolezza alla conversione e al seguito di Gesù fino alla croce. 

Mater Dei di E.Corsero, Italia
Vita della Madonna, comprendente al suo interno anche la vita di Gesù. 

Il Divino Mistero, Italia
Attraverso le parole di un missionario, vengono rievocati alcuni episodi dell'Antico e Nuovo Testamento. Un film didattico. 

1952

Il martirio del Calvario di M.Martinez, Messico

La vie de Jésus (documentario) di M.Gibaud, Francia

Le chemin de Damas di M.Glass, Francia

Quo vadis ? di M.Le Roy, USA. Con Robert Taylor, Deborah Kerr, Leo Genn, Peter Ustinov. 
Film spettacolare, dinamico, con scene d'azione di massa. All'interno scene degli ultimi giorni degli apostoli Pietro e Paolo. 

Il Giuda di I.F.Iquino, Spagna
Gli operai di una fabbrica fungono da attori nell'annuale rappresentazione della Passione di Gesù. Tutti vorrebbero interpretare il ruolo del Salvatore, compreso un uomo ricco e disonesto che simula un furto ad opera del prescelto per sostituirsi a lui. Le parole del Vangelo che pronuncia lo redimono. 

1953

Il bacio di Giuda di R.Gil, Spagna
Il film presenta l'ambizione di Giuda che tradisce Gesù per soddisfare i suoi intenti politici. Poi, disperato, dopo aver visto la crocifissione di Gesù, incapace di chiedere perdono e di sperare nella misericordia divina, si impicca. Una storia tradizionale, resa comunque con una buona fotografia e interessante commento musicale. 

Cristo di M.Alexandra e R.M. Torrecilla, Spagna

Salomé di W.Dieterle, USA
Viene presentata, ma in maniera positiva, la figura di Salomè. Figliastra di re Erode, giunta da Roma in Galilea, trova la famiglia reale sconvolta per le prediche di Giovanni Battista. Salomè è colpita dall'autorità con cui parla il Battista, anche se soffre perché le sue parole colpiscono direttamente la sua famiglia. Al famoso ballo Salomè vorrebbe chiedere la grazia per il prigioniero ma sua madre la anticipa chiedendo la decapitazione. La ragazza lascia la reggia. In seguito tra il pubblico di Gesù ci sarà anche lei. Il film è ben confezionato e desta interesse soprattutto per la novità della rappresentazione. 

La tunica di H.Koster, USA. Con Richard Burton e Victor Mature. 
Storia di un cinturione (interpretato da Burton) che, presente alla crocifissione di Gesù, vince la sua tunica ai dadi. La sua vita da allora viene sconvolta e fa di tutto per liberarsi e distruggere quella tunica che sembra averlo stregato. Grazie anche all'aiuto del suo schiavo Demetrio (Victor Mature), egli capirà di non poter resistere alla forza della fede nel Cristo e sceglierà la strada del martirio per testimoniarla. 

1954

Day of Triumph di I.Pichel e J.T.Coyle, USA

Maddalena di A.Genina, Italia
Una prostituta accetta di interpretare la Vergine Maria in una processione, provocando l'indignazione e la rivolta di un intero paese, che si sente profanato. Pagherà il suo gesto di sfida con il sacrificio della vita. Questo ruolo riscatta la "fragilità" della persona. 

Il Figlio dell'Uomo di V.Sabel, Italia. Sceneggiatura: Giacomo Alberione. Prod. San Paolo Film. 
E' la storia di Gesù, dall'annunciazione a Maria fino all'ascensione in cielo. Povere le scenografie e debole la regia. 

1958

La spada e la croce di C.L.Bragaglia, Italia. Con Yvonne De Carlo. Racconta la vicenda di Gesù vista dalla parte della peccatrice redenta. Il regista afferma di essere rimasto orgoglioso soprattutto per l'episodio della crocifissione di Gesù sul Golgota. 

Tu es Pierre di P.Agostini, Francia

La Redenzione di V.Lucci Chiarissi, Italia
Storia della redenzione umana, dal peccato originale all'assunzione di Maria. Si tratta di riprese di quadri di pittori italiani. Accurato il lavoro di riproduzione, anche se il passaggio da un quadro all'altro e le riprese dei singoli quadri sono poco cinematografici. 

1959

Erode il Grande di A.Genoino, Italia
Storia romanzata di Erode il Grande. Tuttavia sia la regia che l'interpretazione risulta mediocre, nonostante l'abbondanza scenografica e di costumi. Un film modesto, di mediocre regia e interpretazione. 

La peccatrice del deserto di G.Vernuccio e S.Sekely, Italia
Narra la storia, di pura invenzione, di Gesù e Maria salvati da una prostituta nel deserto, durante la fuga in Egitto. I soldati di Erode assaltano la carovana e la donna riesce a far fuggire gli ebrei con Gesù. Film di poche pretese ma di efficace presa sul pubblico. 

Los misterios del Rosario di J.Breen jr, Spagna/USA
In Italia divennero 3 film. E abitò tra noi (1969): tratta gli episodi dell'apparizione dell'angelo Gabriele a Zaccaria, l'Annunciazione, la Nascita di Gesù, la presentazione al tempio, Gesù a 12 anni nel tempio. I suoi non lo riconobbero (1969): racconta gli episodi della passione e morte di Gesù. Resta con noi (1967): presenta i primi tre misteri gloriosi: la Resurrezione di Cristo, la sua Ascensione al cielo, la discesa dello Spirito Santo; sono narrati anche i primi passi della Chiesa. 

1960 Il grande pescatore di F.Borzage
Storia in gran parte romanzata dell'apostolo Pietro. Film di maniera. 

1961

Il Re dei Re di Nicholas Ray, USA
Film spettacolare e imponente, con grande dispiego di mezzi. L'attore Jeffrey Hunter, nella parte di Cristo, interpreta con profondità e grande sensibilità il personaggio, rimanendo più nell'ambito dell'iconografia tradizionale. Il colore e l'illuminazione e la musica contribuiscono a fame un'opera di rilievo. La storia segue lo schema tradizionale del testo biblico, anche se vengono accentuati gli elementi spettacolari. 

Ben-Hur di W.Wyler, USA
Con Charlton Heston nel ruolo principale di Giuda Ben-Hur. La storia di Ben-Hur si incrocia con quella del Cristo. Film spettacolare, girato in 70 mm, con dovizia di effetti, comparse, azione, dramma, lavoro psicologico... Celebre la corsa delle bighe. Ricordiamo un'interpretazione magistrale e la regia superba. Pioggia di Oscar. 

Hosianna di P.Podehl, Germania

1962

Ponzio Pilato di I.Rapper e G.P.Callegari, Italia

Barabba di R.Fleisher, Italia. 
Interpretato da Anthony Quinn (Barabba), Emma Baron (Maria), Roy Mangano (Gesù), Arthur Kennedy (Pilato). E' la storia romanzata di Barabba, graziato da Pilato e toccato dalla grazia di Cristo. Riprende la sua vita di brigantaggio e viene nuovamente condannato. Muore affidandosi a Dio. Preziosa l'interpretazione di A.Quinn e la regia che sottolinea gli aspetti psicologici e drammatici dei personaggi. La spettacolarità contorna egregiamente l'evolversi del dramma. 

1963

La ricotta (Episodio di Rogopag) di P.P.Pasolini, Italia. 
Con Orson Welles e interpreti non professionisti. Poemetto lirico-populista con un'esplicita volontà critica e demistificatrice di un certo cinema sacro. "Stracci" fa la parte del buon ladrone in un colossale film biblico. Un sottoproletario che non riesce mai a consumare il suo pasto perché, per esigenze di lavorazione, deve essere continuamente attaccato e staccato dalla croce, sino a quando su quella croce finirà per morire per davvero, prima ancora di aver potuto invocare "il regno dei cieli" nel corso della sua unica battuta prevista dalla sceneggiatura. 

1964

Il Vangelo Secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, Italia
Il regista sceglie il vangelo "resoconto" e individua i personaggi tra i suoi contemporanei: volti di poeti e intellettuali, di contadini del sud, di sottoproletari della periferia metropolitana, con le stimmate ostensibili del loro tempo, esponenti di quell'umanità spesso respinta ai margini...A questa gente il regista fa interpretare le figure della narrazione evangelica. Le parole non vengono recitate, ma dette, ripetute, addirittura gridate, come in un rito che si ripete. In mezzo a questa umanità si colloca Gesù, con il suo messaggio senza tempo. 
Il film di Pasolini segue il racconto dell'evangelista Matteo dall'Annunciazione alla Resurrezione fino alla partenza degli apostoli per la loro missione. Ciò che differenzia quest'opera da altre ispirate al Vangelo è la sobrietà ed il rigore con cui il testo viene affrontato. Il film è ambientato nell'Italia meridionale, a Matera e in altre zone brulle e povere: questo permette di individuare Gesù come il difensore della verità e della giustizia tanto anelate dalla povera gente, dai diseredati, dagli umili, il tutto reso da un bianco e nero asciutto. Il suo Gesù ha il volto nuovo, deciso e tranquillo di Enrique Irazoqui, uno studente spagnolo incontrato per caso dal regista. La Madonna è interpretata dalla madre di Pasolini e molti dei discepoli e degli amici di Cristo da intellettuali e scrittori (Enzo Siciliano, Francesco Leonetti, Natalia Ginzburg, Alfonso Gatto, Giorgio Agamben). 

Il regista voleva mettere in scena una trascrizione fedele del racconto di Matteo e non una ricostruzione d'epoca sofisticata quanto vacua. Tutto ruota intorno al Cristo e alla Parola nella loro infinita essenzialità, e non esistono sontuosi scenari o divi ingaggiati per fare da comparsa. Del resto, durante la preparazione del progetto, Pasolini ha scritto: .

1966

La più grande storia mai raccontata di G.Stevens, USA
Anche questo film pecca di americanismo, dai paesaggi western ai discorsi notturni fra le fiaccole accese (ricordo di raduni del Ku Klux Klan), al tributo verso la tolleranza razziale con la presenza del nero Sidney Poitier nel ruolo del Cireneo. Un fiasco economico stroncato pesantemente dalla critica e che la presenza di molti divi (John Wayne, Telly Savalas, Charlton Heston, Carroll Baker, Sidney Poitier, Claude Rains, Donald Pleasence, Shelley Winters) non ha saputo risollevare. Nel ruolo del protagonista troviamo il volto di Max von Sydow. Troppo il denaro sprecato per una ricostruzione dai contenuti aderenti ai Vangeli ma dalla forma superficiale e calligrafica. 

1968

Atti degli Apostoli di Roberto Rossellini, Italia

Amore e rabbia (Vangelo '70) di registi vari, Italia

Seduto alla sua destra di V.Zurlini, Italia

1972

Pilato e gli altri di A. Waida, Germania
Il noto regista polacco in trasferta in occidente con una troupe di compatrioti, realizza questa versione della Passione attraverso gli occhi del disincantato romano Pilato. 

1973

Jesus Christ Superstar di Norman Jewison, USA
Nel film, un gruppo di hippies, i figli dei fiori del sessantotto, sceso da un pullman su una desolata landa desertica, inscena il Vangelo, raccontando con canti, suoni e balli la storia di Gesù. Più che raccontarla la rivive. E' perciò la celebrazione-evocazione di un Gesù come riferimento dell 'umanità, segno di contraddizione e risposta. Il film non è altro che la trascrizione cinematografica di un'opera rock composta da Tim Rice e Andrew Lloyd Webber rappresentata a Brodway con successo. La versione musical della vita di Cristo risente fortemente della protesta giovanile ma vanno apprezzate la freschezza e la sincerità di approccio. Inoltre è doveroso ricordare come la produzione operistica colta ha sempre evitato di trattare il tema della Passione di Cristo. I due autori, rischiarono la scomunica per quest'opera che rappresenta Gesù come un divo alla ribalta, che umanizza Giuda, che conferisce a Maria Maddalena una camalità ed una femminilità inusuale e che giustifica Pilato. Tuttavia lo scandalo non fece altro che lanciare il film in tutto il mondo. 
Quest'opera propone una serie di emozioni che ironizzano sull'ipocrisia dei sacerdoti, che danno voce alla passione politica degli Zeloti (e dunque alle buone intenzioni di Giuda) e che dipingono la folla come il pubblico rumoroso di un raduno rock. 
Finora si era vista solo una realizzazione musical ma l'ultima rappresentazione curata dal Teatro della Munizione e dall'Ente Teatro di Messina e diretta da Massimo Piparo ripropone un'atmosfera greca da tragedia, intensa e severa, raffinata e con vari riferimenti colti, capace di stregare chi ne era un fanatico di lunga data come chi non conosceva nemmeno il film che ha dato origine al musical. 

Tu lo condanneresti?(Proceso a Jesùs) di J.de Heredia (da Diego Fabbri), Spagna

Godspell di D.Greene, USA

Di Shaul e dei sicari dove finiscono le vie di Damasco di G.Toti, Italia

1974

Sangue più fango uguale Logos Passione di Eisa De Giorgi, Italia. Tratto da una "lauda umbra". Il film è diviso in due parti: La Passione e La Resurrezione di Gesù e di Lazzaro. La prima è dialogata, la seconda è recitata. 

1975

The passover plot di M.Campus, USA/Israele

Povero Cristo di P.Carpi, Italia

1976

Il Messia di Roberto Rossellini, Italia
Il racconto è come una serie di sequenze che si susseguono senza particolari forzature drammatiche: anzi paiono disposte quasi fossero illustrazioni popolai intercalate al testo. Per evitare il troppo grande, le immagini rischiano di scadere nel troppo piccolo. . . 

L'ultima cena di T.Gutiérrez Alea, Cuba

1977

La Bibbia di M.Carné, Francia

1978

Gesù di Nazareth, di Franco Zeffirelli, Italia
Il film si situa sulla linea di una ricostruzione della pagina evangelica, ma con caratteri di novità. Prima di tutto per il retroterra di cultura figurativa del regista: egli trae suggerimento e ispirazione dall' arte classica italiana, dal tardo Seicento in poi, per quanto riguarda scenari e costumi, con una particolare fedeltà a quanto l'iconografia cattolica ha elaborato. Anche la scelta degli interpreti si inquadra in questa prospettiva: i volti sono quelli dell'iconografia classica e delle immagini "colte" dei Presepi e delle Passioni pittoriche. Zeffirelli esprime al meglio la sua virtù di illustratore con l'individuazione raffinata di ambienti e paesaggi, il gusto del colore, l'accurata ricerca della composizione (vedi la sequenza della Deposizione), l'uso sapiente del linguaggio cinematografico (scandito e disteso in alcune sequenze, drammatico e concitato in altre), l'impiego appropriato delle masse, la ricerca dell'emozione e della commozione...Il tutto divenendo un'autentica esperienza spirituale in un largo numero di spettatori di tutto il mondo. 

The nativity di B.Kowalski, USA

The small one (L'asinello) di D.Bluth, USA
Un cartone animato di Walt Disney che narra la storia dell'asinello che porta la Madonna a Betlemme e successivamente in Egitto. 

1979

Jesus di J.Heyman, P.Sikes e J.Krisch, USA. Tratto dal Vangelo di Luca

Brian di Nazareth di T.Jones, Gran Bretagna
Con Terry Jones (Mandy la madre e altri 4 ruoli minori), Graham Chapman (Brian e altri 2 ruoli minori), Michael Palin (Pilato e altri 9 ruoli minori), John Cleese (Dirk Reg leader rivoluzionario e altri 4 ruoli minori), Ken Colley (Gesù). Scorribanda, non sempre di buon gusto e di accettabile livello, orchestrata dal gruppo inglese dei Monty Phiton, nella quale il povero Brian segue da comprimario ignorato e bistrattato le vicende di Cristo, Passione compresa, senza però condividerne la celebrità. Una parodia basata sul presupposto che tirare comunque, sia pure per stravolgerla, significhi utilizzare un riferimento di carattere universale e quindi popolarissimo. 

La cerimonia dei sensi di A.D'Agostino, Italia
Ferito gravemente, un cascatore sogna di essere Gesù e rivive in chiave moderna alcuni episodi del Vangelo. Solo che i peccati di Maria Maddalena sono descritti nei minimi particolari. 

1980

Il ladrone di P.Festa Campanile, Italia/Francia
Non è altro che il racconto della passione vista con gli occhi del compagno di croce di Gesù. Con Enrico Montesano (Caleb), Claudio Cassinelli (Gesù), Daniele Vargas (Rufo), Enzo Robutti (il centurione ). 

Venne un uomo di nome Gesù (In search of historic Jesus) di H.Schellerup, USA
Il film analizza e tenta di spiegare alcuni degli avvenimenti legati alla vita e alla figura di Gesù: chi sia stato realmente, che cosa abbia fatto negli anni precedenti la sua predicazione, se sia stata possibile la sua resurrezione e quale credibilità deve essere attribuita alla Sacra Sindone. 

Pietro e Paolo: Atti degli apostoli di E.Finney, USA
Il film illustra la vita e l'espansione missionaria della Chiesa delle origini, interpretando fedelmente il testo di Luca. 

1981 Miracoloni di F.Massaro, Italia
Interpreti: Bendetto Cassillo, Victor Cavallo (Giuda), Mauro Di Francesco (Pietro), Sergio Di Pinto, Nadia Cassini (Giovanna d'Arco), Bombolo, Danilo Mattei, Ania Pieroni (Maria Maddalena), Francesco Salvi (Giosué). 

1982

Cercasi Gesù di L.Comencini, Italia
Ne è protagonista un giovane senza storia, scelto tra i tanti per riproporre, in una campagna catechetico-commerciale, il volto di Gesù. Nessuno ne sa nulla, vive nella bottega di un falegname predicando e praticando la mansuetudine, lascia che i bimbi vadano a lui, converte violenti e terroriste, anche a rischio della propria incolumità. Compie anche miracoli, come si saprà alla fine. Il tutto nella quasi totale indifferenza. Comunque è uno scandalo per i benpensanti quella sua vita così schiva, quell'altruismo così solare. E anche gli uomini della "buona stampa", 'gli artefici della campagna che ne hanno lanciato l'immagine, riterranno opportuno liberarsene, decidendo di emarginarlo definitivamente in una casa per malattie mentali. 

Das Gespenst di H.Acthernbusch, Germania. 

Tu mi turbi di R.Benigni, Italia. Primo episodio. 

1983

Cammina cammina di E.Olmi, Italia
La storia è legata ai giorni dell' annuncio e dell' attesa. Storia fiaba della carovana di sapienti e di umili che dal lontano Oriente si muove sulla scia misteriosa della Stella verso l'incontro con il Redentore. Una parabola della ricerca umana: qualcuno si stanca e ritorna indietro, qualche altro non ce la fa a proseguire, ma c'è chi, vinte le difficoltà e pericoli, fra mille peripezie, giunge sino all'appuntamento con il Cristo. 

Ma tu sei Pietro di M.Cloche, Francia

Due ore meno un quarto avanti Cristo di J.Yanne, Francia
Con Coliche, Michel Serrault, Jean Yanne. Farsa goliardica sui motivi canonici del film di ambientazione romana. Assistiamo a delle escursioni gay di un Giulio Cesare pieno di vizietti, alle gesta di un Ben-Hur grasso e pasticcione, nonché a una nascita di Gesù annunciata in TV nel notiziario regionale. 

1984

Je vous salue, Marie di J.L.Godard, Svizzera-Francia

1985

Seoul Jesu di Wan Son-U e Chang Son-U, Corea

Quo vadis ? di F.Rossi, Italia

1986

L'inchiesta di D.Damiani

1987

Secondo Ponzio Pilato di L.Magni, Italia

Emanon di S.Paul, USA. 
Racconta la passione dal punto di vista del proconsole romano. 

1988

L'ultima tentazione di Cristo di M.Scorsese, USA
Tratto dal romanzo del cretese Nikos Kazantzakis. Rigorosa l'impostazione della vicenda: Gesù, vero Dio e vero uomo, immola sul Calvario tutte le debolezze dell'umanità, soffrendo appieno tutti i dolori e le sofferenze della nostra natura. Di qui l'ultima tentazione, quella della normalità, tentazione superata e vinta nella fedeltà della sua missione redentrice. 

Il bacio di Giuda di P.Benvenuti, Italia

1989

Jesus of Montréal di Denys Arcand, Canada
Colui che si fa carico di incarnare il personaggio di Gesù, sia pure per un motivo estemporaneo, non può sottrarsi a una sorta d'investitura sacrificale: l'attore, che si è reso colpevole di atti contrari alla legge solidarizzando con i reietti della società, viene tirato giù dalla croce, ammanettato, trascinato in tribunale e tentato con insidiose offerte da un avvocato diabolico e da un prete senza scrupoli. Morirà in ospedale, abbandonato da tutti, senza nessuno che gli presti soccorso. 

Un bambino di nome di Gesù di F.Rossi, Italia
Il regista recupera la grazia poetica dei Vangeli apocrifi. Il film si muove tra favola ed evocazione evangelica, ed espleta la stessa funzione dei racconti della nostra fanciullezza. 

1991

Es wäre gut, dass ein Mensch würde eumbracht fur das Volk (Johannes-Passion) di H.Niebeling, Germania. Film musicale con musiche di Bach. 
Il ritorno di J.J.Thorsen, Danimarca In cima ad una montagna di spazzatura, che rischia di estendersi per l'intero pianeta, un barbone invoca il ritorno di Gesù salvatore. E Gesù, con la sua tunica e il suo mantello, riappare a Parigi, sugli Champs-Elysées: viene rapito, picchiato, preso in ostaggio, lotta contro il potere degli eserciti e della Chiesa, si converte al più intransigente pacifismo, ama e redime una giovane terrorista, infine e arrestato e condannato a morte. Ma sarà riacchiappato per un piede dalla sua donna mentre sta per rivolare in cielo. 

Hélas pour moi di J.L.Goddard, Francia

1993

Per amore solo per amore di G.Veronesi, Italia

1995

Giuseppe di R.Youg, Italia

Marie de Nazareth di J.Delannoy, Francia

1996

Il quarto re di S.Reali, Italia

1998

Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco, Italia

I giardini dell'Eden di A.D'Alatri, Italia

1999

Jesus di Roger Young, USA/Italia/Francia/Germania

The miracle maker di D.W.Hayes-S.Sokolov

Maria, figlia del suo figlio di Fabrizio Costa, Italia ??? 

Giuseppe di Nazareth di R.Mertes, Italia ??? 

Maria Maddalena di R.Mertes, Italia ??? 

Maria madre di Gesù di K.Condor, USA ??? 

2001

The Promise di Brenson, Missouri
Questo musical è basato sulla vita di Gesù. Una serata stellata vicino ad una delle zone di laghi del Missouri viene interrotta dall'annuncio della nascita di Gesù e da questo momento la barriera del tempo ripropone la storia senza tempo di Gesù dalla nascita all'Ascensione, riproposta in modo spettacolare per lo spettatore con i colori, i suoni ed le fragranze del tempo. Animali in scena come capre, cavalli, un asino ed un cammello aggiungono autenticità al periodo e lo adattano ad ogni età. 

Un cast di più di 50 persone in costumi variopinti, 14 scenari ed effetti speciali incredibili inchiodano l'attenzione dello spettatore per ben due ore di spettacolo dal vivo. Un musical che ha stregato milioni di persone attraverso la televisione internazionale e migliaia dal vivo dalla Georgia al Cremlino in Russia. Per ulteriori informazioni www.thepromise.com

Giuda di R.Mertes, Italia

Tommaso di R.Mertes, Italia

Il Figliol Prodigo
Il Corpo di Ballo della Scala offre una serata di grande danza nel segno della tradizione. Apre il programma Il Figliol Prodigo con la coreografia di Balanchine sulla musica di Prokofiev. Il riferimento evangelico viene trasfigurato in una dimensione esotica in cui la seduzione è il tema portante. 

POLEMICHE E SCANDALI

Negli ultimi anni abbiamo assistito a vari e repentini mutamenti del "comune senso di pudore". Tuttavia vivaci polemiche e accese discussioni hanno accompagnato l'uscita di alcuni film che hanno affrontato in modo provocatorio fino all'ardito le tematiche religiose e bibliche. 
Nell'ultimo decennio si è spesso parlato per esempio di Je vous salue Marie di Jean-Luc Godard. Maria è una giovane benzinaia fidanzata con il tassista Giuseppe che scopre di essere incinta, pur essendo ancora vergine, dopo avere ricevuto la visita di un certo Gabriele accompagnato da una bambina. Questa rilettura di Godard esprime il punto di vista di un laico di formazione calvinista sul mistero della religione e della rivelazione. Ricordiamoci che Godard è uno dei più geniali e tenaci sperimentatori del cinema contemporaneo e padre della Nouvelle Vague e autore di capolavori come Fino all'ultimo respiro (1959). Godard con il suo film non voleva certo scandalizzare ma anzitutto mostrare la nostalgia per il trascendente e l'ansia dell'uomo come dell'artista di trovare una risposta alla domande rivolte dalla coscienza e dall' intelligenza. Il film, delicato e pudico, fa riflettere e inizia l'ultima fase della poetica godardiana in cui il regista accantona lo spirito rivoluzionario e si mette a confronto con l'Uomo grazie alla riflessione profonda sul cinema e il suo linguaggio. 
Fra i vari film che hanno suscitato scalpore, non si può dimenticare L'ultima tentazione di Cristo di Martin Scorsese, tratto dall'omonimo romanzo di Nikos Kazzantzakis che già alla sua uscita aveva destato clamore e polemiche. Il film viene presentato al Festival di Venezia nel 1988 in un clima di discussioni anche un po' surriscaldato artificiosamente. Quest'opera è una chiara rilettura della vita di Gesù che risente della cultura italo-americana del suo autore. Il travaglio interiore di Cristo visto più come uomo che Uomo-Dio mette a nudo la sua fragilità, le sue paure e le sue tentazioni umane. Tutto ciò viene filtrato dalla sensibilità e professionalità di Scorsese ma il film, intenso e difficile, non ha raccolto il favore del pubblico. 
Recentemente un altro film italiano ha riaperto antiche discussioni. Per amore, solo per amore di Giovanni Veronesi, tratto dal romanzo di Pasquale Festa Campanile, dipinge la figura di un San Giuseppe "umano, troppo umano". Ovviamente siamo lontani dalle provocazioni intimistiche e laceranti di Godard e dalle visioni di Scorsese, ma Veronesi riesce a non essere volgare e grazie all'interpretazione di Diego Abatantuono vengono resi visibili gli smarrimenti e le incertezze di un uomo di cui si sa ben poco. 

LA VOCE DEL CARDINALE: LEGGERE LA BIBBIA COME UN FILM

"La storia della nostra vita è anche la storia del nostro rapporto col cinema". Queste le parole del Cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, con cui è intervenuto al convegno organizzato a Milano in aprile (2001 ??) dall'Associazione Cattolica esercenti cinema in collaborazione con l'Ufficio per la pastorale del cinema e del teatro della diocesi di Milano dal tema "Chiesa e cinema: un cammino che dura da cent' anni e che continua".
Il Cardinale ricorda esplicitamente le parole di Paolo VI che ha sempre considerato il cinema come una possibilità per educare il pubblico ad uno spirito critico ed è per questo che ancora una volta sottolinea l'importanza delle "Sale della Comunità" (una ventina nella diocesi milanese) che volgono a sviluppare "il disegno educativo per la nostra gente, e dove trovano posto la possibilità di incontro e di dialogo, l'aggiornamento culturale, l'addestramento alla riflessione critica sulle proposte di varia provenienza".
Il cardinale ha poi operato un'attenta analisi di un "paradosso" che egli stesso individua nel cinema. La sua cultura da biblista emerge nuovamente: infatti egli ama analizzare i racconti biblici come se fossero delle sequenze cinematografiche e questo passatempo, come lui stesso lo definisce, lo aiuta a preparare la lectio divina. Analizzando i racconti di Marco, ad esempio, egli nota lo stesso processo descrittivo di una sequenza cinematografica interessante ed affascinante: dai particolari a poco a poco l'evangelista ci conduce al centro del problema benché si colga fin dall'inizio un polo indefinito di attrazione. Il Cardinale aveva già notato questo procedimento nel lavoro di molti registi, specialmente al momento della sua collaborazione con Roberto Rossellini nella preparazione degli Atti degli Apostoli, dove il regista costruiva le scene in modo analogo ai narratori biblici. 
Il Cardinale ha concluso il suo intervento sul confronto fra Bibbia e cinema esprimendo un augurio: "Forse chiedo troppo, ma è bello sognare che, dopo i primi cent'anni di cinema, ne seguano altri cento che raggiungano quella perfezione e quella incisività comunicativa da tremila anni propria dei racconti biblici".

FACING THE GIANTS: PARLARE DI GESÙ CRISTO È PERICOLOSO PER I RAGAZZI?

Facing the GiantsFacing the Giants: parlare di Gesù Cristo è pericoloso per i ragazzi?  da Corrispondenza romana

 

Facing the Giants è il titolo di un film, diretto da Alex Kendrick e distribuito dalla Provident, uscito nelle sale alla fine del settembre scorso, che racconta una tipica vicenda americana.

L'allenatore di una fallimentare squadra liceale di football, dopo vari ma inutili tentativi di risollevarne le sorti sportive ma anche quelle spirituali, decide di ricorrere all'aiuto di Dio, esortando i suoi giocatori alla preghiera e alla pratica della religione. I risultati non si fanno troppo attendere: riscoprendo i valori cristiani e la figura del Redentore, i componenti della squadra ritrovano il senso di responsabilità e la gioia di vivere e, di conseguenza, anche il successo sportivo. Un film positivo e formativo, dunque, anche se animato dalla tipica mentalità americana che lega la religione al successo; del resto, molti campioni sportivi dichiarano apertamente di attribuire alla loro fede il successo ottenuto.

 

Eppure questo film non è piaciuto alla Motion Picture Association of America (MPAA), l'organismo incaricato di valutare i film in base alla loro caratteristiche, classificandoli come adatti, inadatti o pericolosi per i ragazzi. La MPAA ha infatti classificato Facing the Giants come P .G. (Parental Guidance): ciò significa che i minorenni possono vederlo solo se accompagnati da un adulto, in quanto la visione della pellicola è ritenuta potenzialmente pericolosa per i ragazzi, se non viene corretta da un adulto che ne attenui i danni (che poi sarebbero dovuti al preteso ‘fanatismo religioso’ della vicenda). In questo modo, il film è stato messo sullo stesso livello di quelli che rappresentano scabrosità, violenze, vari comportamenti ‘trasgressivi’ che rischiano di danneggiare i ragazzi immaturi.

 

Kris Fuhr, portavoce della casa distributrice del film, si è dichiarata sconcertata da una decisione che tratta una vicenda d'ispirazione cristiana alla pari di una che esalta il sesso e la violenza, e ha commentato: "si vede che oggi insegnare l'omosessualità ai figli è accettabile, ma parlare del Cristo è pericoloso e sconsigliato". Difatti, risulta che la stessa MPAA non ha messo in guardia il pubblico da altri film, che propagandano storie omosessuali o criminali o blasfeme, compreso il recente Codice da Vinci.

 

Nota del Direttore:

Non ho visto il film, tuttavia non sarei troppo portato a sottovalutare la negatività di una religiosità miracolistica, troppo imparentata con certi meccanismi superstiziosi. Approverei invece convintamene il film se semplicemente “i componenti della squadra ritrovano il senso di responsabilità e la gioia di vivere e, di conseguenza [non automatica né dovuta!], anche il successo sportivo”.

 

GESÙ NEL CINEMA: LE TRE FASI DI UN DELICATO RAPPORTO DI ERNESTO G. LAURA

Gesù nel cinema: le tre fasi di un delicato rapporto

Perché proprio Bibbia e cinema? Innanzitutto perché è un tema di grande rilievo per la cultura del nostro tempo: si è infatti parlato della Bibbia come di un "grande codice" della nostra tradizione culturale, una sorta di orizzonte (spesso ormai soltanto inconsapevole) del nostro stesso universo mentale. 
Il Convegno appena concluso è stato organizzato dalle quattro Associazioni di Cultura Cinematografica (ANCCI, CSC, CGS, CINIT) in collaborazione con l’ACEC Associazione Cattolica Esercenti Cinema, l'Ufficio Nazionale per le Comunicazioni della CEI, la FsCS della Pontificia Università Salesiana e il Servizio Nazionale per il Progetto Culturale della CEI. 
Il Convegno è stato presieduto da sua S. E. Mons. John P. Foley e ha visto la presenza di biblisti (Silvio Barbaglia, Carlo Buzzetti) di critici cinematografici (Ernesto G. Laura, Carlo Tagliabue, Virgilio Fantuzzi), di registi (Damiano Damiani, Giulio Base), di produttori (Ettore Bernabei) e di studiosi del linguaggio (Daniela Iannotta, Alberto Bourlot). 
Di seguito riportiamo in sintesi la riflessione del critico cinematografico Ernesto G. Laura. 
Il delicato rapporto fra Gesù vivente e la sua immagine cinematografica si instaura subito dopo la nascita dei nuovo mezzo di comunicazione-espressione. Infatti già nel 1897 gli in ventori del "cinématographe", i fratelli francesi Louis e Auguste Lumière, facevano realizzare ai loro operatori Vues representant la vie et la passion de Jésus-Christ per lo più citato, dal nome dei due produttori, come Passion Lumière. Essi avevano dapprima pensato, di riprendere dal vero la famosa Passione che viene da anni allestita dal vivo in Baviera a Oberammergau con la partecipazione dell'intero paese. Poiché questo risultò impossibile, ripiegarono su un' altra non meno illustre Passione, quella rappresentata in Boemia a Horitz. Nuove difficoltà indussero alla fine a realizzare il film a Parigi. È però significativo che gli agenti dei Lumière vendessero il film all'estero come se si trattasse della ripresa dell'autentica manifestazione di Horitz. Perché tutto ciò è significativo? Perché mette in evidenza come nella fase pionieristica del cinema, collocabile fra il 1895 e il 1910, il richiamo dello spettacolo cinematografico nei confronti del pubblico non era dato dall'offerta di storie, di personaggi, insomma dalla "fiction", ma dalla capacità di documentare, facendo vedere il mondo sullo schermo. 
Non dunque direttamente Gesù ispirava, in tale ottica, quei primi brevi filmetti, ma un evento, la Sacra Rappresentazione effettuata in qualche parre dell'Europa, che si univa ai tanti disparati eventi inclusi nei cataloghi (allora i film si vendevano piuttosto che, come oggi, noleggiandoli) dei vari produttori: Lumière, Pathé, Gaumont, per citare solo i francesi. Non si può parlare perciò di film di autentica ispirazione religiosa, bensì di cronaca di un evento. Non diversamente accadde anche fuori d'Europa, e se ne ha conferma nel caso di Passion Play (conosciuto anche come Passion Hollaman) girato a New York sulla terrazza di un albergo dal produttore Richard G. Hollaman nel 1898 in modo quasi clandestino dato che doveva essere lanciato come la vera ripresa della Passione di Oberammergau. A poco a poco anche il cinema di "fiction" crebbe e si assicurò il suo spazio. Se i Lumière avevano rappresentato emblematicamente la scelta per il cinema di essere documentario, fu un altro francese, l'ex-prestigiatore Georges Méliès, che portò sullo schermo il Cristo in un breve film del 1898 su un miracolo: Le Christ marchant sur les eaux. Anche in questo caso non è difficile constatare quanto l'approccio al Verbo evangelico rimanga esterno, non meno di quello documentario: a Méliès, più che il senso profondo dell' episodio, interessa la possibilità di realizzare il miracolo con un effetto speciale, con un trucco di ripresa. Il passo del Vangelo non è nemmeno qui ispiratore ma assunto a mero pretesto per esibire una "meraviglia" tecnica. 
In seguito, quando il cinema diventa quasi in prevalenza "fiction", l'industria riduce la Bibbia e in essa il Vangelo a "genere" da mettere accanto agli altri generi in cui si standardizzi il repertorio cinematografico, dal western al dramma, dall'epico al comico, dal poliziesco all'avventuroso. La struttura drammatica, nella prima parte degli anni '10, è ancorata all'idea teatrale dei "tableaux vivants" e il modello figurativo è la tradizione pittorica (per esempio "Il cenacolo" leonardesco) e soprattutto l'iconografia popolare delle immaginette e delle illustrazioni dei libri di preghiere. Tuttavia sarebbe ingiusto negare, in mezzo a tanti esempi di mero calcolo industriale, l'imporsi di poche, serie opere scaturite da un'ispirazione autentica. È il caso dell'italiano Christus, di Giulio Antamoro (al quale si devono anche un film su San Francesco ed uno su Sant'Antonio) realizzato dalla Cines nel 1916: in questo film, ora restaurato e dotato di colonna musicale, ci si stacca di netto dalla staticità dei "tableaux vivants" cercando la via di una peronale lettura filmica del testo evangelico filtrata da un "poema iconografico in tre Misteri" appositamente scritto da Fausto Salvatori e poggiando su due intense interpretazioni di Alberto Pasquali (Gesù) e di Leda Gys (Maria). Antamoro combina al meglio l'uso del linguaggio cinematografico ormai fattosi maturo e di una tecnologia per l'epoca già molto avanzata.

 

GESU' SULLO SCHERMO DI ERNESTO G. LAURA

Gesu' sullo schermo (di Ernesto G. Laura) 

Dei molti film realizzati in un secolo di cinema su Gesù, alcuni appaiono invecchiati per linguaggio e per tipo di lettura biblica, altri (come il muto italiano Christus di Giulio Antamoro dl 1916 o il francese Golgotha di Julien Duvivier del 1934) sono irreperibili. Se dunque vogliamo inserirci nella celebrazione del Giubileo con proiezioni sul Vangelo dovremo fare di necessità virtù e tenerci a quanto è in concreto rintracciabile. Terremo conto comunque non solo della disponibilità su pellicola - sempre più ardua terminato il (sempre più breve) ciclo di sfruttamento - ma anche di quella in videocassetta. 

Due proposte si presentano come immediate, il recente I giardini dell'Eden di Alessandro D'Alatri e il Gesù di Nazareth di Franco Zeffirelli (l'edizione cinematografica di quest'ultimo, acquistabile in videocassetta, è naturalmente molto più breve di quella a puntate trasmessa in televisione lunga circa otto ore). 

Zeffirelli - autorevole regista di teatro e di opere liriche che nel cinema ha firmato fra l'altro le versioni filmiche di capolavori shakespeariani come La bisbetica domata, 1967, Romeo e Giulietta, 1968, Amleto, 1990 - mette a frutto la sua lunga esperienza di uomo di spettacolo per una esposizione piana dei fatti evangelici, rappresentandoli secondo le linee più care alla tradizione e dunque alla iconografia popolare e servendosi anche in parti minime di acclamate "stars" del cinema internazionale. Con D'Alatri, esponente di una più giovane e nuova generazione di registi italiani, si parla invece del Cristo con il linguaggio dell'uomo di oggi che da un mondo secolarizzato e "distratto" risale verso le fonti - utilizzando nel caso anche i vangeli apocrifi o liberamente inventando - e recupera il mistero dell'Incarnazione in modo suggestivo e vivace: si vedano le sequenze sul Gesù giovane prima dell'"uscita pubblica" o il bellissimo episodio della tentazione nel deserto. 

Risalendo più indietro rimane sempre essenziale il Vangelo secondo Matteo diretto nel 1964 da Pier Paolo Pasolini, vincitore fra l'altro del premio dell'O.C.I.C. (Office Catholique International du Cinéma) alla Mostra di Venezia di quell'anno. Il poeta - che si dichiarava non credente - si accosta con grande rispetto al testo dell'evangelista, che traspone sullo schermo con piena fedeltà, ambientandolo suggestivamente in una cornice pastorale-contadina fuori di un tempo storico preciso non senza richiami alla grande pittura. Egli è soprattutto interessato alla perentorietà della predicazione di Gesù, all'invito che egli fa a seguirlo al di là di ogni calcolo personale, di ogni egoismo. Non a caso sceglie dei quattro Vangeli quello di Matteo che si può considerare il più "duro". Rispetto ad altri film cristologici che privilegiano l'aneddotica, preoccupazione costante di Pasolini è invece mettere al centro, con tutta la sua forza morale e spirituale, la parola di Gesù. 

Discontinuo appare invece Il Messia con cui uno dei Maestri del nostro cinema, Roberto Rossellini, concluse nel 1975 la sua carriera. Nei confronti della fede il regista fece lungo gli anni dichiarazioni contraddittorie, finendo da ultimo per confessarsi ateo. E tuttavia l'intera sua opera è attraversata dal tema della fede tramite il "vissuto" di uomini di fede: il cappellano militare di L'uomo della Croce (1943), il parroco di Roma città aperta (1945), i frati di Paisà (1946), il Santo assisano di Francesco giullare di Dio (1950), la martire santa di Giovanna d'Arco al rogo (1954), per non parlare di drammi della coscienza come Stromboli terra di Dio (1950) e Europa '51 (1952). Il Messia rispetto ai suoi capolavori segna però un passo indietro: accanto a momenti felici e inediti (la Madonna che collabora alla predicazione del figlio insegnando ai bambini) ci sono intere sequenze "tirate via" con approssimazione come quella ambientata nella reggia di Erode. 

Più attenti alle esigenze industriali del grande spettacolo popolare che non ai valori profondi del Nuovo Testamento risultano perlopiù i film hollywoodiani. Meritano comunque positiva attenzione almeno due opere, Il Re dei Re (King of Kings, 1961) di Nicholas Ray, che punta sulla attualità del messaggio del Cristo, e La più grande storia mai raccontata (The Greatest Story Ever Told, 1965) di George Stevens, non derivato direttamente dai Vangeli ma da un romanzo americano di Fulton Oursler da essi ispirato.
Severamente accolto dalla critica statunitense, non è meritevole di giudizi tanto negativi: esso presenta diverse libertà rispetto ai testi biblici ma è loro fedele nella sostanza. Soprattutto si distingue per l'interpretazione carismatica dellosvedese Max von Sydow, forse il migliore attore mai calatosi nella figura di Gesù. 

Meglio lasciar perdere invece L'ultima tentazione di Cristo (The Last Temptation of Christ, 1987) di Martin Scorsese tratto dal romanzo del greco ortodosso Nikos Kazantzakis. L'idea di partenza era interessante e intrinsecamente legata al mistero di Gesù in cui si incontrano persona divina e natura umana: quella di seguirne l'ipotetico itinerario di conquista della piena consapevolezza della propria divinità a partire dalla sua natura umana. Ma ci sarebbe voluta altra forza immaginativa e altra profondità di lettura, mentre il film, come il romanzo, non si libera da una accesa sensualità che ne falsa il centro e in più aggiunge note superficiali di attualizzazione (i discepoli che parlano in americano popolare di oggi). 

Accanto ai film sopra indicati si deve ricordare il "musical" Jesus Christ Superstar (id., 1973) che il regista canadese Norman Jewison trae dall'omonima "opera rock" inglese di Webber e Rice. Ripensata nel passaggio dal palcoscenico allo schermo, l'opera non costituisce un diretto adattamento cinematografico del Nuovo Testamento quanto la sua rappresentazione da parte di una "troupe" di giovani nel deserto della Palestina a contatto con i luoghi autentici. Se non sempre la "lettura" evangelica appare rigorosa e completa, il film trae comunque dalla bellissima musica profonde suggestioni spirituali capaci in particolare di attrarre il pubblico giovane alla figura di Gesù. 

Di un altro regista canadese, Denys Arcand, è Jesus of Montréal (1989), interessante anche se non tutta accettabile attualizzazione di quel Vangelo di Marco che finora sembra aver meno stimolato i cineasti. Il giovane Daniel interpreta Gesù in una sacra rappresentazione che le autorità ecclesiastiche rifiutano reputandola appunto troppo attualizzata. Ma Daniel continua ad approfondire il personaggio fino a ripercorrerne nella Montréal di oggi le varie tappe sino al sacrificio finale. 

Vorrei infine segnalare due film italiani che liberamente inventano ai margini del testo sacro storie intensamente religiose. Il primo è L'inchiesta (1986) di Damiano Damiani, da un vecchio soggetto di Ennio Flaiano e Suso Cecchi D'Amico che giaceva nei cassetti dal '71. E' l'immaginaria inchiesta che il romano - e dunque pagano - Tauro effettua in Palestina per incarico dell'Imperatore all'indomani della Resurrezione di Gesù. I romani naturalmente non ci credono e pensano che i discepoli abbiano trafugato e nascosto il cadavere. Molto bello l'incontro a Nazareth con Maria che, morto il figlio, trascorre nel suo villaggio gli ultimi anni. Il secondo è I magi randagi, ideato da Pasolini per Totò e nel 1996 rielaborato e infine realizzato da Sergio Citti, fiaba di religiosità semplice e candida, vicenda di oggi di tre poveracci arruolati per fare i Re Magi in un presepio vivente e che si ritrovano a rivivere il misterioso annuncio della nascita del Bambino. 

L'episodio iniziale del Nuovo Testamento, la notte di Betlemme, è il perno ispirativo di altri due buoni film italiani, Cammina cammina diretto da Ermanno Olmi nel 1983 in forma di storia che un carovaniere racconta al nipotino sotto la tenda nel deserto, e Per amore solo per amore che un regista dell'ultima leva, Giovanni Veronesi, trae nel 1993 da un romanzo di Pasquale Festa Campanile, analizzando con delicatezza il rapporto coniugale fra Giuseppe e Maria di fronte allo sconvolgente annuncio dell'Angelo. (In due videocassette è anche disponibile il televisivo Un bambino di nome Gesù di Franco Rossi, che rievoca con sincera partecipazione le vicende d'apertura dei Vangeli dall'Annunciazione agli anni dell'infanzia).

GESÙ SULLO SCHERMO. 2007: DA 'CENTOCHIODI' A 'IN MEMORIA DI ME', DA 'THE BIG QUESTION' A '7 KM DA GERUSALEMME'

Gesù sullo schermo i segni e le domande
di Giovanni Ferrò
  

Da Centochiodi a In memoria di me, da The big question a 7 Km da Gerusalemme: la ricerca sul divino torna ad appassionare gli artisti del cinema. Di fronte al bisogno di «prove» dell’uomo contemporaneo, Dio si ritrae: l’unico, flebile segno che esiste è la persistenza delle domande nel cuore di quelli che lo cercano.
   

Un Gesù da spot pubblicitario che si bagna nostalgico nelle acque del Giordano, ormai inquinate dalla prosaica immondizia contemporanea. Un Cristo alternativo, un po’ grunge un po’ santone modello Bombay, che inchioda i libri sacri e Dio stesso alle loro responsabilità. E poi un giovane novizio gesuita, lacerato dal dubbio se godere del protettivo, soffocante abbraccio di una Chiesa più maestra che madre, oppure se fuggirne a gambe levate.

Assai portato per gli studi e l’analisi "fredda" delle relazioni, compresa quella con il divino, Andrea è incuriosito e attratto in realtà dal suo opposto, che è simboleggiato dal regista nei caratteri di altri due seminaristi: Fausto, ferito, infelice, tormentato; e Zanna (l’attore Filippo Timi), il ribelle, che rifiuta l’ipocrisia dell’istituzione ecclesiastica e mal sopporta il predominio di una fede "pensata" senza essere vissuta con amore generoso e appassionata misericordia.

L’accusa opposta, invece, è stata mossa a Centochiodi, l’ultima fatica di Ermanno Olmi, uno dei più grandi maestri del cinema italiano. Prima ancora di circolare nelle sale, il film sul suo Cristo moderno (interpretato da Raz Degan), era già stato "censurato" a colpi di slogan ("antidogmatico" e "anticlericale") dal Foglio e altre testate che si riconoscono orgogliose nel club dei teocon e degli atei devoti nostrani.

La domanda centrale di Centochiodi sembra tratta dal capitolo 18 del Vangelo di Luca: «Ma quando il Figlio dell’Uomo verrà, troverà la fede sulla terra?». La risposta di Olmi è racchiusa in una nostalgica canzone popolare italiana, che il regista usa a mo’ di inno laico-spirituale: «Non ti scordar di me,/ la vita mia è legata a te». Dunque, nessuna risposta preconfezionata, ma una forte, inquietante domanda.

Insomma: le grandi domande sul senso della vita e sul nostro destino di uomini coinvolgono – e sconvolgono – tutti, prima o poi. Persino il cinico pubblicitario di successo protagonista di 7 Km da Gerusalemme. Dopo una rapida e dorata carriera, Alessandro (interpretato da Luca Ward) entra in crisi: separato dalla moglie, abbandona il lavoro e, per un inspiegabile fatto che ha del miracoloso, si ritrova in mano un biglietto aereo che lo porterà in Terrasanta. Qui incontra una varia umanità in cerca del proprio destino. Ma soprattutto gli si fa accanto – sulla strada che conduce a Emmaus – un Gesù bello e patinato come quello dell’iconografia devozionale. È il delirio di un ex vincente finito improvvisamente a indossare i panni del soggetto borderline? O è, tutto, tanto vero quanto inspiegabile? Il film di Malaponti gioca sul filo, alternando la sana incredulità del protagonista con la smaccata post-modernità di un Gesù tanto divino da indossare volutamente i panni di un dipinto manierista per il solo agio di farsi meglio riconoscere dagli uomini.

Questo 7 Km da Gerusalemme ha un bel cast di attori e una regia non priva di originalità. Ma sconta un’impostazione più da film-tv che da pellicola d’autore. Così il racconto oscilla tra trovate al limite del kitsch (Gesù beve da una lattina di Coca Cola e il pubblicitario pentito esclama: «Dio, che testimonial!») e idee brillanti, ma che non vengono sviluppate: dal frate di Terrasanta che, incrociando il Signore, lo riconosce e atterrito, invece di cadere in ginocchio ai suoi piedi, scappa come avesse visto il demonio; alla satira sulla ignorantissima ma potente presentatrice tv che si infervora a sproposito per il tema del dialogo interreligioso («Mettere d’accordo Gesù e Maometto sarebbe... carinissimo»). Gli aspetti più interessanti, alla fine, restano il fascino dei luoghi (poche decine di chilometri quadrati che hanno «giurisdizione su quattro miliardi di coscienze») e le domande dello sbigottito protagonista al Gesù-artista di strada, unite indissolubilmente al suo umano bisogno di avere dei «segni» che questa fede non sia un inganno.

Se si mette da parte ogni intento apologetico o catechistico, però, anche il cinema ci conferma in un dato: l’unico «segno» dell’esistenza di Dio è proprio la persistenza delle grandi domande nel cuore dell’uomo.

Giovanni Ferrò
    

In effetti, quello che circola in questi giorni nelle sale è soprattutto un cinema delle grandi domande. Succede lo stesso con The big question, acuto e originale videoreportarge teologico, e con 7 Km da Gerusalemme, film di Claudio Malaponti tratto dall’omonimo romanzo di Pino Farinotti. Del bel documentario The big question (che troviamo solo in dvd) parliamo, nelle pagine successive, con i due giovani registi. Vale la pena accennare qui a due aspetti particolari. Il primo è la felice casualità del microcosmo su cui si sofferma l’occhio curioso delle telecamere: le interviste sono state girate sul set di The Passion, durante le riprese del film di Mel Gibson a Matera. E nelle risposte si avvicendano le persone più diverse: preti cattolici tradizionalisti vicini allo stesso Gibson, attori dalle visioni religiose disparate, comparse credenti e non credenti. Un piccolo mondo, insomma, che rispecchia piuttosto bene la pluralità di idee, appartenenze e dubbi che attraversano l’intera società moderna.

Il secondo aspetto che rende The big question un’opera a suo modo unica è la serie di 12 domande cui tutti gli intervistati vengono sottoposti: questioni fondamentali, formulate nel modo più semplice e basilare («Chi è Dio per te?», «Cosa succede dopo la morte?», «Se fossi nato altrove, avresti abbracciato un’altra fede?», «Credi nei miracoli?»...), e che consentono risposte dirette e sincere. Per dibattere importanti temi teologici, hanno istintivamente intuito i registi, può essere utile ma non è necessario aver studiato alla Gregoriana.

L’opera di Olmi non è forse tra le sue migliori, ma certo non può essere semplicemente catalogata alla voce "facile riduzionismo edulcorato". Centochiodi è una favola provocatoria, un apologo poetico e anche rabbioso che rivendica il valore della radicalità e semplicità evangeliche, contro il potere di chi «gestisce» i Testi Sacri, facendone degli idoli intoccabili, feticci dello status quo politico ed ecclesiastico.

La sequenza meravigliosa dei preziosi volumi inchiodati al pavimento dell’antica biblioteca universitaria non è il manifesto di un facile antintellettualismo (tra l’altro assai pericoloso in questi nostri giorni, sballottati come siamo tra trionfi televisivi di veline e violenze quotidiane di estremisti religiosi). È piuttosto la ribellione contro l’inaridimento della pietas cristiana che tanti, nelle società occidentali, percepiscono all’interno della vita ordinaria delle comunità religiose costituite. «C’è più verità in una carezza che in tutti questi volumi», dice il Gesù di Olmi all’inizio del film. E verso la fine ribadisce il concetto: «C’è più sapienza in un caffè preso con un amico che in tutti i libri del mondo».

Nell’ambientazione cupa e fascinosamente barocca del convento sull’isoletta veneziana di San Giorgio Maggiore, la vicenda interiore di Andrea assume via via una serena tragicità, scandita dal precipitare degli eventi: prima il crollo psicologico di Fausto che, schiacciato dai sensi di colpa, fugge dalla vita religiosa; poi la morte di un confratello misterioso, la cui terribile malattia era stata protetta dietro una porta chiusa, tabù per novizi e professori. Infine, la "liberazione" di Zanna, che dopo aver sfidato il rigido rettore dall’accento tedesco, abbandona felice e a testa alta il convento.

Andrea, che è sul punto di seguire Zanna nella sua avventura senza rete nel mondo, all’ultimo momento ci ripensa: uomo dell’istituzione che sacrifica la propria umanità sull’altare di una brillante carriera ecclesiastica oppure santo che, nell’obbedienza alle regole, riuscirà a superare, con leggerezza evangelica, la facile alternativa tra apocalittici o integrati? Il regista non lo dice e il sipario cala.

La sfida che Saverio Costanzo ha affrontato, con l’aiuto di ottimi consulenti (Flaminia Morandi, Alberto Melloni, Enzo Bianchi), era particolarmente ardua. Forse per questo il film alla fine lascia allo spettatore un’impressione di incompiutezza, come se la lodevole intenzione di evitare un’opera a tesi avesse anche impedito una corretta profondità di campo, con il risultato finale di una serie di personaggi e vicende soltanto intuiti ma non pienamente messi a fuoco.

Sono tre esempi di quello che sta diventando ormai un classico stagionale: il ritorno sul grande schermo delle grandi domande intorno a Dio. Periodicamente, il cinema si sofferma su uno dei soggetti più controversi, dibattuti, insomma amati-odiati della storia dell’umanità. Non meraviglia dunque che succeda lo stesso anche oggi, in questi tempi in cui la presenza dell’Altissimo – chiamato con nomi diversi a seconda della latitudine – tracima costantemente dai palinsesti televisivi e dalle prime pagine dei giornale.

Le pellicole nelle sale che in queste ultime settimane si sono cimentate con l’oggetto immenso della dimensione religiosa sono numerose. La prima a essere uscita è In memoria di me, del giovane e brillante regista Saverio Costanzo, che già aveva colpito critici e pubblico con il suo primo lungometraggio Private. In questa sua seconda prova, Costanzo si è buttato anima e corpo su un tema difficilissimo, quello di un’anima in ricerca. È la storia di Andrea (il bravo attore Christo Jivkov), un giovane introverso e brillante che – insoddisfatto di ciò che gli promette il "mondo" – decide di entrare in un noviziato religioso, presumibilmente di gesuiti, alla scoperta di un’identità e una sicurezza smarrite. Qui si trova a fare i conti con le regole, la disciplina ecclesiastica, il silenzio, in un confronto spesso muto, sempre criptico, con i suoi compagni di noviziato e i superiori.

 

HOLLYWOOD. C’È FEDE CRISTIANA TRA LE STAR

Attori, sceneggiatori e produttori impegnati a realizzare storie con un a ‘teologia nascosta’. E con risultati non sempre ‘buonisti’ e apologetici…

 

di Alessandro Zaccuri per Avvenire, 20 marzo 2007

 

E’ l'altra faccia di Hollywood, e non è Babilonia. Neanche la Gerusalemme celeste, però in qualche modo ci prova. Alternando scrupoli e compromessi, colpi di ge­nio e trucchi del mestiere. E, più che altro, lasciando che diverse sensibi­lità religiose convivano tra loro nel tentativo di portare una testimo­nianza cristiana nel più improbabi­le degli ambienti: quello del cinema e delle serie televisive, appunto.

 

Fede e professionalità sono le carat­teristiche distintive di Act One, il pro­getto faith-based - come si dice da quelle parti - na­to nel 1999 con l'obiettivo di rendere più incisivo il contributo della comunità cristiana all’interno dell’industria cinematografica e televisiva statunitense. Una comunità che si rivela oggi molto ampia e sfaccettata, come dimostra oggiCristiani a Hollyvood. Testimonianze & riflessioni dalla capitale del cinema. (Ares, pp. 240, euro 14), un li­bro che racco­glie le voci di numerosi partecipanti alle attività di

Act One, a partire da quelle dei cu­ratori Spencer Lewerenz e Barbara Nicolosi.

 

Ma per fare che cosa? Anzitutto per rac­contare storie. Act One, non a caso, raccoglie principalmente sceneg­giatori e produttori, figure spesso de­filate, ma in realtà decisive nel de­terminare l'assetto finale di un pro­dotto. Perché pur sempre di prodotti stiamo parlando, in una prospettiva pragmatica che rappresenta forse u­no degli aspetti più provoca­tori e interessanti di questa raccolta di saggi. Prendiamo il caso di Sheryl Anderson, autrice delle prime serie del controverso telefilm «Streghe».

 

Il fatto di essere una cristiana devota non le impedisce di allarmarsi quando scopre che una delle attrici che ha partecipato alla realizzazio­ne della ‘puntata pilota’ sta medi­tando di abbandonare il set proprio per motivi religiosi. «Era scorag­giante pensare al colpo finanziario e logistico che avrebbe subito il programma», ammette la Anderson, non senza nascondere come i dub­bi dell'attrice siano presto divenuti

anche i suoi. Se lei, al contrario, non ha disertato il progetto, è stato per perseguire un disegno di stealth theology, la «teologia na­scosta» che nel­l'originale viene definita attra­verso la stessa terminologia in

uso per i bom­bardieri invisibi­li ai radar.

 

Troppo ameri­cano? Può darsi, eppure in Cri­stiani a Hol­lywood c'è mol­to da imparare e molto più su cui riflettere. Aned­doti strepitosi, come quello ri­ferito da Karen Covell, direttrice dell'Hollywood Prayer Project: a dir poco imbarazzata dall'idea di dover collaborare a uno speciale su Hugh Hefner, il fondatore dell'impero di Playboy, in quella stessa occasione si accorge che tra i suoi colleghi ci so­no molti più credenti di quanto a­vesse mal sospettato. Insieme con loro, realizza un'intervista fuori da­gli schemi, in cui perfino il sulfureo Hefner rivela un'inattesa nostalgia di spiritualità.

 

La domanda più radicale, che rie­cheggia in molte pagine del libro, viene invece pronunciata dallo sce­neggiatore Thom Parham: «Perché i migliori film cristiani sono fatti da pagani?». Certo, non mancano le ec­cezioni, la più clamorosa delle qua­li rimane La Passione di Cristo di Mel Gibson (che pure, in alcuni contri­buti, viene considerata come occa­sione mancata, con scandali e pole­miche che hanno finito per prevale­re sulle intenzioni del regista), ma resta il fatto che troppo spesso ci­neasti armati di ottime intenzioni a­pologetiche finiscono con il realiz­zare pellicole tutt'al più mediocri, secondo la benevola definizione del­la stessa Barbara Nicolosi.

Da qui il paradosso, sottolineato dal­lo specialista Leo Partible, per cui i film tratti dai fumetti di supereroi pullulano spesso di riferimenti e­vangelici, come nel caso della trilo­gia Ispirata alle avventure degli X Men. E, sempre in tema di trilogie, un ruolo rilevante nella rinascita cri­stiana di Hollywood è occupato dal successo del Signore degli anelli e dalla conseguente trasposizione ci­nematografica delle Cronache di Narnia di C.S. Lewis, la saga fantasy nella quale il messaggio religioso è espresso in modo ancora più espli­cito rispetto al capolavoro di J.R.R. Tolkien.

Eppure, nonostante tutto, i cristiani di Act One hanno gusti sorprenden­ti e anticonvenzionali. In televisione, per esempio, pur senza disprezzare la programmatica spiritualità di se­rie come ]oan of Arcadia e Tauched by an Angel, prediligono i foschi con­flitti carcerari di Oz. Una storia pie­na di delitti, relativi castighi e possi­bili redenzioni. Se non è una para­bola questa. . .

 

 

Nasce «GodTube», il Web del Signore

 

Il,cinema non vi piace? La tv vi disgusta? Guardate più film e passate più tempo davanti al piccolo schermo. Per quanto possa risultare bizzarro, il consiglio risuona più volte nelle pagine di «Cristiani a

Hollywood». Con un corollario che, in queste settimane, ha investito anche il web. Si chiama «GodTube» ed è fa risposta cristiana al fenomeno «YouTube». Fin dal motto, che al vagamente narcisistico «Broadcast Yourself» (‘Trasmetti te stesso’) sostituisce lo spirituale «Broadcast Him» (si potrebbe tradurre come «Trasmetti il Signore»). Anche in questo caso, si tratta di brevi filmati messi in rete dagli utenti e in parte realizzati con mezzi propri. Il risultato? Si vede su www.godtube.com. (A. zacc.)

IL CINEMA DELLA PASSIONE

IL CINEMA DELLA PASSIONE, ALLA CINETECA DI MILANO - SPAZIO OBERDAN, V.LE VITTORIO VENETO 2 26/3/2005 12:25 

Church/Religious Affairs, Standard 

DOMENICA 27, ORE 17.30 L'ULTIMA TENTAZIONE DI CRISTO La Cineteca festeggia la Pasqua con un ciclo di quattro classici sulla vita di Cristo. Si poteva partire da molto lontano: film sui Vangeli, infatti, si sono girati fin dall'iniziò del Novecento. La religione cattolica ha sempre venerato le immagini, e non è mai stato considerato blasfemo vedere il figlio di Dio sul grande schermo. All'epoca dei primordi del cinema, anzi, i materiali pubblicitari sottolineavano la dirittura morale degli attori scelti per interpretare Nostro Signore. Tra cinema e religione c'è più di un punto di contatto: e per spiegare la natura dell'immagine fotografica, che «imbalsama il tempo», il teorico André Bazin, padre della Nouvelle Vague, ricorreva a un paragone con la Santa Sindone. 

Se la vita di Cristo ha affascinato tanti registi, atei e credenti, è anche per un altro motivo. Come ha detto il laico Damiano Damiani, è difficile immaginare una sceneggiatura più avvincente del racconto della Passione, ricco com'è di co1pi di scena, e con un finale memorabile.

Ma qual è la chiave stilistica giusta? Probabilmente nessuno ha mai fatto meglio di Pasolini in Il Vangelo secondo Matteo. Le ambientazioni lucane, i richiami alla pittura del Tre e Quattrocento, il realismo scabro che dà rilievo ai volti e alle parole, le musiche eclettiche: sono scelte in controtendenza rispetto all'epoca, rispettose della lettera evangelica, in grado di coinvolgere sia credenti sia laici. Di cero hanno fallito i film hollywoodiani in Technicolor, come Il Re dei re di Ray e La più grande storia mai raccontata di Stevens; per tacere di The Passion di Mel Gibson, all'insegna grand guignol horror e fanatico. 

Da rivedere il dimenticato Jesus Christ Superstar che riporta ad un'epoca hippie di pace e d'amore: se le coreografie sono un pò datate, la colonna sonora è sempre efficace. 
Non mancano anche titoli più controversi. In L'ultima tentazione di Cristo di Scorsese, Giuda è uno strumento di salvezza e Cristo in croce sogna di sposare la Maddalena: ma solo di tentazione si tratta, al contrario che nel recente best seller di Dan Brown. Il regista di Le invasioni barbariche firma invece Jesus of Montreal, dove un attore che interpreta Cristo finisce per identificarsi con lui. 

Ma, come mostrava trent'anni prima Nazarin di Bunuel, è molto pericoloso incarnare il messaggio evangelico nel mondo moderno. Alberto Pezzotta

 

IL CORPO A CONFRONTO IN DUE FILM SU CRISTO

“Vita pastorale” 5/2004

Grandangolo

di Francesco Bolzoni

Il corpo a confronto in due film su Cristo

All'inizio del vangelo secondo Giovanni si legge: «In principio era il Verbo [...] e il Verbo si fece carne». Lo scandalo della nostra religione sta anche in questo: Dio si fa corpo in Cristo. I comuni fedeli, con poca pratica della teologia, sanno poco del corpo. Lo gestiscono come meglio possono: spesso male. Nelle omelie non se ne parla. È un errore. I potenti che dominano il mondo lo sanno bene. Non a caso qualcuno di recente ha puntato le sue fortune sul lifting. E le grandi dittature del '900 esaltavano il corpo. Lo deifica anche la società democratica. Per lo più spogliato, vierie esibito nella pubblicità e in tv, sublimato nel divismo, adulato nelle palestre. E, contemporaneamente, viene massacrato. Segni non ancora drammatici sotto gli occhi di tutti: piercing e tatuaggi. Ferite: i cadaveri disseminati nei film e nelle cronache, i corpi degli innocenti alla stazione di Madrid. Ma anche la pozza di sangue e i resti della carrozzina del paralitico Yassin in Palestina. La sequenza più commossa e commovente di La Passione di Cristo mostra Maria che asciuga il sangue del figlio nel cortile del palazzo di Pilato. Mel Gibson, volendo raccontare le ultime dodici ore di Gesù, ha dovuto porsi la questione di come rapprentare il corpo del Dio che si fece uomo. I cineasti e i pittori, a differenza di altri artisti che usano codici linguistici simbolici, lavorano sulla realtà: appunto sul corpo (e corpo diventa anche un paesaggio). Come si comporta un regista che vuole parlare di Gesù non omettendone la Passione? Ho potuto mettere a confronto due modi di rappresentarla sullo schermo, avendo visto nella stessa settimana La Passione di Cristo e la copia restaurata di Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini. 

L'opera del credente Gibson è più complessa di quanto s'è detto finora. Egli, come in precedenza l'"ateo" (così si definiva) Pasolini, si è avvicinato con rispetto ai quattro Vangeli dei cui capitoli conclusivi ha tentato una sintesi. Ma, por riportando quasi alla lettera le parole dei testi cui si rifanno, i due cineasti si comportano in modo diverso nella rappresentazione del corpo di Cristo. Non tanto nella definizione del volto che, in entrambi, sembra porsi fuori del tempo (come un'icona bizantina). Ma nel dar conto del corpo nella sofferenza fisica. Pasolini lo stacca da sé. Il suo Cristo, ravvicinato negli episodi della predicazione e dei miracoli, nel momento dell'insegnamento, si allontana dalla cinepresa durante il processo, la persecuzione, l'ascesa al Calvario, il tormento della carne. La corona di spine, per esempio, viene posta sul suo capo quasi con delicatezza. Non poteva mancare l'immagine del chiodo che penetra nella mano tesa. Ma è quasi un sussurro, un grido isolato. In Gibson, al contrario, tutto ci è avvicinato, quasi ascoltassimo il resoconto di un testimone inorridito: il corpo di Gesù viene straziato davanti a noi. Probabilmente non per il gusto dell’horror home, da qualche parte, si è suggerito. 
Penso che quel corpo martoriato, che ci viene ossessivamente mostrato, stia a suggerire l'esito demoniaco cui conducono le astuzie del Potere allorché ha deciso di eliminare un testimone scomodo e, insieme, l'emotività delle folle: penso assuma un valore simbolico e alluda alla disperata attesa dei popoli oppressi. E non manca, in Gibson, un residuo di fiducia nella natura umana che si esprime nelle figure delle donne, nel Cireneo, nelCenturione e colora di un senso problematico il personaggio di Pilato (la riflessione sulla verità). 
È singolare che, pur diversissimi nel modo di ripercorrere la Passione, Pasolini e Gibson restringano a immagini rapidissime il tema della Risurrezione che, negli evangelisti, diventa pietra angolare nel loro restituirci la memoria di Gesù. È l'evento che rende quasi rasserenante perfino il racconto della morte in croce di Cristo. Tutto, grazie al suo sacrificio, viene liberato dal segno del peccato. Al contrario il timore della morte - quasi un marchio del peccato - è sempre presente nei due registi, anche se viene filtrato da due culture quasi divaricanti nell'uso dei materiali espressivi, direi da due concezioni del corpo (nonostante tutto rispettosa nel nostro poeta-scrittore che si è formato nel mondo contadino immerso ancora nella pietà, e come inorridita in Gibson che conosce bene l'uso nefasto che se ne fa nella società dello spettacolo). 
Significativo è a tale proposito il suicidio di Giuda, per certi aspetti figurativi simile nei due film. In Gibson, dopo il pentimento con la rinuncia alle trenta monete d'argento, viene assalito dai bambini furiosi, da loro inseguito, abbandonato privo di forze vicino alla carogna di un asino. In Pasolini vive la sua solitudine atroce in un mondo di pietra e orrore dove l'unico segno di vita pare dato dall'albero dove s'impicca. 

IL FANTASY DI DIO: NEL CICLO DI NARNIA IL LEONE ASLAN È MODELLATO DALLA FIGURA DI CRISTO

Da Tolkien a Lewis, torna il tempo delle grandi saghe cristiane: la costruzione fantastica ha un fortissimo senso religioso.

 

Il Fantasy di Dio

Nel ciclo di Narnia il leone Aslan è modellato dalla figura di Cristo. 

 

di Alessandro Zaccuri

 

Dopo ‘Il Signore degli anelli’, un analogo effetto kolossal è auspicato per un'altra grande narrazione fantastica nata tra Oxford e dintorni, Le cronache di Narnia di Clive Staples Lewis, dal cui romanzo inaugurale, Il leone, la strega e l'armadio,è tratto il film diretto da Andrew Adamson. Mondadori, che ha da tempo in catalogo il capolavoro di Lewis, lo offre tra l'altro in una robusta brossura arricchita da un saggio dell'autore rimasto finora inedito in Italia (pagine 1.156, euro 20,00).

 

Ancora a Lewis, e al suo singolare esperimento di apologetica fantastica è dedicato il documentatissimo Ilmondo di Narnia di Andrea Monda e Paolo Gulisano (San Paolo, pagine 182, euro 14,00). Che le Cronache siano una riuscita trasposizione del messaggio evangelico in chiave narrativa è ormai fuori discussione. A confermarlo basterebbe la lettera, da poco divulgata, in cui lo stesso Lewis ammette che sì, il leone Aslan - il più suggestivo fra i personaggi che animano l'epopea - è modellato dalla figura di Cristo, il Messia prefigurato dalle Scritture come ‘leone di Giuda’. Qualcosa del genere accade nel Signore degli anelli, che il cattolico Tolkien aveva inizialmente concepito come mera costruzione fantastica, salvo poi rinvenire nelle peripezie di Frodo e compagni un indiscutibile significato di ordine spirituale. Un'analogia che non stupisce, se si considera che Il Signore degli anelli e Le cronache di Narnia furono composti a ridosso della Seconda guerra mondiale da due scrittori legati da una profonda amicizia, appartenenti entrambi agIiInklings, il gruppo di intellettuali cristiani che aveva deciso di dare nuovo impulso all'immaginario religioso. Anche il ciclo di Gonnenghast (un castello-contea al quale non sono estranee le inquietudini dell'universo concentrazionario) fu ideato da Peake negli anni del conflitto, ma in una prospettiva molto diversa da quella perseguita da Tolkien e Lewis. Figlio di una coppia di missionari protestanti, lo scrittore elaborò la grandiosa metafora di Gonnenghast come atto di ribellione a ogni convenzione formalista, anche di tipo religioso. Nel romanzo appena. pubblicato da Adelphi, in particolare, la critica si "rivolge al sistema scolastico, al quale sarebbe demandata l’educazione del protagonista, l'adolescente Tito, e che rischia invece di provocarne la distruzione. Eppure, nonostante tutto, anche quella di Peake è letteratura spirituale: contraddittoria e drammatica, forse ancora più schiettamente novecentesca di quella vagheggiata dagli Inklings, ma meritevole di essere meglio conosciuta e discussa. Come dite? Ci vorrebbe un film per lanciare la Gonnenghast­mania? Beh, in Gran Bretagna l'hanno già fatto: quella ispirata alle opere di Peake fu la «fiction televisiva del millennio», varata dalla Bbc per salutare il XXI secolo. Chissà che, presto o tardi, non se ne accorga anche qualche tv italiana.

 

IN TANTO CINEMA SI PARLA DI DIO, ANCHE IN MODO NASCOSTO

In tanto cinema si parla di Dio, anche in modo nascosto Nell'introduzione di un libro da poco pubblicato (Cinema e spiritualità, The Museum of Modern Art 2004, Milano) i due curatori, Mary Lea Bon­dy e Antonio Monda, propongono una tesi interessante: sostengono che in tanto cinema, perfino quello in apparenza non di "genere religioso", si parla di Dio. Come succede nella nostra vita, an­che nel cinema Dio è spesso nascosto, è una pre­senza - assenza. Essenziale (ma anche faticoso, quasi logorante e pertanto spesso rimosso) è con­tinuare a cercarlo, non arrestarsi nella ricerca.

Lo hanno cercato in anni passati diversi autori del cinema; i curatori hanno invitato trentacinque testimoni a individuare la presenza di Dio in film da loro amati. Sono film di Bergman e di Bunuel, di Pasolini e Dreyer, di Tarkovskij e Rossellini, di Truffaut e Kieslowski, di Bresson e Rohmer, Ol­mi e pochi altri. Alcuni aggiungono autori non ap­partenenti all'area occidentale, quali Akira Kurosawa e Ozu ma si potrebbe mettere nell' elenco an­che Kim Ki-duk, se non per La casa vuota -Ferro 3, per la parabola sulla for­mazione di un bonzo intitolata Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, che si vi­de anni fa. Alcuni critici hanno scovato Dio in 'Viaggio in Italia' di Rossellini, altri nell'unico film diretto dall'attore Charles Laughton, 'La morte corre sul fiume'. Io, nel 2003, ho creduto di indivi­duarlo in 'La 25°  ora' di Spike Lee.

 

Sembrava solo la storia crudele di uno spac­ciatore di droga in attesa di consegnarsi alla pri­gione dopo la condanna, del congedo dagli amici di uno sfortunato ragazzo di New York. Era mol­to di più: la parabola di un uomo tentato dalla ri­cerca di Dio, che attraverso una sua Via Crucis si spoglia di sé stesso e si "riveste" in Gesù Cristo, di un testimone che faticosamente va avanti.

Il vero regista di cinema - ostinatamente, nono­stante gli esempi che abbiamo davanti agli occhi, continuiamo a considerarlo autore anche se sap­piamo che il cinema è un' arte di collaborazione e il film è spesso un prodotto commerciale - non è mai un indifferente. Negli ultimi anni non c'è stato un gran dialogo tra critici che si rifanno a un laici­smo ideologico e critici che conservano speranze cristiane. Eppure entrambe le parti non sono per niente contente di quanto propone l'industria cine­matografica e, con voce ormai flebile, talvolta lo di­cono. Per uscire dalla morte, regione in cui il cine­ma ormai si dibatte, e peggio vanno le cose in Tv, si dovranno prima o poi congiungere gli sforzi del­le persone (ormai scarse) di buona volontà affin­ché le due linee trovino un punto d'incontro.

 

JULIETTE BINOCHE: ‘JÉSUS­-JULIETTE, JÉSUS-JULIETTE’

Avvenire 4 febbraio 2007  di Daniele Zappalà

A scuola, sotto il banco, marcavo col mio piede ‘Jésus­-Juliette, Jésus-Juliette’. Era il mio giardino segreto. Allora, era la lettera "J" che legava i due? O piuttosto il mio bisogno d'infinito?». La Juliette ormai adulta che di recente s'interrogava così sul proprio rapporto d'infanzia con Gesù è la stessa che ha sedotto negli anni cineasti come Krzysztof Kieslowski, Jean-Luc Godard, Louis Malle. E che ha conquistato un Oscar per il suo ruolo nel film Il Paziente Inglese, oltre che i titoli di migliore attrice ai festival di Venezia e Berlino. Eppure, nonostante l’indiscutibile celebrità, la francese Juliette Binoche conserva ancor oggi un'aura di mistero, almeno per tanti dei suoi connazionali. Il mistero di un'attrice che negli anni, sul filo di frequenti interventi pubblici e interviste, ha sempre sottolineato l’importanza della spiritualità nella propria vita professionale, oltre che nella sfera privata: nonostante i pregiudizi antireligiosi ancora forti nel milieu del cinema d'Oltralpe (che ha sfornato negli ultimi anni, ad esempio, film come Amen di Costa-Gavras). E nonostante le «regole» implicite di quella Laicité che tende a trattenere il fatto religioso fuori dalla sfera pubblica e dai circuiti di diffusione.

 

La Francia resta affascinata dalle interpretazioni della Binoche. Ma Juliette, al contempo, sorprende e forse persino sconcerta. Soprattutto dopo la recente interpretazione in Mary, del regista americano Abel Ferrara. Un film in cui l'attrice ha per molti aspetti recitato se stessa, tanto sono evidenti le risonanze autobiografiche della pellicola. Il ruolo interpretato dalla Binoche, infatti, è quello di un'attrice folgorata spiritualmente dopo aver indossato i panni di Maria Maddalena. E l'intensità tragica, a tratti sublime, di quest'interpretazione deve aver riportato alla memoria di tanti ammiratori le parole della Binoche: «Il cinema è lasciar passare la luce attraverso di sé. Ho avuto molto presto, a 4 anni, dei sogni di unità, e ciò non è mai cessato. Ho avuto dei dubbi, dei passaggi a vuoto, delle collere e delle rabbie, ma in me il bisogno di unirsi all'altro è intrinseco. La mia vita è ossessionata dal desiderio di condividere». Un desiderio di unione che l'attrice ha sperimentato ed approfondito grazie ad alcune decisive tappe spirituali, anche in varie scuole cattoliche: «Ne conservo nell'insieme un buon ricordo. Il cristianesimo che vi ho incontrato era assai naturalmente ecumenico».

 

Infatti poi è venuta la scoperta della collina di Taizé negli anni dell'adolescenza, come la Binoche ha spiegato di recente: «Ero in un collegio religioso che organizzava dei week-end in questa comunità ecumenica. E’ stata una rivelazione, uno dei grandi momenti di gioia della mia vita. Dei giovani venivano da tutti gli orizzonti e da tutti i Paesi del mondo per pregare e cantare». Pochi anni dopo, l’adolescente avrebbe maturato una precoce quanto definitiva scelta professionale, calcando dapprima le scene teatrali e poi i set cinematografici. «Non si conosce mai davvero, ma è bene credere», ha detto una volta Juliette, che ricorda spesso anche il primo esempio cristiano della madre di origine polacca, presto «disgustata» dal comunismo. Nonostante i momenti di dubbio, certe intime convinzioni non sono mai venute meno: «Dall'infanzia, mi sono sempre sentita accompagnata. Nei silenzi o nella solitudine, mi sento raramente sola». E ancora: «Per me la spiritualità non è mai passata per il razionale. Io reagivo in modo fisico più che intellettuale». Nel corso di una carriera già lunga, la Binoche ha letto e amato decine di copioni teatrali e cinematografici.

 

Ma è il Vangelo di Giovanni che l’attrice dice di aver scoperto come un pozzo di luce senza fondo in cui sporgersi regolarmente: «Questo Vangelo è una miniera. Il prologo, soprattutto, è un abisso che esprime il mistero del Logos incarnato, del Verbo fatto carne. Il fatto che Cristo sia divino e umano, che crei il legame, il ponte, che prenda tutti i colori dell’umano per ­condurci al divino, è talmente immenso!». E’ stato spesso osservato che le interpretazioni di Juliette Binoche hanno il fascino della semplicità e della naturalezza. Ma queste qualità apparenti, secondo la stessa attrice, sono il frutto di una ricerca interiore nel segno della positività. La Binoche è persino giunta a criticare in un'intervista certi aspetti caratteriali dei propri connazionali: «In Francia abbiamo questa tradizione di giudicare che giunge persino fino al cinismo. E’ bene avere uno spirito critico. Ma restare tutto il tempo critici appesantisce terribilmente. Si impiega più energia per demolire che per costruire e non si è più nel fuoco creativo della vita. Il fuoco creativo è trasformare le nostre tenebre in luce». E ancora: «Io credo che persino nel fondo dell'inferno resti sempre un punto di luce. E avevo un tale desiderio di raggiungerlo!».

 

BINOCHE «L'ITALIANA»

Nota negli ambienti del cinema per aver rifiutato varie grandi produzioni hollywoodiane, Juliette Binoche recita per il cinema d'autore internazionale. Sono in corso progetti con Emir Kusturica, Brian De Palma, Jane Campion. Prossimamente sugli schermi «My Italian story» di Barry Levinson, ambientato durante la liberazione: una conferma dell'amore di Juliette per il nostro Paese. (D.Z.)

L'INCHIESTA DI DAMIANI. REMAKE DIRETTO DA GIULIO BASE. SCENEGGIATURA DI VALERIO MANFREDI 

 

1.


Giulio Base, regista e attore: ‘Punto sui valori, in teatro e in tv’

 

di Angela Calvini per Avvenire 11. 02. 2007

 

Le sue fiction come Padre Pio: tra cielo e terra con Michele Placi­do, Maria Goretti e Giovanni

Paolo II  con John Voight hanno bat­tuto ogni record di ascolto, mentre la quarta serie di Don Matteo porta la sua firma. Ma al regista Giulio Base, 42 anni, le etichette stanno strette: «Non ­esistono le fiction religiose, ma le fiction fatte bene, con l'anima» è il suo motto. Vedremo se saranno su questa linea anche il kolossal della Lux Vide Pompei (con Lorenzo Crespi e Maria Grazia Cucinotta, Base sarà Plinio) in onda su Rai Uno il 5 e 6 marzo; e la coproduzione internazionaleL’Inchiesta, remake del capolavoro di Damiano Damiani in onda prossimamente su Rai Uno. Nel frattempo Base non rinuncia alla sua carriera di attore, sia di cinema sia di teatro:attualmente è tour per l'Italia con Il giorno della civetta da Leonardo Sciascia (dal 14 febbraio 07 al Carcano di Milano), con la regia di Fabrizio Catalano, nipote del­lo scrittore.

Il grande pubblico forse la conosce più per i suoi lavori in tv che per la sua carriera teatrale: come è nata?

«Il mio mito assoluto era Vittorio Gas­sman. Quand' ero ragazzo a Torino ho visto 12 volte di fila l' Otello e addirit­tura il mio primogenito l'ho chiama­to come lui. Quando ho avuto 18 an­ni ho superato i provini e mi sono i­scritto alla sua scuola. Poi sono di­ventato attore nella sua compagnia, suo amico e infine l'ho diretto anche nel suo ultimo film, La bomba. DaGassman ho imparato che il ruolo del­l'attore è centrale. Lui non amava i re­gisti e mi ha fatto capire che senza la passione dell' attore che incarna il per­sonaggio, le parole restano carta strac­cia».

 

E lei, che tipo di attore è?

«Lo confesso, mi piacciono i ruoli for­ti. Nel Giorno della civetta sono il ca­ pitano dei carabinieri Bellodi, quello interpretato nel film da Franco Nero. Lo spettacolo era nato tre anni fa per una settimana pirandelliana e invece ha funzionato così bene che oggi. sia­mo ancora in tour. Paradossalmente con molto più successo al Nord che al Sud: perché è un testo che parla di ferite ancora aperte, del dramma della mafia che ancora in molti vivono sul­la loro pelle».

 

E nella regia che tipo di ‘impegno’ porta in scena?

«Come regista sono di una pignoleria estrema, specie sulle ricostruzioni sto­riche. Ma più che il ‘sociale’ come ge­nere io amo scandagliare l' anima del­l'uomo, le emozioni degli individui. Come in PadrePio (visto suRaiuno da 14 milioni di telespettatori, ndr) ho cercato di interpretare i timori e le e­mozioni di un povero frate che si ri­trova chiamato da Dio. Mentre il mio San Pietro (interpretato da Omar Sha­rif) è un uomo che si sente intimori­to e inadeguato al grande compito affidatogli».

 

Lei non ha mai fatto mistero della sua fede. Questo l'ha aiutata sul lavoro e nella vita?

«Da una parte il fatto che io fossi fer­mamente credente ha dato garanzie di serietà e competenza a chi mi ha commissionato le fiction sugli argo­menti religiosi. Ma nella tv in genera­le, essere un cattolico oggi non è faci­le. Lo spettacolo in Italia è in mano a persone che hanno altri valori, ma io vado avanti per la mia strada, facen­do il mio mestiere con rigore, senza

atteggiamenti bigotti o da baciapile.

 

Da dove le arriva questa fede?

«Arriva dalla mia famiglia, e mi riten­go molto fortunato. Mi dà una marcia in più, nella vita e nel lavoro. Mi au­guro che anche chi non ce l'ha la tro­vi, ma se non si inizia in famiglia è più difficile. Mia moglie ed io ci proviamo: vedo che i miei tre bambini (l0, 4 e 3 anni) sapendo che c'è Gesù vicino a loro, sono più sereni».

 

Si fa un gran parlare di buona tv. È possibile un cambiamento di rotta oggi in Italia?

«Io la tv non la demonizzo: credo nel suo valore educativo e penso che, se si vuole, i programmi di qualità si possono fare. Il problema semmai è un imbarbarimento generale del mon­do. Sta a noi metterci d'impegno, ma sono fiducioso perché vedo tanti gio­vani determinati».

 

Adesso, dopo Muccino, anche lei sbarcherà in America. La Fox distri­buirà L’inchiesta nelle prossime set­timane in ben 500 sale negli Usa.

«E un piccolo miracolo e sono davve­ro felice. D'altronde ho alle spalle il monumentale soggetto di Ennio Flaiano e Suso Cecchi D'Amico che racconta di un funzionario dell'im­peratore Tiberio inviato in Palestina alla ricerca del corpo di Gesù Cristo. Abbiamo un grande cast (Daniele Liotti, Monica Cruz, Ornella Muti, Giu­liano Gemma, Franco Nero, Murray Abraham e Max Von Sydow) e ne ab­biamo fatto un thriller psicologico velocissimo e pieno di ritmo. Per parla­re di temi alti ai giovani».


2. 

Intervista all’archeologo Valerio Massimo Manfredi

 

Il mio film su Gesù

 

di Andrea Galli. Avvenire 16 marzo 2007

 

Fede e verità storica. Sacre Scritture e riscontri archeo­logici. Un tema ben presen­te a uno specialista poliedrico come Valerio Massimo Manfre­di. Narratore e saggista (tra i rari italiani tradotti all'estero), archeologo di rango e conduttore di trasmissioni televisive di suc­cesso, Manfredi non ha sola­mente firmato l'introduzione al­la recente riedizione di un clas­sico dell'apologetica biblica, La Bibbia aveva ragione di Werner Keller. E' anche autore della sce­neggiatura del remake del film di Damiano Damiani L'inchiesta, opera diretta da Giulio Base che esce in questi giorni in USA in 500 sale cinematografiche, mentre in Italia

andrà in onda su Raiuno a Pasqua.           

 

Professor Manfredi, perché ha scelto di cimentarsi con ‘L’Inchiesta’ di Da­miani?        

«In un primo momento non vole­vo, mi sembrava difficile raggiungere il livello del film originale, poi ho pensato di a­vere delle carte in mano che gli sceneggiatori di al­lora non possedevano. Elementi che a livello scientifico non sono accettati da tutti, come è nor­male nel mondo dei ricercatori, ma che conservano una loro plausibilità e un loro grande in­teresse, anche dal punto di vista cinematografico».

 

Per esempio?

«La scelta è stata quella di met­tere Tiberio al centro di tutto. Molti studiosi sono ormai con­vinti che il senatoconsulto di cui parla Tertulliano - quello che a­vrebbe avuto luogo nel 38 d.C., con cui il senato dichiarò il cristianesimo religione ‘illecita’ ­non può esserselo inventato lo stesso Tertulliano. Il contesto non è sospetto, come non lo sono le intenzioni dell'autore, che sarebbe stato facilmente smen­tito se avesse mentito. Alla sua epoca negli archivi del Senato, nelTabularium, c'erano ancora le documentazioni originali. E il senatoconsulto è un atto tal­mente importante che doveva certamente essere conservato».

 

Quindi, se fosse vero il senatoconsulto?

«Significa che Tiberio avrebbe cercato di anticipare di quasi 300 anni l'editto di Costantino: chi avesse desiderato adorare Gesù sarebbe stato libero di far­lo. Tiberio di fatto voleva accet­tare Gesù fra gli dei dell'impero. Il Senato si oppose a questa sua volontà».

 

Ma ‘l'inchiesta’ per ritrovare il corpo di Gesù, la trama del film di Damiani, a che scopo sarebbe stata commis­sionata?

«Sarebbe stata or­dinata per fare luce su quanto era accaduto in Palestina. E per prendere le conseguenti

misure. Ci sono dei fatti inconte­stabili: Tiberio ha decapitato l'inte­ra classe dirigente del vicino Orien­te, ha destituito Caifa, ha rimosso Pilato, così co­me il governatore di Siria, sostituendolo con una fi­gura di sua perso­nale fiducia. Ora, non è detto che questo sia stata la conseguenza della morte di Gesù, ma non è detto nemmeno che non lo sia stata. E' chiaro che la materia è talmente delicata che vige la più grande prudenza, e anche nello scrivere la sceneggiatura ho sen­tito molto questa responsabi­lità».

 

E' sicuro di questa attitudine ‘positiva’ dell'imperatore verso i cristiani?

«Sicuramente l'impero guardava con molta attenzione al feno­meno del cristianesimo, e Tibe­rio era persona che preferiva ri­solvere le cose con la diploma­zia piuttosto che con la forza. Non possiamo escludere che a­vesse calcolato di accettare uffi­cialmente questa religione paci­fica che stava prendendo piede. Magari per servirsene nel porta­re ordine nella ribollente situa­zione palestinese».

 

E le fonti per arrivare a prende­re una simile decisione?

«Quel piccolo territorio ad o­riente era allora come oggi un nervo scoperto della politica in­ternazionale. Tutto quello che accadeva lì finiva sotto la lente di ingrandimento. Il processo di Gesù non deve essere stato così facile, così sbrigativo... penso che Pilato ci abbia pensato be­ne. E' vero che poi e stato rimos­so, ma difficilmente Tiberio metteva degli incapaci a gover­nare le province più difficili.

Sul­le fonti: Claudia, la moglie di Pilato, viene da pensare che fosse parente dell'imperatore... una    che si chiama Claudia è una li­berta ed è impossibile che una liberta fosse fa sposa di un governatore di rango equestre, a mano che non fosse parente dell’imperatore».

 

Il film ‘L’Inchiesta’, il libro di Keller, il suo speciale da poco trasmesso su La7 sulle ultime 24 ore di Gesù... la domanda di prove della veridicità delle Scritture sembra oggi fortissima. Come mai secondo lei?

«Fin dai primi tempi si sono cercati degli ancoraggi di tipo fisico e archeologico alla storia di Ge­sù. Per esempio la Tabula Peu­tingeriana, una mappa antichis­sima dell'impero romano, una mappa che ha origine probabil­mente nel primo secolo e ha a­vuto un armonizzamento (sic) nel quarto, presenta il Monte degli Ulivi e il Monte Sinai. L’ancorag­gio fisico di una religione rivela­ta è stato ed è sempre importan­tissimo. Pensi alle lotte che tut­tora scatena la spianata del Tempio a Gerusalemme... e non dimentichiamo i fiumi di in­chiostro che si sono stati versati sulla Sindone, che rimane forse il documento archeologico più enigmatico in nostro possesso: sarà pur medievale, stando al C14, ma vorrei sapere come fa un falsario medievale a costruire un negativo fotografico, in un modo che nemmeno noi oggi siamo in grado di riprodurre... Il tema è insomma cruciale per le religioni e quelle bibliche in par­ticolare. Per chi si occupa di of­frire delle risposte scientifiche, l'importante è muoversi con de­licatezza e soprattutto con rispetto nell'interpretazione di fonti che per milioni di persone sono testi sacri».

sulla morte di Gesù a maggio nelle sale

3. 

Il film tv di Base

 

Visto il successo in tv, il produttore Fulvio Lucisano ha deciso di andare avanti con la sua idea: far uscire nelle sale italiane, come accadrà in questi giorni in Usa e in Spagna, la versione cinematografica dell'«Inchiesta». La miniserie diretta da Giulio Base andata in onda con ottimi ascolti su Raiuno. «Parlerò con gli esercenti e a maggio potrebbe uscire nelle sale», commenta soddisfatto il produttore che ha finanziato al 50% «L'inchiesta» insieme a Rai Fiction.

 

‘L’Inchiesta’ di Giulio Base ripropone il Mistero

 

di Mirella Poggialini   da Avvenire di giovedì 5 aprile 2007

 

E’ il tema universale e coin­volgente della fede e del­le sue motivazioni, quel­lo che domina nel film-tv di Raiuno L’Inchiesta,regia di Giu­lio Base, proposto con succes­so lunedì 2 e martedì 3 Aprile. Un film televisivo risolto con schemi e rit­mi cinematografici validi e ac­cattivanti, sulla scia, è evidente, della sceneggiatura progettata un quarto di se­colo fa per il film omonimo di Damiano Damia­ni su soggetto e sceneggiatura di Ennio Flaiano e Suso Cecchi D'Amico. L’inchiesta voluta dall'im­peratore Tiberio per scoprire cosa ne sia stato del corpo di Gesù scomparso dal sepolcro, a Gerusa­lemme, vede un tribuno romano addentrarsi nel­le complicate reti di complicità e paura di cui Pilato tiene le fila: e forse non è stato facile se­guire la vicenda, data la sinteticità del rac­conto, arricchito da spunti e citazioni non sem­pre evidenti (“Chi sono gli Zeloti?” si sarà chiesto qualcuno. E anche: “Che ruolo ha Saulo di Tarso a fianco della fazione ebrea più reazionaria e accanita?»). Ampio lo spazio dato alla romanità, espressa nelle riflessioni di Tiberio e nelle ribellioni di Caligola. Ma il cuore della narrazione sta ne­gli interrogativi che via via nascono nel tribuno, reso con immediatezza da Daniele Liotti, lui che non crede nella resurrezione anche do­po molte testimonianze, ma sente che la parola di Gesù è comunque un miracolo destinato a cam­biare il mondo.

Sussulti e soprassalti divisi fra volontà di credere, da assimilare a speranza e a rinnovamento, e in­credulità insistente, che cerca prove e documen­ti. Vicino perciò a quello spirito inquieto, diviso fra anelito a credere e timore di farlo, che si sco­pre in molti, al giorno d'oggi: quindi un film an­cora attuale nel suo denunciare una crisi e insie­me la possibilità e la volontà di risolverla. In atte­sa che una rete rimandi il film di Damiani, per un interessante confronto, gli spettatori sono cresciuti martedì a 7.859.000, con il 28.96% di share.

 

NATIVITY DI CATHERINE HARDWICKE

Un film per Natale 2006

Nativity di Catherine Hardwicke

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Il film racconta in maniera realistica la nascita del Messia a Betlemme. Gli ambienti e le figure narrative ricordano per quanto possibile quelli dei tempi di Gesù. L'intelligente scelta dei visi, il ritmo rapido, a volte quasi da weatern, fanno risaltare le intenzioni della regista, Catherine Hardwicke.

Alla figura di Cristo sono sta­ti dedicati numerosi film (li enumera don Dario E. Viga­nò nel suo Gesù e la macchina da presa. Dizionario ragionato del cinema cristologico, pubblicato nel 2005), in particolare nel periodo del muto quando, per guadagnare la curiosità del pubblico provinciale (il cittadino aveva già scoperto il cine­matografo), fiorirono le Passioni. Di solito, considerate sullo stretto piano dei risultati espressivi, non erano ‘belle’. A lungo le sale parrocchiali presentarono nella settimana santa Golgotha di Julien Duvivier (1935).

Più di recente, sono stati parecchio apprezzati Il Vangelo secondo Mat­teo di Pier Paolo Pasolini del 1964 (osannata ma insieme discussa La passione di Cristo di Mel Gibson, 2004) e, sugli anni oscuri del Messia, Un bambino di nome Gesùdi Franco Rossi, che lo articolò in diverse puntate dopo il successo della prima serie e tenne sempre presente il diva­rio tra le esperienze di un ragazzo ebraico e la missione futura di Cri­sto. Quello che colpiva, in questi film cristologici, era la prospettiva mono­dimensionale. Sembrava che Gesù, visto di solito come profeta, fosse vis­suto in una zona neutra dove, sola­mente per comodità, si aggiravano sa­cerdoti del tempio e soldati romani.

Tolti i re Magi che, venendo da un Oriente favoloso, potevano portare anche abiti fantasiosi come vuole la fantasia popolare, i personaggi il più delle volte indossavano costumi arbi­trari; cosa che del resto distingue la maggior parte della pittura a caratte­re devozionale (tanti capolavori che adesso ammiriamo nei musei erano pale d'altare o affreschi e avevano la funzione di confermare e ravvivare la fede dei fedeli).

 

La regista Catheri­ne Hardwicke, non a caso scenogra­fa all'inizio di carriera, ha voluto che in Nativity gli ambienti e le figure narrative ricordassero, per quanto possibile, quelli dei tempi di Gesù. L'intelligente scelta dei visi (così op­portunamente ebraici), il ritmo rapi­do, a volte quasi da western, impres­so alle immagini fanno risaltare le in­tenzioni della regista. Ciò che colpi­sce favorevolmente in chi sfogli que­sta cronaca degli eventi che precedet­tero e accompagnarono la venuta del Messia è il fatto che, pur privilegian­do le vicende di Maria e di Giuseppe, della cugina Elisabetta e del vegliar­do Zaccaria, Catherine Hardwicke non trascura l'avventura dei Magi e le diffidenze del tetrarca Erode.

 

Un film dal forte sapore realistico

Ai re astrologhi è dedicato nel film un ampio spazio narrativo. Con tonalità spruzzate di umorismo gli osservatori del cielo sono visti come figure capricciose. Ecco, nella volta celeste essi notano dei segni miste­riosi, li interpretano e capiscono che, come annunciato nei libri sacri, sta per verificarsi qualcosa di prodi­gioso a Betlemme nella lontana Pale­stina. E, pur litigando, spinti dalla ra­gione ma anche dalla fede, in grop­pa a cammelli e seguiti dai servitori si mettono in viaggio superando deserti e montagne. Erode è il tiranno: diffidente di tutto, guardingo (ha sa­crificato i figli maggiori temendo che volessero spodestarlo dal tro­no), tollerante ma neppure troppo con il figlio minore a lui sottomesso.

Erode ha nel racconto un ruolo de­terminante: le prime immagini del film descrivono la strage degli inno­centi voluta dal re per eliminare il Messia di cui si favoleggiava nei libri sacri. E, più avanti, sono i suoi soldati (non i romani) ad applicare nuove tangenti agli abitanti di Nazareth, in occasione dei raccolti. Pur di ottener­le, sono disposti a rapire le giovani donne del villaggio. Nazareth è visto come un paesino, collocato a sud di Sefforis, la capitale della Galilea. Vi lavora un giovane venuto da lonta­no, quasi un emigrato si potrebbe di­re. A differenza di quanto suggerisce molta narrativa pittorica e cinemato­grafica, Giuseppe (Oscar Isaac) è un uomo giovane e bello che vuol mette­re su famiglia. Ha individuato anche la futura sposa: è l'adolescente Ma­ria (Keisha Castle-Hughes) che ve­diamo intenta ai lavori domestici, va al pozzo con il suo orcio, parla e ride con le amiche. Non è bella in senso stretto: ha un viso che da dolce può farsi diffidente, ostile.

 

Accoglie con diffidenza l'annun­cio dei genitori: l'emigrato Giusep­pe l'ha chiesta in sposa. Solo per ub­bidienza alla fine accetta la proposta matrimoniale. Ma ecco che, andata a far legna nel bosco, le si presenta davanti un angelo che, a lei che non conosce uomo, annuncia la nascita di un figlio. Qui, il film segue scrupo­losamente quanto è raccontato nei vangeli secondo Matteo e secondo Luca, gli unici che diano conto degli eventi immediatamente precedenti la venuta del Redentore. Una colom­ba attraversa il cielo, sfiora Maria. Quasi a conferma che quanto le è stato annunciato è vero, una notizia inattesa giunge alla vergine. Sua cu­gina Elisabetta - donna in età matu­ra, considerata sterile - è incinta. Suo marito Zaccaria, durante una cerimonia al tempio, è stato investi­to da una voce: Dio gli darà un figlio e lui, nell'attesa, diventerà muto.

Maria decide di recarsi in visita da Elisabetta {vi andrà su un car­retto, annotazione anche questa che conferma il carattere realistico di Natività). Quando incontra la cugina, costei sentirà il balzo del bambino che reca in se­no. E Maria pronuncerà le parole del Magnificat. Alla nascita di Giovanni che sarà detto il Battista e aprirà le strade al Messia, Zaccaria riprenderà a parlare. Per Maria la missione è conclusa, è giunta l'ora di tornare a casa. La gravidanza del­la giovane è adesso molto pronun­ciata. La gente di Nazareth mormo­ra sul suo conto. Come imponeva la Legge di Mosè e come vuole an­cora oggi la giurisdizione islamica, Maria sarà lapidata come adultera. A Giuseppe il compito di lanciare la prima pietra. Benché deluso dal­la promessa sposa, Giuseppe si rifiu­ta. Un angelo, du­rante il sonno, lo conforterà. Non ab­bia paura, si pren­da cura di Maria e del suo figlio.

 

Una fusione di fede e ragione

Erode, intanto, ha annunciato il censimento: ogni uomo torni al luo­go da cui proviene. Così Giuseppe e Maria, seduta su un asinello, si met­tono in viaggio. Meta il paese di Betlemme verso cui puntano anche i re Magi che, giunti a Gerusa­lemme, si recano da Erode e gli rac­contano quanto hanno letto nel cie­lo stellato. I due viaggi sono affian­cati con naturalezza. La regista insi­ste sulla cocciuta volontà degli astronomi di giungere al luogo sug­gerito dai segni da loro decifrati nel cielo; tra Maria e Giuseppe si crea una forte solidarietà, qualcosa di più di un amore. Gerusa­lemme è vista non tanto come ‘città santa’ quan­to come mercato dove tutto si vende e si compera. Si pensa, constatando lo stupore della coppia, a Gesù che caccerà i mer­canti dal Tempio. Nei pressi di Na­zareth i due sposi incrociano un an­ziano pastore, in attesa anche lui della venuta del Messia. E il bambi­no Gesù nasce in una grotta verso cui, avvertiti da un angelo, si muo­veranno i pastori. Gli umili onora­no il Messia. Lo stesso fanno i po­tenti, i Magi misericordiosi che, poi, tornano ai loro paesi senza re­carsi da Erode. Allarmato dai tanti segni inquietanti, il tetrarca ordina la strage degli innocenti (preannun­ciata all'inizio del film). Un angelo ha invitato Giuseppe a raggiungere l'Egitto con la spo­sa e il bambino.

 

Nativity, come si vede, è ricalcato su testi evangelici (in particolare di Luca). Con cre­scente attenzione seguiamo la ‘cro­naca’ di Catherine Hardwicke che con ritmo ‘moder­no’ riprende il te­ma dell'Incarna­zione. Il paesaggio assume uno spa­zio centrale nel film: se Nazareth sa un poco di ricostruito (il set è sorto nei Sassi di Matera, il luogo che servì a Pasolini e a Mel Gib­son), naturalissimi ci paiono i luo­ghi (i deserti, i monti) attraversati dai due sposi e dai Magi. E in un contesto così ben definito si stacca­no e assumono rilievo, quasi una in­soluta corporalità, Maria e Giusep­pe (di solito messo in disparte in al­tri film ispirati ai Vangeli). Un' ope­ra insolita, suggestiva (nelle sale dal primo di dicembre 2006), che si consiglia ai lettori, agli spettato­ri credenti o no. In esso convivono, anzi si fondono in un testo unita­rio, fede e ragione.

 

NATIVITY. DA HOLLYWOOD UN NATALE IN POESIA

Nativity. Da Hollywood un Natale in poesia

Già annunciata come la risposta alla Passione di Mel Gibson, è una ricostruzione fedele ai testi evangelici dell'Annunciazione, della Nascita di Gesù fino alla Fuga in Egitto.

Il primo dicembre, con buon anticipo rispetto al Natale, esce nei cinema in contemporanea mondiale The Nativity  Story,la storia della nascita di Gesù, una pellicola che si preannuncia come un'«azione di contrasto rispetto ai soliti film natalizi», secondo la regista Catherine Hardwicke. A rendere l'opera speciale è certamente il tema -­la storia di Maria e Giuseppe, dall'annunciazione, alla nascita del Salvatore, alla fuga in Egitto- e le circostanze che ne hanno permesso la realizzazione, ovvero un nuovo caso di apertura da parte di Hollywood ad un soggetto cristiano.

Il filone evangelico era stato già testato due anni fa da Mel Gibson con La passione di Cristo, un successo strepitoso a livello internazionale, che aveva però suscitato anche polemiche per la violenza di alcune scene. In questo caso, ha spiegato lo sceneggiatore Mike Rich, «ci siamo invece accertati che la storia, pur presentata in modo molto realistico, rimanesse accessibile a un pubblico di famiglie».

A spingere Rich a comporre la sceneggiatura del film sarebbe stato il desiderio di raccontare la Natività dal punto di vista dei suoi protagonisti e quello di offrire un piccolo antidoto al progressivo declino del senso religioso del Natale, negli Stati Uniti e non solo. A permettergli di trasformare il copione in pellicola è stato invece l’interesse per il progetto da parte di due nomi di Hollywood, Marty Bowen della United Talent e il produttore Wyck Godfrey, entrambi convinti cristiani - il primo cattolico, il secondo pentecostale - in cerca di qualche soggetto cinematografico di maggior spessore rispetto all’abituale offerta natalizia. A queste circostanze si è poi aggiunta la disponibilità della casa cinematografica New Une, che tra l'altro intende presentare la Natività in anteprima assoluta in Vaticano. Dopo una speciale proiezione che si è tenuta per esponenti delle università pontificie ed esperti della comunicazione del mondo cattolico, i commenti sono stati infatti più che favorevoli, sia per la qualità poetica del racconto che per la sua fedeltà testo scritturale. Le autorità vaticane hanno così dato l'assenso a una proiezione del film nell'Aula Paolo VI, alla quale parteciperà anche buona parte del cast del film. Il tutto avrà luogo domenica 26 novembre, introdotto da una preghiera natalizia scritta da monsignor Angelo Comastri, arciprete della Basilica Vaticana, letta da Gigi Proietti. La regista Catherine Hardwicke - già scenografa di film comeVanilla Sky e poi autrice di un piccolo successo come Thirteen (2003) – era certa di non voler trattare un tema religioso, dopo aver trovato il film di Gibson «violento e difficile da guardare».

Tuttavia, una volta realizzato che avrebbe potuto «trasformare icone in persone reali», il progetto non solo ha preso forma, ma è stato completato nel tempo record di meno di un anno. Girato a Matera - proprio come la Passione di Cristo – il film ha come interpreti la sedicenne Keisha Castle-Hughes - la più giovane candidata all'Oscar come attrice protagonista, nel 2004, per ‘La ragazza delle balene’ - nei panni di Maria, e Oscar Isaac in quelli di Giuseppe. Uno dei messaggi cheNativity intende trasmettere è la profonda umanità dei due protagonisti e la loro straordinaria prova d'amore: «mi auspico che il pubblico possa sentirsi in sintonia con la visione e magari trovarvi ispirazione per superare le proprie sfide e le proprie difficoltà» ha detto la regista. «Spero che la gente possa uscirne con una considerazione nuova del sacrificio che Maria e Giuseppe furono disposti a fare. Abbiamo dimenticato cosa dev'essere stato il viaggio a Betlemme, con i dialoghi, le paure... spero che gli spettatori possano percepirlo», le ha fatto eco lo sceneggiatore Rich.

«Verso la fine, la pellicola sembra trasportarti in un luogo spirituale, un luogo sacro», ha confidato sempre la Hardwicke, sostenendo che il film le ha insegnato molto sulle proprie radici spirituali, spingendola a rinsaldare il legame con la propria religione, quella ebraica. 

 

NICOLE KIDMAN. LA MAGICA NICOLE RIABBRACCIA IL CATTOLICESIMO

Nicole Kidman. La magica Nicole riabbraccia il Cattolicesimo.

Avvenire 18. 06. 06

Le voci erano circolate già nel 2001, all’indomani della seperazione da Tom Cruise, dopo un matrimonio durato 11 anni. Tra i motivi (per alcuni "il" motivo) che avrebbero spinto Nicole Kidman alla rottura con il marito ci sarebbe stata la sempre più convinta e asfissiante adesione di quest'ultimo alla "chiesa" di Scientology, con il desiderio di iniziare i due figli adottivi della coppia al movimento fondato dall’americano Ron Hubbard. Anche la

Kidman aveva aderito a Scientology (lei e Cruise si erano sposati con rito

scientologico) ma Nicole avrebbe iniziato a prendere le distanze da quella realtà e soprattutto avrebbe voluto crescere i figli nella fede della sua famiglia e della sua giovinezza: quella cattolica.

Sulla questione i due attori stesero però un velo di silenzio e nulla fu confermato o smentito.

L’anno scorso altre voci davano la Kidman impegnata in un cammino di fede e alle prese con corsi di sacra scrittura alla ­Pepperdine University, un ateneo di Malibu, la cittadina balneare a due passi da Los Angeles, domicilio dei vip dell’industria cinematografica. Robert Cargill, docente di ebraismo e di letteratura cristiana antica alla Pepperdine, confermava di tenere lezioni all’ammaliante diva, pur mantenendo il riserbo sull’allieva e la sua vicenda personale.

Ma era la stessa Kidman, nell’aprile dello stesso anno, a dare qualche lume a riguardo, in un'intervista rilasciata al Philippine Daily Inquirer: «Il cattolicesimo è parte della mia vita. L’ultima Pasqua è stata bellissima perché l’ho trascorsa con la mia famiglia. Era la prima volta dopo molto tempo che la passavo con la mia estesa parentela cattolica, con gli zii, i cugini arrivati un po' da ovunque. La fede è stata una parte importante della mia infanzia ed è rimasta dentro di me».

«Credo, certamente ­continuava - cerco di andare in Chiesa e di confessarmi regolarmente», aggiungendo elogi e ammirazione per la figura di Giovanni

Paolo II.

La Kidman, australiana, è nata nel 1967 da un padre di origini scozzesi - biochimico, oggi professore emerito all'Università di Sydney - e da una madre di origini irlandesi, assistente sociale. Ha frequentato il Monte Sant'Angelo College, a Sydney, un istituto cattolico vecchio stile gestito dalle Sorelle della Misericordia, così come ha fatto la sorella minore Antonia – giornalista televisiva molto nota in Australia - che nella cappella della sua vecchia scuola si è pure sposata, nel 1996.

Ai primi film e al trasferimento negli Stati Uniti, è seguito un fulmineo allontanamento dall'ambiente dell'adolescenza, sostituito da una sequela ininterrotta di successi, peripezie da jet set, flirt, il matrimonio con Tom Cruise, le divagazioni scientologiche, ecc. Fino, pare, ad un lento ma deciso ritorno alle origini.

Domenica prossima, a Sydney, la Kidman si sposerà con il cantante country Keith Urban, australiano anche lui, in una cerimonia tradizionale, secondo il rito di santa romana Chiesa. «Per Nicole questo è una sorta di spirituale ritorno a casa: ritorno alla sua Chiesa e alla sua fede in quella che è stata la sua parrocchia» ha spiegato al Sydney Morning Herald il gesuita Paul Coleman, da sempre vicino alla famiglia Kidman e, si dice, colui che celebrerà il matrimonio. Il luogo scelto per il grande momento sarebbe infatti situato nella parrocchia dove la sposa è cresciuta. Si tratta della Mary MacKillop Chapel, dove riposa la fondatrice delle Sorelle di San Giuseppe del Sacro Cuore, religiosa che aprì la prima scuola gratuita nel Paese, fu beatificata da Giovanni Paolo II nel 1995 e oggi è candidata a diventare la prima santa australiana. Una "testimone" di nozze di tutto rispetto.

Sulla questione i due attori stesero però un velo di silenzio e nulla fu confermato o smentito.

L’anno scorso altre voci davano la Kidman impegnata in un cammino di fede e alle prese con corsi di sacra scrittura alla ­Pepperdine University, un ateneo di Malibu, la cittadina balneare a due passi da Los Angeles, domicilio dei vip dell’industria cinematografica. Robert Cargill, docente di ebraismo e di letteratura cristiana antica alla Pepperdine, confermava di tenere lezioni all’ammaliante diva, pur mantenendo il riserbo sull’allieva e la sua vicenda personale.

Ma era la stessa Kidman, nell’aprile dello stesso anno, a dare qualche lume a riguardo, in un'intervista rilasciata al Philippine Daily Inquirer: «Il cattolicesimo è parte della mia vita. L’ultima Pasqua è stata bellissima perché l’ho trascorsa con la mia famiglia. Era la prima volta dopo molto tempo che la passavo con la mia estesa parentela cattolica, con gli zii, i cugini arrivati un po' da ovunque. La fede è stata una parte importante della mia infanzia ed è rimasta dentro di me».

«Credo, certamente ­continuava - cerco di andare in Chiesa e di confessarmi regolarmente», aggiungendo elogi e ammirazione per la figura di Giovanni

Paolo II.

La Kidman, australiana, è nata nel 1967 da un padre di origini scozzesi - biochimico, oggi professore emerito all'Università di Sydney - e da una madre di origini irlandesi, assistente sociale. Ha frequentato il Monte Sant'Angelo College, a Sydney, un istituto cattolico vecchio stile gestito dalle Sorelle della Misericordia, così come ha fatto la sorella minore Antonia – giornalista televisiva molto nota in Australia - che nella cappella della sua vecchia scuola si è pure sposata, nel 1996.

Ai primi film e al trasferimento negli Stati Uniti, è seguito un fulmineo allontanamento dall'ambiente dell'adolescenza, sostituito da una sequela ininterrotta di successi, peripezie da jet set, flirt, il matrimonio con Tom Cruise, le divagazioni scientologiche, ecc. Fino, pare, ad un lento ma deciso ritorno alle origini.

Domenica prossima, a Sydney, la Kidman si sposerà con il cantante country Keith Urban, australiano anche lui, in una cerimonia tradizionale, secondo il rito di santa romana Chiesa. «Per Nicole questo è una sorta di spirituale ritorno a casa: ritorno alla sua Chiesa e alla sua fede in quella che è stata la sua parrocchia» ha spiegato al Sydney Morning Herald il gesuita Paul Coleman, da sempre vicino alla famiglia Kidman e, si dice, colui che celebrerà il matrimonio. Il luogo scelto per il grande momento sarebbe infatti situato nella parrocchia dove la sposa è cresciuta. Si tratta della Mary MacKillop Chapel, dove riposa la fondatrice delle Sorelle di San Giuseppe del Sacro Cuore, religiosa che aprì la prima scuola gratuita nel Paese, fu beatificata da Giovanni Paolo II nel 1995 e oggi è candidata a diventare la prima santa australiana. Una "testimone" di nozze di tutto rispetto.

 

NICOLE KIDMAN: ADDIO SCIENTOLOGY, TORNO ALLA MIA FEDE CATTOLICA

 

Nicole Kidman: addio Scientology, torno alla mia fede cattolica

Elvira Serra per il Corriere della Sera lunedì 19 giugno 2006

Il firmamento cattolico ha una nuova stella. Si chiama Nicole, compie 39 anni il 20 giugno 06 e fa l'attrice. Tutto il mon­do la conosce già quale straor­dinaria interprete di film diffi­cili come The Hours (premio Oscar per il ruolo di Virginia Wolf) eDogville (una donna schiavizzata e seviziata). Di ­lei si è accorto anche il quoti­diano della Cei, alla vigilia del­le nozze con il cantante coun­try australiano Keith Urban, previste per domenica 25 giugno a Sydney. In chiesa. «La magica Nicole Kidman riabbraccia il cattolicesimo», tito­lava ieri Avvenire. E via con la cronistoria del matrimonio con Tom Cruise, sposato nel 1990 secondo il rito di Scien­tology, organizzazione fonda­ta nel 1954 dallo scrittore di fantascienza Ron Hubbard che ha per bibbia il suo libro «Dianetics». Il movimento re­ligioso avrebbe avuto un ruo­lo asfissiante nella vita della coppia, che nel 2001 ha annunciato la rottura, voluta dall'ex "Top Gun".

 

Nicole e Tom hanno adottato due bambini, Isabèlla e Connor, oggi di 13 e 11 anni, ai quali la madre ha sempre voluto impartire un'educazio­ne cattolica. A differenza del padre, neogenitore di Suri (avuta due mesi fa da Katie Holmes), che avrebbe preferi­to per loro una formazione al­l'interno della «setta».

 

Nicole però l'ha spuntata. Un anno fa seguiva corsi di sacra scrit­tura alla Pepperdine Universi­ty di Malibu e in un'intervista al Philippine Daily Inquirer ha confessato: «Il cattolicesi­mo è parte della mia vita. Cer­co di andare in Chiesa e di confessarmi regolarmente».

Anche adesso l'australiana mostra coerenza con i princi­pi ritrovati. Pare abbia chie­sto al compagno Urban di fa­re astinenza sessuale fino al giorno del sì, una sorta di pre­parazione-purificazione pro­pedeutica al matrimonio. De­cisione che ha stupito i suoi

detrattori, ai quali non è sfug­gito il recente gossip che dà per certa la gravidanza del­l'attrice. E ieri 18 il domenicale Mailyon Sunday ha pubbli­cato una foto di lei con il ven­tre visibilmente arrotondato.

Quella di Nicole Kidman non è che l'ultima delle gran­di conversioni hollywoodia­ne. Richard Gere è diventato l'icona del budismo, così co­me Tom Cruise e John Travol­ta lo sono di Scientology. Ma­donna e Demi Moore guidano la schiera "delle cabaliste, seguite da Barbra Streisand, Courtney Love, Paris Hilton e Gwyneth Paltrow. Cat Ste­vens rinunciò al suo nome trent'anni fa per risorgere a nuova vita come Yusuf  Islam, musulmano convinto. In Ita­lia ci fu una conversione qua­si di massa sul set di The Pas­sion, diretto da Mel Gibson: ritrovarono Dio Jim Caviezel (Cristo), Luca Lionello (Giu­da) e Pedro Sarubbi (Barab­ba). Lina Sastri scoprì la fede nel ruolo di Maria durante le riprese di San Pietro, la fic­tion per Rai Uno. Evangelica convinta da qualche anno è, invece, Ornella Vanoni. Men­tre non andò bene l'esperien­za con Scientology di Pia Gar­dini, cugina dell'industriale Raul, che nel 2001 ha chiesto alla setta statunitense (che gli Usa riconoscono come reli­gione) un risarcimento di due miliardi di dollari dopo aver­ne denunciato «ricatti e vio­lenze fisiche». 

Saranno state anche que­ste ombre a far prendere le di­stanze alla Kidman dal movi­mento, già ai tempi del matri­monio con Cruise. Il gesuita che celebrerà le nozze dome­nica, Paul Coleman, da sem­pre vicino alla famiglia dell'at­trice, ha detto: «Per Nicole questo è una sorta di spiritua­le ritorno a casa: ritorno alla sua Chiesa e alla sua fede in quella che è stata la sua par­rocchia» .

 

Elvira Serra

 

PASOLINI: IRAZOQUI, L'ATTORE CHE LUI SCELSE PER GESÙ

Pasolini: Irazoqui, l'attore che lui scelse per Gesù

Si dice agnostico. Ma quando si rivede sullo schermo «ogni volta è uno choc. Per Pasolini il Vangelo era la bellezza assoluta. E il solo pensiero di aver dato il mio volto a quella bellezza senza aggettivi mi riempie di stupore». Enrique Irazoqui aveva 19 anni e non aveva mai recitato in vita sua quando nel 1964 interpretò Gesù nel Vangelo secondo Matteodi Pier Paolo Pasolini. Sono passati 42 anni ma quel sentimento è ancora vivo e bruciante. «Non rivedo il film da molti anni. E ancora mi dico: ma quello, non sono io», confessa.

Uno stupore che Enrique avrebbe voluto narrare venerdì a Novara, dov'era atteso come ospite di Passio, itinerario di «cultura e arte attorno al mistero pasquale» in corso nella diocesi piemontese. Un problema di salute gli ha impedito di lasciare la Spagna - spera di poter venire per la chiusura della manifestazione, il 3 maggio. Ma dalla sua abitazione di Cadaques - il borgo di pescatori, in Catalogna, dove anche Salvador Dali ebbe casa - non si è sottratto alla richiesta diAvvenire di tornare con  la memoria agli anni dell'incontro con Pasolini.

 

Un incontro che ha inserito il volto di Enrique nella millenaria galleria di volti del Cristo. Una storia da raccontare dal principio.

«Nel febbraio del 1964 ero a Firenze e a Roma come rappresentante del sindacato universitario clandestino antifranchista di Barcellona per chiedere a importanti personalità italiane di venire in Spagna a parlare in pubblico per sostenere la nostra lotta contro la dittatura - racconta Enrique -. Incontrai La Pira, Nenni, Pratolini... L'ultimo giorno, avevamo poche ore libere, decidemmo di andare da Pier Paolo - Enrique lo chiama quasi sempre col nome di battesimo -. Lo conoscevo come poeta, non sapevo nulla della sua attività cinematografica». Che era iniziata solo tre anni prima, nel 1961, con il parto tormentato e contestato di Accattone. «Arrivammo alla sua casa all'Eur, dove viveva con la madre. Gli spiegai i motivi della visita, mentre lui stava in piedi, mi girava intorno, come immerso in altri pensieri. Alla fine disse che ci avrebbe aiutati, ma soprattutto mi chiese un favore: fare la parte di Gesù in un film sul Vangelo che stava preparando da due anni, ma non aveva ancora trovato una persona adatta a quel ruolo.

Pasolini aveva coltivato alcune ipotesi: il poeta sovietico Evtushenko, i simboli della beat generation Kerouac e Ginsberg, «anche lo scrittore spagnolo Goytisolo - continua Enrique -. Ma nessuno gli andava bene. Ora voleva me. Gli dissi subito di no, che non mi interessava affatto, che avevo cose più serie da fare, la mia lotta per la fraternità universale, altro che film come a Hollywood con i suoi Cristi depilati e romantici. E poi venivo dalla Spagna franchista, dove la Chiesa cattolica era parte del sistema di potere. A Pier Paolo la mia risposta piacque moltissimo e per farmi cambiare idea mobilitò tutte le sue conoscenze: Elsa Morante, che diverrà mia grande amica, il produttore Manolo Bolognini e il giovane che mi aveva accompagnato tra Firenze e Roma, il figlio dello storico Manacorda. Fu questi a convincermi, assicurandomi che sarebbe stato un Gesù diverso, un film in chiave epico-lirica e nazional-popolare nel senso gramsciano del termine. A Gramsci dissi di sì».

Pasolini aveva già dimostrato di preferire attori non professionisti. Così fu anche nel Vangelo con i ruoli affidati agli amici - da Enzo Siciliano ad Alfonso Gatto- e alla madre Susanna, che fu Maria anziana. Perché volle proprio Enrique Irazoqui per il suo Cristo?

«In me vedeva il Cristo degli artisti che amava - Giotto, Piero della Francesca, El Greco - e insieme il simbolo della resistenza antifascista; quella di Spagna, ma anche quella della Seconda guerra mondiale, che gli aveva portato via il fratello. Proprio a me dedicò Vittoria, l'ultima lirica del libro Poesia in forma di rosa, anche se non mi chiamò per nome, per non inguaiarmi con la polizia politica».

Come si lavorava sul set?

«Non ero un professionista, avevo solo 19 anni. Così tutto si faceva in un rapporto di grande amicizia, discutendo fino a notte fonda con Elsa Morante, Laura Betti, Moravia... Pier Paolo aveva questa tecnica: portarci a elaborare un rapporto personale fra la nostra vita e la narrazione evangelica. Così per me i farisei erano la borghesia spagnola complice del franchismo, i soldati che arrestano Gesù la polizia politica. E io ci mettevo tutta la mia rabbia politica e umana...».

Un militante marxista turgido di ribellione chiamato a impersonare il Gesù che comanda di amare i nemici, o che si ritira nel deserto a pregare... Chi era - chi è - Gesù per Enrique Irazoqui?

«Da agnostico, faccio mie le parole di Pier Paolo in una lettera al produttore Alfredo Bini: per me finora la bellezza è sempre stata 'aggettivata', una bellezza morale, o politica. Solo leggendo il Vangelo per la prima volta ho incontrato la bellezza assoluta».

Lei è diventato il volto di quella bellezza...

«E questo mi riempie sempre di stupore, fin dalla prima volta. Ogni volta è uno choc».

Terminato il film, Enrique - che per parte di madre ha radici in Italia, a Salò e Padova, ­torna in Spagna, si sposa, si laurea in economia. «Da bravo marxista credevo che l'economia fosse il cuore della storia. Appena cinque mesi dopo la laurea mi ero già ricreduto. E mi diedi alla letteratura spagnola, che per anni insegnai anche nelle università degli Stati Uniti». Oggi Enrique è padre di due figli, ha un nipote e altri due in arrivo. Non sopporta il Cristo di Mel Gibson ('un film sadico'), non disdegna quello di Zeffirelli ('ma è un pò dolce, hollywoodiano'). E nel cuore un ricordo: «Il discorso della Montagna. E' la parte del film di Pier Paolo che amo di più».


Per entrare nel ruolo identiflcai i farisei con la borghesia del mio Paese, base della dittatura. Ero e restoagnostico,

eppure con il Discorso ­della Montagna ho imparato che può esistere una bellezza assoluta, senza bisogno di aggettivi»


Un film girato nel Sud: Matera, Bari, Crotone e altri luoghi del Sud Italia: ecco la Terra Santa del «Vangelo secondo Matteo» di Pier Paolo Pasolini, dedicato alla memoria di Giovanni XXIII e pluripremiato (fra gli altri dal Office Catholique Intemational du Cinema alla XXV Mostra di Venezia). Il film è stato restaurato pochi anni fa da Mediaset nell'ambito dell'iniziativa «Cinema Forever» e posto in commercio in dvd.

 

PERCORSI NEL CINEMA BIBLICO

Da “il Telespettatore” - N. 1 - Gennaio 2001

Daniela Iannotta e Dario E. Viganò 

Percorsi nel cinema biblico

di Walter Montini

Daniela Iannotta e Dario E. Viganò nel volume pubblicato dalla casa editrice torinese Effatà dal titolo “Essere, parola, immagine: Percorsi nel cinema biblico” riflettono sui complessi rapporti esistenti tra lo spirituale e la dimensione artistica. Adottano un approccio metodologico differente. La Iannotta, infatti, ripercorrendo le tappe più significative dell'ermeneutica contemporanea vuole dimostrare la validità del percorso ermeneutico per la comprensione delle espressioni artistiche. L'intreccio tra ermeneutica ed estetica è funzionale ad una evidenziazione del valore del simbolo, strumento necessario per la comprensione del testo religioso e del suo linguaggio. Don Dario Viganò, invece, nel bel saggio "Bibbia e cinema: un rapporto originario ed irrisolto" si occupa dello specifico filmico e massmediatico in rapporto al tema religioso. "L'assunzione del linguaggio religioso nel mondo dei mass media - scrive Viganò - non può essere considerato neutrale: il religioso si espone come ogni altro linguaggio e cultura al logoramento e alla corruzione; in ogni caso ad una significativa trasformazione". Definita la dimensione, se così si può definire, del linguaggio religioso nei contesti comunicativi della televisione, del cinema e dei giornali, viene affermato che i media utilizzano il religioso perché, se decontestualizzato, ha la capacità di sorprendere e di interessare. Ai media interessa non tanto e non solo la comunicazione di un’esperienza credente, ma l’ostentazione del religioso, teso a produrre un effetto di sorpresa, estraneo rispetto alle aspettative dei fruitori. Viganò ricorda come la Bibbia abbia da sempre interessato i cineasti perché, come il cinema, essa è disseminata di immagini, visioni, parole. Nella storia del cinema, secondo l'autore, uno degli esempi più significativi di questo fecondo influsso è "Il vangelo secondo Matteo" di Pier Paolo Pasolini, un film fondato su una "singolare empatia con il testo evangelico e assolutamente alieno da ogni intento mistificatorio". Pasolini - scrive Viganò, ha evidenziato meglio di ogni scritto teologico che la morte di Gesù, e dunque la sua obbedienza al Padre, il suo amore straordinario per ogni uomo è talmente centrale nella storia dell'umanità che ad essa non è possibile accedere con lo sguardo: di fronte ad essa abbiamo una sorta di estraniazione perché la morte in Croce, luogo della rivelazione della gloria del Padre, esige l'oltrepassamento di uno sguardo che diviene ascolto".
Non è un libro semplice o di facile lettura, ma un utile sussidio per tutti gli operatori. 

 

SACRA FAMIGLIA POCO SACRA. FICTION CANALE 5 DICEMBRE 2006

La minifiction di Canale 5

Tiziana Lupi. Avvenire 8. 12. 06

In tv una Sacra Famiglia più vicina ai nostri tempi. Basato sui vangeli apocrifi, il lavoro con Gassman nel ruolo di Giuseppe rischia di ridurre il mistero di Gesù

Se non fosse per quel sacra che sta nel titolo, si sarebbe potuta benis­simo chiamare La famiglia. Perché questo, in realtà, rac­conta la miniserie, La sacra famiglia appunto, che Ca­nale 5 manda in onda do­menica 10 e lunedì 11 di­cembre, in prima serata. Nella fiction (“liberamente ispirata ai vangeli apocrifi” è scritto nei titoli di testa) rea­lizzata dalla Fidia Film, di­retta da Raffaele Mertes e in­terpretata da Alessandro Gassman, Ana Caterina Morariu e Brando Pacitto, si par­la, infatti, della storia di un uomo e una donna che, no­nostante le differenze di età, estrazione sociale e prove­nienza, si incontrano, si in­namorano, si sposano e, come accade normalmente in tutte le famiglie, si trovano ad affrontare delle prove. Solo che qui la prima pro­va si chiama Gesù ed è quel Figlio di Dio, concepito da Maria per intervento dello Spirito Santo, che Giuseppe accetta come suo all'inizio soltanto per amore della sua promessa sposa, credendo­lo il frutto di una violenza su­bita dalla donna. Solo alla fi­ne capirà che si tratta del Cri­sto. «E’ la storia di una pater­nità che cresce» sostiene lo sceneggiatore Massimo De Rita che, come esempio, ri­ferisce la scena in cui Giuseppe sta per schiaffeggiare suo figlio (un ragazzino un po' capriccioso come tanti, pur se con la sensazione di essere qualcosa in più degli altri), ma si ferma chieden­dosi: «Sto dando uno schiaffo a mio figlio o al fi­glio di Dio?».

Gli estremi per confondere un po' il pubbli­co ci sono tutti, tanto che an­che il piccolo attore Brando Pacitto ammette candida­mente: «La storia era molto diversa da quella che avevo studiato preparandomi per la Prima Comunione». Ma De Rita non è d'accordo: «Quello che c'è nei Vangeli canonici noi lo raccontiamo. Solo che ci sembrava troppo poco. Con quel materiale a­vremmo fatto, sì e no, un film di quindici minuti. Così sia­mo andati a cercare altrove qualche notizia in più: per­ché Maria era promessa ad un uomo della casa di Davi­de? Cosa succede a casa di Giuseppe, dove viveva­no i tre figli che l'uomo aveva avuto dalla prima moglie mor­ta di parto, quando arri­va Maria? Tutto questo è raccontato negli apocrifi e in altri testi che abbiamo consultato. Certo, è una fic­tion e qualcosa abbiamo in­ventato».

Ad esempio la ri­valità per amore di Maria tra Giuseppe, falegname dal ca­rattere scorbutico e difficile, e suo figlio Giacomo. Tutto questo, però, non impedisce a De Rita di sperare che «ve­dendo questa fiction e ca­pendo l’umanità di Dio, al­meno uno spettatore si con­verta. Comunichiamo un messaggio di speranza: per­sino la sacra famiglia ha do­vuto superare delle prove ma, grazie all'amore, ce l'ha fatta».

Tiziana Lupi

 

SETTE KM DA GERUSALEMME

Sette Km da Gerusalemme 
dal romanzo omonimo di Pino Farinotti
di Lorenzo Fazzini. da Avvenire marzo 2007

A mostrare in maniera sintetica il volto ‘moderno’ del prossimo FESTIVAL DELLA BIBBIA DI VICENZA (30 maggio - 2 giugno 07) è stata la proiezione del lungometraggio 7 km da Ge­rusalemme, tratto dall' omonimo romanzo di Pino Farinotti.

Il film, con la regia di Claudio Malaponti, sarà nelle sale il prossimo 4 maggio. Sembra infatti risolto il caso Coca Cola: la multi­nazionale di Atlanta, infatti, aveva bloccato l'uscita del film - prevista per il 6 aprile - poi­ché vi compariva (senza permesso) un mo­derno Gesù che beveva da una lattina della ben nota bevanda.

 

Rimbalzata sui media, la notizia ha poi fini­to col dare ulteriore notorietà al lavoro di Malaponti: e come poteva essere altrimen­ti per un film in cui il protagonista è niente meno che un pubblicitario? Tale Alessandro Forte, manager di mezza età (interpretato da un intenso e convincente Luca Ward) in crisi coniugale che, per i misteri del destino, si trova a camminare nei dintorni di Geru­salemme e qui viene raggiunto da un novel­lo Gesù Cristo. Da tale incontro si dipana u­na vicenda a doppio binario, tra una narra­zione attuale (quasi metafisica) proprio in una Terra Santa bruciata dal sole e spazzata dal vento (sapiente l'uso di tali simboli bi­blici), dove il protagonista viaggia, parla e anche litiga con Cristo, impersonato da un Alessandro Etrusco forse un po' troppo ete­reo. I flash back della narrazione portano in- vece indietro lo spettatore nell'intricata Mi­lano dei nostri giorni, dove abita il protago­nista.

“Credo sia una rappresentazione adeguata di Gesù, nella sua identità di figlio di Dio e di persona, come una presenza reale e non virtuale - ha commentato il vescovo di Vi­cenza, monsignor Cesare Nosiglia -. Il mes­saggio finale, inoltre, mi pare molto bello: u­na volta incontrato Cristo, il protagonista porta una risposta di speranza concreta anche alle persone amiche”.

 

STREGATI' DA GESÙ

“Famiglia cristiana” 5/2004

150 film su Cristo: storia di un amore che non si spegne. 

“Stregati” da Gesù. Il primo è del 1897, l’ultimo quello di Mel Gibson. In mezzo tanti capolavori, come quello di Pasolini, che torna nelle sale restaurato

In cinque settimane di programmazione negli Stati Uniti, La Passione di Cristo ha incassato 316 milioni di dollari. E ciò malgrado la “R” che lo vieta ai minori non accompagnati. Il film di Mel Gibson si avvia ad essere il maggior successo cinematografico di sempre, nel filone religioso. 
Ora, esce anche in Italia. Senza restrizioni. Ma non è un film adatto ai bambini o a chi sia impressionabile. Al di là delle polemiche (eccessive) e delle prese di posizione (strumentali), sta però al pubblico giudicare. Intanto, in America tornano d’attualità le pellicole di fede. Fenomeno genuino? Moda? Entrambi, forse. Certo, lo stretto rapporto tra lo schermo e Gesù ha origini remote. Risale alla creazione…Del cinema, ovviamente. 
Se il teatro nasce religioso, il cinema in realtà nasce laico e profano. Presto, però, si accosta alla storia sacra. Le chiese sono infatti i primi luoghi che offrono ospitalità al congegno di "scrittura in movimento" ideato dai fratelli Lumière. L'immaginario popolare trova in quegli spezzoni di pellicola la rappresentazione scenica di temi familiari. Sono 150 i film su Gesù realizzati in oltre un secolo di cinema. Un'attenzione mai venuta meno. 
Le "vedute" dei fratelli Lumière
È il 1897 quando il fotografo parigino Léar dirige il primo film su Gesù: La passion du Christ. Si tratta di alcuni tableaux vivants allestiti in occasione della Pasqua. Sono passati meno di due anni dalla presentazione in pubblico della fortunata invenzione. Gli stessi Lumière si rendono conto della presa del tema: ecco, dopo poche settimane, Vues représentant la vie et la passion de Jesus-Christ("Vedute che rappresentano la vita e la passione di Gesù") di Hatot e Breteau, ribattezzato Passion Lumière. 
Trascorre solo un anno e altri quattro film sulla passione arrivano sugli schermi. Fra questi c'è anche Le Christ marchant sur les eaux ("Il Cristo che cammina sulle acque") prodotto da Georges Méliès, antagonista dei Lumière, gran sostenitore della fiction contro la preferenza che i fratelli di Lione accordavano al documentario. Seguono una quindicina di titoli, ma bisogna aspettare altri 10 anni perché il filone cristologico segni una svolta. È il 1916 e la guerra imprime una decisa caratterizzazione al tema: Giulio Antamoro dirige Christus e, negli Usa, David W. Griffith firma Intolerance: siamo in piena prima guerra mondiale e l'impressione è che la passione di Cristo, come diceva Pascal, si rinnovi ogni volta che l'uomo subisce violenza. 
Il successo dei due film e l'ondata di commozione che li accompagna spingono l'industria cinematografica a sfruttare l'occasione. Hollywood si butta a capofitto sull'argomento: nel 1923 Robert Wiene dirige Inri, nel 1925 Fred Niblo lo segue con Ben-Hur e nel 1927 Cecil B. De Mille sforna il Re dei re. Con De Mille il cinema americano dà il via a un vero e proprio genere che ruota intorno a personaggi minori, la cui vita cambierà in seguito all'incontro col Salvatore (Il segno della croce, La tunica, Barabba). Ma è una variazione sul tema, perché il filone imperniato sulla passione e sulla risurrezione continua, al di qua e al di là dell'Atlantico, prima e dopo la seconda guerra mondiale, con Golgota (1935) di Julien Duvivier, Il figlio dell’uomo (1954) di Vittorio Sabe1, Il Re dei re (1961) di Nicholas Ray e La più grande storia mai raccontata (1965) di George Stevens. 
In una tendenza piuttosto omologata, un radicale cambiamento si registra con Il Vangelo secondo Matteo (1964): Pasolini ribalta canoni formali e stilistici usando un linguaggio realistico in cui si fondono atmosfere arcaiche e riferimenti pittorici rinascimentali. Il tutto accompagnato da una colonna musicale a base di spiritual e blues. 
Il capolavoro restaurato
Subito criticato, il film guadagna credito col tempo. Un capolavoro, che oggi è possibile rivedere in molte città italiane grazie al restauro del Centro sperimentale di cinematografia col sostegno di Mediaset; e che apre le porte a film come Godspell (1973) di David Greene e Jesus Christ Superstar (1973) di Norman Jewison, che segnano il felice incontro fra i musical e Hollywood. 
Innovazione e tradizione si confrontano in Il Messia (1975) e Gesù di Nazareth (1977). Nel primo Roberto Rossellini impiega le forme del neorealismo; nel secondo Franco Zeffirelli riveste l'iconografia popolare di tocchi smaglianti. Altro mutamento con I giardini dell’Eden (1998) di Alessandro D'Alatri, viaggio nella fantasia per raccontare gli anni che precedono l'ingresso di Gesù nella vita pubblica. E adesso la bomba Mel Gibson. 
ENZO NATTA

Francesco Cabras, che ha interpretato il ladrone cattivo

Spiazzante. Capelli fluenti, sguardo profondo, baffi e "mosca" a scolpire il mento volitivo. Entra nella saletta di montaggio e sembra proprio che Gesma, il ladrone cattivo che viene giustiziato accanto a Gesù, sia sceso dalla croce per fare quattro chiacchiere. Francesco Cabras, 37 anni, romano, attore ma non solo, aria vagamente "beat", è un testimone privilegiato della lavorazione di La Passione di Cristo. È stato gomito a gomito con Mel Gibson, sia tra i Sassi di Matera sia per le riprese a Cinecittà. 
«Al primo impatto, il mio aspetto mi ha aiutato», racconta Cabras a proposito del provino valsogli la parte. «Di Mel Gibson mi hanno colpito subito la profonda umanità e la competenza: anche se è un'icona hollywoodiana, non lo fa vedere. Ma è consapevole del suo status e sa benissimo cosa vuole fare e come». - Ci sarà stata la fila per conquistare un posto nel cast del film... 
«La mia vera fortuna è che ho viaggiato e lavorato nei Paesi arabi. Così, quando Mel mi ha chiesto di recitare un brano in aramaico, le cui intonazioni sono assai simili all'arabo, gli sono piaciuto». - Cabras, si aspettava tutte le polemiche attorno al film? E cosa pensa delle accuse di antisemitismo sollevate? 
«Premetto che non sono sufficientemente preparato per trinciare giudizi. Né vorrei essere tacciato di piaggeria. Però mio nonno era uno che aveva vissuto sulla sua pelle la persecuzione nazista contro gli ebrei, quindi non sono insensibile al tema... Un'accusa di razzismo è una cosa enorme. Ebbene, mi pare che la critica al lavoro di Mel Gibson sia infondata. Se il suo film è antisemita, allora lo sono tutti quelli fatti finora sul sacrificio di Cristo: da Jesus Christ Superstar fino al Gesù di Zeffirelli. Perché c'è concordanza sulla raffigurazione dei sacerdoti del Sinedrio. Storicamente, poi, anche un bambino capirebbe che rappresentavano solo una cerchia di potere: loro vollero il martirio di Gesù, non certo tutto il popolo ebraico!». 
- Lei che gli ha vissuto accanto come giudica Mel Gibson? È uomo sincero? 
«Al di là di qualsiasi polemica, non ho dubbi sulla sua buona fede. Era bello vederlo sul set: dava tutto! La sua spinta interiore era autentica e così forte da contagiare tutti quelli impegnati nel film. Ma quale regista avrebbe avuto il coraggio di fare ciò che lui ha fatto: girare a Matera, investire 25 milioni di dollari suoi, utilizzare attori pressoché sconosciuti alla platea mondiale, farli recitare in aramaico e latino, lingue morte». - Allora, perché tante polemiche? 
«Il tema è di forte impatto. E troppi sono gli interessi coinvolti. Gibson è persona estremamente complessa, capace di discettare per ore in latino e greco antico. Ha vissuto, patito e ragionato... Nella Passione di Cristo ha trovato la giustificazione della sofferenza umana. Ed è solo questo che ha voluto raccontare». - Eccessivo tutto questo polverone? 
«Decisamente. Sul piano artistico, il titolo dice chiaramente che lui ha scelto di raccontare le ultime ore della vita di Cristo. Punto e basta. Manca la Pasqua? Mica è una lezione di catechismo...». 
- È vero che il protagonista, Jim Caviezel, è così credente da essersi molto immedesimato nel ruolo di Gesù? 
«Da fervente cattolico, il suo non era un impegno facile. Sul set ha vissuto una vera tempesta psico-emotiva! Ma l'emozione ci ha coinvolto tutti... Complici, forse, le suggestioni di Matera».
Impressione diretta e non superficiale, quella di Cabras. Oltre a recitare, ha lavorato sul set (con Alberto Molinari e Francesco Struffi, suoi soci nella società di produzione Ganga che ha girato i videoclip di Sergio Cammariere, Max Gazzè e Capa Reza oltre a Italian Soldiers, filmato sulla lavorazione di Il mandolino del capitano Corelli) per realizzare il documentario The big question. 
Non si tratta di un semplice back-stage del film, bensì di una vera e propria indagine del personale rapporto con Dio di tutti coloro che erano coinvolti nel film. Oltre un'ora di testimonianze, confessioni, emozioni che è talmente piaciuta a Mel Gibson, produttore anche di questo “si gira”, che ha vietato a Cabras di parlarne, riservandosi la decisione se inserire il filmato nel Dvd o destinarlo a qualche rete televisiva. 
- Tra le critiche, c è quella di un uso eccessivo e compiaciuto del sangue. Nella scena, per esempio, in cui il corvo cava un occhio al ladrone Gesma... 
«Qui torniamo sul piano artistico. E stiamo parlando di un cineasta che ha vinto un Oscar per la regia... Si tratta di invenzioni drammaturgiche: Gibson ama certe sottolineature. Ma è sua pure la scena in cui Maria e Maddalena asciugano il sangue di Gesù sul selciato».
- Cosa le resta di questa esperienza? 
«L'emozione. Come attore, ho fatto per la prima volta uno scatto in avanti». - E come cineasta? 
«Sfrutterò ciò che ho imparato girando il mio primo film, da I fannulloni di Marco Lodoli, con Jean Rochefort».
MAURIZIO TURRIONI

IL RIFIUTO DI DON BASILIO

Era un giorno di fine ottobre quando Mel Gibson lo andò a trovare. Si arrovellava su una domanda: quale differenza c'è tra Il Messale romano tridentino di san Pio V e quello promulgato da papa Paolo VI dopo il Concilio Vaticano II? La sera precedente qualcuno aveva parlato a Mel Gibson di questo prete bergamasco, parroco di Sant'Agnese a Matera da 25 anni, che aveva studiato cinema e teologia a Roma negli anni '60. Adesso don Basilio Gavazzeni ricorda quell'incontro e la nascita di un rapporto con il regista fatto di dotte discussioni di teologia e di patristica, di storia dell'arte e di storia della Chiesa: «Un personaggio stimabile per vitalità intellettuale, professionalità e devozione. Non condivido nulla della sua visione teologica della Chiesa di oggi. Ma il suo film farà comunque pensare».
Quel giorno di ottobre Mel Gibson in casa di don Basilio è attirato da un volume in pelle bordeaux con incisioni e labbro d'oro. È il Messale di san Pio V. «Lo tenevo su una mensola della libreria-, spiega don Basilio. «lui lo prende, lo sfoglia e va al punto: la preghiera eucaristica, la benedizione del calice. Noi adesso diciamo: “Versato per voi e per tutti". Il Messale tridentino dice: “Pro vobis et pro multis effundetur”, cioè "versato per voi e per molti". Gibson contesta la traduzione del Vaticano II, dice che non tiene conto della predestinazione della salvezza riservata ai cristiani.
Don Basilio gli fa notare che una concezione esclusivamente letterale dell'espressione pro multis finirebbe per non riconoscere l'essenza universalistica della redenzione, che è contraria al concetto cattolico di salvezza. 
Comincia così una discussione che va avanti per mesi: «Mel Gibson è un uomo di grande cultura. Abbiamo parlato di sant'Atanasio e di sant'Agostino. Citava documenti con tutti gli incipit in latino esatti. Parlava di Ratzinger e dell'enciclica Dominus Jesus dimostrando una grandissima padronanza di linguaggio teologico ed ecclesiastico. Ma non si staccava dall'idea tridentina di salvezza. Per lui la Chiesa si è fermata prima del Vaticano II. E qualche discussione l'abbiamo avuta anche su papa Wojtyla, troppo aperto, secondo lui troppo esposto sull'ecumenismo, fino a tradire la Chiesa.
Mel Gibson ha chiesto a don Basilio se era disposto a celebrare la messa quotidiana per la troupe. Ma il sacerdote non ha accettato: «Gli ho parlato a lungo e ho avuto l'impressione che tra noi non ci fosse piena comunione. È andato un altro prete, più libero, poiché all'oscuro della concezione teologica ed ecclesiale di Mel Gibson. 

«VEDRETE, COMUNQUE CI FARÀ BENE

_ In padre Thomas Williams - quarantunenne legionario di Cristo e decano di teologia nel Pontificio ateneo Regina apostolorum - le polemiche di queste settimane non suscitano alcun ripensamento sulla consulenza teologica fornita a Gibson durante le riprese a Cinecittà: «Sul set sono andato per caso, accompagnando il parroco dell'attore Jim Caviezel, e soltanto in seguito ho approfondito l'amicizia con il regista, il quale mi ha chiesto di leggere il copione e di esprimere suggerimenti. Ma sin dall'inizio ho avuto la convinzione che questo film avrebbe portato molto bene spirituale nel mondo d'oggi, perché riporta all'essenzialità della figura di Gesù e della sua missione».
- I pareri delle autorità ecclesiastiche sono però stati molto discordanti: dall'apprezzamento dell'arcivescovo John Foley, presidente del Pontificio consiglio per le comunicazioni sociali, alle forti critiche della Commissione episcopale francese per i mass media, tanto per fare due esempi. Lei cosa ne pensa? 
«Io sono innanzitutto contento perché c'è così tanto dibattito e riflessione sulla figura di Cristo e sulla sua Passione, con un forte coinvolgimento non soltanto degli esperti ma anche della gente comune. Secondo me, le divergenze non sono tanto sul versante teologico, quanto su quello pastorale, per cui i vescovi che si esprimono negativamente lo fanno più in relazione agli effetti che essi immaginano sui loro fedeli che a riguardo dei contenuti del film».
- Però qualche episodio contraddice il testo evangelico, come lo squarcio che alla morte di Cristo coinvolge non soltanto il velo del Tempio ma l'intera struttura. 
«Le scelte di questo tipo, su cui non sono stato coinvolto, le ha fatte autonomamente Gibson per concretizzare il suo desiderio di lanciare un messaggio globale, in fedeltà al Vangelo ma anche con libertà d'artista (come d'altronde fu per Zeffirelli). Si tratta di interpretazioni che aggiungono elementi alia narrazione evangelica, ma non credo che teologicamente esse modifichino radicalmente la simbologia del Vangelo, in quanto vengono collegate due vicende presenti nel testo: il terremoto e lo squarcio del velo».
- Ma per il cristianesimo la Passione è strettamente associata alla Risurrezione, solo accennata nel film di Gibson. Non le sembra una grave mancanza? 
«Credo che alla radice d sia il fatto che il film è essenzialmente la comunicazione di un'esperienza personale vissuta dal regista, il quale si è convertito proprio attraverso la meditazione sulla Passione di Gesù. Il resto, in questo momento, non poteva avere adeguato respiro».
- E quindi si può già ipotizzare un The Passion 2 - La Risurrezione? 
«Credo di no, secondo quello che lui stesso mi ha detto, perché l'eventuale opera futura non avrebbe la medesima forza di esperienza di questa. Più facilmente, Gibson dedicherà un prossimo film di argomento biblico a una figura di martire o di apostolo». 

SAVERIO GAETA

TANTI (E BRAVI) GLI ITALIANI DI MEL

Dietro lo straordinario fascino visivo di La Passione di Cristo e il suo successo al botteghino non c'è soltanto il marchio di Mel Gibson, ma anche la sopraffina professionalità di tanti italiani. A cominciare dal produttore esecutivo Enzo Sisti, che ha tenuto le fila di tutta la lavorazione, dallo scenografo Francesco Frigeri e dal costumista Maurizio Millenotti (entrambi già premiati con l'Oscar). Italiana anche la maggior parte dei tecnici impegnati sul set, come l'arredatore Carlo Gervasi e il supervisore degli effetti speciali Renato Agostini. 
Determinante, poi, l'apporto dei nostri attori. Se Infatti Jim Caviezel (Cristo) è americano, l'ebrea Maia Morgenstern (Maria) è romena, Hristo Naumov Shopov (Pilato) e Hristo Jivkov (Giovanni) sono bulgari, tutti gli altri interpreti sono italiani. Particolarmente apprezzate dalla critica Usa le donne: Monica Bellucci (Maddalena), Claudia Gerini (Claudia Procula, moglie di Pilato), Sabrina Impacciatore (Serafia) e Rosalinda Celentano (inquietante e onnipresente Satana). 
Si deve poi alla loro formazione teatrale la presenza scenica di Mattia Sbragia (Caifa), Toni Bertorelli (il sacerdote Anna), Luca Lionello (Giuda), Francesco De Vito (Pietro), Fabio Sartor (il centurione Abenader), Luca De Dominicis (Erode). Italiani anche i coprotagonisti della sequenza della crocifissione: ai lati di Gesù agonizzante (un Jim Caviezel fisicamente provato, rimpiazzato a volte dallo stuntman Brandon Reininger, a volte da un manichino animato, in particolare per la scena della lancia che trafigge il costato), ci sono intatti Sergio Rubini (Disma) e Francesco Cabras (Gesma). 
Film antisemita? «La violenza dei soldati romani mi ha fatto venire in mente i carnefici nazisti durante la Shoah, i pogrom in Russia, i roghi del Medioevo», dice Olek Mincer, attore polacco che interpreta Nicodemo. «Da ebreo a ebreo, mi ha fatto pensare a Gesù come a un fratello che soffre».

MA.T.

SUSANNA TAMARO: NEL MIO FILM C'È L'AMORE DI CRISTO

Corriere della Sera Domenica 24 Ottobre 2004 Antonio Sassone 

INTERVISTA Susanna Tamaro parla del film che ha tratto dal suo libro “Rispondimi” e che ha sceneggiato insieme a Roberta Mazzoni. Una drammatica vicenda sull’anima persa dell’Occidente che sta collassando, ma anche una storia aperta alla speranza. 

“Il mio è l’amore di Cristo” 

Come Pier Paolo Pasolini, Alberto Bevilacqua e, giù giù, fino a Mario Soldati, Susanna Tamaro, la scrittrice del best seller “Va dove ti porta il cuore”, è passata dalla penna alla cinepresa. Aveva affidato a Cristina Comencini la trasposizione per lo schermo di quel celebre romanzo del 1994. Ora si è decisa a tirare fuori dal cassetto il suo diploma in regia presso il Centro sperimentale di cinematografia, ricordandosi del tirocinio con Salvatore Samperi e del mestiere acquisito nella realizzazione di numerosi documentari per la Rai. E ha firmato la sua opera prima, “Nel mio amore”. 

E’ ricorsa al racconto “L’inferno non esiste”, contenuto in “Rispondimi”, e lo ha sceneggiato insieme a Roberta Mazzoni, come lei “in ritiro” da ben cinque anni nei casali di Orvieto. Il film, prodotto da Fulvio Lucidano per Iif (3 milioni e 200 mila euro di costo), ancora prima di andare nelle sale con 100 copie ha riscosso un immediato interesse. L’eco è giunto in Vaticano. Il Papa vorrebbe vederlo. Sicuramente lo vedranno i suoi vicini collaboratori, con in testa il cardinale Poupard, presidente del Pontificio consiglio per la cultura. 

Come per i suoi libri, e in generale attorno alla sua personalità di scrittrice lontana da ogni manifestazione mondana, avara nel concedere interviste o ammettere fotografi nel suo ritiro, il dibattito su Susanna Tamaro si è subito acceso. Alcuni vedono “Nel mio amore” come una risposta a Mel Gibson e al suo “La passione di Cristo”. Per altri, il film d’esordio della scrittrice è un melò sulla famiglia attuale, con le incomprensioni tra padri e figli, mariti autoritari e mogli remissive, giovani incompresi alla ricerca di valori, al di là degli agi. Una rappresentazione del male che c’è nel mondo, ma non senza speranza e non senza possibilità di redenzione. Ed è così che ha voluto vederlo la regista, come lei stessa ci ha spiegato.

La trama: Silvia (piena di sfumature l’interpretazioni di Licia Maglietta) torna nella casa del lago, sola dopo la morte del marito Fausto (un rude Urbano Barberini), da lei amato ma verso cui aveva accumulato un crescente odio per aver investito e ucciso, seppure involontariamente, il figlio Michele (Damiano Russo), che considerava non suo, mentre riservava il suo affetto alla figlia Laura (Alessia Fugardi), la quale ha interrotto a sua volta i rapporti con la madre. In montagna Silvia incontra un personaggio misterioso e solitario, insolitamente sereno e tranquillo, che si divide tra la pittura di madonne bizantine e la confezione di prodotti rurali. In realtà, come si scopre alla fine, egli è un sacerdote monaco agostiniano (il bravo Vincent Riotta) che ha avviato Michele sulla via della spiritualità e alla ricerca dei valori. E che porterà anche Silvia, senza forzature, alla pace con se stessa e con la propria figlia. 

“Nel mio amore” ricorre al flash-black, descrive i bellissimi paesaggi della Slovenia (la Tamaro è nata a Trieste 47 anni fa), ricrea atmosfere suggestive anche con le musiche. Forse era necessario caratterizzare di più le scansioni temporali, nonostante la vicenda si svolga negli ultimi quindici anni. 

Susanna Tamaro, che film ha voluto fare? 
Un film sull’anima persa dell’Occidente, che sta collassando, è vecchio, vicino allo zero. Il mondo si sta distruggendo nell’odio, nell’intolleranza e nel fanatismo. Si pensa di annichilire chi non la pensa allo stesso modo. Per questo parlo della speranza, della possibilità di ognuno di ricominciare una vita nuova, diversa. L’unica rivoluzione è quella del cuore. Silvia, che per paura, vigliaccheria e tornaconto ha abdicato ai sentimenti, attua questa rivoluzione. Consapevole della sua complicità al male, si ricostruisce con il dolore la vita nel segno dell’amore. 

Ma tutti parlano d’amore. Decine di film recenti hanno nel titolo questa parola…
Sì, ma l’amore non è un friccicchio ormonale. E’ la cosa più estrema che esiste al mondo, una provocazione. Per me e per il mio film è l’amore di Cristo…

E’ per questo che è stato contrapposto al Mel Gibson de “La Passione”?
Lì c’è il dolore, qui c’è l’amore. Ripeto, l’amore di Cristo. Perché non basta commuoversi. C’è un’anoressia di sentimenti, quelli veri, da non confondersi con sentimentalismo. Né la salvezza della società può venire solo da un cambiamento di prospettiva o da un film. 

Che cosa ha determinato il suo passaggio alla regia?
Per scrivere occorrono lunghi tempi di riflessione, altrimenti ci si ripete. Sarebbe come fare i compiti. Comunque penso di tornare a scrivere fra qualche anno. Quanto al cinema, per ora non ho programmi. 

Ha avuto dubbi nell’affrontare l’esperienza di regista?
Tanti. Anzi, no: uno solo. Il lavoro sul set, che ha tempi veloci e orari defatiganti, mentre per la scrittura è diverso. Ma pur essendo paurosa, io sono coraggiosa. Infatti sono partita per la Slovenia con pacchi di integratori alimentari e siringhe. Mi hanno pure fermato alla frontiera e hanno esaminato le confezioni, chiedendo ragguagli alle loro autorità sanitarie…

Le critiche per non essere andata a Venezia? ?
Non amiamo la mondanità.

 

THE LOST TOMB OF JE­SUS. QUANTE BUFALE!

Dna e tombe, quante bufale sulla figura di Cristo!

di Mario Iannaccone. Avvenire 16 marzo 2007

Dovremo abituarci. Da u­na decina d'anni in pros­simità della Pasqua vie­ne presentata al pubblico una qualche scoperta in grado di «cambiare la storia» e «scuote­re il cristianesimo dalle fonda­menta». Quest'anno tocca al do­cumentario The Lost tomb of Je­sus diretto dall'archeologo di­lettante Simcha Jacobovici e prodotto per History Channel da James Cameron, regista del film «Titanic», interessato ai recuperi archeologici dai tempi della lavorazione di quel kolos­sal.

Il documentario racconta del ritrovamento di una sepol­tura collettiva a Talpiot, sob­borgo di Gerusalemme, avve­nuta nel 1980 dove furono rin­venuti una decina di ossari re­canti incisi sei nomi. Nomi che erano comunissimi nella Pale­stina del tempo, come spiega­no gli archeologi. Due delle i­scrizioni riporterebbero i nomi di «Gesù, figlio di Giuseppe» (Ye­shua bar Yosef) e «Maria, la maestra» (Mariamene e Mara) che sarebbero, secondo Jaco­bovici, Gesù e (come non in­dovinare?) Ma­ria Maddalena.

Non manca nemmeno il fi­glio dei due: «Giuda» (Yehu­da). Curiosa­mente, la sco­perta conferme­rebbe certi re­centi trionfi edi­toriali. Secondo Jacobovici sa­rebbe possibile provare con esa­mi di dna che «Yeshua» e «Ma­riamene» furo­no genitori di Yehuda. La noti­zia, dunque, non sta nella scoperta della tomba, già nota, come si è visto, ma nell’interpretazione dei re­perti.

Ma le reazioni della comunità scientifica non state tanto viva­ci quanto i produttori sperava­no. Quando ci sono state, han­no variato dall'infastidito allo scettico.

Amos Kloner il primo archeologo che ha esaminato il sito della sepoltura ha già defi­nito l'operazione «scandalisti­ca» e «priva di fondamento scientifico».

L’archeologo padre Michele Piccirillo l'ha giudicata «un esempio di mala-archeolo­gia».

Il professor Jodi Magness, che ha partecipato a 20 scavi ar­cheologici in zona, la liquida co­me una sciocchezza e osserva che «normalmente gli archeo­logi usano per simili annunci i canali scientifici», comunican­do la loro scoperta «ad un con­vegno» oppure con un articolo indirizzato ad una rivista di stu­di biblici. Questo sarebbe il mo­do normale di procedere, ma per gli annunci sulle origini del cristianesimo, soprattutto se «sconvolgenti», si preferisce il documentario rutilante, ricco di effetti speciali, piuttosto della redazione paziente di un paper da sottoporre all' attenzione dei colleghi. Il che non deve stupi­re, perché operazioni come questa non mirano a convince­re gli esperti, ma a suggestiona­re il pubblico.

Il lungo docu­mentario di Jacobovici è co­struito sul consueto modello re­torico dello svelamento del complotto, e rispetta il linguag­gio visivo ormai collaudato per questo genere di produzioni: presentazione della fede cri­stiana come viziata da supersti­zione e ignoranza; irruzione del­le ipotesi alternative; distinzio­ne fra il Gesù della ‘fede’ e quel­lo della ‘storia’; uso di ogni fon­te alternativa tranne quelle del­la tradizione cristiana. Il lin­guaggio visivo usato è istrutti­vo: illuminazioni drammatiche, controluce, abbondanza di do­mande retori­che nel com­mento parlato, ricostruzioni da docu-film, mu­sica, tutto con­corre a caricare di positività l'i­potesi alternati­va a scapito di quella tradizio­nale. Ma al di là delle luci ra­denti e delle ge­latine color am­bra di cui si fa ampio uso nel documentario, le tesi presenta­te sono così fra­gili, che si sten­ta a credere che siano state suf­ficienti a imbastire una simile produzione.

Esse poggiano su due punti: l'uomo e la donna se­polti nella tomba di Taleiot non erano consanguinei e ciò dimo­strerebbe che erano marito e moglie. Jacobovici sostiene che, secondo un calcolo statistico, non erano molte le famiglie di Gerusalemme a possedere la combinazione di nomi presen­ti nella sepoltura, una combi­nazione simile a quella delle persone vicine a Gesù Cristo. Ecco su cosa si fonda il docu­mentario che è stato presenta­to a NewYork nei giorni scorsi, alla presenza di centinaia di giornalisti. Jacobovici sembra a­ver investito molto sul suo per­sonaggio d'archeologo avven­turoso, ginnico, abbigliato co­me Indiana Jones. Sentiremo ancora parlare di lui. Un timo­re, questo sì, assai fondato.

La coltre fitta del dogmatismo laicista

di Pier Giorgio Liverani. Avvenire 22 aprile 2007

Nel significato politico di ‘laici’, si dovrebbe comprendere il fondamentalismo. Non per rimandare al mittente il solito gratuito insulto ai cattolici, ma perché l'inclusione, è documentabile. Per esempio, è spesso palese tra le righe di ciò che i ‘laici’ scrivono. Così e per la pregiudiziale asserzione dell’esistenza di un «Gesù storico» totalmente alternativo a quello della fede, cioè dei Vangeli che i ‘laici’ non considerano fonte storica attendibile. È il caso della ‘Inchiesta su Gesù’ di Augias, che si apre con 1'affermazione pregiudiziale della necessità di «sapere chi era» quel «Yehoshua ben Yosef  prima che la liturgia, la dottrina, il mito trasformassero la sua memoria in una fede», vale a dire «prima che scomparisse sotto la coltre fitta della teologia».

A questa scuola, nella sua presentazione su Repubblica del ‘Gesù di Nazaret’ di Benedetto XVI

(sabato 14), Marco Politi dà per scontato che «Gesù mai si sia presentato come Dio». Eppure le fonti, riferiscono chiaramente che Gesù ha parlato di Dio sempre come del "Padre mio che è nei cieli" (il ‘nostro’ lo ha insegnato ai discepoli) e del "Signore del cielo e della terra", ha detto che lui e il Padre sono "una sola cosa", si è qualificato per Figlio di Dio e per questo ha accettato la morte.

 

THE PASSION DI MEL GIBSON SECONDO 'AVVENIRE

Una "Passione" da rimuovere?

di Pier Giorgio Liverani

Perché le critiche più dure alla "Passione di Cristo" di Mel Gibson vengono da chi ne sembrerebbe meno interessato e conosce meno i Vangeli? Il critico Alberto Crespi scrive sull'Unità (sabato 27): «Con scarsa aderenza al Vangelo, gli apostoli estraggono le spade [...] Pietro mozza l'orecchio a un soldato. Gesù raccatta l'orecchio, glielo riappiccica. Un miracolo inedito». Se Crespi andasse a Messa oggi, potrebbe ricredersi. Tre giorni dopo (martedì 30) il direttore dell'Unità, Furio Colombo: «Un "horror" [...] Un film girato con scrupolo pornografico [...] una vera e propria lezione di sadismo. Antisemita più di quel "Süss l'ebreo" voluto da Göbbels». E invoca la censura. Anche Liberazione, preoccupata che il film esca «senza censure né divieti». 
Il già segnalato Corrado Augias su Repubblica scriveva (martedì 16): «Se fossi cattolico non sarei contento di una pellicola che riporta la passione a una concezione precedente al Concilio Vaticano II». A destra Paolo Guzzanti (Il Giornale, mercoledì 31) si dice «imbarazzato dalla coralità della richiesta di messa a morte per crocefissione». Farebbe bene ad andare anche lui a Messa oggi, per ascoltare il grido «Crucifige, crucifige» di «sommi sacerdoti, autorità e popolo» (Lc 22, 18-23). E quanto alla fustigazione romana, che sarebbe eccessiva e mortale perché colpisce «per centinaia di volte», e alle altre torture, descritte «contro la verità», la Sindone (che è la "fotografia" di un crocifisso) documenta ben 121 colpi inferti con il "flagrum", due strisce di cuoio terminanti ciascuna con un piccolo manubrio di piombo capace di strappare la pelle e scoprire le ossa. Perché, dunque tanta acredine contro un film aderente alla narrazione evangelica? Sospetto che una specie di inconfessabile senso di colpa emerga davanti alla ricostruzione credibile dei patimenti patiti da un Giusto (sia esso Gesù o soltanto uno «Joshua», come vorrebbe Guzzanti) per colpa di "quegli" ebrei di 2000 anni fa e, in realtà, di ciascuno di noi. Certe scoperte possono generare fenomeni di rimozione. 

IL WEEK END
Giovedì 1° aprile, Corriere: breve e violenta invettiva di André Glucksmann: «Guardate in faccia l'odio» di chi «tappezza i suoi balconi di belle bandiere arcobaleno». Venerdì 2, prima pagina, Libero: «La Fallaci picchia l'Islam e Prodi - Nuovo libro contro l'invasione strisciante dei "figli di Allah"» (segue l'ammirata sintesi di Renato Farina). Sabato 3, Corriere:sei estratti del libro: «Il pacifismo, il voto agli immigranti, la strage di Nassirya, il Cristianesimo, il Potere che censura». Il libro s'intitola «La forza della ragione». Davvero un bel week end.


QUEL TERRIBILE VELO
La croce, come si è visto, può far paura. Anche il velo islamico e la kippà ebraica. Anche il velo di Fatima Mouayche, la maestra musulmana di Ivrea cacciata dalla scuola per il suo chador, ma accolta in un'altra. E anche qui vanno cercate le ragioni nascoste. Paolo Granzotto, che risponde ai lettori del Giornale, le chiama «stravaganze» (martedì 30) mescolando culture e indecenze (ombelico esposto, «mutanda che spunta»...). Avrà paura anche del velo delle suore?

Le ultime ore di Cristo
Intervista. L'attore Mel Gibson sarà il regista e lo sceneggiatore del film che ricostruirà la passione di Gesù. Ispirato in particolare all'evangelista Matteo e girato in Italia, sarà interpretato da James Caviezel. 

Enzo Natta (da Avvenire del 06. 10. 2002) 

"Un progetto buono per l'anima, non per il portafoglio". Così Mel Gibson, il divo, l'attore protagonista di film come "Braveheart" e "We were soldiers" ha definito "THE PASSION", il film sulle ultime dodici ore di Gesù Cristo ispirato ai quattro evangelisti, ma soprattutto a Matteo. Interpretato da James Caviezel, attore emergente, interprete di film come "La sottile linea rossa " e "Montecristo", "The Passion" sarà totalmente girato in Italia e le riprese inizieranno il 4 novembre sotto la direzione dello stesso Gibson, che oltre ad essere il regista e lo sceneggiatore, è anche il produttore del film. 

"La mia ambizione – ha spiegato l'attore a Roma, presentando il progetto – è che la gente esca dalla visione di questo film sentendosi diversa da come è entrata. Perciò metterò in questo lavoro tutta la mia esperienza personale, ma anche tutta la mia fede religiosa. Cercherò il lato umano di Gesù ma non dimenticherò mai quello divino".

la scelta dell'Italia da parte di Mel Gibson è stata determinata non solo per i suoi talenti artistici (lo scenografo Francesco Frigeri e il costumista Maurizio Millenotti), ma anche per il paesaggio. Gibson girerà gli esterni a Matera, perché a suo giudizio la città vecchia somiglia alla Gerusalemme di quel tempo, e in altre zone di Lucania e Basilicata, molto simili alla Giudea. Gli interni, dal Tempio di Gerusalemme al Pretorio di Pilato, saranno interamente ricostruiti a Cinecittà. 

La sfida di Mel Gibson non si limiterà comunque solo alla realizzazione di un film povero, scarno, realistico nell'aspetto formale, ma andrà oltre in questa ricerca di autenticità, perché i dialoghi, nel tentativo di conferire maggiore veridicità al testo, saranno tutti rigorosamente in aramaico e in latino. "E' difficile fare scelte artistiche fuori dai Vangeli" sostiene Mel Gibson a proposito della chiave interpretativa che intende adottare in questa nuova versione cinematografica del Nuovo Testamento. "Ma non prendetemi per un presuntuoso in una circostanza in cui l'umiltà dovrebbe essere tanta. Proverò ad innestare l'ispirazione artistica nel sostegno della fede. E per essere fedele ai testi evangelici cercherò di essere il più realista possibile".

Nel racconto delle ultime ore di Gesù, contenuto nel tempo che va dall'Orto degli Ulivi alla crocifissione sul Golgota, Gibson e il suo cosceneggiatore Ben Fitzgerald si sono liberamente ispirati ai diari di Anne Catherine Emmerich raccolti nel libro "The Dolorous Passion of our Lord Jesus Christ" e ai quattro volumi "The city of God" di Mary of Agreda. Ma la verifica di fondo sarà sempre quella offerta dai Vangeli di Luca, Giovanni, Marco e Matteo. 

Gibson, perché le ultime dodici ore di Gesù? 
perché sono le ore più difficili. Le più importanti della sua esperienza terrena. Molti prima di me hanno già raccontato questa storia, non a caso definita "la più grande storia mai raccontata", eppure tante volte non ho trovato credibile il modo in cui questa storia straordinaria veniva portata sullo schermo. Era come se l'avessi vista guardandola attraverso un cannocchiale rovesciato. Per questo cercherò di usare pochissime parole e di affidarmi prevalentemente alle immagini, alla loro essenzialità, cercando di risalire alle fondamenta della fede attraverso una realtà scarnificata. E anche la durata del film sarà ridotta all'osso: non più di 85 – 90 minuti"

Fra i quattro evangelisti lei ha posto l'accento soprattutto su Matteo. Perché?
Perché Matteo è quello che più degli altri risponde alle mie esigenze di racconto realistico, asciutto, stringato. 

Lo stesso evangelista al quale si ispirò Pasolini…
E infatti il "Vangelo secondo Matteo" di Pasolini mi è piaciuto tanto, soprattutto per il suo taglio crudo che ne accentuava il rigore. Ma mentre Pasolini ha portato sullo schermo tutto il Vangelo di Matteo, io mi limiterò esclusivamente alla parte finale. Inoltre, Pasolini, dal punto di vista figurativo, si è rifatto alla pittura italiana del Quattrocento. Io invece seguirò un'altra strada: quella del Neorealismo e di Rossellini. 

Lei ha interpretato l' "Amleto" di Zeffirelli e anche Zeffirelli si è cimentato in un film su Gesù. Gli ha chiesto qualche consiglio per il suo nuovo film? E a Martin Scorsese?
no. Su questo argomento non ho chiesto alcun consiglio a Zeffirelli. Quanto a "L'ultima tentazione di Cristo", firmato da Scorsese, mi sono piaciute soltanto le musiche. 

Pensava da molto a questo film?
Si. L'idea mi ronzava in testa da parecchio tempo. Mi sono deciso a realizzarlo perché sono cattolico… E anche un po' matto. 

Soprattutto nel non voler neppure usare i sottotitoli ai dialoghi in latino e in aramaico…
Penso che non ce ne sia bisogno: la forza delle immagini dovrebbe essere di per sé abbastanza eloquente. E per convincermi maggiormente del valore dell'operazione sto facendo tradurre tutta la sceneggiatura nelle due lingue, in latino e in aramaico. A questo compito sta lavorando un mio amico, un padre gesuita di Los Angeles. Si chiama Bill Fulco. 

A interpretare il diavolo nel film, sarà Rosalinda Celentano. Che cosa ha detto il padre, che non nasconde i suoi sentimenti religiosi, quando ha saputo di questa scelta? 
Ha detto: "Speriamo che anche il diavolo si converta".

 

THE PASSION DI MEL GIBSON SECONDO 'IL NOSTRO TEMPO

"Il nostro tempo" 18 Aprile 2004 n.15

«La Passione di Cristo», controversa pellicola di Mel Gibson

Lontano dai Vangeli ma vicino ai mistici

di Orazio Petrosillo
Realista, tanto realista da risultare iperrealista. Brutale, sadico e addirittura osceno. Un'orgia di sangue, di ferite purulente, di orbite disfatte, con impressionanti effetti sonori. Eppure, «avvenne proprio così». Questi giudizi sulla Passione di Cristo» secondo Mel Gibson, spingono ad un confronto con i Vangeli dei cui quattro racconti sulla Passione e morte di Gesù, egli vuol dare una verace e tragica rappresentazione. Anche qualche alta personalità vaticana parte dal giudizio scontato che il film sia «la trascrizione cinematografica dei Vangeli». È davvero così? E chiaro che il film vale per quello che è in se stesso. Se anche fosse difforme dai racconti evangelici, il suo valore artistico e, in questo caso, la speciale intenzione di apostolato-testimonianza del "convertito" Gibson, avrebbero ugualmente il loro valore. Ma poiché la cifra artistica è il realismo in tutta la sua crudezza, è inevitabile un confronto con i Vangeli. I quali non sono articoli di cronaca di duemila anni fa con tutti i particolari sanguinosi e raccapriccianti sull'esecuzione capitale di Gesù di Nazaret. Sono, però, dei racconti, assolutamente storici, riproposti per evangelizzare. Lo strano del film sta in questo: mentre fa professione di assoluta fedeltà storica ai Vangeli per garantire il proprio realismo, se ne discosta platealmente in parecchi particolari e, per supplire alla «discrezione evangelica», ricorre alle visioni della mistica e stigmatizzata tedesca Anna Katharina Emmerick. È singolare la mescolanza di iperrealismo e di visioni mistiche. Con l'aggiunta pure di qualche spunto dai Vangeli apocrifi. 
Il punto di partenza di Mel Gibson è teologico, prima che cinematografico. Si basa sul valore redentivo del sangue di Cristo. «Senza spargimento di sangue non esiste perdono» («Sine effusione sanguinis non fit remissio») è scritto nella lettera agli Ebrei (9,22). Gibson, secondo un modo piuttosto dolorista e quantitativo di intendere questa verità cristologica, ne deduce che l'abbondanza di sangue e di patimenti doveva essere proporzionale alla gigantesca remissione dei peccati di tutti gli uomini, grazie al moltiplicatore sovrumano della natura divina del Redentore. Perciò, il film dimostra che Gesù ha sofferto molto di più di quanto avrebbe potuto sopportare un uomo qualunque. Invece, secondo una più accorta teologia, ciò che redime è la qualità dell'amore sovrumano del Figlio di Dio, con la capacità di perdono dell'iniquità umana assunta su di sé, più della somma matematica dei suoi patimenti.


Le divergenze con i Vangeli
La differenza che colpisce maggiormente riguarda la flagellazione. Nel film se ne vedono due: una fustigazione con trentadue colpi di verghe, seguita da una flagellazione con trentacinque colpi di flagrum, il flagello usato dai romani. Clamorosa è la "licenza" di Gibson che individua nella Maddalena l'adultera perdonata da Cristo; invece, nei Vangeli sono chiaramente due persone distinte. La tunica di Gesù non viene strappata ma tirata a sorte dai soldati sotto la croce. L'iscrizione della croce è in tre lingue (ebraico, greco e latino) e non solo in ebraico e latino. Gesù, secondo i Vangeli, morì lanciando «un alto grido» e non un sospiro. Dopo la sua morte, secondo i Vangeli «il velo del tempio si squarciò» e non crollò il tempio, come invece viene mostrato. Manca, infine, la scena della sepoltura, ottimo pendant prima della risurrezione.

I contrasti con la Sindone, l'archeologia e la storia
La Sindone di Torino è un quinto Vangelo in immagine perfettamente coerente con i quattro Vangeli canonici e con le informazioni storico-archeologiche sulle crocifissioni dei romani. Secondo la Sindone, Cristo subì circa 120 colpi di flagello con sei terminali in pezzi di osso o di ferro ed era nudo. In testa, gli fu messa non una corona, ma un casco di spine che bucò il cuoio capelluto in una cinquantina di punti. Subì un colpo di bastone che gli schiacciò e deviò il naso. Trasportò non l'intera croce ma solo il braccio orizzontale (il patibulum) perché quello verticale (lo stipes) era sempre eretto sui luoghi delle esecuzioni. I chiodi furono infissi nei polsi non nei palmi delle mani. La scena della scomparsa del corpo dall'avvolgimento del lenzuolo nel sepolcro poteva essèr realizzata molto meglio seguendo la Sindone e la testimonianza di Giovanni (20,5-7).

Le più evidenti dipendenze dalle visioni della Emmerick
Dopo i Vangeli, la fonte cui Gibson fa più riferimento sono le visioni di Anna Katharina Emmerick, la mistica tedesca vissuta dal 1774 al 1824 che, negli ultimi dodici anni, portò le stigmate e che la Chiesa proclamerà beata nei prossimi mesi. Tra le citazioni dalle Sue visioni: la presenza quasi costante di Maria nella passione del Figlio (i Vangeli la citano solo ai piedi della croce); Gesù s'imbatte nel falegname che gli prepara la croce; il ruolo di Procula, moglie di Pilato, che dona a Maria e alla Maddalena alcuni lini con i quali asciugano il sangue della flagellazione; Gesù che bacia la croce prima di caricarsela; il nome del centurione buono: Abenadar; il ruolo più importante del Cireneo; il braccio slogato di Cristo per arrivare al foro del chiodo.

Gli eccessi, le iperboli e il compiacimento
L'enfasi con il ricorso al rallenti e il rimbombo sonoro per qualsiasi atto di aggressione al Cristo. Il sadismo dei carnefici molto evidenziato. L'insistenza compiaciuta sulle scene più sanguinose come la flagellazione; il trasporto della croce e la crocifissione, con brandelli di carne che si staccano e schizzi di sangue. Attorno alla colonna della flagellazione rimane una vasta pozza di sangue. Le cadute sotto il peso della croce sono almeno sette (la tradizione ne ricorda tre). Il ribaltamento della croce con Gesù inchiodato per ribattere i chiodi, il corvo che becca l'occhio del ladrone cattivo è un macabro particolare. Il fiotto di sangue e acqua a fontana dal costato. Il buco a vista della mano del Risorto. Le genialità
La rappresentazione del Getsemani con la luna impassibile che esprime il silenzio del Padre. Il dialogo di sguardi che è il contrappunto degli incontri di Gesù con i suoi. Il "confronto" tra le presenze antitetiche del Diavolo e di Maria lungo tutta la Passione. Le splendide inquadrature dei Sassi di Matera. Le scene del Cireneo e della Veronica. Alcuni flashback e il valore dell'Eucaristia con il diretto collegamento sangue del sacramento e sangue del Calvario. La lacrima di Dio che piove dal cielo nel momento in cui Gesù muore.


Film che divide e che obbliga a schierarsi

di Paolo Perrone

Le frustate, ritmate e implacabili, che scorticano la pelle. La corona di spine, stretta e tagliente, che sovrasta gocciolante il capo. Gli strumenti di tortura, minacciosi e aguzzi, che si impigliano nella carne. I chiodi, lunghi e affilati, che straziano i palmi delle mani. E le percosse, le staffilate, gli spintoni, gli sputi, le urla sofferte e le risate sguaiate. Fino al dolore supremo. Fino alla morte in croce. 
È immerso nel sangue, «La Passione di Cristo», il film di Mel Gibson incentrato sulle ultime dodici ore di esistenza terrena di Gesù, che dopo le polemiche roventi e gli incassi milionari negli Stati Uniti è uscito in 700 cinema italiani in piena Settimana santa. È lì, nell'accanimento esasperato sul corpo di Gesù, flagellato e umiliato dalla cieca violenza degli uomini, il punto di convergenza degli sguardi commossi, a caldo, in sala, e delle riflessioni profonde, a freddo, nelle proprie abitazioni. È lì, nella rappresentazione strategica, feroce e sovraccaricata della condanna a morte del Messia, il nervo scoperto di un film che ha ripetuto anche in Italia, in pochi giorni di programmazione; lo stesso cliché: prese di posizione divergenti e diametralmente opposte, causa o effetto (il groviglio è inestricabile) di un successo enorme al box office. 
Diciamolo subito: «La Passione di Cristo» è un film che non può lasciare indifferenti. È un film che divide, che lacera, che ci obbliga, come raramente altrove, a schierarci. Da una parte o dall' altra. A favore o contro. A favore di un racconto teso, commovente e di fortissima presa simbolico-religiosa? Oppure contro un ricatto emotivo che dietro il comodo paravento della fede specula sui sentimenti più fragili? Ognuno di noi, sui titoli di coda, è chiamato in causa.


Partiamo da una constatazione: i! fatto stesso che la pellicola del regista e attore australiano spinga il pubblico ad esprimere un giudizio così personale e perentorio (spesso in bilico tra due poli inconciliabili, l'approvazione euforica e il disgusto stizzito) riafferma il ruolo di "fabbrica dell'immaginario" dello spettacolo cinematografico, capace di scuotere le coscienze e di farsi motore di una vitalissima azione di contrasto nei confronti di certi ingranaggi televisivi destinati a un pubblico onnivoro e appiattiti su palinsesti addomesticati. 
L'aspetto nevralgico de «La Passione di Cristo», e cioè la rappresentazione violenta e scioccante della Via Crucis, risponde, in questo senso, al vibrare di precise corde drammaturgiche. Necessarie, nella loro istanza provocatoria, per esercitare una forte spinta persuasiva. Una discrepanza eversiva, dunque, nei toni e nella misura rispetto alle versioni evangeliche tradizionali, controbilanciata però nel film da una ricostruzione ambientale molto accurata, dall'utilizzo nei dialoghi delle lingue originali, l'aramaico e il latino (tradotti, sullo schermo, dai sottotitoli in italiano, e dall'uso sapiente di pura materia filmica. 
All'inizio de la «Passione di Cristo», infatti, prima ancora delle frustate, della corona di spine e dei chiodi, la sequenza dell'Orto del Getsemani è puntellata da una fotografia evocativa, da un gioco di sguardi eloquente, da una banda sonora sotterranea e avvolgente. Certo, l'uso insistito del flashback e soprattutto del ralenti, nel proseguo del film, enfatizza ogni gesto, esalta ogni ricordo di Gesù durante il Calvario. Però il loro stesso utilizzo si frappone alla realtà, impone una.distanza emotiva con le vicende narrate, colloca le scene più dure e violente, stemperandole, nell'ambito della finzione dichiarata.


La «Passione» di Gibson, da una prospettiva strettamente visiva, appare molto distante sia dalle suggestioni pittorico-contadine de «Il Vangelo secondo Matteo» di Pasolini, sia dalla diligente interpretazione iconografica del Gesù di Nazareth» di Zeffirelli. Ma il suo dirompente carico di sangue e lacrime non nasce da un gusto compiaciuto per il macabro. Il suo dolore e la sua angoscia non sono nuovi, nel cinema contemporaneo. 
Non avevamo abbassato lo sguardo, infatti, qualche anno fa, di fronte alla prima mezz'ora di «Salvate il soldato Ryan» di Spielberg, nonostante gli arti smembrati in primo piano dei soldati americani e i loro corpi squartati dalle pallottole nemiche durante lo sbarco in Normandia. E non ci eravamo vergognati di piangere, sempre qualche anno fa, accompagnando idealmente Sean Penn alle fiale avvelenate che lo avrebbero eliminato, giustiziandolo come assassino, in «Dead Man Walking» di Tim Robbins. Perché mai, allora, dovremmo coprirci gli occhi di fronte alla morte tragica ma piena di speranza di Cristo? Perché dovremmo impedirci di vedere l'uomo che arriva a uccidere Dio, se non ci siamo mai rifiutati, al cinema, di vedere l'uomo nell'atto di uccidere un altro uomo? 
La pellicola di Mel Gibson non termina con la crocifissione. Un'ultima sequenza, breve ma determinante, mostra l'irruzione della Luce all'interno del Sepolcro, con la macchina da presa che si muove alla ricerca di Gesù. Fino a quando, dopo aver smaterializzato il Lenzuolo che ne conteneva il corpo, arriva a inquadrarne il profilo. Integro, luminoso, intenso. La volontà divina si è compiuta:. La violenza dell'uomo e la trama fosca del demonio non hanno avuto il sopravvento, Che scandalizzi, allora, «La Passione di Cristo». Che scandalizzi pure. Proprio come fece, più di duemila anni fa, il Figlio di Dio. 

 


di ANTONIO SASSONE

«La Passione di Cristo», di Mel Gibson, è un film che andava proprio fatto. Che abbia acceso dure polemiche, fin dalle prime proiezioni in America, e ora le abbia fatte scoppiare qui da noi, in Europa e altrove (nei Paesi di religione musulmana non solo è stata autorizzata la proiezione, ma già dai primi giorni ha fatto registrare affluenze record e commenti entusiasti), era scontato. Che sia un film antisemita o un'opera capace di fomentare odio nei riguardi degli Ebrei, invece, è tutto da dimostrare. Allo stesso modo si potrebbe dire che è contro i Romani, nel senso che sono i centurioni e i soldati di Ponzio Pilato a mettere in atto la Crocifissione. Ma quei Romani, intesi come rappresentanti o esecutori dell'Impero dei Cesari, non ci sono più. Così come non ci sono più gli Ebrei di quel tempo, i farisei, i cirenei, i cananei, gli scribi. Come non esiste più l'aramaico, la lingua di Gesù, allora parlata in gran parte dell'Oriente, più del greco, e del latino. E non si parla più, normalmente e correntemente, salvo eccezioni, il latino. 
Le persecuzioni contro il popolo ebraico, nella loro terra d'origine e nel mondo; sono state un'aberrazione della storia. Gli eccidi, le deportazioni, i forni crematori sono stati condannati in chiave storica e politica. La coscienza comune li respinge e ne prova orrore. La Shoah, in quanto rievocazione dei massacri di tanti cittadini delle più diverse nazioni ad opera del nazismo, è considerata un crimine che ha segnato le coscienze di tutti e che richiede la compartecipazione di tutta là comunità.


Molti sono stati, nei tempi più recenti, gli atti significativi che hanno voluto seppellire odi, veri o presunti, tra, cristiani ed ebrei, come le visite dei Papi in Terrasanta e nelle sinagoghe, e gli incontri con governanti ed esponenti della religione ebraica. 
«La Passione dì Cristo», firmata da un regista cresciuto in Australia ma nato a New York, che ha interpretato come attore decine di film importanti (premiati al botteghino) e ha legato il suo nome a «Braveheart», ricompensato da cinque Oscar. Il suo nuovo lavoro è un manifesto contro ogni condanna. capitale determinata da motivi politici o religiosi, è un grido contro la violenza, è la ribellione contro le sofferenze che gli uomini possono infliggere ad altri uomini. Al di là delle interpretazioni che si vorranno dare (e che ognuno, giustamente, darà per proprio conto), si tratta della rievocazione dell'ultime dodici ore dell'esistenza terrena di Gesù, quelle che vanno dall'arresto nell'Orto del Getsemani alla traduzione nei cortili delle tre potenze (i sacerdoti, Erode e Pilato), alla flagellazione, alla condanna, fino alla crocifissione, dopo la straziante Via Crucis.


Di fronte alle scene crude e crudeli negli Usa qualcuno è uscito dalla sala, altri sono svenuti, molti hanno pianto. In realtà i "trucchi" visivi sono molto raffinati, tanto che il protagonista, Jim Caviezel, si è sottoposto fino a sette ore di make-up. Non c'è nessuna agiografia in questo film, nessun quadro idilliaco. C'è un realismo esasperato, la descrizione di una violenza cieca che non dovrebbe mai esercitarsi contro nessun uomo, mentre purtroppo ciò accade ancora oggi, se in qualche parte del mondo persiste la lapidazione, e se in quasi centro Paesi vige tuttora la parte di morte. Questo stesso senso del reale ha spinto Gibson a usare l'aramaico, con la consulenza dello studioso padre William Fulco, e il latino. Sentire pronunciare queste lingue accresce l'atmosfera del film. Gesù risponde a Pilato il latino, e questo fa capire che egli era un uomo colto, non solo nelle Sacre Scritture. 
Raccontare la Passione di Gesù, come spesso ha fatto il cinema (anche da Pier Paolo Pasolini ne «Il Vangelo secondo Matteo», che proprio in concomitanza con l'uscita italiana del film di Gibson è ritornato nelle sale in versione restaurata), era un obiettivo dal regista australiano da dodici anni, da quando ebbe la crisi spirituale che lo portò a riesaminare la sua fede e a meditare sulla sofferenza, il perdono, la redenzione. «La mia speranza», ha detto Gibson, «è che il messaggio di enorme coraggio e massimo sacrificio di Cristo possa ispirare alla tolleranza, all'amore, al perdono, di cui abbiamo sempre più bisogno». E il Gesù del grande schermo, Jim Caviezel, ha aggiunto: «Nessuno ha mai mostrato Cristo in questo modo, prima d'ora. Ma è la verità. Gibson non ha usato la violenza per il gusto di farlo, solo per provocazione o per speculazione. Ciò che si vede, insomma, non è affatto gratuito. Certo, molte persone avranno uno shock, perché il film ha un impatto visivo potente».


Girato interamente in Italia, a Matera e a Cinecittà, «La Passione di Cristo» annovera anche molti attori italiani: Monica Bellucci, Mattia Sbragia, Claudia Gerini, Sergio Rubini, Rosita Celentano (nelle parti del demonio). Italiani tutti i personaggi minori, molti degli aiuti registi, le maestranze. Un film, insomma, che in buona parte ci appartiene.

 

THE PASSION DI MEL GIBSON SECONDO IL 'TELESPETTATORE

"Il Telespettatore" - N. 3 - Marzo 2004

Esce il 7 aprile il controverso film sulla passione di Cristo, che ha suscitato violente polemiche e giudizi contrastanti. Le accuse di antisemitismo. I tanti commenti velenosi

di Bruno Mohorovich

Parlare di un film che ancora non si è visto, ma di cui si è sentito molto parlare e su cui si è versato abbondante inchiostro non è impresa certamente facile. Manca la materia prima: l'immagine con le suggestioni che si porta dietro, con quanto di controverso essa rappresenti, forse l'unica (l'immagine) in grado di definire la diversità (o l'omogeneità) degli uomini ed il loro livello di recettività e comprensione. 
Sta di fatto che l'ultimo film di Mel Gibson sugli ultimi giorni di Gesù (dalla cattura nell'orto degli ulivi alla resurrezione) si sta rivelando - stando sempre alle parole ed alla attendibilità cui loro viene data da nomi e firme spesso di gran valore - un'arma letale puntata sullo spettatore e sulla sua sensibilità, sulla storia attuale, fomentando inesauribili diatribe, e sul cinema stesso se è vero che molte grosse case di distribuzione, la Fox su tutte, si sono rifiutate di comprare il film. 
Se inizialmente il film ha destato una qualche curiosità questa è stata mossa dal recupero delle lingue originali: infatti Gibson ha fatto recitare gli attori in aramaico ed in latino, operazione per nulla disdicevole che ha restituito, dopo tanti Gesù cinematografici (si contano 137 pellicole), un'aura di realismo e giusta collocazione geografica alla vicenda.


Alzi la mano chi almeno una volta da bambino - e non oso andar oltre - non abbia pensato che Gesù fosse Italiano! 
Poi sono iniziate le prime rimostranze di carattere politico; ed oggi è troppo facile cavalcare l'onda della polemica, dell'inestricata ed inestricabile diatriba tra palestinesi ed ebrei che non hanno smesso di "impreziosire" i loro giorni di violenza e lutti. 
E tutto ruota attorno a Gesù ucciso dagli ebrei; si vuol far vedere, secondo le parole di Abraham Foxman, direttore dell'influente organizzazione ebraica Anti - Defamation League, "gli ebrei come deicidi crudeli ed assetati di sangue. Il film è doloroso per gli occhi ed il cuore". Da qui una fitta serie di accuse di antisemitismo, di chiarimenti, soprattutto da parte del regista che allo stesso Foxman scrive pregandolo di "rispettare le nostre differenze, di non aver preso alla leggera le sue preoccupazioni" e lo invita a dare "un esempio a tutti i nostri confratelli: perché il cammino più vero da seguire, l'unico cammino. È quello del rispetto e soprattutto quello dell'amore reciproco, nonostante le nostre differenze". 
Anche una certa stampa cristiana (n.d.a. - Christian Science Monitor), in Usa lo accusa "di ispirarsi alla tradizione tossica, completamente rinnegata dal Concitlio Vaticano II, secondo cui gli ebrei hanno ucciso Gesù e pertanto sono collettivamente colpevoli della sua morte"; ed ancora, secondo il Monitor, "il film è destinato a provocare nuove violenze antisemite, lì dove l'antisemitismo è in crescita e dove la tesi dell'ebreo - ammazza - Cristo serva da sempre a giustificare moralmente e teologicamente la persecuzione degli ebrei".


Per contro c'è chi come l'attrice Maya Morgenstern (la Madonna nel film), rumena ed ebrea che ha perduto i genitori ad Auschwitz, ha detto: "non penso affatto che questo film sia antisemita. E' una novella dolorosa e poetica, d'amore e di coraggio su un innocente condannato". 
Alla lettura religiosa non poteva mancare quella politico - distributiva per cui Gibson è stato accusato dalla Fox Tv "di aver adottato per il suo film una politica di distribuzione selettiva e discriminatoria. Il film non verrà infatti proiettato nelle zone a predominante popolazione ebraica o progressista o in ogni caso di ceto elevato. Anche nella distribuzione del film, Gibson ha consciamente creato un'atmosfera di divisione". 
Una campagna contro, cui non si sono sottratte le principali testate americane, le quali, all'uscita del film in 2800 sale con un tutto esaurito più che prevedibile dopo tanto can can, non hanno lesinato commenti velenosi: 
"Passion è un film di orrore e squartamenti alla Pulp Fiction e Kill Bill di Tarantino" (New York Times), "è il film più violentemente antisemita dai tempi delle pellicole di propaganda nazista" (Daily News), "la sua brutalità è quasi pornografica" (Washington Post; "la tesi degli ebrei deicidi non è menzionata in maniera passeggera da Gibson, ma è alla base stessa di tutto il film (Los Angeles Times). Tanto rumore per nulla? No, certamente. Ma come sollecita Vittorio Messori nel suo articolo apparso sul Corrsera di martedì17 febbraio, (n.d.a. - "Quella passione oltre le parole. Per Gibson come una messa antica", pag. 13), "Antisemitismo o, almeno antigiudaismo? non scherziamo con parole troppo serie. Penso abbiano ragione i non pochi, e autorevoli, ebrei americani che ammoniscono di non condannare prima di vedere. […] Chiarissimo è nel film che ciò che grava su Cristo e lo riduce in quello stato non è la colpa di questo o di quello, bensì tutto il peccato di tutti gli uomini, nessuno escluso."E l'autore del pezzo continua stilando un elenco di quanti siano stati gli ebrei accanto a Gesù: "non è ebreo Pietro? E non è forse ebreo Giovanni che sorregge la Madre? Non è ebrea la pietosa Veronica? Non è ebreo l'impetuoso Simone di Cirene? Non sono ebree le donne di Gerusalemme che gridano la loro disperazione?"


Ma quello che ancora di più ha scosso gli animi e fatto urlare allo scandalo sono state le scene di enorme crudeltà relative alle torture patite dal Cristo, ed in particolare la cruenta scena della flagellazione. Era necessario tanto sangue? Era necessario far vedere il corpo di Gesù dilaniato dalle frustate senza un brandello di pelle addosso? 
Shock fra gli spettatori americani e "shock intellettuale" tra registi, teologi e addetti. Sulla giustificazione delle emofaghe scene si cimenta anche Franco Zeffirelli, indimenticato regista del delicato - almeno per me e credo di parlare anche per chi ha vissuto per anni con una certa immagine del Cristo ed il timor reverenziale che questa emanava - "Gesù di Nazareth" - il quale ricorda come il regista australiano per rilassarsi andava ai suoi allevamenti ad ammazzare tanti tanti vitelli, nei giorni di mattanza. E si dilungava nei particolari, motivando la scelta del tipo di morte" in quanto si capisce meglio quello che gli succede attraverso gli occhi dei vitelli quando li sgozziamo". "E' davvero un mistero quest'uomo geniale (Gibson)", osserva Zeffirelli "che è sinistramente attratto dalla più sfrenata violenza, dagli occhi che segnano il confine tra la vita e la morte". 
Aveva forse il regista bisogno di cogliere il confine tra la vita e la morte anche negli occhi di Gesù?


Bisognerebbe allora andare a vedere i numerosi dipinti che ci parlano della crocifissione e deposizione di Gesù. C'è la semplice ferita sul costato; e se c'è violenza questa è ben evidente nel volto segnato dalla morte e sulla ineluttabilità di quanto è avvenuto. Una cupa rassegnazione permea il volto del figlio di Dio; che in molti ritratti lascia il posto ad una appena percettibile serenità, data dalla certezza della resurrezione la quale contrasta con le lacrime ed il palpabile ed inconsolabile dolore della Madre. Viviamo in tempi di violenza tutto deve essere mostrato; come afferma lo stesso Gibson: "Per me questa violenza è anticristiana. È una forma di catarsi, di esorcismo, che spero riconduca tanti giovani e persone di tutte le età alla Fede". 
Certamente le poche immagini che ci è stato dato di vedere parlano chiaro; anche al cinema mai si era visto un Gesù così martoriato sulla croce, e siamo anche convinti che sicuramente non devono averlo trattato con i guanti bianchi. Già la crocifissione in sé come gesto è violenta: basti pensare ai chiodi che entrano nelle mani...forse poteva bastare. Ci sembra del tutto artificioso ricordare come fa ancora una volta il regista che "c'è chi dice che Gesù abbia ricevuto solo 39 frustate, ma sono state molte di più, i marchi sul sacro lenzuolo mostrano che non c'era più pelle sul corpo di quell'uomo". E se anche fosse? Bene ha fatto quel grande uomo del Monsignor Tonini, quando ha solo osservato che è la Passione, che è la nostra storia, le nostre radici. 
Non voglio cadere nel facile qualunquismo se dico che tutto questo parlare, tutto questo accentrare l'attenzione su una singola scena (perché allora non si parla della resurrezione, come di un momento di grande poesia?) puzzi di promozione "lontano un miglio". E' già accaduto ed accadrà ancora.


Però mi sembra che si stia esagerando. Bisogna far notizia. Il problema palestinese è una pietanza fissa sulle nostre tavole, ne siamo forse non del tutto consapevoli ma di certo crediamo che non si faccia niente perché la situazione vada a buon fine (se mai andrà); e di certo, parlarne tanto e qualche volta a sproposito, come potrebbe essere nel caso del film di Gibson, non aiuta a rasserenare gli animi. Né a creare le condizioni perché vera pace sia. 
Per confronto, pensiamo a cosa sarebbe il calcio senza che i quotidiani riservino ad esso tante e tante pagine o, nella migliore delle ipotesi, ne riducessero l'impatto mediatico. Staremmo meglio noi, ne guadagnerebbero gli altri sport e forse, il calcio sarebbe portato a sanare la sua situazione. 
Ma, parafrasando Bogart in un suo famoso film ("L'ultima minaccia"), questa è il bussiness bellezza! 
Non credo che un film su Gesù abbia bisogno di tanto battage. Nel passato, quando sono usciti, hanno fatto discutere o hanno fatto sorridere hanno, comunque, fatto la loro bella figura, perché bastava il nome del personaggio, della sua identità (anche se cinematografica) svelata; (n.d.a. - vedi il mio speciale "Il vangelo a Hollywood" in Cinema in..., 1998). La cosa migliore, a questo punto, è attendere il 7 aprile, andare a vedere secondo coscienza il film nella speranza che proprio Gesù di lassù, sapendo di tutto questo Barnum, non abbia ancora a dire" Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno. . . e dicono".

Una riflessione del consulente ecclesiastico dell'aiart sul film

Tutto va misurato passo passo sul Vangelo

di don Dario Edoardo Viganò

Lungo i secoli è stato sempre vivo nella Chiesa il problema di dare espressione al volto del Cristo, alle vicende della sua vita, in particolare alla sua passione. Ne sono scaturite anche contese teologiche, e se n'è dovuto occupare persino un Concilio (di Nicea) che nell'anno 787 affermava: "Se qualcuno non ammette che i racconti evangelici siano tradotti in immagini, sia anatema". Si veniva così incontro alla devozione del popolo, soprattutto si affermava la realtà dell'incarnazione del Figlio di Dio, rifiutando ogni riduzione della fede a semplice dottrina, a mito fuori dal tempo. 
L'arte pittorica e quella della scultura vennero incontro a questa esigenza di fede, la quale anche per questa via ribadiva il proprio fondamento storico. In Occidente avvenne in modo diverso che in Oriente, dove l'icona assunse un valore liturgico, diventando non semplicemente un'immagine per la fede ma quasi una sua incarnazione. Irrealistico tuttavia pensare che ci sia un modo assoluto, unico di raffigurare Gesù e i fatti della sua vita. Ogni pittore, anche nella tradizione del "Volto Santo", dice qualcosa del mistero della persona del Figlio di Dio, ma non la esaurisce.


In Occidente, poi, la ricchezza di questo mistero e il suo intrecciarsi con gli interrogativi dell'uomo, hanno prodotto una pluralità di immagini dove nessuna può dirsi definitiva; al massimo possono aver l'ambizione di contribuire ad avvicinare la profondità del mistero. Questa regola vale anche per l'arte più recente della cinematografia. La quale ha già offerto numerosi volti di Cristo, non sempre (purtroppo) rispondenti all'altezza del soggetto, come d'altronde era accaduto e accade per le arti. Nella loro varietà possono essere accolti come inviti a porre attenzione su Gesù, a far interrogare sulla sua persona e sulla sua vita, a spingere verso un'ulteriore ricerca. Sapendo in partenza, o arrivando a capire poi, che l'avvenimento Gesù supera ogni possibile descrizione. 
È la testimonianza deducibile dagli stessi vangeli. Non è per incapacità a narrare i fatti, e tanto meno per scarsa fedeltà ad essi, che uno dei quattro vangeli bastava alla Chiesa per dire la pienezza di Cristo: solamente dalla loro sinfonica composizione e dalla loro collocazione nell'arco dell'intera storia della salvezza, viene a noi la certezza della verità sulla persona di Gesù Cristo e la sua storia. Accolti nella fede della Chiesa che ce li offre, i vangeli sono l'unico accesso al mistero di Cristo nella sua radicale storicità e nella sua altrettanto radicale trascendenza. Tutto il resto - in letteratura, arte, scienza... - aiuta, scuote, setaccia, avvantaggia la nostra ricerca ma non sostituisce il racconto dei vangeli, né lo integra su quello stesso piano, con quello stesso valore.


Chi vive in regioni di antica cristianità può trovarsi in una paradossale situazione di curiosità spenta per Gesù, come se già conoscesse tutto e dunque possa permettersi un giudizio di sufficienza o di indifferenza. Per questi l'esperienza dell'incontro con un testimone o con un'opera d'arte può avere effetti benefici del tutto impensabili. Può segnare un itinerario di ripensamento e riscoperta. Tuttavia, non è una ricostruzione più minuziosa o ambiziosamente più attendibile (più attendibili dei vangeli?) a dare più certezza alla fede. Vivendo noi in una cultura massmediale abbiamo mediamente una sensibilità più spiccata che in altre epoche verso il linguaggio delle immagini. La loro eloquenza talora "parla" al nostro cuore, maglio: al cuore dell'uno o dell'altro, mai a tutti insieme. 
E tuttavia non ci sono "lacune" nei vangeli da rimediare mediante il ricorso a ritratti devozionali, narrazioni d'arte, o a visioni che appartengono all'esperienza spirituale di singole persone. Tutto può essere d'aiuto, ma tutto va misurato passo passo sul vangelo, senza unilateralità ingenue e ideologiche che siano. La dimensione salvifica di Cristo e in particolare della sua morte, non si fonda sulla quantificazione del dolore subito. Non vorremmo dover sostituire Gesù perché a qualcuno, nel corso della storia, è stata inflitta una sofferenza fisicamente più intensa e abbrutente. Gesù ci salva perché soffrendo, ha vissuto quel dolore certamente immenso e la morte, infamante e maledetta, in assoluta fedeltà a Dio, suo Padre, e in piena apertura d'amore all'umanità. L'amore assoluto del Figlio di Dio. 

 

THE PASSION DI MEL GIBSON SECONDO 'VITA PASTORALE

"Vita pastorale" 4/2004

La Passione secondo Mel Gibson

di Roberto Di Diodato

Le prime narrazioni attorno a cui si formarono gli attuali vangeli furono quelle relative alla passione, morte e risurrezione del Signore. Esse sono, anche da un punto di vista temporale, il "cuore" dell'intero tessuto letterario e teologico del Nuovo Testamento. Qualunque opera artistica, che voglia raccontare il Cristo ponendo al centro i fatti culminanti della sua vita, vi attinge direttamente. Mel Gibson fa decisamente questa scelta. Racconta il "cuore" della storia più grande e straordinaria. E torna alle origini della stessa storia del cinema. La sua opera La Passione di Cristo (The Passion of the Christ) già nel titolo fa riferimento diretto ai primi film che si ispirarono ai vangeli e in particolare ai racconti della passione di Gesù. 
Fin dall'inizio il cinema intuisce che il soggetto religioso ha tutte le caratteristiche spettacolari per incontrare il favore del grande pubblico, che si riconosceva nella professione della religione cristiana. E tra tutte le vicende della vita di Cristo, quella più adatta a coinvolgere emotivamente gli spettatori era senza dubbio la narrazione delle sofferenze del Figlio di Dio.


Prima i fratelli Lumière, poi Lèar, ma soprattutto Zecca e Nonguet (1902-1905) realizzarono per il grande schermo le famose "Passion", che divennero ben presto «una sorta di modello, al quale si ispireranno», scrive Gianni Rondolino nella sua Storia del cinema, «i successivi autori e produttori di film religiosi». Le innumerevoli opere cinematografiche che si sono ispirate ai racconti evangelici hanno reinterpretato la vita di Gesù e la sua persona a partire dalla sensibilità sociale, politica e religiosa del momento. I volti di Gesù nel cinema sono i mille volti dell'uomo segnati dalle sue fatiche e dai suoi dolori, dalle sue speranze e dalle sue paure, ma anche dal profondo bisogno di senso. 
La rilettura che ne fa Mel Gibson lascia perplessi e stupiti. Dal punto di vista narrativo, egli prende in considerazione le ultime dodici ore di vita di Gesù, dalla sera del Getsemani alla morte sul Calvario. L'idea gli nacque durante una forte crisi spirituale che lo indusse a riconsiderare la sua fede e a interrogarsi sul significato della sofferenza e del dolore, del perdono e della redenzione operata da Cristo. La struttura del racconto, che segue passo passo i quattro vangeli senza preferirne uno, è frammezzata da flash-back che portano in primo piano alcuni momenti della vita di Gesù, dall'infanzia - un Gesù Bambino che cade, subito soccorso da Maria - alla vita "segreta" di falegname a Nazareth, ad alcuni episodi della vita pubblica, come l'incontro con l'adultera, l'attività di predicatore, la lavanda dei piedi, l'ultima cena. 
Apparentemente il racconto scorre normale. Ma Gibson sconvolge il materiale narrativo creando un'opera dark; fa saltare tutte le regole del gioco disegnando ambienti notturni, illuminando poco gli interni, in un contrasto di luce e ombra che si ispira a correnti pittoriche riconoscibili. Ma ciò che sorprende di più è la dimensione barocca in cui cala questo suo Cristo, nel senso di una voluta e meditata "esagerazione espressiva" che accentua il realismo fisico e materialistico del racconto, fino a farlo diventare iperrealista. Il regista sceglie la via dell'intensità cinematografica ottenuta attraverso l'esasperazione di tutti i toni. L'interpretazione è spesso "gridata" non solo da parte dei soldati ma anche di Gesù; l'audio digitale enfatizza tutti i rumori, dalle staffilate della flagellazione alle rovinose cadute di Gesù sotto il peso della croce, alle martellate sui chiodi.


L'uso insistito del ralenti esaspera la meccanica delle azioni, anche quelle minime, come il dito di Gesù che scrive per terra nell'episodio dell'adultera. Più evidente è l'effetto ridondante ottenuto attraverso la dilatazione dei tempi - la flagellazione dura quasi un quarto d'ora - e la ripetizione delle azioni: vengono praticate due flagellazioni a Gesù, la prima con delle fruste, la seconda con il flagellum. Gesù cade più di tre volte nel suo cammino verso il Calvario. Una volta crocifisso, i soldati trovano il modo di duplicare le terribili martellate, girando la croce e ribattendo i chiodi infilati nel legno. E poi le iperboli, figura retorica tipicamente barocca, come gli spruzzi di sangue che imbrattano i volti dei due soldati flagellatori; o l'enorme croce intera portata da Gesù, anche contro l'evidenza archeologica e storica; o il fiotto di sangue e acqua che scaturisce dal costato di Cristo, colpito dalla lancia, quasi fosse una fontana, simile al fiotto di sangue che esce dal petto del samurai colpito in Sanjuro di Kurosawa; o il buco a vista sulla mano del Risorto. 
Ma l'icona parlante di questa scelta espressiva di Mel Gibson è Gesù stesso. Il suo corpo, a cominciare dalla cattura nell'Orto degli Ulivi dove viene picchiato, diviene man mano irriconoscibile, un'unica piaga, fino a diventare un grumo di sangue. L'effetto è estraniante: il primissimo piano di Gesù in croce è talmente sfigurato da sembrare, per un momento, il quadro di un pittore astratto. Gibson ha voluto raccontarci questo Gesù, quello delle sofferenze estreme. Che non è il Gesù dei vangeli, ma quello di Katharina Emmerick e di Theresa Nuemann, di quelle correnti mistiche centrate sull'aspetto sacrificale della vita di Cristo. È quel Gesù che traspare nei riti sanguinolenti dei battenti di Madonna dell'Arco o di Nocera Terinese. È il Gesù dei crocifissi barocchi, ricoperti di vernice rossa, che hanno forse inquietato gli occhi della nostra infanzia.


Ha dichiarato il regista: «Volevo mostrare la grandezza del sacrificio e l'orrore che lo caratterizza». E c'è riuscito! Questo Gesù mette a disagio, ma nello stesso tempo trasmette forti sentimenti di compassione. Non c'era ancora nella storia del cinema un Gesù così duro e trasgressivo rispetto all'iconografia tradizionale, ma anche così umano col suo occhio pesto che tiene socchiuso per tutta la durata del film. Il pericolo potrà essere quello di pensare, sotto gli effetti esasperati e coinvolgenti della particolare tecnica cinematografica, che quel Gesù sia l'unico e vero possibile, che la fede cristiana nasconda aspetti sanguinari. 
È la tentazione di una concezione arcaica di cristianesimo, che potrebbe ricacciare all'indietro, su posizioni obsolete, una fede traballante e immatura. Maria, la madre, è sempre presente, anche quando potrebbe non esserci. E su di lei il regista coagula i momenti di più grande intensità emotiva. La caduta di Gesù sotto il peso della croce è montata in parallelo con la caduta del Gesù bambino, soccorso e preso in braccio da Maria. L'effetto è straordinario. Straordinario è anche il momento in cui Maria si piega sul pavimento, quasi per ascoltare il respiro e la presenza di suo Figlio tenuto in prigione nel locale sottostante. 
Ma una presenza inquietante attraversa tutto il film. Il Diavolo. Con la D maiuscola, perché non è un'entità astratta, ma un essere reale. Si fa presente subito, all'inizio, quando cominciano per Gesù le sofferenze. Questo è il "tempo fissato" in cui il Diavolo dovrà tornare, come scrive il vangelo di Luca al termine del racconto delle tentazioni di Gesù nel deserto. La rappresentazione cinematografica è potente e precisa. Il Diavolo ha il volto inespressivo, anoressico e androgino di Rosalinda Celentano. Con splendida intuizione Mel Gibson doppia la sua terribile presenza con degli animali, come il serpente nell'Orto degli Ulivi, l'animale putrefatto nel suicidio di Giuda, il feroce leopardo nella corte di Erode. Ma anche i bambini dai volti deformi sono un duplicato della sua azione malefica.


Molto è stato scritto sul fatto che i personaggi del film La Passione di Cristo parlino le lingue diffuse in quel periodo storico, aramaico e latino "di strada", e non siano state doppiate. Anche questa scelta è frutto di un'esasperazione, in questo caso filologica, in linea con i toni di "forte espressività" dell'opera. Perciò non credo che si debba leggere come conseguenza di una minuziosa ricerca storica, archeologica o linguistica. Perché l'attendibilità storica non sempre viene salvata. Infatti il latino parlato dai soldati non è "di strada", ma è quasi classico, e gli insulti che si rivolgono sono delle grazie ciceroniane. In effetti è impossibile sapere che tipo di latino parlassero i soldati romani stanziati in Medio Oriente; può anche darsi che parlassero la versione koiné del greco, la lingua franca dell'epoca. Altrettanto difficile è sapere se Ponzio Pilato e i governatori romani parlassero con i Giudei la lingua aramaica, come dire il dialetto locale. Ancor più difficile è pensare che Pilato si rivolgesse in lingua latina a Gesù e che Gesù rispondesse tranquillamente in latino; oggi gli studiosi sono più propensi a pensare che Gesù, oltre all'aramaico, parlasse un po' della koiné.


Qualche volta la ricerca dell'effetto e dell'"esagerato" ha fatto scherzi ancora più imprevedibili. Non è verosimile che il braccio trasversale della croce avesse i buchi preforati dove far passare i chiodi, altrimenti sarebbe stato un problema crocifiggere qualcuno che non aveva le misure giuste. Non si capisce poi perché Giuda si presenti scalzo per restituire i 30 denari ai Sommi Sacerdoti; perché il titulus crucis sia scritto solo in lingua aramaica e latina, e non anche in greco, come affermano i vangeli; perché l'adultera minacciata di lapidazione è identificata con Maria Maddalena. Ma la polemica attorno al film è diventata planetaria quando qualcuno ha voluto vederci la riproposizione dell'ideologia antisemita, che risale all'accusa di deicidio rivolta agli ebrei da parte dei cristiani. Visto il film, è semplicemente impossibile trovarvi traccia, nemmeno lieve, di antisemitismo. Sorge il fondato sospetto che la polemica sia stata suscitata ad arte, che un'abile strategia di marketing abbia saputo accendere la miccia di discussioni, accuse e contraccuse per polarizzare l'attenzione del pubblico mondiale. 
Alla fine, per fortuna, La Passione di Cristo è solo un film; abile, coinvolgente, discusso, ma sempre un film. E non è perciò il caso che la Chiesa, che ha responsabilità e compiti ben più gravi e indilazionabili, sia chiamata a prendere posizione, pro o contro, un'opera cinematografica che non aggiunge molto a quello che è stato detto, scritto e filmato su Gesù di Nazareth. Da uomo credente Mel Gibson dovrà essere contento se il suo film, al di là del successo ottenuto, spingerà qualcuno a riprendere in mano la sacra pagina del Vangelo e ad avvicinarsi con sincerità e umiltà alla persona del Cristo.

 

THE PASSION DI MEL GIBSON SECONDO L'ESPRESSO

"L'Espresso" 4 marzo 2004

Gesù che passione 

Il rabbino del centro Simon Wiesenthal di Los Angeles bolla il film di Mel Gibson come antisemita. E invita a non subirlo in silenzio

Colloquio con Marvin Hier di Lorenzo Soria

Mel Gibson non si era mai fatto troppe illusioni. Sapeva che questo non era un altro "Arma Letale" seguito da chissà quale numero romano, ma un atto di vanità, un regalo a se stesso per celebrare una crisi di mezza età risoltasi con la scoperta della fede e finita per costargli un po' cara: 30 milioni di dollari. Non a caso, aveva dato a Gesù il volto di un attore il cui nome dice ben poco alle grandi folle, Jim Caviezel. Aveva insistito perché i dialoghi fossero tutti in latino e in aramaico. 
Sapeva anche che se le 12 ore intercorse dalla cattura nel Giardino degli Ulivi sino alla crocefissione sul Golgota e poi alla resurrezione rappresentano «la più grande storia mai raccontata » è anche una delle storie più viste e riviste sul grande schermo, che pochi spettatori sarebbero stati disposti a sorbirsela un'ennesima volta. Quando uno a uno i grandi studios per i quali ha generato palate di quattrini hanno declinato di distribuire il suo nuovo film, il protagonista scanzonato e giocherellone di tanti action movies non è dunque restato troppo sorpreso. 
"The Passion of me Christ" è diventato invece un evento senza precedenti, un film che non solo ha riaperto una diatriba teologica che si trascina da 2 mila anni, ma che ha scatenato passioni da vera e propria guerra culturale. Da una costa all'altra del paese; le Chiese cristiane hanno comprato blocchi di migliaia di biglietti, in alcuni casi decine di migliaia, invitando i fedeli a sostituire i sermoni domenicali con le sale cinematografiche. 
Sono arrivati a citare come recensore il papa, che alla conclusione di una proiezione in Vaticano avrebbe sibillinamente esclamato: «È come è stato», col risultato che al suo debutto nelle sale americane il film di Gibson ha raccolto numeri da "Signore degli anelli". Dall'altra parte del fronte ci sono varie organizzazioni ebraiche, che hanno accusato il film di avere rappresentato gli ebrei, quelli del Sinedrio, le folle che urlano alla crocefissione e poi lanciano sputi e sassi su Gesù, come figure caricaturali assetate di sangue: di avere, insomma, riproposto con quelle immagini la questione del deicidio che nell'arco dei secoli è stata usata per giustificare le Crociate, i progrom e perfino i forni di Hitler. 
Ma ci sono ebrei dissenzienti, cristiani che accusano Gibson di avere ignorato gli insegnamenti del Concilio Vaticano Secondo che ha fatto ricadere non sugli ebrei, ma sull'umanità peccatrice, la colpa collettiva per la crocefissione di Gesù. Sull'onda dell'11 settembre e delle nuove guerre condotte in nome di Dio e contro gli infedeli, ci sono anche quelli arrivati a equiparare Mel Gibson a George W. Bush, e lo accusano di avere sostituito i B-52 con la sua cinepresa. 
Matteo, Marco, Luca e Giovanni ci hanno tramandato, con dettagli spesso contrastanti, gli eventi che hanno condotto alla crocefissione e poi alla resurrezione. Ma nel "Vangelo secondo Mel" il contesto storico non è rilevante. Gesù da Nazareth è un mistero, non c'è tempo per stare a spiegare chi è, da dove viene o perché le sue parole e le sue gesta ottengono così tanta devozione e anche resistenza. 
Ponzio Pilato non è più un prefetto brutale, ma un personaggio ambiguo e quasi magnanime che cede riluttante alla pressione degli ebrei che urlano: «Crucifige». Alla fine, restano solo l'agonia e la sofferenza fisica di Cristo, due ore di frustate e di strumenti di tortura che strappano la sua pelle, di sangue che schizza, di violenza quasi pornografica. «È un'opera che mira a ispirare, non a offendere», ripete lo stesso Gibson, capace di esprimere sentimenti non proprio cristiani nei confronti di Frank Rich, il critico culturale del "New York Times". «Voglio ucciderlo», dice: «Voglio i suoi intestini appesi un palo e voglio far fuori il suo cane».
Con la scelta di offrire ben poco spazio al significato spirituale e trascendentale della crocefissione, e di lasciarsi andare invece a un'orgia di violenza sul corpo del Cristo di proporzioni quasi grottesche, Gibson ha finito per offendere molte persone. Primo fra tutti il rabbino Marvin Hier, presidente di quel Simon Wiesenthal Center di Los Angeles che ha come sua missione principale lo sradicamento dell'antisemitismo e uno dei critici più rumorosi della "Passione".


Rabbino, perché cosi tanta passione attorno a un film? Quali nervi ha toccato? 
«Il mio problema non è il tema trattato, i cristiani hanno ovviamente ogni diritto di fare tutti i film che desiderano su un tema così centrale per la loro liturgia. Ci sono stati molti film sulla passione, ma nessuno ha mai avuto così tanto impatto e la ragione è semplice. Su due ore di film, Mel Gibson ha scelto di dedicarne almeno una all'agonia fisica di Gesù. 
Ha scelto anche di rappresentare gli ebrei con tratti fisici caricaturali e sguardi sinistri, nessuno di loro dice mai una parola intelligente e se parlano è solo per invocare la crocefissione. Con l'eccezione dei quattro legionari che lo torturano, i romani invece ne escono bene, anche Ponzio Pilato emerge come una figura timida e ragionevole. E così, che cosa ne trarrà lo spettatore? Che i responsabili di questo tremendo atto di crudeltà inflitto su Gesù sono solo gli ebrei, una conclusione che alimenterà l'antisemitismo in un momento in cui, dall'Europa all'America latina all'Asia musulmana, è già in allarmante crescita. Un film che finirà per rafforzare vecchi stereotipi, proprio mentre la Chiesa insegue la via della riconciliazione».


Ironicamente, la campagna contro Gibson da parte sua e di altri leader ebraici ha finito per farne un caso e per offrire al film enorme pubblicità gratuita. Ha dei rimorsi? 
«Non ho né rimorsi né dubbi. Ogni volta che prendi posizione su una questione importante corri questo rischio. Ma che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo non parlare dei kamikaze perché potrebbero finire per reclutare altri folli che pensano di andare in paradiso? Dobbiamo stare zitti di fronte alle tante manifestazioni di antisemitismo nel mondo perché se ne parli rischi di alimentarlo ancora di più? Nei momenti più orribili della nostra storia la nostra risposta è stata il silenzio. Abbiamo scelto questa strada anche durante l'Olocausto e sappiamo bene dove ci ha portato. Ora basta, quel silenzio ci è costato troppo caro».


Sta accusando Gibson di antisemitismo? 
«Gibson ha fatto molti film che ammiro. No, non penso che sia un antisemita e la nostra protesta non è diretta contro di lui, ma contro il suo film, che temo creerà molti danni. Nelle mani di un bigotto, un film come "La Passione" potrebbe avere conseguenze esplosive».


Anche perché manca di contesto storico, non si sofferma su Gesù nel contesto della Palestina dei suoi tempi... 
«Nella "Passione" di Gibson anche Gesù non ha mai una parola intelligente e questo è un po' strano. Per i cristiani, la passione è una passione di amore. Ma questa è una passione di odio, di odio verso gli ebrei che chiedono sangue e che non credono in un Dio che appare nella sua carne».
Rabbino Hier, anche tra gli ebrei della diaspora c'è chi sostiene che l'antisemitismo contemporaneo ha molto a che fare con la politica di Israele e del premier Ariel Sharon... 
«Mi lasci che la interrompa. Sta parlando di quelli che criticano il muro e che sostengono che Israele è troppo dura con Hamas e le altre organizzazioni terroristiche? E allora, se permette, ho io una domanda da porre a tutti questi signori ed è questa: se a saltare fossero i ristoranti dove andate voi a mangiare con le vostre famiglie e i bus con i quali i vostri figli vanno a scuola, che cosa fareste? Io penso che reagireste esattamente allo stesso modo ed è per questo che trovo queste critiche pura ipocrisia. Tutti pronti a saltare addosso a Israele quando si difende, ma poi quando gli Stati Uniti fanno lo stesso in risposta al World Trade Center tutti capiscono. Lo ripeto, pura ipocrisia».
Alcuni leader di organizzazioni ebraiche americane sostengono di sentirsi imbarazzati dalle sue prese di posizione e che tutta questa controversia è mirata solo a promuovere se stesso. 
«Contrariamente alle loro, la nostra non è un'organizzazione locale, ma internazionale. E posso assicurare che la stragrande maggioranza degli ebrei americani è con noi e temono che questo film finirà per riaprire vecchie ferite». 

Il protagonista della "Passione" racconta le pene e le sofferenze fisiche che ha subito. Sopportate anche grazie alla sue fede. E rifiuta l'accusa di antisemitismo Colloquio con Jim Caviezel di Pam Baker
Quando Mel Gibson gli ha offerto d'interpretare il ruolo di Gesù in "The Passion of Christ", lo ha avvertito che rischiava la carriera. Oggi Jim Caviezel, che ha impersonato il Nazareno nelle sue ultime 12 ore di vita, non si pente di aver accettato la parte. Anche se ha dovuto subire una ferita lunga 35 centimetri sulla schiena durante le riprese della flagellazione ed è pure stato colpito da un fulmine. Ecco cosa ci ha raccontato del film, del regista, del ruolo che interpreta e delle polemiche scatenate.


"The Passion" è un film antisemita? 
«È una film in linea con il Vangelo. Abbiamo dovuto dar vita a un movimento di base per poter rivolgerci al Vaticano, al segretario del papa, perché si pronunciasse in merito. Giovanni Paolo II è un pontefice che si è adoperato più di ogni suo predecessore per migliorare i rapporti fra ebrei e cristiani. Se avesse avuto problemi col film, lo avrebbe condannato. Non lo ha fatto».


Qualcun altro sì, pero. 
«Qualcuno. Ma oggi giorno anche se sei ebreo vieni attaccato per la tua fede. Qualunque sia la tua religione, ti prendono di mira. Se sei ortodosso e hai una fede profonda, non la passi liscia. Ti guardano come un eccentrico».


C'è chi dice che Gibson è un antisemita. 
«Le posso assicurare che non lo è affatto. Lo chieda a Maia Morgenstern, l'attrice romena che recita nel ruolo di Maria: è ebrea. Le confermerà che non c'è un'ombra di antisemitismo in lui. I genitori di Maia sono dei sopravvissuti dell'Olocausto. Le accuse contro Gibson sono ingiustificate».


Com'è Gibson regista? 
«È molto bravo. Quando ci siamo incontrati, mi ha raccontato la sceneggiatura. E io mi sono detto: questo non è un film antisemita, è il Vangelo. Così ho accettato d'interpretarlo. Se fosse stata una storia in cui Gesù finisce in pizzeria e fa cose strane, non mi sarebbe interessata. E non ci sarebbe stato regista che tenga, se non si fosse attenuto al Vangelo. Un film su Gesù è una cosa troppo personale per me. E lo è anche per Gibson».


Come è stato scritturato? 
«Quando sono stato chiamato per il provino, mi avevano detto che si trattava di un film sul surfing. Ma poi Mel è entrato nella stanza e ha cominciato a parlarmi dei Vangeli. Così, dopo un po' gli ho chiesto: "Vuoi che io reciti la parte di Gesù?". E lui mi ha risposto: "È tua"».


È stato difficile imparare a recitare in aramaico e in latino? 
«Non più di tanto. Molto più dura è stata la parte fisica. Per le lingue avevamo un buon insegnante e dopo un po' mi è venuto naturale cominciare a parlarle. Il latino mi ha fatto molta impressione perché lo conoscevo da quando andavo a messa».


Cosa significa per lei la figura di Cristo? «Siamo di fronte a un uomo chiamato "L'Agnello di Dio" che è morto per riscattare i nostri peccati. Una figura di grande profondità, che fino all'ultimo respiro ripete: "Sì, io sono Dio, io sono il Messia". Per questo è stato messo a morte. E dice che è stato lui a scegliere la sua sorte, non gli altri a scegliere lui. Lascia continuamente il segno sulla storia e non cessa di essere un personaggio controverso. Un mistico racconta che la Vergine Maria gli disse: "Se tu seguirai veramente mio figlio, per tutto il resto della tua vita farai scandalo e girerai in sandali". Le cose non sono cambiate rispetto ad allora. Stanno sempre così da 2 mila anni».


L'interpretazione di questo ruolo ha rafforzato la sua fede? 
«Certo, è inevitabile. Mel non mi ha scritturato chiedendosi se ero o no un credente. Ha pensato che fossi l'attore giusto per questa parte. La fede mi ha sorretto in un momento cruciale. Quando recitavo era importante che pregassi. Che fa del resto Cristo? Prega, probabilmente. E così ho fatto io. Il male ha un suo fascino perverso. Il peccato è divertente, piacevole. Persino Al Capone pensava di essere un benefattore dell'umanità".


Ci può parlare della lavorazione? 
«Nei giorni più duri si andava avanti dalle due di notte alle dieci di sera. Ero talmente prostrato da apparire come se già fossi sulla croce. Dovevo star chino e subire le frustate. È stata una cosa straziante, che ha cominciato a indebolirmi fisicamente. Non riuscivo a mandar giù il cibo, avevo sempre freddo e mi sono slogato una spalla. Ho dovuto combattere l'ipotermia e ho sofferto di un'infezione alle vie respiratorie che mi ha provocato una polmonite. Mi è stata inferta una ferita di 35 centimetri lungo la schiena, già scorticata e dolorante a causa delle catene. Ho patito terribili mal di testa e ho contratto infezioni cutanee. Un giorno sono stato pure colpito da un fulmine...».


Com'è successo? 
«Stavamo su una rupe, preparandoci a girare la scena del Discorso sul Monte e tre secondi prima ho sentito la scarica. Sapevo che sarebbe accaduto. Tutti hanno cominciato a urlare dicendo che andavo a fuoco da entrambi i lati della testa ed ero avvolto da una luce. Avevo chiuso gli occhi e provavo una sensazione sconvolgente perché avvertivo un suono lugubre, lo stesso urlo cupo che si sente nelle riprese dell'attentato al World Trade Center, emesso dalle persone che videro gli aerei schiantarsi contro le due torri».


Anche portare la corona di spine non dev'essere stato piacevole. «È stato molto penoso. Ho sofferto terribili emicranie: i pungoli erano tenuti insieme da un filo di metallo stretto attorno al capo per via del forte vento».


Quanta forza fisica è stata necessaria per rimanere sulla croce? 
«Dovevo andare in palestra dopo le riprese per poter reggere tutto il giorno sulla croce in quella posizione scomoda. E alla fine, quando ci sono salito, mi sono sentito talmente male che quando dicevo: "Mio Dio, perché mi hai abbandonato?", provavo davvero quella sensazione! E dentro di me pensavo: "A te non importa se io faccio questo film o no, ma chi sa se davvero esisti". E cominciavo a dubitare. Le confesso che, dopo tutto questo, mi sono profondamente convinto della sua esistenza. Né ho dubbi che oggi l'amo più di quanto non l'abbia mai amato. Mi sento un testimone di quel che è accaduto lassù su quella croce. Sentivo Dio che mi sussurrava: "Tu devi pregare con tutto il cuore". E io gli chiedevo: "Come si fa a pregare con tutto il cuore?". "Io ti aiuterò", mi rispondeva».


Da dove ha tratto la sua vera fede? 
«Questo film, chi vuole lo può vedere. Guardatelo e poi capirete quale effetto è in grado di produrre. Quando visitate il Vaticano e ammirate la "Pietà" di Michelangelo, vi chiedete forse se solo i cattolici possono posarvi il loro sguardo e comprenderla? No di certo. È un'opera universale, di cui tutti possono godere».

Da sempre il cinema ha voluto raccontare Gesù. Provocando spesso scandalo. A partire da Pasolini

di Lietta Tornabuoni

Cristo musicale, Cristo sanguinolento, Cristo amoroso, cristo da ridere, Cristo semiarabo, Cristo umano, Cristo kitsch, ma soprattutto Cristo-scandalo: gli oltre 200 film con Gesù protagonista sono stati spesso accompagnati da proteste, polemiche, divieti, controversie, ingiurie. Sin dall'inizio, dice lo studioso Ezio Alberione: «Il primo intervento censorio colpì i predicatori che, al principio del Novecento, proiettavano in chiesa i film sulla vita di Cristo (in Francia e negli Usa, i primi vennero realizzati nel 1897 sul modello "a stazioni" del teatro sacro). La Santa Sede temeva che i luoghi di culto si trasformassero in spazi d'intrattenimento e che la ricerca della spettacolarità oscurasse l'impegno catechetico. È un timore comprensibile, se si pensa che nel 1899 Meliès stupiva con gli effetti speciali di Cristo che cammina sulle acque e che il primo fila italiano su Gesù ("Passione", 1900, di L. Topi) era interpretato da Fromo, divo del trasformista».
Era soltanto l'inizio. Nel 1935 "Golgotha" di Julien Duvivier, protagonista Robert Le Vigan (Ponzio Pilato era Jean Gabin) venne fortemente attaccato dalle gerarchie cattoliche perché giudicato troppo violento e compiaciuto nella descrizione della fustigazione, del Calvario, della crocefissione: accuse male indirizzate, il film era al contrario tanto esangue e sentimentale che almeno fino agli anni Cinquanta rimase di rigore nei cinema italiani nella giornata del Venerdì Santo. Nel 1961, contro "Il re dei re" di Nicholas Ray, con un commento scritto da Ray Bradbury recitato da Orson Welles, si sfrenò la cattolica Legion of Decency, giudicandolo «teologicamente, storicamente, evangelicamente sciatto»: il ribellismo del film, la presenza della politica contro gli occupanti romani, il fatto di considerare Cristo un profeta minore fra tanti, la «mancanza del senso del sacro», moltiplicarono le condanne conservatrici. 
Nei primi anni Sessanta, nel film più osteggiato non c'è Cristo, ma una rappresentazione della Passione: ne "La ricotta" (1963) di Pier Paolo Pasolini, uno degli episodi di "Rogopag" (Rossellini, Godard, Pasolini, Gregoretti), un affamato che in un film diretto da Orson Welles recita la parte di uno dei ladroni crocefissi con Gesù, muore sulla croce di indigestione. Il film venne subito sequestrato per vilipendio della religione di Stato e con la stessa imputazione venne condannato a quattro mesi di reclusione Pasolini, poi assolto in appello. Invano il regista aveva premesso alla "Ricotta" il cauto avvertimento: «Non è difficile prevedere per questo mio racconto dei giudizi interessati, ambigui, scandalizzati. Ebbene, io voglio qui dichiarare che, comunque si prenda "La ricotta", la storia della Passione che indirettamente rievoca è per me la più importante che sia mai accaduta e i testi che la raccontano sono i più sublimi che siano mai stati scritti».


Le polemiche si rinnovarono l'anno seguente, 1964, per il "Vangelo secondo Matteo" di Pasolini, prudentemente ma invano dedicato «alla cara, lieta e familiare memoria di Giovanni XXIII». Per la prima volta al cinema, l'aspetto di Cristo contraddiceva l'iconografia tradizionale: il protagonista spagnolo Enrique Irazoqui non era candido, con i lineamenti sottili della bellezza virile bianca e lunghi capelli castano dorati, era invece molto bruno, con labbra tumide e lineamenti arabizzanti. Anche il poverismo, i richiami al Terzo Mondo visto non solo come preistoria, l'attacco alle falsità del potere, la Madonna interpretata dalla madre del regista Susanna Pasolini (e la presenza in vari personaggi di Elsa Morante, Francesco Leonetti, Alfonso Gatto, Giorgio Agamben) acuirono l'ostilità contro il film: alla Mostra di Venezia venne accolto da gruppi cattolici e fascisti con fischi, insulti beceri, ingiurie, denunce. 
Non minore scandalo suscitò nel 1973 "Jesus Christ Superstar" di Norman Jewison, tratto dall'opera rock di Price-Webber, per i modi irriverenti della sacra rappresentazione, per il genere di musica, per il mix convincente fra Cristo e lo stile hippy. Nel 1979, Michael Palin diceva: «Siamo riusciti a far arrabbiare gente di tutte le religioni, proprio tutte. È stato magnifico». Parlava di "Brian di Nazareth" di Terry Jones, terzo film dei Monty Python, prodotto da George Harrison: protagonista un giovane coetaneo e conterraneo di Gesù, visitato per errore dai re Magi e alla fine crocefisso per sbaglio al posto di Cristo. Rimane l'unico film ironico sul tema.


I carabinieri sbarravano le vie del Lido di Venezia e il Palazzo del cinema nell'88, nel timore che le associazioni cattoliche del Veneto si scatenassero in occasione della presentazione alla Mostra de "L'ultima tentazione di Cristo" di Martin Scorsese, protagonista Willem Dafoe, tratto da un romanzo di Nikos Kazantzakis: la tentazione risultava quella di opporsi alla propria divinità, immaginandosi una comune vita umana; anche l'amore di Maria Maddalena appariva tentante, mentre Giuda (Harvey Keitel) veniva assolto dal tradimento. 
Naturalmente, non tutti i film su Cristo hanno provocato scandalo: "Il Messia" (1975) di Roberto Rossellini venne accolto come l'alta opera d'autore che era. Favore e successo popolari suscitarono i kolossal religiosi, a volte terribilmente kitsch: "La tunica" (1953) di Henry Koster, con cui debuttò il Cinemascope; "La più grande storia mai raccontata" (1965) di George Stevens, Panavision con Max von Sydow nella parte di Cristo, e John Wayne come centurione romano; "Gesù di Nazareth" (1977) di Franco Zeffirelli, telefilm di oltre sei ore in lingua inglese; e l'anomalo "I giardini dell'Eden" (1988) di Alessandro D'Alatri con Kim Rossi Stuart, centrato sull'adolescenza e giovinezza di Gesù fino all'inizio della sua predicazione, ispirato ai Vangeli apocrifi, colto e rispettoso. Insieme con i film che raccontano direttamente la storia di Gesù ci sono quelli che ad essa alludono: a esempio "Il Cristo proibito" (1951) di Curzio Malaparte con Raf Vallone, "Cercasi Gesù" (1981) di Luigi Comencini con Beppe Grillo, "Jésus de Montréal" di Denys Arcand, anche "Totò che visse due volte" di Ciprì e Maresco. Dice ancora lo studioso Ezio Alberione: «La figura di Gesù è un archetipo, il dramma cristiano è anche un mito della cultura occidentale; il Gesù del cinema è figlio dell'uomo prima che di Dio e testimonia una verità umana prima che un dogma di fede». 

Per Giuseppe Barbaglio, fu Ponzio Pilato l'artefice del calvario

A Giuseppe Barbaglio, autore di "Gesù ebreo di Galilea - indagine storica" pubblicato alla fine del 2002 e arrivato già alla quarta edizione, abbiamo chiesto di orientarci sulle polemiche scatenate dal film di Mel Gibson. Poiché il film si attiene fedelmente ai Vangeli, la polemica si trasferisce su di essi. Come si può rispondere alla domanda: chi ha ucciso Gesù Cristo? 
«Intanto bisogna distinguere i Vangeli, testimonianze di fede, dalla storia. Gli interessi che hanno guidato gli autori dei Vangeli sono quelli di piccole comunità di fede, non interessi di ricostruzione storica. Ma anche queste testimonianze non direttamente storiche riguardano un personaggio realmente esistito. Dunque: Chi ha processato, chi ha condannato, chi ha fatto eseguire la sentenza? Non ci sono dubbi. Abbiamo anche la testimonianza di Tacito che dice che sotto l'impero di Tiberio, procuratore Ponzio Pilato, Gesù venne torturato».
A proposito di torture, nel film vengono molto sottolineate violenza e crudeltà: c'è un riscontro storico di questo? 
«La crocefissione era una pena tipica dell'impero romano, nel mondo greco non veniva praticata. Racconta Giuseppe Flavio che gli alberi in Palestina non bastavano più, tanto era diffusa la pratica di questo supplizio». Come si ripartiscono le responsabilità sulla morte di Cristo? 
«La massima responsabilità è di Ponzio Pilato, giuridicamente responsabile. Un giudeo non avrebbe neanche potuto comminare questa pena: non era in suo potere. I romani hanno processato Gesù, emesso e fatta eseguire la sentenza. Il punto controverso da parte ebraica è la partecipazione attiva degli ebrei al processo e alla sentenza. "Processo e morte di Gesù, un punto di vista ebraico" di Cohn, giudice della corte d'appello d'Israele, sostiene che se si vuole estirpare l'antigiudaismo bisogna dire che nessun ebreo ebbe a che fare con la morte di Gesù: la tesi di Cohn è che Caifa e i suoi avrebbero fatto il possibile per salvare Gesù. Tesi dal punto di vista storico impossibile. Caifa e il suo gruppo parteciparono come accusatori in tribunale limitandosi alla funzione di pubblico ministero nei confronti di un ribelle».


Piacerebbe tanto a De Sade

di David Ansen 

A Mel Gibson piace indubbiamente Gesù. Ma a giudicare da "The Passion of Christ", gli piace anche mostrare sullo schermo la carne martoriata, straziata, dilaniata, cosparsa da rivoli di sangue, e far sentire lo scrocchio delle ossa fracassate e i gemiti di chi sta patendo l'ultima agonia fisica. Questa singolare manifestazione di fede, profondamente. personale, del famoso cineasta, si distingue nettamente dalle rappresentazioni, pietistiche, sentimentali della figura di Cristo tramandate dalla cultura popolare. Implacabilmente crudele, il suo film potrebbe essere definito il "Vangelo secondo De Sade" . E nonostante l'accoglienza entusiastica che ha ricevuto dalle chiese evangeliche, offre uno spettacolo sconsigliabile a qualsiasi fanciullo. Agli occhi di un pubblico laico, suscita incubi più che devozione. 
E quel che più colpisce è il suo sadismo, non il suo presunto antisemitismo (che escluderei, nel caso di Gibson, anche se i fanatici potrebbero trovare facili pretesti per accusarlo di questo). In tutti i film che ha interpretato o diretto, vi è sempre una forte vena di sadomasochismo. Un gusto per l'orrido e il martirio, come nelle scene di decapitazioni e sventramenti di "Braveheart", che ha vinto l'Oscar. Per non parlare dello spettacolo offerto da lui stesso, nel ruolo dell'eroico guerriero scozzese, impalato su una croce. 
In "Mad Max" e "Letal Weapon", come in "Ransom" e "Signs" (dove impersona il ruolo di un prete che ha perso la fede), il protagonista viene percosso e perseguitato e spinto fino al suicidio. Vi è dunque un filo rosso che attraversa tutte le sue storie cinematografiche e fa nascere il sospetto che, inconsciamente, "The Passion of Christ" sia per Gibson una sorta di autobiografia. Tranne alcuni flashback, il film si concentra sulle ultime 12 ore di vita del Nazareno.


Vediamo dapprima Gesù (interpretato da James Caviezel) tremante di paura,che prega fra le brume dell'orto di Getzemani, dove viene tentato da Satana, nelle sembianze di una pallida, donna androgina incappucciata che sembra uscita da un'opera di Bergman. L'iconografia è quanto mai eclettica; In vari momenti le immagini richiamano alla mente i dipinti di Caravaggio (con i grotteschi cherubini che istigano Giuda al suicidio), raffigurazioni pittoriche della Crocefissione e della Pietà del Cinquecento e del Seicento e film dell'orrore quali "L:esorcista" e "La scala di Giacobbe".
Quando Gesù viene arrestato dagli sgherri del sommo sacerdote Caifa, scoppia una zuffa; Pietro trancia l'orecchio di un soldato e, per la prima volta, Gibson ritrae la scena al rallentatore, invitandoci a soffermare l'attenzione sulla violenza fisica e l'umiliazione. Da buon regista padrone di una tecnica cinematografica di grande efficacia, sa come far presa sul pubblico. Ma la cruda forza delle immagini (abilmente inquadrate da Caleb Deschanel) e la loro durata (la scena in cui i soldati romani slegano Gesù e lo torturano sembra interminabile) tendono a occultare il messaggio sottostante.


«Chi di spada ferisce, di spada perisce», dice Cristo, ponendo fine alla mischia nell'orto di Getsemani. Più tardi, un frammento di questa saggezza ci verrà impartito dal Discorso sul Monte, in cui Gesù esorta i suoi seguaci ad amare i loro nemici. 
Ma questi momenti hanno scarso peso sulla struttura complessiva del film: sono gli equivalenti cinematografici delle note a piè di pagina di un libro e non esprimono la forza drammatica di Gibson. Quel che ci rimane impresso è l'immagine della folla che strappa gli occhi al ladro crocefisso accanto a Gesù, punito da Dio per aver schernito suo figlio. 
Caviezel si cala bellissimo nel personaggio, dal punto di vista fisico, ma ha scarse possibilità di manifestare il carisma spirituale del Messia, il cui tratto più notevole appare la capacità di assorbire il dolore. Ed è stupefacente che la sequenza più attenuata sia la Resurrezione stessa. Girata a lenti scatti in successione, conclude la storia in modo anomalmente muto. Da un punto di vista puramente drammatico, l'interminabile rimarginazione della ferità è controproducente. Il film mi ha provocato una reazione di rigetto, un desiderio di prendere le distanze: la stessa sensazione che ho provato quando ho visto la famosa scena quasi pornografica dello stupro girata in tempo reale da Gaspar Noe in "Irreversible". Anziché rimanere commosso dalle sofferenze di Cristo, o intimorito dal suo sacrificio, mi sono sentito maltrattato da un cineasta che vuole punire il pubblico non si sa per quali peccati.


Ad altri "The Passion of Christ" può essere apparso come un'opera ispirata da una forte spiritualità. Non so quali reazioni possa aver suscitato fra i credenti, ma ciò che lascia un profondo retrogusto permanente è la furia di Gibson, non la sua fede. 

Michael Lerner, ex guru di Bill Clinton, sostiene che il film su Cristo è in linea con la politica di Bush. Che vede soltanto un mondo pieno di pericoli e di nemici da eliminare

La biografia di Michael Lerner non è esattamente quella di un rabbino tradizionale. Figlio della Berkeley University degli anni '60, Lerner ha contato tra i suoi amici Martin Luther King ed è finito in una lista dell'Fbi, indicato come uno dei più pericolosi criminali d'America». Una militanza politica molto radicata negli insegnamenti della Torah e nella convinzione che uno degli errori della sinistra sia quello di avere ceduto agli avversari la sfera della spiritualità. E che lo ha portato, parlando della «politica del significato», a diventare per un paio di anni uno dei guru più ascoltati della Casa Bianca di Bill e Hillary Clinton. Lerner è anche un fautore del riavvicinamento e del dialogo tra israeliani e palestinesi, una posizione che gli ha procurato svariate minacce di morte da parte dei coloni che lo hanno accusato di essere un traditore. Fondatore ed editore di "Tikkun", un bimestrale di politica, cultura e spiritualità, Lerner è una delle voci più ascoltate e controverse dell'ebraismo americano. 

Rabbino Lerner, perché così tante passioni attorno a un film? Come lo spiega? 
«Per 1.900 anni, i cristiani hanno usato la crocefissione per incolpare gli ebrei, un insegnamento dell'odio che ha avuto il suo culmine con i campi di sterminio di Hitler. Con il Concilio Vaticano Secondo tutto questo sembrava quasi finito, ma il film di Mel Gibson ha riaperto quelle passioni che, dopo secoli e secoli, sembravano sopite. Fare di tutto questo una questione tra ebrei e cristiani mi pare comunque un po' riduttivo».


Perché? Che cosa altro vede? 
«In seno alla cristianità c'è, e c'è sempre stata, una lotta tra due visioni, tra quella del mondo come un luogo pericoloso e pieno di insidie e di. nemici, e quella fondata sull'amore e la generosità, tra quelli che vedono solo la crocefissione e quelli che abbracciano soprattutto la resurrezione. Mel Gibson ha scelto la prima visione, ha marginalizzato il messaggio ottimista e di amore di Gesù. Optando per questa scelta si è schierato con quelli che pensano che il mondo sia pieno di Male. Ha fatto il film perfetto per George W. Bush, che ci ricorda ogni giorno che, se non gli dai ascolto, rischi di finire crocefisso».


Questa dicotomia, in realtà, è dentro ogni religione, a cominciare da quella ebraica. 
«È vero, anche nella Torah c'è la voce della vendetta e della paura e quella dell'amore. È una lotta che si riflette un po' in ogni religione e la vedi anche nell'approccio degli ebrei al problema palestinese, divisi tra quelli che pensano che puoi conquistare la sicurezza solo con il dominio e con la politica ripugnante del governo Sharon. e quelli che vogliono il dialogo e la riconciliazione».


Con le loro proteste, personaggi come Marvin Hier e Abraham Foxman della Anti-Defamation League hanno finito probabilmente per dare rilevanza a un film che sembrava relegato all'oscurità. 
«Mi rallegro per il fatto che sono riusciti a convincere Gibson a tagliare la battuta più incendiaria del film, quella sul sangue di Cristo che ricadrà sugli ebrei e sui loro figli. Ma penso che la forma di intervento più efficace sia quella della pressione sulla Chiesa, che dovrebbe analizzare e accettare le sue responsabilità storiche nella diffusione dell'antisemitismo. Gibson è il prodotto di questi insegnamenti, non riesce a vedere che la tesi secondo cui Gesù Cristo è stato crocefisso contro il volere di Ponzio Pilato è un assurdo. È come pensare che l'esercito Usa è in Iraq per rispondere alle esigenze e alle domande degli iracheni». 

Lorenzo Soria


Calvario shop

Dopo le figurine di padre Pio, i cappellini del Vaticano e le felpe di Fatima, anche il cattolicissimo Mel Gibson non ne ha potuto fare a meno. Così una sezione del sito Internet del suo "La Passione di Cristo" (ww.sharethepassionofthechrist.com) è dedicata alla promozione e vendita di gadget, stampe, libri e altri prodotti ufficiali del film. Eccoli. 
Certificati di fede. 
Come si legge sul sito sono oggetti che «aiutano le persone nella testimonianza della propria fede». Si va dalla spilletta (2,49 dollari) a una specie di amuleto da tenere sempre in tasca (2,99 dollari). Tutti e due gli oggetti hanno una versione con croce o con il termine passione scritto in aramaico. E sono accompagnati da carte (di cui sono previste anche confezioni da 25 al prezzo di 5,99 dollari) con un riassunto del perché Cristo è morto per noi, preghiere e passi della Bibbia. 
Un chiodo e una croce
Il fiore all'occhiello della sezione "gioielli" è senza dubbio il cordoncino nero (di cuoio) che ha come ciondolo un chiodo di peltro, della forma simile a quelli che hanno crocifisso Gesù. Prezzo: da 12,99 a 16,99 dollari a seconda dalla lunghezza del laccio e del chiodo. Chi lo trovasse di dubbio gusto può ripiegare su braccialetti (12,99 dollari), catenine (a partire da 9,99 dollari) e portachiavi (6,99 dollari). In questi tre casi il pendaglio è una croce. 
Santa colazione
Al prezzo di 7,99 dollari, le tazze di ceramica per la colazione sono decorate con versi della Bibbia, scene drammatiche del film e scritte in aramaico. Le splendide confezioni con cui vengono recapitate «le rendono regali perfetti per dimostrare la tua passione per Cristo». I disegni, come viene indicato nella descrizione del prodotto, resistono sia alla lavastoviglie che al lavaggio a mano. 
Libri e stampe
Ed ecco la sezione di più alto livello culturale. Qui è possibile trovare il libro "The Passion" (24,99 dollari), con immagini tratte dal set del film e versi della Bibbia che «descrivono la Passione di Cristo». I principali fotogrammi della pellicola sono anche i soggetti delle stampe che si possono acquistare sia con una semplice cornice (30 dollari) che con una in legno: 100 dollari. 

Federico Ferrazza

 

THE PASSION DI MEL GIBSON - DON BASILIO GAVAZZENI GLI SCRIVE

"Vita pastorale" 5(2004) 

DON BASILIO GAVAZZENI SCRIVE A MEL GIBSON

di Alberto Bobbio

Durante le riprese di La Passione di Gesù l'attore-regista chiese al parroco del luogo di celebrare con il Messale di san Pio V. AI suo rifiuto, ne nacque un confronto teologico-storico sul senso del sacrificio, sull'universalità della salvezza, sul ruolo dei giudei. Alcuni temi sono stati precisati con due lettere del sacerdote, che pubblichiamo a parte.

Gli ha scritto due lettere dandogli del "tu", come si addice a un parroco che parla a un suo fedele. Gli ha scritto con stima e affetto, perché quell'americano, venuto a casa sua a girare La Passione di Cristo, un poco andava corretto. Don Basilio Gavazzeni, 59 anni, sacerdote monfortano, bergamasco, da 25 anni a Matera, parroco di Sant' Agnese, con Mel Gibson ha discusso a lungo nella sua canonica irta di libri al punto che neppure c'è da sedersi. Oggi racconta la tempra resistentissima di atleta combattente, la scintillante destrezza del modo di ragionare del regista del film più potente, più imbarazzante e più crudele sulle ultime ore di Gesù che sia mai stato prodotto.

Matera val bene Gerusalemme
Tutto è cominciato una sera d'autunno con un telefonata per chiedere la differenza tra il Messale romano detto di San Pio V e quello promulgato da Paolo VI dopo la riforma liturgica seguita al concilio Vaticano II. Don Basilio ricorda che ci fu una richiesta strana e sorprendente: «Mi chiesero se era possibile celebrare la messa facendo uso del Messale preconciliare. Risposi che c'erano dei problemi, che non si poteva risolvere tutto con una telefonata. E il giorno dopo mi trovai Mel Gibson in casa». Comincia così un colloquio prolungatosi durante tutta la produzione del film a Matera, settimane a discutere di teologia e di liturgia, di cinema e di storia, di esegesi e di apocrifi, del carisma di Pietro nella storia, di Concili e di verità dogmatiche, di dialogo religioso, di ecumenismo, di salvezza e del ruolo della grazia.

Adesso che il film ha registrato un grande successo nelle sale di tutto il mondo e attorno a esso si sono attorcigliate discussioni a non rmire, don Basilio ha accettato di rivelare questa esperienza singolare. E un prete che non si tira indietro, parla come una cascata sempre in piena, dotto e sapiente che conosce il cinema e la teologia, ha molto studiato e continua a farlo. C'è un piacere sottile nell'ascoltarlo. Comincia da Matera: «Non è città come le altre: ha già avuto la sua visibilità cinematografica con Pasolini».

Don Basilio va più in là e trova una giustificazione in Flavio Giuseppe, lo storico di Roma che racconta le guerre giudaiche: «Descrive in maniera dettagliata la Gerusalemme del tempo di Cristo che Tito si apprestava a distruggere: case che degradavano le une sulle altre, due colline che terminavano all'esterno in strapiombi profondi. È l'evocazione del Sasso Caveoso e del Sasso Barisano e della fenditura profonda del torrente Gravina. Matera val bene Gerusalemme. Anche per il clima, la roccia di calcarenite, i conci di tufo che cambiano colore con l'andare del sole. Vede, Carlo Levi, che la fece conoscere in Cristo si è fermato a Eboli, la definì bellissima e impressionante. La stessa sensazione è rimasta negli occhi di Pasolini e resterà in quelli di Mel Gibson». Dunque il parroco promuove il regista per la scelta dei luoghi, ma sul contenuto del film il confronto si fa serrato: «Non ci è stata tramandata una raffigurazione del Cristo reale. Questo spiegai a Mel Gibson, sottolineando che la sua era un bella sfida. Paragonai Mel Gibson al dito immenso, spropositato di san Giovanni Battista che nella crocefissione di Gruenewald indica il crocefisso. E l'impressione mi è restata anche adesso. Questo film e il suo regista sono parte di una sorta di segnaletica umana che orienta verso Cristo».

La forza della Passione

Dalla pittura parte la discussione con il regista americano: «Sapeva cosa voleva produrre. Ha osservato centinaia di dipinti. Me li ha descritti ad uno ad uno. Ho capito subito che Mel era un professionista curioso e assai perfezionista, in grado di conciliare arte e mercato, come poi è risultato. Per questo ha meravigliato tutti e ha provocato quell'enorme dibattito. Al primo incontro abbiamo discusso per ore sulla raffigurazione dell'Uomo della Sindone. Lui insisteva su un'idea di rappresentazione non oleografica, per far sparire il romanticismo che ha avvolto la Passione per secoli, senza quasi sangue. Affermava che per indicare la forza dell'azione redentrice occorresse scegliere una via decisa anche nelle immagini, quasi che bisognasse gridare e non più dire sottovoce le sofferenze enormi di quelle ultime dodici ore.

«La sua è stata una scelta. Continuava a ripetermi la forza delle Passioni seicentesche, in cui il sangue non era un elemento indifferente, e criticava per converso le immagini tiepide, consolatorie, non abbastanza potenti offerte nei secoli successivi. Abbiamo a lungo parlato del ruolo del sangue, della sofferenza nella redenzione, del dolore necessario a contrastare il male. Gibson ha scelto uno stile, direi, indelebile, ha utilizzato tutte le dotazioni e le strumentazioni del cinema, anche un robot. Era suo diritto farlo. Certamente il messaggio che ne esce è quello della Passione secondo Gibson e qui ci siamo davvero scontrati».

Don Basilio ricorda che il regista salendo le scale della canonica ha visto subito il Messale di San Pio V su una mensola: «Lo tengo lì come tanti altri libri. Lui lo ha notato perché accanto c'era una piccola statua della Madonna. Abbiamo incominciato a discutere dell'eucaristia: Gibson ne ha un'idea sacrificale e il film lo dimostra con grande chiarezza. Io cercavo di spiegargli la natura conviviale dell'eucaristia, per cui nessuno è predestinato alla salvezza, per cui non esiste un diritto automatico di qualche uomo, magari provocato dal dolore».

La discussione tra il parroco e il regista è andata avanti sul punto per molto tempo. E ogni tanto tornava nelle visite che don Basilio faceva sul set. Ma Gibson era irremovibile. Non ha accettato la formula della riforma liturgica del Vaticano II riguardo alla preghiera eucaristica. La traduzione nei sottotitoli resta quella del Messale di san Pio V: «Il sangue versato per voi e per molti», secondo la formula latina pro vobis et pro multis effundetur. Don Basilio non se lo scorda: «Un'identità forte contrapposta a un'altra altrettanto forte. Io sul Concilio non transigo. È stato come un duello, molto cavalleresco, ma sempre un duello. Ricordo gli occhi meravigliati di chi ci vedeva discutere. 

Gibson è un uomo assai preparato. Citava padri della Chiesa, documenti vaticani in latino senza sbagliare una parola, papi, concili. È un aspetto della personalità del gista inedito ai più. La mia impressione è che davvero abbia voluto fare il film per sciogliere un voto. Aderi a un cattolicesimo, direi, sui generis, fanciullesco e un po' spavaldo. Ho trovato molti punti deboli nella sua teologia, ma non posso dimenticare che a un certo punto mi ha confidato che per Cristo darebbe la vita». Anche di antisemitismo hanno parlato: «Ho avuto l'impressione, nonostante la sua avversione per il Vaticano II, che conoscesse bene il punto della dichiarazione Nostra aetate, ve si legge: "Sebbene le autorità ebraiche con i propri seguaci si siano adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua Passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo". 

Va ricordato che la cultura anglofona a cui Mel Gibson appartiene è quella più avanti negli studi sul Gesù storico». L'ultimo tema discusso è stato il ruolo delle donne. Don Basilio spiega che all'inizio l'idea del regista era quella di affidare anche a loro un ruolo molto crudo nelle invettive contro Gesù che saliva al Calvario, per far risaltare il ruolo della Madonna: «Alcune comparse di Matera mi vennero a raccontare il loro disagio a sputare contro Gesù e urlare insulti. Così ho parlato a Gibson del ruolo sempre per lo meno compassionevole delle donne, tramandato nella pietà popolare con l'immagine della Veronica. E ho l'impressione che il regista mi abbia ascoltato».

Alla fine don Basilio Gavazzeni è soddisfatto: «Il film ci costringe a misurarci con il Cristo da almeno tre punti di vista: della fede, della storia, della cultura». 

Prima lettera

Caro Mel, mi permetto di ricordarti che nei racconti evangelici sulla Passione, almeno una categoria di persone, fra quelle che appaiono attorno a Gesù, non risulta storicamente responsabile e complice di quanto si sta consumando, e non resta indifferente e insensibile davanti al Martire: le donne.

A parte la Madre e le parenti, vi sono le pie donne, v'è la moglie di Pilato che mette in guardia il marito dal compromettersi con un innocente, vi sono «quelle che, quando egli era ancora in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme». Esse pietose e piangenti seguono Gesù mentre trascina la croce al Calvario. La figura leggendaria della Veronica, carissima alla tradizione iconografica, compendia, appunto in una icona indimenticabile, l'atteggiamento femminile verso il Cristo avviato alla crocifissione. Poi le donne interverranno alla sepoltura; il mattino della Pasqua, per prime, si porteranno al sepolcro, con l'intenzione di trattare il corpo di Gesù con i profumi e gli unguenti rituali.

Esse avranno il privilegio della prima apparizione del Risorto, e riceveranno da lui l'incarico di riferire l'avvenimento ai discepoli. Sono sicuro che questo dato importantissimo ti è presente, ma ho voluto ricordartelo perché a molti può sfuggire, e non deve essere dimenticato dai tuoi collaboratori, e, in particolare, dalle comparse femminili. È verità storica, il cui riscontro nel film ne accrescerà la qualità, e farà piacere alle donne dei nostri giorni.
Con stima e affetto

d. Basilio Gavazzeni Matera, 5.11.2002

Seconda lettera

Seconda lettera
LA "IPSISSIMA VOX"

Caro Mel, 
ti debbo una risposta più rigorosa alla domanda più delicata che mi hai posto. E la stessa che ricorreva con varia insistenza fra i cattolici, dopo la riforma della liturgia figliata dal Vaticano II. Fu conseguente all'abbandono del latino che per secoli era stata la lingua liturgica e all'adozione delle lingue volgari.

Nel Messale romano, promulgato da san Pio V nel 1570 e rimasto in uso fino a quando la liturgia si adeguò al Concilio, la formula della consacrazione sul calice suonava "qui pro vobis et pro multis effundetur". Perché nel Messale romano promulgato da Paolo VI nel 1969, e ora presente su tutti gli altari, la formula consacratoria suona allo stesso punto "versato per voi e per tutti"? Perché "molti" è stato trasmutato in "tutti"? Non si è perpetrata una sostanziale infedeltà alla lettera e allo spirito delle originarie parole di Cristo? Questa la tua domanda.

Quella mattina avevamo sotto gli occhi due Messali Romani, ma era evidente che tu ti rifacevi ai testi neo-testamentari riguardanti l'istituzione dell'eucaristia. Non era nemmeno il caso ri veficare sul Novum Testamentum graece et latine del buon Augustinus Merk (1957) né sul migliore manuale di critica testuale, quello di Bruce Metzger (Paideia, 1966). In realtà gli originali υπερ πολλων e περι πολλων in Marco e Matteo (soltanto in essi) e tradotti nella "Vulgata" pro multis e così passati nel Messale di san Pio V, vengono tradotti "per tutti" in quello di Paolo VI. 

Sì, vi è stata una variazione, ma non tale da inficiare la sostanza della fede, anzi! La sostanza è che il sacrificio di Cristo merita la salvezza per tutti gli uomini: ne resteebbe escluso solo chi la rifiutasse. 1'espressione "per tutti" afferma l'universalità potenziale della salvezza, che potrebbe essere intaccata solo dall'autoesclusione di alcuni uomini, ma non afferma l'universalità fattuale, come se fosse comunque dovuta a tutti.

Ambedue le traduzioni sono corrette e ortodosse, mi ha confermato Piersandro Vanzan, teologo gesuita in forza presso la Civiltà cattolica che ho consultato telefonicamente. Ognuna sottolinea sfumature diverse delle parole di Gesù che, tuttavia; sono sostanzialmente rispettate. Ma la seconda traduzione è più fedele allo spirito contenuto nella lettera. Il greco πολλοι non contiene solo il concetto di pluralità, ma anche quello di totalità. Piersandro Vanzan mi ha ricondotto il problema alla vasta problematica del tradurre che oscilla sempre fra lettera e spirito. Ha aggiunto che un razionalismo cartesiano nel tradurre i testi greci neo-testamentari in cui traspaiono semitismi non sarebbe certo il meglio e "tradirebbe" di più. E mi ha ricordato pure come due cristiani geniali come san Girolamo e sant'Agostino contendevano con tutte le risorse della retorica sul senso di alcune parole, ma poi fraternizzavano nella condivisione del mistero cristiano.

L'espressione "per tutti" è più vicina che pro multis al senso inteso da Cristo, perché essa recupera il senso inequivocabile del semitismo sotteso all'espressione greca. Un senso che è inclusivo: riguarda cioè gli uomini di origine pagana che, fuori dei recinti d'Israele, accoglieranno il Vangelo. Che cosa intendono le parole di Cristo riferite da Marco e Matteo è esplicitato con chiarezza dall'espressione raccolta dall'evangelista Giovanni che specifica υπερ της του κοσμου ζωης «per la vita del mondo» (Gv 6,51). Che è espressione inclusiva, come "per tutti". 

La portata dell'affermazione di Cristo, sul punto di morire di una morte "vicaria", non solo per i credenti che costituiscono il nuovo Israele, ma anche per i popoli cosiddetti "gentili", che si apriranno alla salvezza, è spiegato in maniera esaustiva dall'autorevolissimo esegeta J. Jeremias, fondandosi soprattutto sul testo riguardante il Servo di Jhwh in Isaia 53, in cui il senso inclusivo di molti-tutti si trova «non meno di cinque volte».

Ti faccio notare che una centrazione letteralistica sull' espressione "pro multis" finirebbe per misconoscere l'essenziale universalità della salvezza meritata da Cristo, e rischierebbe di aprire il varco a un concetto di predestinazione tutt'altro che cattolico. E infine, se Mel dà tanta importanza all'aramaico, senza dubbio per ritrovare il suono autentico della "ipsissima vox" di Cristo e dei suoi contemporanei, la coerenza impone che egli apprezzi l'espressione "per tutti" della formula consacratoria nel Messale di Paolo VI: proprie perché, perforando con le giuste strumentazioni sia lo strato latino della "Vulgata" e sia quello greco dell'originale neo-testamentario a disposizione, ha raggiunto con certezza il semitismo anteriore, appunto inclusivo, e non esclusivo, con il quale Gesù Cristo si era espresso.

Questa è una piccola risposta quale può venire da un "curé" quasi di "campagne", che è lontano da luoghi della teologia pura, ma è come lui sensibile all'oro assoluto e irrecusabile delle parole di Cristo trasmesse alla Chiesa fondata sul carisma di Pietro.
Con stima e affetto incondizionati.

Don Basilio
Matera, 15.11.2004

 

THE PASSION DI MEL GIBSON SECONDO 'FAMIGLIA CRISTIANA

"Famiglia cristiana" 12/2004

Attualità

di Maurizio Turrioni e Roberto Parmeggiani

"La Passione di Cristo"

Abbiamo visto in anteprima il discusso film di Mel Gibson 
La passione secondo Mel

Grande fascino, attori che recitano in aramaico e latino, splendide scenografie. ma serviva davvero tutta quella violenza? «sono stato fedele ai vangeli», ribatte il regista. 

Il cielo plumbeo, bluastro, velato dalla luna. Lo sguardo scende. Le sagome degli alberi e, in mezzo alla bruma, un uomo che bisbiglia verso l'alto. La lingua è arcaica, aspra. Altri tre uomini giacciono addormentati. Poi, fiaccole che si fanno strada nell'oscurità. Uomini armati di spade. Il bacio. Il tradimento. La colluttazione. 
In luogo delle troppe parole spese attorno a quello che è ormai un evento mediatico, ci sembra più giusto cominciare a parlare di La Passione di Cristo con la suggestione delle immagini. Perché Mel Gibson (autore, produttore e regista del film che uscirà il 7 aprile in 500 sale italiane) è uno che sa fare cinema. Ed è credente. A modo suo, forse. Ma chi lo conosce lo dice sincero. Solo un divo come lui poteva imbarcarsi in tale impresa: portare ancora sullo schermo la storia di Gesù, catturando il cuore degli spettatori con attori che recitano in aramaico e latino. Pazzesco. O geniale. 
Il suo merito è nel proporre il grande cinema riportando d'attualità un tema, il messaggio datoci da Gesù col suo sacrificio, che pareva oggi desueto. La cinepresa squarcia il velo del tempo e ci precipita nel Giardino degli Ulivi. Senza preamboli o spiegazioni. Cronaca. Tutti, d'altronde, conosciamo la storia. Anche se così non l'abbiamo mai vista. 
«Da tanto volevo fare questo film», spiega Gibson; « 12 anni fa ho vissuto un momento di grande crisi. Ero arrivato a un tale livello di miseria interiore che ho sentito di dovermi fermare. Grazie alla fede, e in specie all'immagine della Passione, ho ritrovato la mia strada».
Personale la genesi del film. Come personale è la visione, iperrealistica, delle torture subite da Gesù. 
Dal primo colpo di frusta all'ultimo respiro sulla croce, un'orgia di sangue e di dolore. Un vero martirio. Necessaria tanta violenza? 
«C'è chi sostiene che Gesù abbia ricevuto solo 39 frustate, ma sono state di più», dice il regista, 48 anni, studioso di testi sacri. «I segni lasciati sulla Sindone dimostrano che non c'era più pelle sul corpo di quell'uomo. È questa l'immagine di Cristo in cui credo. Commuove pensare fino a che punto sia stato capace di arrivare per amore dell'umanità».
Gibson ha fatto centro. Almeno a giudicare dall'eco delle polemiche. E dai numeri: costato 25 milioni di dollari, La Passione di Cristo solo Oltreoceano ne ha già incassati 228. 
Il fascino visivo della pellicola è straordinario. L'aspro confronto del prigioniero coi sacerdoti del Sinedrio. L'incertezza di Ponzio Pilato. La dissolutezza di Erode. La fustigazione selvaggia di Gesù fatta dai soldatacci romani. La folla che preferisce l'assassino Barabba. La straziante salita al Golgota. Gesù che cade roteando lo sguardo. I flashback, inseriti con sapienza, con cui Gibson parte da un particolare (un calzare, una bacinella) per rievocare momenti della vita di Gesù. Un'escalation di violenza e di dolore. Fino ai chiodi che penetrano le carni di Cristo già agonizzante. Urla l'anima. Le labbra si serrano. Le immagini sono virate color seppia. Un rosso terrigno e soffocante. Le voci, in latino e aramaico, colpiscono ben oltre: i quasi inutili i sottotitoli. Lo scempio pretende cuore e stomaco forti. Cristo finalmente muore. E risorge. 
Non altrettanto facile è per lo spettatore riprendersi. Il cuore va a mille. Merito delle scenografie di Francesco Frigeri (ricreate tra Matera, dove Pasolini girò il Vangelo secondo Matteo, e Cinecittà), dei costumi di Maurizio Millenotti. E degli interpreti. Gli italiani sono Mattia Sbragia, Sergio Rubini, Monica Bellucci, Luca Lionello, Claudia Gerini, Toni Bertorelli, Sabrina Impacciatore: tutti bravi oltre l'immaginabile. Poi il bulgaro Hristo Shopov, Pilato, e la rumena Maia Morgenstem, umanissima Maria. Fino all'americano Jim Caviezel, forse il più intenso Gesù dello schermo. Ruolo non piccolo, poi, quello di Rosalinda Celentano, ambiguo Satana tentatore, presenza immanente che sembra poter assolvere il film dall'accusa di antisemitismo: tutti, ebrei e romani, paiono strumenti di un disegno superiore. È l'intero genere umano che deve vergognarsi. 
«Il mio film aderisce alle Scritture», ribatte Gibson. «La mia interpretazione si rivela solo in certi dettagli: i Vangeli, ad esempio, non parlano di Maria che asciuga a terra il sangue di suo figlio».


Tornare al messaggio originario
E le polemiche? «Politica, soldi, egoismo oscurano il vero significato della religione», accusa Me!. «Credere dovrebbe voler dire fede, amore, perdono. Solo modo per eliminare tutto il marciume è tornare al messaggio originario».
E le contestate parole di Caifa, che invoca la maledizione sugli ebrei di fronte al Cristo morente? «Antisemitismo è l'aggressione deliberata verso gli ebrei in quanto tali. Una colpa, per la mia fede», puntualizza Gibson. «Io credo nei Vangeli. Il mio film è solo sul sacrificio di Gesù. Noi l'abbiamo ammazzato!». 
Malgrado tanto sangue, l'immagine che resta più negli occhi è un flashback della Vergine: vede il figlio martoriato cedere sotto il peso della croce e le ritorna in mente quando, da bambino, era caduto e lei era corsa a soccorrerlo. Impossibile trattenere una lacrima.

Confronto tra il rabbino Laras e monsignor Ravasi

«Gibson è un regista, non un teologo»

Il biblista: «Punta sul sacrificio e trascura la pasqua». Il capo degli ebrei di Milano: «Temo un passo indietro».

Il film è appena finito. Il rabbino capo di Milano Giuseppe Laras e il biblista monsignor Gianfranco Ravasi si affrettano fuori dalla saletta in cui hanno assistito, invitati da Famiglia Cristiana, a un'anteprima di La Passione di Cristo di Mel Gibson. Si affrettano: un po' per arrivare presto in redazione, dove discuteranno del film; un po' per prendere una boccata d'aria, dopo un'enormità di scudisciate, sangue e dolore. 
«Da spettatore», esordisce Laras, «mi ha colpito tutta questa violenza, per la quale il primo aggettivo che mi viene è "terribile". Una violenza incredibile, inaudita, forse anche improbabile. Ma, al di là del giudizio di merito, mi preoccupa l'impatto che il film può avere sulle persone comuni: anch'io ho provato grande emozione, e questa visione delle sofferenze e della morte di Gesù può alimentare sentimenti antiebraici, rinfocolare queste tensioni, questi stereotipi, soprattutto nelle persone semplici, che poi sono la parte che ci interessa di più. Come accade nel dialogo tra ebrei e cristiani: quando esso si svolge a livello alto va tutto bene, ma quando deve calare in basso trova difficoltà, resistenze».
Laras, rabbino capo di Milano da 24 anni, entra nel vivo delle polemiche suscitate dal presunto antisemitismo del film di Gibson, ma le smorza, sinceramente preoccupato del fatto che tanto clamore possa soffocare il dialogo.


Meglio ascoltare il Papa.
«Con tutto il rispetto», dice, «Mel Gibson non è un teologo, è un regista. Consiglierei di ascoltare il Papa, non lui. Il film è giocato sulla passione, cioè sull'aspetto della sofferenza e della morte di Gesù, e trascura il versante della risurrezione («È vero», interviene Ravasi: «Alla risurrezione sono dedicati i tre minuti finali su 126»). Se si voleva lanciare un messaggio, poteva essere un messaggio di vita e speranza. Credo che gli effetti potenziali di questo film siano antitetici al Concilio Vaticano II e al documento conciliare Nostra aetate: è un passo indietro rispetto a queste tappe che ci hanno aiutato ad andare avanti, a eliminare molte suggestioni. Noi dobbiamo impegnarci di più, spendere di più sul dialogo, nel senso di non lasciarci dividere, di incontrarci di più per riprendere il cammino insieme».
Il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ha chiesto alla Chiesa di prendere le distanze dal film… «Io non mi sento di dire alla Chiesa che cosa deve fare», continua Laras. «Ma è vero che se si indicassero, da parte cristiana autorevole, i rischi che possono derivare dal film, questo potrebbe aiutare a evitare altre fratture. Con alcune dichiarazioni che ho letto si rischia di compromettere il cammino che faticosamente si è fatto. E non credo che ne valga la pena».
Monsignor Ravasi annuisce, condivide le preoccupazioni del rabbino. Ma porta il discorso all'interno del mondo cattolico. «Il film è l'occasione per porsi almeno tre questioni: quella storico-critica, quella teologica e quella artistica. La prima riguarda gli eventi in quanto tali. Molti oggi chiedono di ricostruire ciò che è accaduto in quelle ore. Noi dobbiamo rispondere, non dicendo: "L'avete visto nel film, quella è la verità". Dobbiamo tornare a studiare i Vangeli, perché c'è la tentazione di identificare il film con il testo evangelico».
«Poi c'è il percorso teologico», continua Ravasi. «È giustissimo ribadire, come fa il rabbino Laras, che Gibson non è un teologo. Il suo approccio è piuttosto ingenuo e la sua rilettura dei Vangeli è costruita secondo un orientamento tradizionale. Si vede dall'introduzione di elementi apocrifi, e soprattutto dalle citazioni (fino al particolare del nome del centurione, Abenedar) delle visioni della Emmerick. È una lettura della passione e della morte di Gesù con categorie della teologia tradizionale, anche nel senso di un po' datata, in cui si pone tutto l'accento sull'aspetto sacrificale».


Un grande sacrificio tragico
«Questo è un elemento valido della teologia cattolica, ma non l'elemento esclusivo (e comunque, se lo si sceglie, poi si deve per forza sottolineare il sangue il più possibile), perché la teologia riconosce che la morte di Cristo è, in pratica, la scelta estrema di Dio di condividere la natura umana. Soffrire e morire sono categorie fondamentali dell'uomo, ma la partecipazione di Dio al dolore umano è un'esperienza d'amore, una scelta compiuta per assumere su di sé la sofferenza allo scopo di trasfigurarla. 
Questo film, invece, fa vedere solo un atto sacrificale drammatico, eroico, tragico, ma si nota poco la dimensione dell'amore: il progetto di Dio non è qualcosa di fatalistico per cui Gesù, schiacciato, è costretto ad andare avanti. I Vangeli, di cui non si rimpiange mai abbastanza la sobrietà, ci aiutano a capire questa dimensione. Lo scopo di Gesù non è diventare uomo per morire come un uomo, ma di far sì che la realtà umana, anche il dolore, sia trasfigurata».
Interviene il rabbino: «Il film trasmette un'idea opprimente del dolore. Sembra che ci sia compiacimento nel sottolineare il piacere sadico dei persecutori romani nell'infliggere la sofferenza. Ma noi dobbiamo sperare al di là di quello che suggerisce il film. È un'occasione mancata, Gibson poteva farci vedere un po' più di vita dopo la morte e la sofferenza. Ma non bisogna dargli troppa importanza, è solo un film».
Riprende Ravasi: «Gibson ha scelto di parlare soltanto della passione. Ma ha ragione il rabbino: anche dal punto di vista cristiano, non si può arrivare solo fino alla crocifissione e alla tomba, e non parlare della Pasqua. Sono realtà intrecciate e l'ultima spiega le precedenti, permette di vedere che questo dramma non sfocia nella disperazione. A livello artistico ci sono elementi positivi: l'ammiccare alla storia dell'arte e il gioco degli sguardi, bellissimo. Per questo dobbiamo cercare di non avvitarci attorno alla polemica. TI rischio che segnala il rabbino esiste».
Tornare a parlare di Gesù
«È il rischio che la gente comune prenda su di sé questo supplizio, lo carichi e dica alla fine: "Maledetti quelli che hanno portato a questo", dimenticando che Nostra aetate dice realisticamente che il Sinedrio c'entra, ma che non tutti gli ebrei volevano uccidere Gesù. Trovo anch'io che l'eccesso narrativo della violenza non giovi al film. Si doveva cercare di dire, alla fine, una parola di speranza, che nei Vangeli è l'ultima parola».
Quindi il film è un'occasione mancata, come dice il rabbino Laras? «Siamo in una società mediatica», risponde Ravasi, «eventi come questo diventano quasi celebrazioni, e purtroppo possono avere un'eco maggiore dei discorsi del Papa. Allora, anziché metterci a condannarlo o a glorificarlo, partiamo dal film per tornare a incidere sulla conoscenza dei Vangeli da parte dei cristiani. È una grande opportunità per parlare di Gesù, ma stiamo attenti a non appiattirci sulla lettura che ne dà Gibson». 
Roberto Parmeggiani

Sarà beata la mistica "ispiratrice"
A ispirargli la sceneggiatura di The Passion of the Christ, secondo quanto ha raccontato lo stesso Mel Gibson, è stato il testo La dolorosa passione dei nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo (recentemente rieditato dalle edizioni San Paolo), attribuito alla mistica tedesca Anna Caterina Emmerick, nata nel 1774 e favorita sin dalla fanciullezza da frequenti visioni di Gesù, della Madonna e di numerosi santi. La particolare devozione che ella aveva verso la passione del Redentore la spinse a chiedergli di partecipare alle sue sofferenze: nel 1798 cominciò a provare la coronazione di spine e dal 1812 ricevette le stimmate visibili. 
In realtà, a pubblicare nel 1833 quelle pagine fu lo scrittore Clemens Maria Brentano (1778-1842), noto esponente del romanticismo tedesco, il quale per curiosità si era recato nel 1818 a visitare la Emmerick e ne era rimasto così colpito da decidere di diventarne il "segretario", trascrivendo le visioni che ella raccontava. Di fatto, egli arricchì troppo spesso quelle narrazioni con la propria vivace fantasia, tanto che i volumi scaturiti dalle rivelazioni della mistica non hanno mai ricevuto una specifica approvazione della Chiesa, pur se sono stati letti da molti fedeli che ne hanno tratto edificazione spirituale. Altri libri compilati da Brentano hanno avuto come tematiche la vita della Madonna e la vita di Cristo, e sono stati pubblicati postumi fra il 1852 e il 1860. 
I pesanti interventi di Brentano hanno decisamente rallentato l'iter del processo di beatificazione di Anna Caterina Emmerick, per la quale, nonostante fosse morta nel 1824, il decreto sull'introduzione della causa è stato emanato soltanto il 4 maggio 1981, dopo che erano state risolte le problematiche riguardanti le opere che le venivano attribuite. 
Il 24 aprile 2001 sono state riconosciute le sue virtù eroiche. Nel luglio dello scorso anno è invece stato approvato il miracolo - relativo a una suora guarita nel 1880 da una patologia di natura tubercolare - che ne consentirà la beatificazione, presumibilmente nel 2005. 

Saverio Gaeta

 

THE PASSION. MEL GIBSON RILEGGE LA PASSIONE DI GESÙ

A PROPOSITO DI "THE PASSION"

Quale Cristo per il XXI secolo? 

di Mario Dal Bello

Mel Gibson rilegge la Passione. 

Spettacolo ed eccesso, ma pure intuizioni di spessore, come sulla figura di Maria. Che scioccano e costringono a riflettere sul dolore ed il perdono.
Il Cristo seduto accanto alla tomba. Osserva il suo sudario sgonfiarsi. Si alza ed esce, col corpo luminoso, verso una vita- nuova. Così Mel Gibson immagina, forse sulla scorta di Rembrandt, la resurrezione. Due minuti, dopo due ore in cui questo corpo ora abbagliante, è stato martoriato all'inverosimile. Troppo poco, per alcuni: una visione che non punta alla Pasqua, quasi senza speranza. Intuizione notevole, per altri, a dire che la resurrezione è tuttora in atto. 

Gibson divide. Ma succede ad ogni film su Gesù, personaggio «fascinoso e inafferrabile» al tempo stesso, come ha commentato don Dario Viganò su Avvenire. Per questo, se è naturale che l'arte, e quindi anche il cinema, ne tenti una rappresentazione, resta vero che nessuna delle oltre cento versioni filmiche può vantare d'essere quella "vera" e "giusta". Cristo attira, ma sfugge: troppo grande per essere racchiuso in uno schema unico, seppur artistico. Ciò nonostante, appare ovvio che ogni regista ne offra una propria visione che è anche, in certo modo, specchio del tempo in cui vive. 

Gibson immagina il racconto della Passione come una colossale "sacra rappresentazione" a forti tinte, riannodandosi all'iconografia dei Sacri Monti, delle processioni mediterranee, delle raffigurazioni iperrealistiche del Christus patiens che hanno accompagnato l'immaginario collettivo fino al primo Novecento, passando attraverso le vie crucis devozionali e le opere d'arte altomedievali e rinascimentali nordiche: Bosch, van der Weyden, Brueghel e soprattutto Grunewald. 

Tradizione dunque, con un notevole accento sulla "mistica del sangue" che ha avuto una forte eco in personalità del passato, fra cui Anna Caterina Emmerick, da cui sembra Gibson abbia attinto nella sua interpretazione-rappresentazione del testo evangelico. 

L'accentuazione sul sangue e sull'orrore del martirio può scioccare. Ma può anche essere occasione di una riflessione salutare. Da parte dei credenti, che di Cristo rischiano di avere un'immagine disincarnata, dimenticando l'obbrobrio e la crudeltà di un supplizio che i romani detestavano (Cicerone) e che i primi cristiani temevano di rappresentare. E chi non crede, per non considerare Cristo soltanto come un grande saggio, ma qualcuno che dimostra "col sangue" e col "corpo" che l'amore è dare liberamente la vita. 
L'avvio è in un Gethsemani nebbioso, sotto un cielo orrorifico. Il Cristo è tentato da un Satana ambiguo (un'ottima Rosalinda Celentano) ed è terribilmente solo. Satana, in quest'"ora delle tenebre", vorrebbe che rinunciasse a prendere su di sé il male del mondo: ritornerà a tentarlo anche in seguito, sotto forme orripilanti. La scena è lunga e drammatica, visivamente affascinante (ricordi del Mantegna) e puntualizza che per Gibson è questo il momento decisivo, l'angoscia maggiore spirituale del Cristo, l'accettazione o meno della "volontà del Padre": anche se poi dovrà ripeterla sino al Calvario. Poi, tutto precipita. In un tumulto caravaggesco, Cristo viene preso, quasi subito linciato, portato al Sinedrio e a Pilato. 

Alcuni, a partire da queste scene, hanno accusato il regista di antisemitismo più o meno dichiarato, di avere "salvato" la figura di Pilato. Ma forse, sia il gruppo di ebrei - presentati non concordi nell'essere contro Cristo e per di più circoscritti nello spazio del Pretorio (non quindi l'intero popolo) - sia gli aguzzini romani (forse segno dei carnefici di ogni tempo, anche del secolo ventesimo) - appaiono volti e mani di quel male del mondo che si scatena sul Cristo, capro espiatorio di ogni violenza, antica e recente. Che è poi il messaggio sotteso anche all'iconografia nordica cui Gibson si richiama. Il regista, del resto, con (troppo) rapidi flashback, che allentano la tensione nello spettatore, "rilegge" episodi della vita di Cristo che ne "spiegano" il sacrificio: l'ultima cena, col comando dell'amore - commovente nella ruvidità dell'aramaico -, la lavanda dei piedi, l'eucarestia, ma anche le beatitudini, la scena dell'adultera. Insomma, i precedenti del donarsi e del perdonare. Un commento visivo sul senso di tanto dolore. 

Gibson inoltre contrappunta il dramma con un indovinato gioco di sguardi, esplicitando sentimenti, emozioni dei personaggi. 
Non si può negare l'originalità di Maria, assolutamente nuova in tutta la storia filmica sul vangelo. Interpretata da una grande attrice ebrea, Maia Morgenstern, essa - ispirata alla Pietà michelangiolesca e alle Madri di scuola fiamminga - è madre di ogni figlio condotto al supplizio, allora come ora. Accompagna Cristo lungo la Via dolorosa, sostenendone la sofferenza con lo sguardo; riandando, in una caduta, col ricordo alla sua vita di bambino; sotto la croce non è esagitata - come in Pasolini o Zeffirelli ma dolorosamente piena di dignità, che mantiene nella deposizione. Ma è anche a Maria che Pietro, il rinnegatore, chiede perdono: una scena non evangelica alla lettera, ma nello spirito. 

Maria contiene un richiamo all'attualità-, come madre di ogni condannato, che pure continua a credere nella vita. Sotto questo aspetto, la forte fisicità del film - il corpo del Cristo è sempre in primo piano - richiama l'oltraggio che questo stesso corpo, oggi nell'occidente tanto esaltato, può ricevere dalla mancanza di amore. 
Qualcuno ha osservato che in effetti l'interesse del regista sulla passione fisica del Cristo abbia lasciato in disparte, o meno evidenziato, la passione "spirituale", la sofferenza intima culminata in quel grido dell'"abbandono di Dio" riscoperto da mistici e scrittori contemporanei. È forse vero che per Gibson il dramma spirituale più intenso si consuma nel Gethsemani, a cui dedica la lunga scena iniziale, per cui le altre "parole" sulla croce si susseguono come altri momenti forti - anche se meno intensi - di una sacra rappresentazione. 

Resta l'interpretazione di Jim Caviezel, un Cristo dal pathos contenuto, il volto allungato come un quadro del Greco. Certi suoi sguardi, sono di una intensità rara, e manifestano quanto l'attore ha confessato, di aver vissuto un'autentica esperienza religiosa, di preghiera, di sofferenza fisica e spirituale. 
Realtà che ha preso pure il regista in un film che vorrebbe essere quasi una liturgia, pur nella finzione cinematografica.

È su quest'ultima idea che alla fine occorre ritornare per comprendere questo come qualsiasi altro film sulla Passione. Non un altro vangelo - non potrebbe esserlo, non ne possiede nemmeno la sobrietà -, ma la visione di un autore di cinema e uomo di fede su un personaggio che ha "svoltato" la storia, grazie alla forza vitale dell'amore. 
È questo, forse, ciò che The Passion può lasciare, ben oltre il realismo del martirio. Una luce, come quella del Cristo che esce dalla notte del sepolcro, gli ultimi due minuti. 

Mario Dal Bello

Visto da Hollywood

di Ron Austin

La produzione di Mel Gibson La passione di Cristo è un affresco di due ore sulla sofferenza di Gesù di Nazareth, dal momento del suo arresto nel giardino del Gethsemani fino alla morte in croce. È difficile immaginare una meditazione sulla tortura, la flagellazione e l'umiliazione di Cristo più implacabile orrificante di questa. 

I dialoghi in aramaico, ebraico e latino danno al film un senso di verosimiglianza storica e, nello stesso tempo, l'impressione di essere altrove. Gli altri elementi formali - le riprese, l'editing, la musica - sono tutti ricchi di effetto. 
Le scelte artistiche di Gibson sono chiaramente radicate nello stile emotivamente carico della Hollywood contemporanea, che vuole schiacciare gli spettatori con un potente apparato di immagini, con effetti speciali straordinari e con la violenza grafica, nodo del cinema da blockbuster di oggi. 

L'uso che il regista fa di questi elementi oggi ormai comuni, potrebbe essere considerato il risultato più straordinario della sua opera. Egli ha creato un modello di arte devozionale utilizzando gli ingredienti più spettacolari della cultura popolare, quelli che si ritrovano nei film dell'orrore, dei poemi epico-marziali e della fantascienza. Gibson ha trasformato una storia della "Passione", spesso banalizzata dall'abitudine, in un film pieno di emozioni col quale vuole catturare la nostra attenzione. 

La sceneggiatura di Gibson e Benedict Fitzgerald è centrata su un aspetto particolare della Passione di Cristo: le ultime dodici ore in cui ha sofferto crudeli tormenti ed una ancor più crudele morte. Qual è l'obiettivo di una interpretazione così mirata? 

La prima osservazione da fare è che il film di Gibson si inserisce all'interno di una tradizione, minoritaria ma ben radicata, di arte devozionale cattolica. 
L'obiettivo di questo tipo di rappresentazione artistica si avvicina un po' agli Esercizi spirituali del fondatore dei gesuiti, sant'Ignazio: si vuole avvicinare lo spettatore alla sofferenza in modo tale che questa venga interiorizzata in modo indelebile. La truculenza non è fine a sé stessa, ma è piuttosto uno strumento di purificazione, che ci permette di incontrare ed affrontare la nostra personale realtà di peccatori. 

La passione di Cristo utilizza una presentazione traumatizzante per suscitare rimorso, pentimento 'e perdono. Il film vorrebbe spingerci a dire: «Guarda cosa ho fatto! I miei peccati sono la causa di tutta questa sofferenza. Come posso continuare a vivere così come sono?». Certo, ci sono altri modi, forse più equilibrati, di avvicinarsi al mistero della sofferenza di Cristo. L'approccio di Gibson appartiene al devozionismo popolare e dobbiamo giudicare il suo successo o fallimento all'interno di questo contesto. 
È anche importante sottolineare la forte componente mariana del film che sarà per molti l'aspetto che lo "salva". Maria accompagna il Figlio nel suo cammino di sofferenza e morte: è una figura piena di saggezza al centro del dramma della Passione ed è al tempo stesso debole - come il film vuole che capiamo - solo in termini umani. 

Probabilmente il film non sarà particolarmente gradito da chi non è cristiano e da coloro per i quali è difficile accettare la premessa cristiana della colpa universale. Altri, cristiani inclusi, non apprezzeranno la violenza della rappresentazione. Messi di fronte alle sofferenze di Cristo, altri ancora potrebbero cercare di sfuggire al nodo centrale della questione, la colpa di tutti nella morte di Cristo, e cercare invece dei capri espiatori. 
Penso che, obiettivamente, Gibson abbia cercato di rappresentare la sofferenza e morte di Cristo come una colpa condivisa universalmente, proprio come dicono i vangeli. La folla di ebrei richiede a gran voce la crocifissione e i legionari romani sono efferati. Sia Caifa che Ponzio Pilato sono corrotti, senza legge e asserviti a sé stessi. È inevitabile che vari aspetti del film si prestino ad interpretazioni contrastanti e certamente alcuni si sentiranno offesi, mentre altri no. Ad ogni modo, non c'è dubbio che Gibson abbia cercato di evitare - anche se in modo forse per qualcuno insufficiente - di presentare un capro espiatorio, cosa di cui invece è stato largamente accusato dai media. Ad esempio, nella scena del processo di mezzanotte di Gesù, alcune autorità ebree denunciano a viva voce le azioni legali di Caifa, accusandolo di soverchieria. La difesa di Simone di Cirene, così piena di compassione, è accolta dalle calunnie anti-semitiche dei soldati romani: tutto ciò è chiaramente intenzionale ed ha lo scopo di respingere possibili malintesi anti-semitici. 

Benché la reazione immediata al film sia stata dolorosa e abbia condotto a posizioni molto divergenti, Il dibattito potrà ancora portare - se c'è una reale volontà di affrontare il tema - ad una migliore comprensione di esso. Le indicazioni della chiesa per la rappresentazione della Passione non potrebbero essere più chiare: «Ogni presentazione che cerchi esplicitamente o implicitamente di spostare la responsabilità dal peccato umano ad un determinato gruppo storico, come ad esempio gli ebrei, non fa altro che offuscare una delle verità centrali del vangelo».
Ho visto il film in compagnia di tre personaggi di spicco della comunità ebraica di Los Angeles. Benché nessuno di loro abbia trovato il film anti-semitico, erano comunque preoccupati dell'uso scorretto che se ne potrebbe fare. 
Non possiamo, quindi, vedere come problemi separati, da una parte, il pentimento che La passione di Cristo vorrebbe suscitare in noi e, dall'altra, l'accettazione della paura, espressa da molti ebrei, dei possibili effetti non voluti di quest'opera. C'è nel film una verità che ci richiama al pentimento: essa richiede una reazione semplice e profonda, che superi le nostre prime reazioni da spettatori. Qualsiasi opinione si abbia di La passione di Cristo, il film ci offre un'occasione per proclamare il nostro amore per lui e per praticarlo nell'attenzione e nella difesa di chi ci vive accanto. 

Ron Austin è uno scrittore e un produttore cinematografico,membro dell'Academy of Motion Picture Arts and Sciences e uno dei fondatori dell'associazione Catholics in Media (traduzione di Lorenza Andò). 

Valutazione della Commissione nazionale film: The Passion: accettabile, problematico, dibattiti.

ULRICH SEIDL, DOPO L'ESTREMO CANICOLA, PARLA CON GESÙ

Ulrich Seidl, dopo l'estremo Canicola, parla con Gesù 

Ulrich Seidl 

Sono solo da otto a dodici l'anno, ma sono presenti nei festival di tutto il mondo e raccolgono premi a Cannes e a Venezia. Sono i film austriaci di cui si inaugura oggi la vetrina italiana, Nuovo Cinema Austria (19-23 aprile 2004 a Roma).
Michael Haneke con i suoi film estremi, ('La pianista', 'Funny games' e 'Il tempo dei lupi' che apre il festival) è il regista simbolo di questa nuova generazione di cineasti, ma c'è anche un gruppo di registe più giovani interessate al racconto della realtà austriaca.

Il festival presenta i loro lavori insieme ad una retrospettiva dedicata a Ulrich Seidl, regista affermato internazionalmente con il suo 'Canicola', film che ha scioccato la Mostra del cinema di Venezia, mostrando - nella calura estiva di una Vienna agostana - scene di sesso collettivo e triste, violenza senza motivo e per esasperazione, scenate di gelosia e minacce. Il festival presenta tutti i suoi lavori precedenti e il suo ultimo film, Caro Gesù, sei persone che pregano Dio. L'intervista

D. Il suo ultimo film presenta sei persone che pregano Dio. Qual è il suo rapporto con la fede?

Sono stato cresciuto con un’educazione fortemente religiosa, tutta la mia infanzia è stata contraddistinta da una forte presenza della religione cattolica, ho anche frequentato la scuola dai preti Gesuiti. In gioventù poi mi sono opposto fermamente alla chiesa cattolica, ho avuto una vera e propria reazione di rifiuto dell’autorità dei miei genitori, una resistenza alla scuola cattolica.
Jesus, du weisst è stato una specie di ritorno all’infanzia, per me questo è un tema importante e penso che sia stato un bene che io l’abbia affrontato adesso. 
L’attenzione mia e del film è puntata sulla preghiera, sulla fede, la mia intenzione non era quella di criticare la Chiesa cattolica o di vendicarmi del periodo in cui il cattolicesimo mi aveva reso infelice.

D. I sei credenti, mentre pregano, non fanno che lamentarsi. C’è una donna che si lagna del marito a letto malato che, essendo musulmano, crede che sia unapunizione per aver sposato una cristiana; c’è un ragazzo che ha turbamenti di natura sessuale, una donna anziana che medita vendetta contro il proprio marito che l’ha tradita. Perché tutte storie negative?

Non si tratta di storie negative ma di storie vere. La preghiera è l’atto più intimo che esiste, ancor più intimo della sessualità. Il mio film non è fatto per un pubblico cattolico, o un pubblico di fedeli che infatti la considerano una visione pessimistica. Il maggiore riscontro finora l’ho avuto nei festival, dove il film ha avuto dei riconoscimenti, lì è crsciuto l’interesse che ha portato i produttori alla decisione di farlo uscire nei cinema anche se era un film nato per la televisione. In Austria però il film non sta andando bene al botteghino.

D. Invece un film che sta andando molto bene al botteghino è La Passione di Mel Gibson. Cosa ne pensa?

Secondo me il film di Mel Gibson è un brutto film, realizzato secondo la maniera di Hollywood. Nonostante la violenta rappresentazione non riesce a toccare lo spirito di chi lo vede, a portare l’interesse su quello che mostra, piuttosto lo trovo ripugnante e irreale. Questo film piace all’ala conservatrice della Chiesa cattolica, il successo secondo me è dovuto al grande battage pubblicitario, alla campagna promozionale che ha portato la gente la cinema.

D. Con ‘Canicola’ lei ha scioccato pubblico e critica con scene di violenza, sesso… Questa spiacevole sensazione che queste scene provocano nello spettatore sono un obiettivo o una conseguenza del suo cinema?

Io non penso cosa devo fare per provocare il pubblico piuttosto è il mio modo di rappresentare la realtà, piuttosto è quella che può scioccare, io non faccio altro che restituirla. 

D. Per anni lei ha fatto film documentari, poi ha realizzato Canicola. Lei non ama la distinzione fra film di finzione e documentario ma cosa distingue questo dagli altri suoi lavori?

Ciò che distingue Canicola dagli altri miei lavori è che le persone che sono nel film non recitano se stessi, non sono mostrati nei loro luoghi abituali, a casa loro con la propria moglie o il proprio marito, piuttosto hanno un ruolo che intepretano, sono degli attori mentre nei miei film precedenti le persone erano mostrate nella loro socialità.

D. Lei ha realizzato un film collettivo di denuncia politica quando Heider è andato al potere in Austria. Che tipo di film è?

Il film ‘Zu Lage’ è stata una reazione al cambiamento politico in Austria, per me girare questo insieme ad altri colleghi registi è stata la risposta ad un bisogno di raccontare questa realtà austriaca, non ho voluto raccontare il rapporto degli austriaci con la politica, piuttosto le loro paure, le ansie per il futuro . Il film non ha poi avuto effetto sulla situazione ma ormai ho smesso di sognare che un film possa cambiare la realtà. 

Chiara Ugolini 19-04-2004

 

WOODY ALLEN

presentazione del libro Woody L’eletto Ebrei e Cristiani nei film di Woody Allen di Fabio Ballabio (Effatà, Torino) con: Gad Lerner, giornalista Elena Bartolini, studiosa di giudaismo modera: Guido Bertagna S.I. L’educazione ebraica del cineasta Allan Stewart Königsberg - in arte Woody Allen - si intreccia con la passione per il cinema e l’umorismo. Allen comincia a fare i conti con la propria incerta identità già nel film Prendi i soldi e scappa (1969). Quando interpreta un cristiano ortodosso in Amore e guerra (1975) scopre un Dio inaffidabile. La nevrosi esplode con Zelig (1983) quando il desiderio di assimilarsi ai gentili (i non-ebrei) entra in conflitto con le sue origini. In Hannah e le sue sorelle (1986) Allen si riconcilia con la vita e in Crimini e misfatti (1989) tematizza l’etica della responsabilità. Ne è conseguenza il cambiamento di vita in Alice (1990). Chi ne è incapace, come il protagonista di Harry a pezzi (1997), può almeno raccontare storie che facciano riflettere. L’irredenzione del mondo è il punto di partenza del discorso esistenziale che Allen svolge attraverso i suoi film. Mediante il cinema costruisce un mondo in cui ha senso vivere e in cui è evidente la nostalgia per l’ ‘olàm abbà (mondo a venire) ebraico o il regno cristiano. Allen diviene così un soggetto pericoloso in quanto, come i mistici e i folli, assume un punto di vista che è estraneo all’ordine costituito. Nella tradizione ebraica il mutamento del nome segna una teshuvà (svolta) nella vita di una persona. Forse Allen non ha ottenuto quanto sperava nella sfera privata. L’ha invece indubbiamente conseguito nell’arte spingendosi fino al punto di proporre un proprio personale chiddùsh (rinnovamento) dell’ebraismo.