GESÙ DI NAZARETH VISTO DA SCRITTORI EBREI DEL XX SECOLO

di Joseph Sievers 

È stato notato tempo fa che giudaismo e cristianesimo hanno in comune una grande riluttanza: accettare pienamente e apertamente il fatto che Gesù era un ebreo. Noi cristiani spesso ci siamo creati un'immagine di un Cristo sradicato dalla sua terra, dal suo tempo, e dal suo popolo. Per gli ebrei invece, per molti secoli, Gesù è stato colui nel cui nome essi sono stati perseguitati e quindi era difficile considerarlo uno di loro.

Ciò non vuol dire che non ci sia stata tutta una letteratura, di carattere a volte polemico, spesso apologetico, su Gesù visto da ebrei. Bisogna anche affermare subito che non tutti gli autori ebrei che si sono interessati dell'argomento lo hanno voluto fare specificamente da ebrei, e che nessun autore può parlare a nome de "gli ebrei". Infatti, in genere ogni autore esprime solo delle opinioni sue personali, basate sulle sue ricerche e sul suo punto di vista personale, che può essere condiviso da un numero più o meno grande di altre persone. Delle vedute ebraiche su Gesù si sono interessati alcuni libri e molti articoli. (1)

Rinviamo a questi studi per un esame più dettagliato di vari aspetti dello sviluppo delle vedute di ebrei su Gesù. Qui ci limitiamo ad un cenno ad alcuni libri che sono stati influenti nella prima metà del nostro secolo e a una selezione più ampia, seppur per niente completa, degli ultimi decenni (2). Quindi non consideriamo tutte le opere che non trattano principalmente di questo argomento, benché negli scritti filosofico-religiosi di Rosenzweig e Buber, in varie pitture di Chagall, e in tante opere della letteratura ebraica si trovino delle espressioni molto interessanti su Gesù.

Claude Montefiore, un esponente del giudaismo liberale in Inghilterra, fu uno dei primi a scrivere un commento ai Vangeli da un punto di vista ebraico, ma simpatetico al cristianesimo (3). La sua opera non presenta tanto delle idee originali quanto dà una propria sintesi degli studi fatti sui Vangeli, in quell'epoca, da studiosi cristiani. Il Montefiore parlava con tono tanto irenico che a volte venne accusato di essersi avvicinato troppo al cristianesimo, anche se egli stesso rimase sempre fedele al giudaismo.

Più conosciuta dell'opera di Montefiore è quella del Klausner, il quale, più che rifarsi agli studi neotestamentari di autori cristiani, ha cercato di capire e presentare Gesù nel suo contesto storico (4). L'originalità del suo libro non sta però nelle singole affermazioni, ma nel presentare uno studio su Gesù a un pubblico ebraico in lingua ebraica. 

Klausner sottolinea l'ambiente ebraico in cui Gesù è vissuto e nel quale si situa il suo insegnamento. Afferma: «Gesù di Nazareth... era esclusivamente un prodotto della Palestina, un prodotto del giudaismo puro, senza alcuna aggiunta estranea. C'erano molti Gentili in Galilea, ma Gesù non era affatto influenzato da loro... Senza eccezione il suo insegnamento è interamente spiegabile attraverso il giudaismo biblico e farisaico del suo tempo» (5). Mentre vede l'origine di tutti gli insegnamenti di Gesù nel giudaismo, Klausner giudica duramente la - secondo lui - eccessiva e pericolosa radicalità dell'etica di Gesù.

Secondo Klausner ciò avrebbe portato a una deleteria scissione tra ideale religioso e prassi quotidiana (6). Anche se non seguiamo Klausner nelle sue polemiche, che hanno più a che fare con una millenaria storia di antisemitismo da parte cristiana che con la figura di Gesù, forse può essere utile vedere Gesù collocato interamente, "fino all'ultimo respiro", nel giudaismo del suo tempo.

Per più di una generazione l'opera di Klausner è rimasta il libro più influente di questo tipo, anche se è stata criticata per il suo approccio "dilettantistico" alle fonti rabbiniche e cristiane. Durante il periodo più buio della storia di questo secolo, tra il 1943 e il 1946, Jules Isaac scrisse il suo libro "Jésus et Israël" (7). In esso cerca di evidenziare l'ebraicità di Gesù e dei suoi primi discepoli. Si sofferma sulla inesattezza dell'accusa di deicidio fatta per secoli agli ebrei. Il libro si articola in una serie di proposizioni per combattere l'antisemitismo nelle sue radici cristiane. Questo libro programmatico ha avuto ampia risonanza, non tanto nel campo dello studio del Gesù storico quanto per un ripensamento dei rapporti fra ebrei e cristiani.

Negli anni Sessanta vediamo il riapparire di tutta una serie di libri su Gesù, scritti da ebrei. Il primo da notare è "We Jews and Jesus" ("Noi ebrei e Gesù") di Samuel Sandmel (8). Fino alla sua morte nel 1979 il rabbino Sandmel è stato professore di Sacra Scrittura e letteratura ellenistica al famoso Hebrew Union College di Cincinnati negli Stati Uniti. Il suo è un lavoro molto sobrio, indirizzato primariamente a ebrei, ma evidentemente è stato ricevuto molto favorevolmente anche da altri. L'autore traccia lo sviluppo storico della comprensione di Gesù da parte di cristiani ed ebrei. La sua intenzione è di informare e di aiutare per una migliore comprensione reciproca tra ebrei e cristiani. L'interesse principale non è tanto rivolto al Gesù storico quanto alla situazione di ebrei e cristiani oggi.

Anche Schalom Ben-Chorin ha la stessa ansia di promuovere una migliore comprensione fra ebrei e cristiani. Nato e cresciuto in Germania, dal 1935 vive a Gerusalemme. Ha scritto ormai più di venti libri (in tedesco, alcuni tradotti anche in altre lingue), in cui il rapporto tra ebrei e cristiani è la nota fondamentale. Soprattutto vuole far capire ai cristiani le loro radici nel giudaismo. Qui ci interessa particolarmente uno dei suoi primi libri, sulla figura di Gesù di Nazareth (9). L'autore parte dal presupposto che Gesù era un ebreo del suo tempo, da capire - e da riscoprire - soltanto nel suo contesto ebraico, anche se era una persona eccezionale. Ben-Chorin fa sue le parole ormai famose di Martin Buber:

«Sin dalla mia giovinezza ho avvertito la figura di Gesù come quella di un mio grande fratello. Che la cristianità lo abbia considerato e lo consideri come Dio e Redentore, mi è sempre sembrato un fatto della massima serietà, che io devo cercare di comprendere per amore suo e per amore mio... Il mio rapporto fraternamente aperto con lui si è fatto sempre più forte e più puro, e oggi io vedo la sua figura con uno sguardo più forte e più puro che mai. È per me più certo che mai che a lui spetta un posto importante nella storia della fede di Israele e che questo posto non può essere circoscritto con nessuna delle usuali categorie di pensiero» (10).

Nel tentativo di collocare Gesù più esattamente nel suo contesto, Ben-Chorin afferma: «In questo senso, crediamo di non sbagliare nel far rientrare Gesù stesso tra i farisei, naturalmente all'interno di un sottogruppo di opposizione. Gesù stesso insegnava come un rabbino fariseo, per quanto con un'autorità maggiore, la cui eccessiva sottolineatura va tuttavia senz'altro considerata come tradizione kerigmatica» (11).

Tale tesi, che Gesù faceva parte del gruppo dei farisei, viene proposta ormai da vari studiosi, e non solo ebrei (12). Gesù fariseo: forse è un'idea scioccante per molti lettori. Infatti, non può essere comprovata da nessuna delle nostre fonti, neotestamentarie o altre. Però indica una verità spesso trascurata: che molti degli insegnamenti di Gesù non sono lontani da quelli di certi farisei o di rabbini, loro successori più o meno diretti. Infatti, seppur Gesù ha avuto polemiche con dei farisei, in nessun modo il suo insegnamento di per se stesso lo mette al di fuori del giudaismo.

La tesi fondamentale di Ben-Chorin è «che sotto la veste greca dei Vangeli si nasconde per così dire una tradizione originaria ebraica, in quanto Gesù e i suoi discepoli erano ebrei, prettamente e unicamente ebrei» (13). Seguendo l'esempio di Klausner ed altri, è ormai un fatto abbastanza acquisito tra gli esegeti sia cattolici che protestanti, fare attenzione allo sfondo ebraico dei vangeli. Però non è così facile, come lascerebbe intendere Ben-Chorin, essere sicuri dell'entità dell'influenza di tale sfondo. Naturalmente per un cristiano è impossibile affermare che Gesù era unicamente ebreo.

Spesso Ben-Chorin va troppo lontano nelle sue affermazioni su Gesù, come quando, per esempio, desume che Gesù era sposato dal fatto che non è mai accusato di non esserlo (14). Nonostante ciò, fra le opere di carattere popolare è forse ancora la migliore sul mercato italiano.

Un autore che ha avuto molto successo tra il pubblico, specialmente nei Paesi di lingua tedesca, ma ormai anche altrove, è Pinchas Lapide. Sono in commercio oltre venti libretti suoi in tedesco, di cui alcuni tradotti anche in italiano. Molti di essi sono nati da conferenze o programmi alla radio o alla televisione, a volte in dialogo con dei teologi famosi come Rahner, Moltmann e Küng. Il libro più provocatorio è intitolato "La resurrezione: un'esperienza di fede ebraica" (15). 

In esso sostiene che l'idea della resurrezione individuale era presente nel giudaismo del tempo di Gesù e che quindi Gesù potrebbe essere stato risuscitato (per poi morire di nuovo), come egli stesso aveva risuscitato Lazzaro. Purtroppo qui si tratta di una interpretazione tendenziosa delle fonti giudaiche che porta a una apparente vicinanza a posizioni cristiane. Sembra che tale affermazione non serva né alla conoscenza migliore del Gesù storico, né all'approfondimento del dialogo fra ebrei e cristiani.

Anche se Lapide ha fatto e continua a fare molto per sensibilizzare un vasto pubblico cristiano al rapporto essenziale tra cristianesimo e giudaismo, bisogna distinguere tra affermazioni sue basate su una buona conoscenza delle fonti e intese a contribuire a una migliore comprensione di esse e altre affermazioni fatte piuttosto per il loro possibile effetto pubblicitario. Fra le sue altre pubblicazioni, Lapide dedica un volume assai utile a una rassegna di vedute ebraiche su Gesù. Di particolare interesse un capitolo dedicato al trattamento di Gesù nei testi scolastici israeliani (16).

Molto diversa si presenta invece l'opera di David Flusser, professore emerito all'Università Ebraica di Gerusalemme, famoso per i suoi lavori sui Manoscritti del Mar Morto e su altri testi giudaici, oltre che sul Nuovo Testamento. Il suo primo libro su Gesù fu un grande successo editoriale, con traduzione in varie lingue (17). In esso Flusser tentò di far capire meglio la figura di Gesù, che egli vede come rappresentante di un giudaismo genuino, vicino al fariseismo ma critico di esso. 

Flusser combatte su due fronti: da un lato vuole liberare i cristiani da quello che considera uno scetticismo troppo spietato degli esegeti, specialmente causato dall'influenza di Bultmann; dall'altro lato, tra le righe, nel fare sue certe critiche di Gesù ai farisei, vuole anche criticare alcune correnti del giudaismo moderno. Quindi vede Gesù come un personaggio importante non solo per il suo, ma anche per il nostro tempo.

Queste vedute Flusser le ha ampliate e in certi aspetti modificate in una sua opera più recente sulle parabole di Gesù (18). In uno studio che si estende per oltre 300 pagine fitte, cerca di analizzare quale sia l'essenza delle parabole di Gesù e quale sia il loro rapporto con le parabole rabbiniche. Afferma che «capiamo le parabole di Gesù in modo corretto soltanto quando le consideriamo appartenenti al genere letterario delle parabole rabbiniche» (p. 279).

L'autore insiste poi giustamente sul fatto che molti esegeti del Nuovo Testamento, anche quando sono consci di paralleli rabbinici a testi neotestamentari, spesso non ne conoscono abbastanza il contesto letterario e storico. Quindi Flusser cerca con tutti i mezzi, inclusa una polemica a volte dura, di far notare la necessità di leggere l'insegnamento di Gesù nel suo contesto giudaico.

Tra gli esegeti del Nuovo Testamento è stata elaborata una serie di criteri per stabilire con più sicurezza quali detti nei Vangeli si possono attribuire a Gesù stesso. Non c'è unanimità su quali possano essere questi criteri, ma uno che appare praticamente in ogni elenco è il cosiddetto "criterio di dissomiglianza", vale a dire: se un detto è "dissimile" dagli interessi sia delle primitive comunità cristiane sia del giudaismo del tempo, è da considerare autenticamente di Gesù.

Flusser va proprio nella direzione opposta: considera autentici di Gesù quei testi che più riflettono un pensiero consono a quello dei rabbini e dei farisei del tempo. Con questo mette il dito su un problema che molti esegeti hanno già superato, ma che si trova ancora in molti testi di teologia, anche recenti: spesso si mette l'accento soltanto sul fatto che Gesù era diverso da tutti gli altri, e non sul fatto che il Verbo si è fatto carne come ebreo ed è vissuto, ha insegnato ed è morto come un figlio del suo popolo, del suo tempo e della sua terra. 

Molto diverso dall'approccio di Flusser è quello del Vermes. Anch'egli ha una conoscenza profonda sia del Nuovo Testamento che della letteratura ebraica del periodo. Il Vermes ha scritto un libro dal titolo semplice ma provocatorio: "Gesù l'ebreo" (19). In esso cerca di analizzare prima il contesto della vita e dell'insegnamento di Gesù e poi i vari titoli dati a Gesù. La sua intenzione non è di esporre un punto di vista specificamente ebraico. Infatti il sottotitolo dell'edizione originale era "Lettura dei Vangeli da parte di uno storico". 

Tuttavia suggerisce, citando Martin Buber, che «noi ebrei conosciamo Gesù negli impulsi e nelle emozioni della sua essenza giudaica, in una maniera che rimane inaccessibile ai gentili a Lui sottomessi» (20). Il Vermes cerca di evitare, in quanto gli è possibile, i preconcetti ideologici o teologici. Afferma che «ai Vangeli ci si avvicina per lo più con idee preconcette. I cristiani li leggono alla luce della loro fede, gli ebrei mossi da vecchi sospetti, gli agnostici pronti a scandalizzarsi e gli studiosi del Nuovo Testamento con i paraocchi del loro mestiere» (21). Tali generalizzazioni naturalmente dicono al massimo una parte della verità, ma può risultare utile l'essere coscienti della varietà dei punti di vista.

Tra i suggerimenti più interessanti del Vermes è quello di vedere Gesù in legame particolarmente stretto con l'ambiente della Galilea e con un tipo di giudaismo carismatico di cui conosciamo alcuni esponenti galilei (22). Anche se il Vermes non esaurisce l'argomento, ci induce a prendere più sul serio la domanda: in che tipo di ambiente giudaico Gesù è cresciuto?

La seconda parte del libro di Vermes è dedicata ad alcuni titoli cristologici di Gesù (profeta, signore, Messia, figlio dell'uomo, figlio di Dio). In contrasto con molti esegeti che attribuiscono la maggior parte di questi titoli alla comunità cristiana postpasquale, egli accetta tutti come storicamente attendibili, soltanto che Gesù non avrebbe mai usato o accettato il titolo di Messia quando altri glielo attribuivano. Il Vermes adopera un metodo di per sé molto valido, cioè l'analisi di che cosa significavano questi termini per un ebreo del primo secolo. Afferma che profeta, signore, figlio di Dio erano termini applicati a una varietà di persone, e ne cita esempi soprattutto dalla letteratura rabbinica. La controversia più grande si è accesa attorno all'interpretazione del termine "figlio dell'uomo" data da Vermes (in questo libro e in altri suoi studi sin dal 1965). 

Egli ritiene che "l'espressione figlio dell'uomo seguendo un uso armonico serve alla persona che parla per alludere velatamente a se stessa per motivi di timore, modestia o umiltà"; in altre parole, nella bocca di Gesù essa sarebbe stata semplicemente una circonlocuzione per il pronome personale "io" (23). Qui non è il luogo per discutere questa affermazione controversa, ma notiamo solo che anche se è attestato l'uso di essa in senso di circonlocuzione, ciò non toglie l'importanza, nella stessa epoca, della figura escatologica del "figlio dell'uomo", conosciuto dal libro di Daniele (7, 13) e dalla seconda parte del libro di Enoch (cc. 37-71).

Evidentemente, per comprendere pienamente le problematiche toccate dal Vermes ci vuole una base di conoscenza del Nuovo Testamento e del giudaismo contemporaneo ad esso, ma l'autore scrive sia per lo specialista (con ampia documentazione nelle note a piè di pagina) sia per un pubblico più vasto. Certamente la sua non è l'ultima parola sull'argomento: anche il Vermes stesso vede il suo libro come l'inizio di una serie di tre volumi (24). Ma forse finora il suo è il tentativo più riuscito per collocare Gesù nel giudaismo del suo tempo.

Negli ultimi anni, specialmente in Nord America, dove sempre di più gli ebrei sono una minoranza accanto a altre minoranze, di cui varie di stampo cristiano, il dialogo fra ebrei e cristiani ha fatto dei progressi notevoli anche se rimane sempre molta strada da fare. Le persone coinvolte in questo dialogo a vari livelli sono sempre una piccola minoranza nella minoranza, sia da parte ebraica sia da parte cristiana. Un frutto di questo clima è anche tutta una serie di libri sul nostro argomento.

Uno è quello di Harvey Falk, dal titolo "Gesù il fariseo" (25). L'autore è un rabbino ortodosso, con una conoscenza delle fonti ebraiche molto vasta, seppur tradizionale piuttosto che scientifica. Falk prende spunto dalla affermazione di un suo famoso antenato, il rabbino Jacob Emden (1697-1776), che Gesù sarebbe venuto a fondareuna religione nuova per i Gentili, basata sui cosiddetti sette comandamenti dati a Noè (26).

Seppure l'atteggiamento molto positivo di Emden verso Gesù, Paolo e il cristianesimo in generale vada visto nel contesto della sua polemica durissima con altri gruppi di ebrei (specialmente i seguaci di un falso Messia, Sabbatai Zevi), i suoi scritti sul rapporto fra cristianesimo e giudaismo rimangono dei documenti importanti, adesso più facilmente accessibili grazie al lavoro del Falk.

Abbiamo già notato che il tentativo di collocare del tutto Gesù all'interno del fariseismo è destinato a fallire; ma nonostante ciò il lavoro del Falk, che usa le fonti secondo metodi tradizionali e non in modo storico-critico, è molto interessante. Cerca di dimostrare come in molti casi Gesù si trovasse in accordo sostanziale con la scuola farisaica di Hillel, che allora rappresentava una minoranza ma diventò più tardi la forza determinante. Al di là dei dettagli, è davvero segno di un clima nuovo se una tale opera può essere scritta da un rabbino ortodosso e pubblicata da una casa editrice cattolica.

Se un clima di dialogo, nato dopo la tragedia indescrivibile dell'era nazista, ha dato la possibilità a ebrei di avvicinare Gesù più serenamente, va anche detto che in molti autori ebrei ancora l'ansia di prevenire un possibile antisemitismo cristiano è un elemento importante nel trattare l'argomento.

Se soprattutto nelle opere di Flusser e Vermes vediamo un dibattito a volte acceso con posizioni di esegeti cristiani, il Borowitz va un passo più in là. In un clima influenzato da qualche decennio di dialogo fruttuoso fra studiosi ebrei e cristiani, egli ha deciso di studiare come alcuni teologi cristiani di oggi vedono Gesù. Non cerca tanto di arrivare al Gesù storico, ma di fare una valutazione di vari studi di cristologia. Dice:

«Sentivo che una investigazione dettagliata di un'area teologica in cui cristianesimo e giudaismo hanno delle vedute radicalmente diverse offrirebbe molti esempi interessanti per la logica della discussione interreligiosa... Se colloqui fra ebrei e cristiani devono avere un significato, si dovranno affrontare senza ambiguità le questioni inerenti nella dottrina cristiana del Cristo» (27).

Aiutato nella selezione dei testi da alcuni teologi cattolici e protestanti, cerca di vedere quanto queste cristologie diano un'immagine adeguata del contesto giudaico di Gesù e soprattutto che atteggiamento esprimono verso gli ebrei e il giudaismo. Le sue conclusioni sono che anche se nei testi scelti non trova antisemitismo, spesso ancora il giudaismo in generale o il fariseismo in particolare servono come sfondo negativo per la novità del Vangelo e l'unicità di Gesù. 

Alcuni autori sono sensibili al fatto di Gesù, ebreo del suo tempo, ma anche nelle loro opere questo elemento sembra dimenticato poi in altri contesti. Troppo spesso ancora vale il titolo di una recente opera del noto esegeta cattolico Norbert Lohfink: "La dimensione ebraica nel cristianesimo: dimensione perduta" (28).

Si è parlato molto della differenza tra il Gesù storico e il Cristo della fede cristiana. Spesso autori cristiani vedono solo "il Cristo", o perché danno meno importanza al fatto storico o perché, come Bultmann, ritengono pressoché impossibile giungere al Gesù storico attraverso il doppio filtro degli autori del Nuovo Testamento e della comunità cristiana del primo secolo.

Autori ebrei invece riconoscono con più facilità un Gesù "storico" e riconoscono in esso dei lineamenti molto familiari dalla letteratura rabbinica e da altri scritti di origine ebraica. L'esegesi neotestamentaria, nel desiderio di trovare il Gesù autentico, ha troppo spesso sottolineato solo ciò che è unico nel suo insegnamento e quindi tendenzialmente lo ha separato sia dal giudaismo del suo tempo che dalla Chiesa primitiva. Anche se questa operazione è metodologicamente necessaria in certi momenti, non ci dà il Gesù autentico, ma o un genio di creatività o una persona eccentrica (a seconda del proprio punto di vista), comunque un personaggio staccato dal suo ambiente.

Dall'altro lato, molti autori, e non solo ebrei, cercano di vedere Gesù esclusivamente nel suo contesto ebraico e attribuiscono quasi ogni conflitto con esso agli evangelisti o allo sviluppo della Chiesa primitiva. Tendenzialmente quindi in questa visione si vede Gesù solo come un ebreo pio, fondamentalmente leale e osservante, con forse qualche idea eccezionale (29).

Da un punto di vista storico non sembra che ci sia una soluzione facile a questo dilemma di un Gesù o totalmente separato o totalmente inglobato nel suo ambiente. Per questo anche da un punto di vista soltanto storico, è importante il dialogo costante fra queste due tendenze.

Questo poi ha effetti non solo per lo studio di Gesù, ma anche per lo studio del giudaismo. Infatti, forse ancora timidamente, si sta facendo strada l'idea, espressa per esempio da Alan Segal, che né cristianesimo né giudaismo «possono essere compresi pienamente in isolamento l'uno dall'altro. La testimonianza dell'uno è necessaria per dimostrare la verità dell'altro e viceversa» (30).

L'interesse nel Gesù storico in questi ultimi anni sembra in continua crescita, sia fra cattolici e protestanti sia fra persone di altre fedi o convinzioni. Nel catalogo della Library of Congress dal 1975 in poi si riscontrano 66 titoli sotto la sola voce "Jesus Christ-Jewish Interpretations". Quindi è impossibile tentare qui un quadro anche approssimativamente completo.

Ma vorrei concludere questa rassegna con riferimento almeno a due volumi. Jacob Neusner, prendendo spunto da vari testi matteani, si propone di rispondere a Gesù, con rispetto, esprimendo il proprio dissenso (31). Per lui, il dialogo deve iniziare dal riconoscimento esplicito della alterità dell'altro. Non ha paura di mettere sul tavolo subito le differenze fra l'insegnamento di Gesù e quello dei rabbini, come egli le percepisce. A parte possibili critiche a punti particolari di questo libro divulgativo, può essere rinfrescante per il dialogo sottolineare non soltanto ciò che accomuna Gesù ad altri ebrei del suo e del nostro tempo ma anche ciò che lo differenzia da essi.

Un progetto che sarebbe stato considerato impossibile ancora pochi anni fa ha trovato espressione in un piccolo ma sostanzioso volume intitolato "Ebrei e cristiani parlano di Gesù" (32). Esso contiene i contributi di otto studiosi, ebrei e cristiani, a una serie di colloqui su questo tema, colloqui a cui secondo la prefazione hanno partecipato ogni volta circa mille persone. Quindi, almeno in alcuni ambienti, oggi è possibile parlare insieme di Gesù, senza remore o forzature, e senza falsi irenismi.

Forse oggi possiamo riaffermare con convinzione che Gesù di Nazareth appartiene a ebrei e cristiani. La valutazione teologica su chi egli sia rimane naturalmente un fatto che ci divide. Però possiamo insieme riconoscere in lui un maestro e la vittima di un'oppressione. C'è una lunga tradizione ebraica, attualizzata in modo speciale durante la Shoah (la persecuzione nazista), che riconosce in Gesù un ebreo perseguitato: a volte dai cristiani stessi (33). Se in qualche modo possiamo fare nostra questa nozione, non solo riportiamo Gesù nel suo contesto ebraico ma la sofferenza che in passato troppo spesso ha diviso ebrei e cristiani, forse può diventare sempre più profondamente un elemento di solidarietà e un nuovo punto di partenza (34).

NOTE 

(*) Questa è una versione aggiornata di un articolo apparso su Nuova Umanità 64/65 (luglio-ottobre 1989) 125-136 e successivamente, in forma abbreviata, su Unità e Carismi 6 (novembre/dicembre 1996) 33-38. Esso è stato pubblicato anche su TERTIUM MILLENNIUM 1,5 (Novembre 1997) pagg. 48-53.

1) Gösta Lindeskog, Die Jesusfrage im neuzeitlichen Judentum, Uppsala 1938; 2a ed. Darmstadt 1973. Pinchas Lapide,Ist das nicht Josephs Sohn?- Jesus im heutigen Judentum, Kösel, München 1976. Donald A. Hagner,The Jewish Reclamation of Jesus: An Analysis and Critique of the Modern Jewish Study of Jesus, Zondervan, Grand Rapids 1984 (purtroppo quest'ultimo autore mantiene un atteggiamento polemico, perché non riesce ad accettare il giudaismo contemporaneo come realtà religiosa positiva). Werner Vogler,Jüdische Jesusinterpretationen in christlicher Sicht, Hermann Böhlaus Nachfolger, Weimar 1988. Emilio Fermi, Che cosa pensano di Gesù i non cristiani: Il punto di vista di ebrei, islamici, induisti , in Dialogo, Milano 1995 (include stralci da libri di Klausner, Ben-Chorin, Flusser e Lapide). Tra gli articoli più significativi citiamo: Johann Maier, Gewundene Wege der Rezeption: Zur neueren jüdischen Jesusforschung, "Herder-Korrespondenz", 30 (1976), pp. 313-319; Clemens Thoma, Jüdische Zugänge zu Jesus Christus, "Theologische Berichte", vol. 7, Benziger, Zürich 1979, pp. 149-176; Lea Sestieri, Gli ebrei di fronte a Gesù, in Gesù Ebreo. Provocazione e Mistero (IV Colloquio ebraico-cristiano), "Vita Monastica", n. 158, Luglio/Settembre 1984, pp. 40-63.

2) Per un complesso di tradizioni ebraiche medioevali, da capire in un contesto molto diverso dal nostro, si veda Riccardo Di Segni, Il Vangelo del Ghetto: Le "Storie di Gesù": leggende e documenti della tradizione medioevale ebraica, Newton Compton, Roma 1985.

3) Claude G. Montefiore, The Synoptic Gospels, 1909, 2a ed. 1927, ristampa KTAV, New York 1968. Dello stesso autore si veda anche Gesù di Nazareth nel pensiero ebraico contemporaneo, Formiggini, Genova 1913.

4) Joseph Klausner, Gesù di Nazareth, 1922 (originale ebraico, tradotto in inglese, francese, tedesco).

5) Edizione inglese, p. 363.

6) Ibid., pp. 393-397.

7) Originariamente pubblicato nel 1948, 2a ed. ampliata Fasquelle Editeurs, Paris 1959; traduzione italiana: Gesù e Israele, Nardini, Firenze 1976.

8) Oxford University Press, New York 1965; 2a ed. 1973.

9) Schalom Ben-Chorin, Fratello Gesù. Un punto di vista ebraico sul Nazareno, Morcelliana, Brescia 1985 (1a ed. tedesca 1967).

10) Fratello Gesù, cit., p. 27, citando Martin Buber, Zwei Glaubensweisen, Wer-ke, vol. 1, p. 657.

11) Fratello Gesù, cit., p. 41.

12) P. es., Harvey Falk, Jesus the Pharisee. A New Look at the Jewishness of Jesus, Paulist Press, New York 1985. William E. Phipps,Jesus, the Prophetic Pharisee, "Journal of Ecumenical Studies", 14 (1977), pp. 17-31.

13) Fratello Gesù, cit., p. 305.

14) Ibid., p. 173.

15) Pinchas Lapide, Auferstehung - Ein jüdisches Glaubenserlebnis, Kösel, München 1977, 5a ed, 1986.

16) Pinchas Lapide, Ist das nicht Josephs Sohn? Jesus im heutigen Judentum, Calwer Verlag, Stuttgart/Kösel Verlag, München 1976.

17) David Flusser, Jesus. In Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Rowohlt, Hamburg 1968. Purtroppo l'edizione italiana (Lanterna, Genova 1976) è esauritada alcuni anni.

18) David Flusser, Die rabbinischen Gleichnisse und der Gleichnisserzähler Jesus. 1. Teil: Das Wesen der Gleichnisse, Peter Lang, Bern 1981. Dello stesso autore esiste anche una collezione di articoli, pubblicati precedentemente in varie riviste, sulla figura di Gesù e la tradizione dei suoi insegnamenti: Entdeckungen im Neuen Testament. Vol I. Jesusworte und ihre Uberlieferung, Neukirchener Verlag, Neukirchen-Vluyn 1987. In italiano è stata pubblicata recentemente una collezione di articoli di Flusser, Il Giudaismo e le origini del Cristianesimo, Marietti 1995.

19) Geza Vermes, Gesù l'ebreo, Edizione italiana a cura di V. Grossi e E. Peretto, Borla, Roma 1983 (1a ed. inglese, 1973).

20) Ibid., p. VI.

21) 

22) Ibid., pp. 48-95, specialmente pp. 91-93.

23) Ibid., pp. 187-223, cito p. 217. Si veda anche Paolo Sacchi, Gesù l'ebreo "Henoch" 6 (1984) pp. 361-367 (una recensione molto dettagliata del libro di Vermes); Geza Vermes, Jesus and the World of Judaism, SCM, London 1983, pp. 89-99 (capitolo intitolato "Lo stato attuale del dibattito sul Figlio dell'Uomo").

24) Vermes ha portato avanti il suo progetto in tre conferenze, intitolate"Il Vangelo di Gesù l'ebreo" e pubblicate come cap. 2-4 nel suo volume Jesus and the World of Judaism, cit. Si veda anche il contributo del Vermes, La religione di Gesù l'ebreo, in Il "Gesù storico". Problema della modernità, a cura di Giuseppe Pirola SJ e Francesco Coppellotti, Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1988, pp. 19-35, id. The religion of Jesus the Jew, Fortress Press, Minneapolis 1993.

25) Harvey Falk, Jesus the Pharisee. A New Look at the Jewishness of Jesus, Paulist Press, New York 1985.

26) Citato da Falk, ibid., p. 19.

27) Eugene Borowitz, Contemporary Christologies - A Jewish Response, Paulist Press, New York 1980.

28) Norbert Lohfink, Das Jüdische am Christentum. Die verlorene Dimension, Herder, Freiburg 1987, specialmente pp. 48-70.

29) Un esempio abbastanza recente di questo modo di vedere è Irving M. Zeitlin, Jesus and the Judaism of His Time, Polity Press, Cambridge 1988. Un'immagine di Gesù zelota invece, difficilmente riconciliabile con la totalità delle fonti, viene offerta fra gli altri da Riccardo Calimani,Gesù ebreo, Rusconi, Milano 1990, 1995. Cf. Daniel J. Harrington, SJ, The Jewishness of Jesus: Facing Some Problems, "Catholic Biblical Quarterly" 49 (1987), p. 10.

30) Alan F. Segal, Rebecca's Children Judaism and Christianity in the Roman World, Harvard Univ. Press, Cambridge, MA/London 1986, p. 179.

31) Jacob Neusner, A Rabbi Talks with Jesus: An Intermillennial Interfaith Exchange, Doubleday, New York 1993.

32) Jews and Christians Speak of Jesus, a cura di Arthur E. Zannoni, Fortress Press, Minneapolis 1994.

33) Vedi Clemens Thoma, Jüdische Zugänge zu Jesus Christus, "Theologische Berichte", vol. 7, Benziger, Zürich 1979, pp. 151-154.

34) Su questo punto vedi anche Daniel J. Harrington, op.cit. p.12.

 

LA PRESENZA DI GESÙ NEL MONDO DI ALAIN ELKANN, GIOMALISTA E SCRITTORE EBREO

Sua eminenza il cardinale An­gelini mi chiede di riflettere e di scrivere su Gesù Cristo e devo dire che è la prima volta che mi capita di farlo in prima persona.

Non ne avevo mai scritto per­ché ho troppo rispetto per la sua religione, essendo io ebreo, per permettermi di giudicare o di dire semplicemente la mia su un argo­mento delicato.

Delicato nel senso che mentre gli ebrei sono ancora in attesa del loro Messia, Gesù di Nazareth per i cristiani rappresenta Dio che si fa uomo e quindi il cristiano già sta vi­vendo la sua era messianica.

Gesù muore crocifisso e subito dopo nascono gli apostoli, i Vange­li, la Chiesa, il culto religioso e quindi l'applicazione della vita cristiana che a mano a mano si diffonde nel mondo a macchia d'olio, grazie al lavoro appunto della Chiesa e delle sue missioni fino a diventare un grandissimo esempio di globalizza­zione religioso-culturale.

 

Il Cristo oggi è presente in tutti i continenti del mondo. Talvolta la religione cristiana è egemone, ta­lora è una minoranza. In certi casi è quasi la religione ufficiale di un Paese, in altri stenta e vive quasi ai margini e nella sua lunga storia bi­millenaria è stata anche molte vol­te oggetto di dure discriminazioni e persecuzioni.

Non posso certo entrare nel merito di un lungo discorso sulle di­verse fedi cristiane, gli scismi, i particolarismi, le divisioni ancora esi­stenti tra mondo cattolico, mondo ortodosso e mondo, per così dire, protestante.

 

Tutte queste religioni però sono cristiane e assumono che il Cristo è il figlio di Dio.

Cosa sia stato Gesù Cristo quando era in vita, perché sia mor­to in croce, perché sia risorto sono anch'esse questioni sulle quali cre­do non sia il caso di entrare oggi. Quello che posso dire invece è che nel mondo occidentale, in Europa e nelle Americhe soprattutto, la presenza del Cristo è naturalmente parte della vita di chiunque.

Nelle città, nelle campagne, nei piccoli villaggi suonano ancora le campane che richiamano alla mes­sa; in molti ospedali, scuole, luoghi pubblici, il Cristo in croce è appeso alle pareti, e milioni di persone portano attorno al collo una cate­na con un crocifisso o con un'im­magine del Cristo.

 

Vi sono poi sempre stati moltis­simi libri, e nel mondo moderno di­schi, film, spettacoli che hanno co­me protagonista Gesù di Nazareth.

Gesù si manifesta attraverso gli uomini e le donne, religiosi e tal­volta laici, che sono la Chiesa e i suoi ordini religiosi. E allora trami­te loro e i loro compiti vive certa­mente un Gesù che si trasforma in azioni di culto, di carità, di aiuto sa­nitario, di scuola, di ricerca, di assi­stenza sociale, di volontariato.

 

Certamente è in nome di Gesù e del Vangelo che moltissimi uomi­ni e donne di fede lavorano per aiutare gli altri, per applicare la carità cristiana, per confessare chi ne ha bisogno, per soccorrere chi sta male, per essere vicino a chi ha paura perché è malato o sta per morire; per penetrare nelle carceri e parlare con chi vuole o cerca di pentirsi.

Dopo Gesù è sor­ta la Chiesa che cre­do abbia il compito di far trovare la presen­za di Dio e di suo fi­glio in ogni punto del­la vita quotidiana.

 

Certo, nella storia di un'orga­nizzazione così antica come la Chiesa ci sono, secondo me, mo­menti scuri, come il periodo del­l'Inquisizione, periodi storici più bui di altri, ma preferisco pensare alla Chiesa di oggi e non a quella di ieri. Ai papi che ho visto operare durante la mia vita: Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI. Ero troppo picco­lo quando era ancora vivo Pio XII, di cui ricordo solo immagini televi­sive o fotografie in bianco e nero.

Ma sotto questi papi credo che si sia fatto un grande cammino e io non ho avuto paura di perdere la mia identità ebraica nel cercare di incontrare molte volte nella mia vi­ta il mondo cattolico. Il Cristo per­ciò è comunque parte della mia vi­ta fin dall'infanzia.

 

Suor Paolina veniva a farmi le iniezioni quando ero un bambino piccolo, più tardi fu suor Giuliana a farmi conoscere con il suo animo profondo e se­reno le realtà del Cot­tolengo di Torino.

Suor Germana mi aiutò invece a lavora­re con sua eminenza il cardinale Carlo Maria Martini alla stesura del nostro libroCam­biare il cuore.

Un padre rosmi­niano mi ospitò nel suo collegio in Valle d' Aosta per preparare degli esami e festeggiai. come tutti, il 5 agosto, la festa della Madonna delle Nevi.

 

Più tardi, in una favela di un vil­laggio brasiliano, don Arturo, un père dell'ordine di de Foucauld, mi fece capire cosa significasse dedi­care la vita a Gesù e al Vangelo e, pur svolgendo i lavori più umili, mi parlò molto del fascino di Dio, dei Vangeli e della figura di Gesù. Mi fece capire cosa significasse la pa­rola confiança, e cioè affidarsi. sentire una fede profonda che gui­da tutti gli atti della nostra vita.

Il cardinale Martini mi portò a ri­flettere sulla parola di Dio, sulle Scritture, sul silenzio e su Gerusalemme. Mi insegnò come fosse im­portante sentire gli altri come no­stri fratelli.

 

È vero che per me Gerusalem­me è la città ebraica, la città dove si prega al Muro del pianto, ma la presenza di Gesù è fortissima ovunque in quella città. Del resto si sa che Gesù era ebreo, viveva lì tra quelle mura, in quel paesaggio, in quei luoghi che oggi sono sacri an­che per i musulmani. E’ vero che dovunque in Israele, in Palestina, si sente la presenza del Cristo che lì è nato, vissuto e morto. Ma, come ho già detto altre volte, vedo il cor­so della nostra storia giudeocristia­na come il percorso di un treno che per gli ebrei è partito oltre cinque­mila anni fa e sul quale duemila an­ni fa sono saliti i cristiani.

Il fatto che io non pensi di vivere nell'era messianica, non significa che io non abbia rispetto e anche sentimenti di gioia, di vicinanza fraterna, per chi invece ha già rice­vuto il Messia e vive uno stato di felicità interiore profonda ogni volta che Lo sente vicino.

Capisco bene che debba essere affascinante per chi ha la fortuna di essere credente avere la fede e po­ter vivere in una religione che ha consentito di poter pregare, di po­tersi rivolgere anche al figlio di Dio. che ha voluto portare Dio a essere uomo e quindi immagine. Gli ebrei parlano direttamente con Dio, che però non è rappresentato in nes­sun modo.

 

Non lo dico con dispiacere, so­no molto orgoglioso del mio desti­no di ebreo.  

Penso che se esistiamo da tanti anni e nessuna persecuzione, an­che la più barbara, la più atroce, è riuscita a sterminarci del tutto e farci tacere per sempre, questo rientri in un disegno divino che non sta a noi uomini capire. Credo che papa Giovanni Paolo II abbia fatto bene a definire gli ebrei «fratelli maggiori». Lo sono non per età, ma perché mantengono in vita una tradizione, una religione molto antica che è co­munque quella di Gesù.

Non è credo un caso che Gesù fosse ebreo; perciò gran parte del cammino degli ebrei e dei cristiani è un cammino comune che per gli uni e gli altri si svolge nei luoghi descritti dalla Bibbia.

 

Cosa significa la presenza di Ge­sù nel mondo di oggi? Penso che sia uno dei grandi messaggi di pace dell'umanità, una grande risposta di come dovrebbe essere condotta una vita umana perché sia più felice e serena possibile.

Gesù è un grande messaggio di speranza e di solidarietà per il mon­do, che oggi ne ha molto bisogno, e la sua Chiesa ha dimostrato e dimo­stra di saper essere ancora di più una formidabile organizzazione di pace, di carità e d'amore.

Il papa è un instancabile difenso­re del bene, della pace, dei giovani, dei malati e dei bisognosi.

 

Gesù poi è etica, giustizia, poe­sia e ispirazione. Capolavori del­l'arte, negli ultimi due millenni, dal­la musica alla pittura, alla scultura, all'architettura in Occidente sono stati di ispirazione cristiana e l'Italia ne è ancora oggi la testimonianza vivente. I crocifissi dipinti e scolpi­ti, le scene della vita di Cristo e de­gli apostoli hanno ispirato i più grandi artisti di ogni secolo e di ogni generazione.

Per questo anche Gesù è una fi­gura così nota e familiare a chi non è cristiano, perché persone di grandissimo talento hanno dedicato il lo­ro lavoro a cercare di interpretarlo, di immaginarlo, come un modello, come un eroe, come un martire, co­me un amico.

A questo punto mi verrebbe da pormi una domanda. Come sareb­be il mondo senza Gesù? Sincera­mente molto diverso e anche diffici­le da immaginare. Gli ebrei sono pochi e lo sono sempre stati, i musulmani sono più recenti e vengono dopo il cristianesimo.

 

Forse senza i cristiani non ci sa­rebbero nemmeno i musulmani. Forse ci sarebbe stato un altro figlio di Dio da qualche altra parte. Il fatto che però non si riesca a pensare alla storia senza Cristo significa di per sé che Lui era una esigenza del mondo e gli uomini ne sentivano il bisogno.

Credo sia difficile continuare, co­me sto facendo già da troppo tem­po, a camminare nel vuoto, cioè cercare di immaginare cosa signifi­ca il Cristo quando si è soltanto uno scrittore, un giornalista.

Attraverso il passare degli anni ho avuto una grande esperienza di amore e di amicizia profonda che mi ha legato alla presenza cristia­na. Ho sentito vicino a me e ho amato teneramente persone di fe­de che avevano per Gesù un senti­mento molto profondo che li ispi­rava e li guidava attraverso la vita. Ho una moglie cattolica che porta sempre con sé un rosario e lo tiene vicino in ogni momento della sua vita. Un rosario che le è stato do­nato da monsignor Caffarra, l'ar­civescovo di Bologna e che appar­teneva a sua madre.

 

Mia moglie ha dovuto affronta­re la vita senza una madre che la crescesse e le stesse vicino, e cre­do che la sua fede in Gesù l'abbia sempre aiutata ad andare avanti. Questo è per me motivo di grande rispetto e mi fa capire cosa debba essere per lei la forza profonda che le dà appunto la presenza di Gesù nella sua vita.

Ma forse la presenza di Gesù nel mondo la capiamo meglio quando vediamo in televisione una donna indiana pellirossa che a New Or­leans dice sconsolata, guardando le macerie della sua città distrutta: «Da quando è arrivata Katrina dove è andato Gesù?». Il senso di abbando­no e di impotenza davanti al silenzio di Gesù, che sembra averla lasciata sola e aver abbandonato la sua città, ci dice come nella sua assenza Gesù faccia sentire la sua mancanza. La donna in verità non gli chiede di spiegarsi, ma di tornare e di conso­larla, di non allontanarsi.

Il suo non è un rimprovero, ma una richiesta d'amore.

 

PERCHÉ YAHVÈ E GESÙ CRISTO SONO PERSONAGGI INCOMPATIBILI DI HAROLD BLOOM

Yahvè era ed è tuttora la più misteriosa personifi­cazione di Dio mai azzardata dall'umanità; tut­tavia, egli ha mosso i primi passi come monarca guerriero del popolo che chiamiamo Israele. In ogni ca­so, quando incontriamo Yahvè - in questo primo peri­odo oppure successivamente -, ci troviamo di fronte a una personalità esuberante e a un carattere talmente complesso che è impossibile dipanarne il mistero. Mi riferisco soltanto allo Yahvè della Bibbia ebraica, e non al Dio di quell'opera completamente ‘revisionata’ che è la Bibbia cristiana, con il suo Antico Testamento che nel Nuovo trova il proprio compimento. Lo storicismo, vecchio o nuovo che sia, sembra incapace di confrontar­si con la totale incompatibilità di Yahvè e Gesù Cristo.

 

Nel suo libro Dio. Una biografia, Jack Mi­les -il Boswell di Yahvè - ci presenta un Dio che parte da una sorta di inconsapevolezza di sé, unita a un sommo potere e a una buona dose di narcisismo. Dopo svariate débacle di­vine, conclude Miles, Yahvè è venuto a perde­re ogni interesse, anche in se stesso. Miles ci ricorda giustamente che Yahvè, nel Secondo Libro di Samuele, promette a Davide che Salo­mone. troverà un secondo padre nel Signore. un'adozione che apre la strada al!'affermazio­ne, da parte di Gesù, della propria figliolanza divina. Evidentemente, il Gesù storico insiste­va sia sulla propria autorità di parlare in nome di Yahvè sia sulla relazione intima che lo legava al proprio abba (padre), cosa in cui io vedo poche differenze rispetto ad alcuni dei suoi precursori tra i profeti carismatici di Isra­ele. La vera differenza è emersa soltanto in seguito, con lo sviluppo della figura del Dio teologico, Gesù Cristo, ­dove c'è effettivamente una rottura nella catena della tradizione. A parte tutte le questioni di potere, la princi­pale divergenza tra Yahvè e gli dèi di Canaan consiste nel fatto che il primo trascende sia la sessualità sia la morte. In altri termini, è impossibile concepire uno Yahvè che muore. La cabala ha una visione della vita erotica di Dio, ma è strettamente in linea con la tradizio­ne normativa per quanto riguarda l'immortalità divina. Non v'è nulla nel cristianesimo teologico che mi sia più difficile da comprendere del concetto di Gesù Cristo come un Dio che muore e risorge. Il complesso incarna­zione – riconciliazione - resurrezione manda in frantumi sia il Tanakh - un acronimo che sta a indicare le tre parti che formano la Bibbia ebraica: la Torah (i cinque libri di Mosè), i Profeti (Nevi'im) e gli Agiografi o Scrit­ti (Ketùvim) - sia la tradizione orale giudaica. Posso comprendere uno Yahvè che si è eclissato, ha disertato o si è autoesiliato, ma uno Yahvè suicida è qualcosa che, di fatto, si colloca al di fuori dell'ebraismo.

 

Di fronte a queste osservazioni, potrei obiettare che è anche vero che Yahvè, personaggio spesso scioccante, sfugge alla mia comprensione, e che la figura di Gesù Cristo, sia pure in un modo molto differente, rappresen­ta un trionfo della genialità quasi pari a quello di Yahvè. Personalmente continuo a oscillare tra l'agnosti­cismo e una sorta di gnosi mistica, ma il giudaismo orto­dosso della mia infanzia si conserva nel mio spirito sot­to forma di un timore reverenziale nei confronti di Yahvè. Nessun'altra rappresentazione di Dio che io co­nosca si avvicina al paradossale Yahvè del Redattore Y. Forse dovrei riformulare quest'ultima frase ometten­do le parole «di Dio», dandole così un senso generale, dato che nemmeno Shakespeare è mai riuscito a inventa­re un personaggio il cui carattere sia così ricco di contra­sti. Tra le principali figure in competizione ci sono il Gesù di Marco, Amleto e Don Chisciotte, così come l'Odisseo omerico trasmutato in Ulisse, la cui ricerca - ­che si conclude con l'annegamento - riduce il pellegrino Dante al silenzio.

 

Dennis R. MacDonald, nel suo libro The Homeric Epics and the Gospel of Mark (2000), so­stiene che la cultura letteraria di Marco era più greca che ebraica, affermazione che ritengo da un lato convincente - nella misura in cui porta a sottolineare l'ecletti­smo del Vangelo più antico -, ma dall'altro piuttosto

discutibile, dato che il suo Dio resta pur sempre Yahvè.

Matteo è giustamente indicato come «il Vangelo ebrai­co»; il Vangelo di Marco è un'altra cosa, anche se è del tutto possibile che sia stato composto immediatamente dopo la distruzione del Tempio, durante lo sterminio dei giudei a opera dei romani. Amleto ha qualcosa degli sconcertanti sbalzi d'umore che ritroviamo nel Gesù di Marco, oltre che in Yahvè. E se è vero che Don Chisciot­te può essere considerato come il protagonista del testo sacro della letteratura spagnola, allora anche i suoi enig­mi possono competere con quelli di Amleto e del Gesù di Marco.

Non abbiamo modo di sapere quanto della figura e della personalità di Yahvè sia frutto dell'immaginazio­ne del Redattore Y, così come il Gesù di Marco sembra essere - entro certi limiti - un personaggio originale, per quanto senza dubbio permeato dalla tradizione orale, proprio come lo Yahvè di Y. Mi chiedo se l'autore del Vangelo di Marco non sia responsabile di averci conse­gnato un Gesù che non può fare a meno di parlare in modo oscuro. In un contesto caratterizzato dal «non

abbiamo modo di sapere», dove il posto della conoscenza viene preso da ciò che indichiamo come la fede paolina, la genialità di Marco sfrutta i nostri limiti di com­prensione. Il suo Gesù parla con un’autorità che talvol­ta maschera una pensosa tristezza rispetto alla volontà di Yahvè, l'amorevole ma imperscrutabile abba. E’ il solo a passare un'intera notte in agonia a causa dell'avvicinarsi della propria morte. Non possiamo stabilire se, come pensa MacDonald, la sofferenza di Gesù sia un' emulazione di quella di Ettore alla fine dell'Iliade. Gesù muore dopo aver esclamato in aramaico una para­frasi del Salmo 22, un grido del suo antenato Davide, con un pathos che risulta lontano da quello omerico.

Senza dubbio il vero Gesù è esistito, ma non verrà mai trovato, e non è nemmeno necessario che ciò accada.

 

Questo libro non vuol essere una ricerca di Gesù. Il. Mio unico scopo è quello di suggerire che Yeshua, Gesù Cri­sto e Yahvè sono tre personaggi totalmente incompati­bili, e di spiegare soltanto le motivazioni della mia teoria. Di queste tre entità (per chiamarle così), Yahvè è quella che mi dà più da pensare e che, sostanzialmente, domina il libro. I travisamenti della sua figura, inclusi quelli di gran parte della tradizione rabbinica e quelli degli studi apocrifi - cristiani, giudaici e laici -, sono infiniti. Egli rimane il più grande personaggio lettera­rio, spirituale e ideologico dell'Occidente, anche se vie­ne poi di fatto chiamato con una serie di nomi differenti che vanno da «Ein-Sof» (‘Senza Fine’), nella cabala, ad Allah, nel Corano. Un Dio capriccioso, che mi ricor­da un aforisma dell'oscuro Eraclito: «Il tempo è un fan­ciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciul­lo».

 

Dove troveremo il significato di Yahvè, o di Gesù Cristo, o di Yeshua di Nazareth? Non possiamo trovar­lo e non lo troveremo mai, e forse, nell'ottica di questa ricerca, la stessa categoria di «significato» è già sbaglia­ta in partenza. Yahvè dichiara la propria inconoscibili­tà, Gesù Cristo è completamente soffocato sotto l'impo­nente sovrastruttura teologica elaborata nel corso della storia, e a proposito di Yeshua tutto ciò che possiamo asserire è che si tratta di uno specchio concavo, in cui tutto ciò che vediamo sono distorsioni della nostra stes­sa immagine.

 

Il Dio ebraico, come la divinità di Platone, è un folle moralista, mentre Gesù Cristo è un labirinto teologico e Yeshua sembra un personaggio triste e solitario al pari di una qualunque persona di nostra conoscenza. Come Walt Whitman al termine del Canto di me stesso, Ye­shua si ferma da qualche parte ad aspettarci.