A Inzago il più bel Cenacolo di Leonardo

A Inzago il «genio» Leonardo ha apposto il suo simbolo, che non compare nel più noto Cenacolo di Milano

Domenico Montalto

Due anni di caparbie ricerche e l’ombra di Leonardo torna più che mai ad aleggiare su Inzago (Milano). Anzi il cerchio degli indizi si stringe in modo ferreo, le tessere del puzzle collimano suggestivamente, confermando la presenza e l’intervento del genio rinascimentale in quel paesino a nor-d est di Milano, nei pressi di Trezzo d'Adda, in un anno compreso fra il 1490 - quando egli fondò la sua «ac-cademia», di cui comunque nulla si sa - e il 1506, quando i discepoli si di-spersero per l'Italia.
Non solo. Leonardo avrebbe a suo mo-do addirittura «firmato» quell'Ultima Cena finora trascurata dagli studiosi e ignorata dal grande pubblico, ma che potrebbe far riscrivere la storia del-l'arte. A due anni dalla prima «scoper-ta» pubblicata da Avvenire e rilanciata dalla stampa di tutto il mondo, don Davide Mazzucchelli è più che mai sicuro: quella affrescata nella chiesa di San Rocco è «un'opera veramente complessa nata da una grande perso-nalità pittorica, tecnica, di ricerca, coa-diuvata dalla sua bottega. Se non è in toto di Leonardo, essa lo vide certa-mente quale architetto e suggeritore, con un apporto anche personale».
Mazzucchelli è in grado di suffragare le sue affermazioni con nuovi argomenti e documenti fondati, pertinenti, concomitanti, persuasivi. Ecco qua-li, da lui stesso spiegati.

La prospettiva ellittica
Innanzitutto, c'è la prospettiva del-l'affresco, raffigurante appunto Gesù fra gli Apostoli nell'Ultima Cena. Di-versamente dal celeberrimo Cenaco-lo vinciano milanese, eseguito su una parete piana, qui la prospettiva im-piegata nello spazio architettonico concavo del catino non è lineare ben-sì quella - molto più complessa - di ti-po "circolare". Se osserviamo come so-no disposti gli apostoli intorno alla mensa, ci accorgiamo infatti che il ta-volo è rettangolare, come a Milano, però le figure sono pensate e disegnate non su un'unica linea retta, ma in ellisse. Il pittore, perciò, ha dovuto di-sporre due apostoli di schiena, perché il cerchio - ellisse si chiudesse».

Prosegue Mazzucchelli: «E’ interessan-te fra l'altro notare che questi due di-scepoli di schiena, quello a destra in verde e quello a sinistra in rosso, sono stati eseguiti utilizzando la sinopia, ov-vero il disegno preparatorio sul muro, prova evidente che il maestro ha volu-to dare personalmente ai suoi colla-boratori proporzioni e posizioni esat-te per chiudere l'ellisse. Osservata dal centro della chiesa, tale ellisse, forma-ta dalle 13 teste, risulta visivamente perfetta, una struttura talmente ge-niale che oggi potrebbe essere imma-ginata solo utilizzando il computer per rilievi. Si tratta di una soluzione assolutamente originale, che trova il suo fondamento teorico e pratico in un disegno del leonardiano Codice Atlantico dell'Ambrosiana, precisamente il 710 b recto, raffigurante il cosiddetto “mazzocchio”, una specie di ciambella a 256 facce, che è prospettica e assonom-etrica insieme, concepita per una su-perficie sferica, come a Inzago, e non lineare. All'Ambrosiana c'è poi un altro disegno tecnico dì Leonardo, raffi-gurante un "calibro murale", che è esattamente impiegato per la costruzi-one spaziale del catino di Inzago.
Non solo, sul verso di tale foglio troviamo studi di sei figure che sono pratica-mente sovrapponibili ai sei personaggi -della parte destra dell'affresco inza-ghese. E’ impressionante il fatto che queste pagine del Codice Atlantico sia-no tutte susseguenti, indizio cioè di un-a preparazione logica, coerente, unitaria, tipica di un unico lavoro. E non è tutto per quanto riguarda il Codice Atlantico. Infatti ho rinvenuto diversi altri disegni che rinviano alla Cena di Inzago, come quelli dei fogli 662 a e 663 b con voli di uccelli, o il 198 vb con uno studio d'ellisse, e altri ancora. E non manca neppure uno dei disegni della collezione Windsor, peraltro e-sposto nella recente mostra milanese di Palazzo Reale, che è un preciso stu-dio, sia pur speculare, per il braccio destro di Giuda a Inzago.

Il paesaggio
Guardiamo poi al paesaggio visibile sullo sfondo del Cenacolo di Inzago, anch'esso molto interessante. Ebbene, qui vediamo descritti - da destra a sinistra - il fiume Adda a Concesa, il castello di Cassano d'Adda, il Lago Gerundo, nei pressi di Truccazzano, ora prosciugato. Se si esamina una carta geografica della zona, si constata che qui viene tracciato una sorta di triangolo visivo che ha il suo vertice inferiore proprio a Inzago. Viene offerta, in pratica, una prospettiva topografica esatta, rilevata in loco e restituita secondo una visione cir-colare. Un'audacia allora inedita e as-soluta, che rimanda a un'altra pagina del Codice Atlantico, la 711 f263, do-ve Leonardo ragiona sui "triangoli cur-vi"».

Quattro “firme”
Fin qui i nuovi indizi, e solo quelli prin-cipali, che confermano la tesi di un'o-pera complessa e originale, quindi im-portante. A tal punto importante che Leonardo ritenne di doverla “firma-re", cosa che non fece per il Cenacolo milanese. Forse perché in Santa Maria delle Grazie impiegò appunto la «prospettiva lineare», che non era certo u-na novità assoluta, essendo già stata utilizzata in precedenza da Mantegna e da Piero della Francesca. A Inzago, invece, Leonardo ritiene di dover in qualche modo sottoscrivere e siglare la personalissima novità rivoluziona-ria della «prospettiva circolare», la-sciando varie tracce di sé e della sua paternità intellettuale dell'opera, vasta 24 metri quadrati, contro i 16 di Mi-lano. Innanzitutto - continua Maz-zucchelli - «facendosi ritrarre nel per-sonaggio raffigurato all'estremità sinistra di chi osserva: un "omaggio" al maestro (i cui significati analizziamo a parte). In secondo luogo, anche qui mancano le aureole, come in tutti i dipinti di Leonardo. Terzo, i ripensa-menti. Leonardo è detto il maestro del ripensamento, ovvero della modifica in corso d'opera, risvolto della sua mens ricercatrice e sperimentalista. Ebbene, a Inzago notiamo ripensa-menti vistosi, come nel secondo apo-stolo sulla sinistra dopo il suddetto ri-tratto di Leonardo, figura che presen-ta due bocche, una delle quali è stata in seguito nascosta dalla barba. C’è poi la mano benedicente di Cristo, nella quale il restauro ha rivelato sei dita, con due medi».
Infine, a parte la qualità esecutiva al-tissima del volto di Cristo che rappre-senta di per sé una "firma" indubita-bile, c'è il mistero - e dove c'è Leonar-do c’è sempre mistero - della firma ve-ra e propria, che Mazzucchelli ritiene di poter leggere nell'affresco. In-somma, il “giallo” di Inzago continua. E, c'è da scommetterci, toglierà il son-no a parecchi.

Dal Sinai all’Olanda, il mistero di un'ellisse

Stando agli studi di don Mazzucchelli, la “Cena” di Inzago rivestì nel corso del XVI secolo e anche dei secoli successivi un'importanza enorme, tanto da divenire il prototipo di una serie di soggetti analoghi, di Ultime Cene «circolari» o in ellisse sparse in tutto il mondo di allora, dal Sinai alla Spagna ai Paesi Bassi, a riprova della fama universale dell'autore, o quanto meno del suo suggeritore, o regista. Una lista che «deve partire da Durer, il quale eseguì nel 1510 due incisioni, datate e firmate, dall'impostazione chiaramente ispirata, anche se non del tutto simile, al modello inzaghese. Fra le differenze: la scena è ambientata in una sala a volta col soffitto a quattro vele; le teste dei personaggi non risultano in ellisse perfetta: Giuda non volge le spalle. Il grande artista tedesco avrebbe realizzato questo lavoro in seguito a un invito di Giovanni da Lodi, il quale in una lettera datata 1506 lo invitava a Bologna, avendo da mostrargli una "prospettiva straordinaria e segreta" - E quale poteva essere questa prospettiva straordinaria, se non quella circolare?».

«In seguito, il pittore Damaskinos eseguì una sua icona, ora conservata nel monastero di Santa Caterina del Sinai, basata appunto su un'Ultima Cena "di Leonardo" incisa da Durer. Osservando però quest'opera del pittore greco, ci si accorge che l'Ultima Cena che fa da modello non è quella di Milano, bensì quella di Inzago. Anche El Greco, dal canto suo, riprende il prototipo inzaghese in un suo dipinto che si trova a Barcellona».

Ma innumerevoli sono le opere sparse soprattutto in Lombardia, ovvero nella zona di prevalente diffusione del verbo leonardesco, che rinviano a Inzago: per esempio la tela del Giampietrino in San Magno di Legnano, la pala lignea detta "del Merati" al Museo diocesano di Milano, l'affresco di Felice Damiani a Loreto (1585), lo stendardo del duomo di Como del Morazzone, un dipinto del Bouts a Lovanio».

Per don Mazzucchelli, «una delle figure - chiave nel mistero di Inzago potrebbe essere Bernardino Quaggio de' conti del Seprio, detto Bernazzano, pittore probabilmente originario di Bernate di Casale Litta, nel Varesotto, ma radicato nella zona di Inzago dove, nel 1507, dipinse un affresco a Uboldo, nella Cascina del Soccorso».

I DUE VOLTI

Cristo sorride

Secondo Mazzucchelli, “Il volto di Cristo è la prova dell’autografia di Leonardo. Durante il restauro e studiando il dipinto all’infrarosso si è infatti constatato che il lavoro è stato eseguito a mano libera, senza “spolvero”, né sinopia, senza mai ripassare il pennello, e in non più di 10 – 20 minuti, riprova di un’abilità prodigiosa. Se si confronta questo Volto con quello del Cenacolo milanese, ci accorgiamo che naso, bocca e occhi sono identici. Il sorriso richiama infine quello della famosa Gioconda del Louvre”.

Il ritratto

Curiosamente Leonardo è ritratto qui con un evidente strabismo. Si tratta, secondo Mazzucchelli, di una finzione che allude alla sua famosa “triangolazione pittorica”. Con l’occhio sinistro il maestro guarda il volto di Cristo, col destro si rivolge a chi osserva il Cenacolo, come a suggerire all’osservatore: “Guarda che quel volto, che è un capolavoro, l’ho eseguito io, Leonardo”.

 

Antonio Martinotti, Cristo alla porta. 1953. Monza

Antonio Martinotti, Cristo alla porta. 1953. Monza, collezione privata arciprete del Duomo.

Cristo è già venuto in mezzo a noi, che tuttavia ne aspettiamo il ritorno.

Un'ambivalenza bene espressa in questo dipinto del pittore recentemente scomparso.

Vi si vede lo scorcio di una porta, una mano e un volto di Gesù. Descrive il versetto del libro dell'Apocalisse, là dove Gesù dice di se: "Io sto alla porta e busso. Se qualcuno sente la mia voce mi apre. Io vengo da lui a cenare insieme". La Bibbia termina con l'invocazione 'Maranathà', che significa 'Vieni, Signore Gesù'.  Il cristiano tiene vivo il senso dell'attesa di Gesù.  Una porta che si apre è una rivelazione sul mondo, e nel mondo c'è tutta la Creazione ricapitolata. C'è tutta la storia ricondotta alle sue origini.

Il volto di Gesù è quello di chi ha appena terminato di parlare, di colui che ha appena detto il suo "Tutto è compiuto", quello della croce.

Gesù apre la porta. Lui la apre ma non entra: si limita a guardare. E nello sguardo di Gesù c'è il senso della trepidazione e dell'attesa,  ma anche il timore di dover vedere quel che non si vorrebbe vedere.

La luce del quadro è tutta negli occhi di Gesù, mesti e profondi al contempo. I Vangeli pongono in rilievo lo sguardo di Gesù.  Stando ai Vangeli gli occhi di Gesù dovevano essere davvero incantevoli e penetranti, quasi magnetici: chi li incrociava non se li dimenticava più. Pietro lo sapeva benissimo, perché la sua vita è stata segnata per sempre dallo sguardo penetrante di Gesù.

La mano di Gesù è sulla fessura, ma la porta resta socchiusa fino a che la nostra libertà non deciderà di spalancarla. Aldifuori della porta ci siamo noi, grumi di terra come l'ombra che si intravvede sull'uscio. Cristo rimane lì, fissandoci in attesa.

Nel dipinto in alto, alle spalle di Gesù, alla destra di chi guarda, si intravvede un cielo turchino. E' la profondità del mistero che ci chiama. E' il regno di Dio che si estende sulla terra. E' l'inizio della vittoria del bene sul male, della luce sulle tenebre.       

 (tratto da un intervento di Danilo Dorini)

 

Arte cristiana persiana  

“Avvenire” 4 aprile 2004

Una rassegna sull'arte del «secolo d'oro» in Iran. Una serie di opere del '500 illustrano miti e culture. Ma con qualche svista
di Herman Vahramian

«Quando un'idea si conserva immutata attraverso lunghe sequenze di variazioni di stile, è evidente che tale idea è il motivo e la forza dominante che anima l'opera e così ogni singolo pattern (modello) diventa un microcosmo esistente all'interno di un tempo mistico qualitativamente distinto dallo spazio, dalla superficie, dal colore, dal materiale e soprattutto di tutto ciò che è altro e che si trova al di fuori di esso, considerato perciò spesso "profano"»(K.A. Coomaraswamy).
Il pattern di molti tappeti chiamano in causa una cosmogonia che diventa per loro tramite l'oggetto di una sacra contemplazione e la manifestazione visibile dell'Onnipotente. Il tappeto in possesso del Museo Poldi Pezzoli, impropriamente definito "tappeto di caccia", appartiene a questo tipo di rappresentazioni cosmogoniche. I simboli - spesso quasi camuffati - raccontano narrano il rapporto di Dio con il mondo.

La croce stellata, ovvero la croce sovrapposta alla luce, che crea una "croce di luce" nel bel mezzo del tappeto forma per conto proprio una doppia lettera 'È' che rimanda al Gesù Onnipotente accentuando il simbolismo cristologico con il colore rosso. Inoltre, il tappeto è gremito di gigli - simbolo per eccellenza di Maria - che precedono i due galli dell'annunciazione (simbolismo tuttora in uso in Iran).

Questi tappeti venivano generalmente annodati a Giulfa (importante centro commerciale armeno sulla Via della Seta), dai cristiani, dagli ebrei e anche dai musulmani sciiti, ed erano firmati in persiano (lingua ufficiale della Via della Seta). Questi tappeti erano un dono destinato ai re e agli imperatori d'Oriente e d'Occidente, soprattutto cristiani. Il tappeto del Museo Poldi Pezzoli potrebbe essere stato il dono per un capo della cristianità, il cui trasporto fu organizzato da una delle società commerciali armene operanti sulla Via della Seta (sulle colonne di San Marco a Venezia esistono ancora i loghi di queste tali società, incisi dai marinai che prestavano servizio su navi commerciali armene.

Un tappeto così ricco di significati sacrali, che riportava un importantissimo episodio della Bibbia, non poteva essere altro che un dono del re persiano Scià Ismayil (1495-1524) - eminente figura religiosa che proclamò lo sciismo religione di Stato - al Papa. Scià Ismayil fu il fautore di una integrazione nella società persiana degli elementi delle altre religioni - cristiani, ebrei, zoroastriani ecc. – e il promotore di rapporti assai stretti col cattolicesimo romano e l'Europa.

La mostra 'A caccia in paradiso'.
Arte di corte nella Persia del Cinquecento, allestita a Milano al Poldi Pezzoli e a Palazzo Reale (catalogo Skira), vorrebbe svelare le complicatissime relazioni tra l'Islam sciita, il cristianesimo, e l'Impero persiano in formazione: insomma, i rapporti fra l'Est e l'Ovest di allora. Il risultato e una mostra sorprendente, utile dal punto di vista didattico, da non perdere, anche se, per la parte curatoriale, rivela a tratti una certa noncuranza verso un approccio storico-critico rigoroso.

Basti un esempio: la battaglia di Cialdiran fu vinta dagli ottomani grazie ai fucili e ai cannoni occidentali, e non perché l'esercito persiano si era dato a far baldoria come viene asserito nel catalogo. Inoltre, questa battaglia sigillò per i secoli a venire - come scelta strategica nei rapporti fra i due imperi che si confrontavano, quello ottomano e quello persiano - l'idea di una supremazia della civiltà occidentale.

E ancora: lo scià Ismayil non fu un beone come ancora si afferma nel catalogo. A parte il fatto che un capo sufi non toccherebbe mai una goccia di vino, lo scivolone storico si deve al fatto che egli viene raffigurato con la coppa di Giam (coppa che consente di vedere il passato, il presente e il futuro), equivalente al Sacro Graal. Esiste, fra l'altro, in Persia una bolla del clero musulmano dell'epoca che consente a tutti i cristiani di utilizzare il vino quando è indispensabile per la celebrazione della Messa.

Sorvolando su queste sviste, va detto che in mostra vi sono una ventina di opere di grande pregio provenienti dall'Iran grazie agli sforzi di Annalisa Zanni ed esposte per la prima volta in Europa. Nondimeno, si sarebbe potuto esporre molto altro materiale di grande valore già presente sul suolo italiano: per esempio, alla Biblioteca Braidense e all'Ambrosiana di Milano, alla Biblioteca Nazionale di Venezia, e anche alla Biblioteca Vaticana. Mancano inoltre nella bibliografia molti riferimenti al contributo di studiosi italiani di iranistica come Alessandro Bausani e Francesco Gabrieli, Angelo Michele Piemontese e Antonio Gnoli.

Si nota inoltre un'accurata opera di "pulizia" dal fattore religioso - per esempio, le insegne usate nel cerimoniale del martirio di Alì o le maschere dei dervischi, in quanto maschere di guerra - scelta "laica" che rende la mostra più simile a una esposizione di pezzi di antiquariato che un'occasione per capire la cultura e l'organizzazione di quel mondo. Anche sul catalogo vanno rilevati una certa casualità nell'organizzazione dei saggi, la qualità talvolta non buona delle immagini, e l'assenza di un pur minimo glossario esplicativo. E certo non avrebbe guastato una scheda tecnica che spiegasse al visitatore che cos'era davvero la caccia reale persiana. Ogni oggetto invece dispone di una poderosa scheda dal tono decisamente serioso che caratterizza certa pubblicistica universitaria.

 

Arte Sacra contemporanea  

 

Arte Sacra contemporanea!!

Ecco le nuove icone benedette dai Gesuiti

Repubblica — 28 ottobre 2008   pagina 15   sezione: MILANO

«Prese il pane e rese grazie». Queste parole sono il cuore della liturgia cattolica. Il pane è lì, è appena stato spezzato e si trova sopra una tovaglia, sulle cui pieghe la luce danza come nella Cena in Emmaus di Caravaggio. Verrebbe voglia di prenderne e mangiarne, ma è fatto di tufo siciliano, mentre la tovaglia è in piombo. La scultura di Daniela Novello, che non sfigurerebbe nemmeno su un altare, è forse il pezzo più forte dell' esposizione Testimonianze del sacro, alla Galleria San Fedele. In mostra le opere di sette giovani artisti, premiati nella scorsa edizione del Premio San Fedele, chiamati a confrontarsi con il tema del sacro.

Ma che senso ha l' arte sacra oggi? Risponde padre Andrea Dall' Asta, gesuita, direttore della galleria e, insieme a un gruppo di giovani critici, curatore della mostra:

«In una visione contemporanea, l' immagine sacra non è più legata solamente a una verità dogmatica da dimostrare, quanto piuttosto va ritrovata nell' uomo, chiamato a riconosce nella propria vita quella presenza di Dio che già lo abita da sempre. Le iconografie cristiane tradizionali, popolate da Dio barbuto e da santi in gloria, sembrano appartenere a un mondo lontano e sono arrivate a un capolinea».

In effetti è difficile trovare esempi convincenti. L' episodio più interessante, a Milano, è costituito dalla Chiesa Rossa, con le installazioni di luce di Dan Flavin, realizzate nel 1996. Ma Flavin, pur creando un' opera profondamente spirituale, aggira il problema di una nuova iconografia sacra. Di alta qualità anche le quattordici ceramiche della Via Crucis di Fontana, eseguite nel 1957 per le suore Carline di Milano e conservate proprio nella cripta della chiesa di San Fedele. Più spesso ci si imbatte in soluzioni discutibili, come gli affreschi di Guttuso (del 1983) nella terza cappella del Sacro Monte di Varese. Quali strade allora si possono percorrere per tentare un rinnovamento?

«Molta arte sacra contemporanea, come si vede nelle varie biennali dedicate al tema - continua padre Dall' Asta - è popolata dal cattivo gusto, da immagini superficiali e artificiosamente naif, che paiono collocarsi più nel mondo del fumetto e della didascalia che in una vera ricerca di senso e di nuove modalità di comunicazione. Oggi più che mai siamo chiamati a riflettere sui linguaggi con cui esprimere la nostra esperienza di fede, da uomini e donne del nostro tempo».

Compito arduo quello dei giovani artisti, che in più di un caso hanno saputo dare risposte originali e degne di nota. Enrica Magnolini si è ispirata al versetto del Vangelo di Giovanni "Donna perché piangi?". Una serie di primi piani di volti femminili solcati da lacrime di dolore incarnano la sofferenza di Maria Maddalena davanti al sepolcro di Cristo. Forte della sua esperienza di fotografa di scena alla Scala, la Magnolini ha saputo conferire una drammaticità quasi teatrale alla sua personale lettura del Vangelo.

Enrico Mazzi ha creato un video onirico ed evocativo: un disegno animato della durata di quattro minuti, forse un po' criptico ma tecnicamente ineccepibile.

Elevazione di Cristiano Tassinari rappresenta un Cristo molto umano, una sorta di moderna Pietà.

E ancora la Novello propone un fonte battesimale che potrebbe dialogare con un' architettura romanica e, comunque, essere perfettamente adeguato alle esigenze del rito. Una buona interpretazione della definizione lapidaria di padre Dall' Asta:

«E' arte liturgica quella di fronte alla quale si può pregare». - MICHELE TAVOLA

 

Battesimo di Gesù. (Iconografia del...)  

Battesimo di Gesù (Iconografia del...) di Micaela Soranzo. Vita Pastorale (Gen. 06)

 

Attualmente il 6 gennaio si festeggia l'adora­zione dei Magi, ma in origine si ricordavano anche le nozze di Cana e il battesimo di Gesù nel Giorda­no, considerato come la prima epifania o teofania di Cristo, cioè la prima manifestazione divina. Il battesimo è un evento di grande portata simbolica di cui parlano tutti gli evangelisti, inizio della vita pubblica di Cristo. In esso i Padri hanno visto an­che una delle prime manifestazioni della Trinità: il Padre presente nella voce, il Figlio nella sua forma incarnata e lo Spirito Santo sotto forma di colom­ba. Come simbolo trinitario, il soggetto era già uti­lizzato prima del 313 nelle catacombe e sui sarco­faghi. Vediamo i tratti essenziali della composizio­ne per analizzarne poi l'evoluzione iconografica.

 

Innanzitutto non si può non notare la somi­glianza tra il battesimo e l'annunciazione. In en­trambi gli episodi abbiamo di fronte una sce­na con due personaggi principali, di cui uno di natura divina e l'altro di natura umana: l'angelo e la Vergine da una parte, Cristo e il Battista dall'altra, ma a differenza dell'annuncia­zione la scena avviene sempre all'aria aperta. I due temi trovano un punto di unio­ne in un terzo elemento: Dio Padre o la colomba dello Spirito Santo, che appaiono sopra la testa di Cristo. Divenendo l'asse della composizione, la colomba, poi, diminuisce l'importan­za di Giovanni che, come l'angelo, è un semplice esecutore e finisce per ingi­nocchiarsi davanti a Cristo.

 

La scena del battesimo si com­pone di due elementi ben distin­ti: la purificazione nell'acqua del fiu­me e la teofania o discesa dello Spiri­to Santo. In man­canza di una descri­zione sufficientemen­te precisa nei vangeli - poiché non è solo un avvenimento della vi­ta di Gesù, ma un sa­cramento - è stata rappresentata nel­l'arte cristiana in conformità con la liturgia battesimale, che si è svi­luppata successivamente sotto due forme: per im­mersione nel fiume o in una vasca del battistero, o per semplice infusione nel fonte battesimale.

 

L'iconografia di questo secondo tipo comin­cia a comparire a partire dall'XI secolo, prima abbinata a quella per immersione e poi autono­mamente. Nelle catacombe sono frequenti le scene che evocano il rito d'ingresso nella comu­nità cristiana, ma malgrado Luca attribuisca espressamente al Messia, all'epoca del battesi­mo, l'età di trent'anni, nell'arte paleocristiana e poi in quella bizantina dal VI al XII secolo Gesù appare spesso come un fanciullo imberbe sopra il quale si scorge la mano di Dio o la colomba, come nelle catacombe di san Callisto (II secolo) o sul sarcofago di Arles (IV secolo). La ragione di questa anomalia è che nella liturgia i catecu­meni vengono chiamati pueri, infantes. E’ solo alla fine del VI secolo, nell'Evangeliario siriano di Rabula, che appare Cristo adulto con la bar­ba; a partire da questo momento egli sarà gene­ralmente rappresentato come un uomo.

Inoltre è completamente nudo, immerso nelle acque del Giordano; l'acqua sale fino alla cintu­ra e talvolta fino alle spalle, disegnando attorno al suo corpo una cupola ovoidale simile a una campana liquida: è il corso del fiume rappresen­tato secondo le regole di una prospettiva infanti­le, dove le linee si alzano invece di ‘fuggire’. La sua fluidità è indicata da ondulazioni parallele, che striano la campana d'acqua come fossero piccole increspature, e dai pesci che nuotano nell'elemento liquido, ma l'acqua non è traspa­rente, infatti serve per nascondere la nudità.

Il Battista è generalmente vestito con una tunica in pelo di cammello, che allude alla sua vita nel deserto, o di pelle di montone, come nei mo­saici ravennati del battistero degli Ariani e degli Ortodossi (V secolo) o ricoperto da un mantel­lo, come nel mosaico del battistero di San Mar­co a Venezia; talvolta ha una croce a lunga asta. È in piedi sulla sponda e impone la sua mano sulla testa del Salvatore; prima del XII secolo non lo si vede mai versare l'acqua lustrale.

 

Sulla riva opposta del fiume ci sono degli an­geli discesi dal cielo per compiere l'ufficio di

diaconi. La loro presenza, non menzionata nei vangeli né negli apocrifi, si può spiegare tramite la liturgia, dove un diacono assisteva il vescovo, tenendo il crisma e rivestendo poi i catecumeni con la veste bianca. Il numero degli angeli varia da uno a tre, forse un rafforzamento del simboli­smo trinitario della scena, diventando addirittu­ra quattro nella chiesa di Santa Maria della Pie­ve di Arezzo. Essi hanno le mani velate in segno di rispetto secondo l'uso dei funzionari della corte imperiale, ma gli artisti occidentali, che avevano scarsa dimestichezza con il cerimonia­le bizantino, non compresero il significato dei veli e immaginarono gli angeli che presentava­no un telo per asciugare il catecumeno o come ‘attaccapanni viventi’ per porgere la tunica a Cristo, che si riveste quando esce dall'acqua.

L'iconografia del battesimo per immersione comporta, inoltre, delle figure allegoriche come la personificazione del Giordano, il dragone vin­to e un monumento commemorativo, la croce ac­quatica.

Seguendo una tradizione iconografica presa dall'arte alessandrina, il Giordano è perso­nificato come un dio fluviale, vecchio e con la barba bianca, che tiene in mano delle canne e un otre inclinato con cui alimenta il corso del fiume stesso. Secondo san Girolamo, il nome era for­mato da Jor e Dan, e quindi a volte è diviso in due mezze figure, come nel Protaton del Monte Athos; spesso ha sulla fronte delle chele di gran­chio come i centauri marini della mitologia. Poi­ché si legge l'episodio del passaggio del Mar Ros­so come prefigurazione del battesimo, il Giorda­no personificato è quasi sempre visto di spalle e ha l'atteggiamento di fuggire come il Mar Rosso che si ritira (cattedra di Massimiano a Ravenna del VI secolo): l'arte non ha fatto altro che tra­durre il Sal. 114,3 (113,3a) dove si dice: «Il mare vide e si ritrasse, il Giordano si volse indietro».

 

 

 

In molti salteri bizantini si vede arenato sulla ri­va del fiume un enorme dragone acquatico, taglia­to in due e tutto sanguinante; bisogna, per capire, riportarsi al Sal. 74,13 (73,13) dove il salmista in­voca Dio con queste parole: «Tu con potenza hai diviso il mare, hai schiacciato la testa dei draghi sulle acque». Teologicamente ciò significa che, co­me il faraone che inseguiva gli ebrei è morto nel Mar Rosso, così la potenza del demonio è stata spezzata dal battesimo. Nel monastero di Xenophontos al Monte Athos Cristo posa il piede su una pietra da cui escono quattro teste di serpente.

 

Un altro dettaglio non meno curioso è una cro­ce nel letto del fiume, che sarebbe un presagio della crocifissione. In realtà, per segnalare ai pel­legrini il luogo dove aveva avuto luogo il battesimo del Messia, nel letto del Giordano era stata in­nalzata una croce in cima a una colonna piantata su uno zoccolo a tre gradini; questa colonna, attorno alla quale nuotano i pesci, è frequentemen­te riprodotta nelle rappresentazioni antiche del battesimo. Infine, dietro il Battista a volte si vede un'ascia infissa nel tronco di un albero, da cui egli parla indirizzandosi ai farisei, come nel mo­saico del battistero di San Marco; è l'illustrazio­ne di Mt 3,10: «Già la scure è posta alla radice de­gli alberi: ogni albero che non produce frutti buo­ni viene tagliato e gettato nel fuoco»: tutti questi dettagli spariscono a partire dal XIII secolo.

 

 

 

Intanto nell'arte occidentale tra il IX e X seco­lo scompare l'iconografia dell'immersione nel Giordano, poiché comincia a diffondersi la prati­ca del battesimo per infusione o aspersione; mentre primi­tivamente il battesimo doveva essere ammi­nistrato dentro l'ac­qua corrente e vi­va di un fiume, ci si è accontentati più tardi di un'acqua mor­ta, imprigiona­ta dentro un recipiente a forma di calice, come un fiore reciso in un vaso.

 

L'esempio più antico di battesimo per infusio­ne associato a quello per immersione è lo smal­to di Nicola di Verdun per l'ambone di Kloster­neuburg (1181). È solo nel XIV secolo, con Andrea Pisano, che la nuova formula trionfa defini­tivamente. Gesù affonda nell'acqua solo fino ai ginocchio addirittura alle caviglie e quindi non può più essere rappresentato completamente nudo: come nella crocifissione, è cinto per de­cenza da un lino intorno ai fianchi. In piedi, in mezzo a un fiume quasi secco, giunge le mani, mentre Giovanni gli versa l'acqua sulla fronte.

In certi casi molto rari, come sul capitello del chiostro di Eschau in Alsazia, è la colomba dello Spirito Santo che lascia colare sulla testa del Sal­vatore il contenuto di un'ampolla che tiene nel becco. L'infusione avviene generalmente con una conchiglia o una coppa nell'arte italiana, con una brocca in quella tedesca, mentre nella scuola dei Paesi Bassi, con Memling, è fra le dita che il Battista lascia colare dal cavo della sua ma­no qualche goccia d'acqua sulla testa di Cristo.

 

Nella pittura italiana del 'Rinascimento l'im­magine del battesimo di Cristo non ha niente in comune con l'arte religiosa; infatti, come le noz­ze di Cana sono per Veronese il pretesto per raf­figurare il fasto di un banchetto, il battesimo non diventa altro che una ‘scena di bagno’, con attorno a Cristo dei bei corpi nudi di catecume­ni che si divertono, si svestono e rivestono al­l'aria aperta: il sacramento lascia il posto a un bagno nel Tevere o nell' Arno. Questa nuova concezione appare dal XV secolo negli affre­schi attribuiti a Masolino, a Masaccio, a Ghirlandaio e a Signorelli, fino a Raffaello, che la in­troduce nei suoi affreschi delle Logge Vaticane.

 

Dopo il concilio di Trento si ritorna a una con­cezione meno pagana, senza riprendere tuttavia la formula medievale. Invece di stare in piedi nel Giordano, Cristo si inchina o talvolta si inginoc­chia con rispetto davanti al Battista, come nella tela di Murillo per la cattedrale di Siviglia, oppu­re si inginocchiano l'uno davanti all'altro, come nel gruppo ligneo della chiesa di Hoogstraeten.

 

Con questa nuova iconografia gli artisti del XVII secolo vogliono tradurre fedelmente i testi dei teologi mistici, che esaltano l'umiltà di Cri­sto: «O Verbo incarnato», scrive la santa fiorenti­na Maria Maddalena de' Pazzi, «tu hai voluto in­chinarti e abbassarti davanti a san Giovanni, co­me se tu avessi bisogno di essere purificato». Lo spagnolo Alvarez de Paz le fa eco nelle sue Meditationes: “Il tuo Battesimo fu l'opera della tua ammirabile umiltà. Tu sei andato verso il Battesi­mo, o maestro di Purezza, come se tu avessi dei peccati da espiare”. Nell'arte religiosa del XVII

 

e del XVIII secolo, al contrario, molto spesso Cri­sto re è servito dagli angeli che lo rivestono e


Poussin, in una tavola, mostra il Battista che si in­ginocchia davanti a Cristo. In tal modo l'icono­grafia post-tridentina del battesimo sottolinea tanto l'umiltà quanto la maestà del Salvatore.


In sintesi, l'iconografia si sviluppa secondo tre tipologie: 1. Cristo, nudo, è immerso nel Giordano, mentre Giovanni gli impone la mano sulla testa; 2. Cristo, cinto da un perizoma, è in piedi nel letto del fiume e Giovanni gli versa l'acqua sulla testa; 3. Cristo, vestito con una tunica, si inginocchia sulla riva davanti al Battista o il Battista si inginocchia davanti a lui.

 

 

 

Il rito lustrale, però, non è tutto, poiché frac­conti evangelici descrivono anche la seconda parte della scena, cioè la discesa dello Spirito Santo mentre risuona la voce di Dio Padre, che proclama per la prima volta la messianicità di Gesù. In particolare Luca 3,22 afferma che lo Spirito discende «in apparenza corporea, come di colomba» e senza dubbio questa seconda ver­sione, che materializza e dà un aspetto concreto e plastico all'apparizione dello Spirito, è adotta­ta subito dagli artisti, contenti di poter rappre­sentare così un essere divino incorporeo. La.co­lomba porta talvolta nel becco un ramoscello d'olivo per l'assimilazione di Cristo battezzato nel Giordano con il patriarca Noè nell'arca.

 

Così il battesimo è concepito non solo come una purificazione, ma come una "illuminazio­ne", tanto che il nome che i Greci danno al batti­stero è phòtisterion. Secondo una tradizione più antica, che troviamo sia nel II secolo presso Giustino, sia nel1V secolo presso Efrem Siro, una luce illumina l'acqua del Giordano al momento del battesimo di Gesù. Un altro poeta cristiano, Giovenco, dice che la luce che penetra l'acqua trasparente del fiume rivela la presenza di Dio. Noi troviamo traccia di questa interpretazione in un affresco della Cappadocia dell'XI secolo, dove la luce che illumina l'acqua è raffigurata ingenuamente da una fiamma che emerge dal fiu­me vicino a Gesù. Nello stesso tempo un'altra lu­ce più forte appare sopra il cielo, illuminando il Padre e la colomba dello Spirito Santo. L'inter­vento del Padre può essere evocato sia dalla ma­no divina, sia dalla sua figura a mezzo busto, che fa un gesto di benedizione, come appare già nel XII secolo su un fonte battesimale di Liegi

 

(1118).

 

Nell'arte barocca del XVII secolo il Battista alza verso il cielo, da dove risuona il mes­saggio del Padre Eterno, un viso estasiato.

 

Come l'ultima cena decora i refettori dei con­venti, allo stesso modo il battesimo di Gesù è sta­to un soggetto riservato di preferenza alla deco­razione dei battisteri e dei fonti battesimali, in quanto il battesimo di Cristo anticipava quello dei cristiani e santificava le acque battesimali. Per il suo carattere simbolico ha goduto parec­chio del favore degli artisti medievali, soprattut­to romanici, ma è stato il tema prescelto da tutti i più grandi artisti, da Piero della Francesca a Pin­turicchio, da Verrocchio a Giovanni Bellini, per continuare ancora fino al XVII, XVIII e XIX se­colo con Rubens, Corot, ecc.

 

 

 

Micaela Soranzo

 

CALENDARIO DI MOSTRE ED EVENTI  

27 APRILE - 30 SETTEMBRE 2007

Ad Illegio Apocalisse senza sigilli

 

Apre il 27 aprile 07 alla Casa delle Esposizioni di Illegio, presso Tolmezzo, inaugurata dal segretario di Stato cardinale Tarcisio Bertone, «Apocalisse, l’ultima rivelazione»; cento capolavori da Durer a Guido Reni, da Dalì a De Chirico, dai codici del primo millennio alle icone di Novgorod per scoprire - fino al 30 settembre 07 - come l’immaginario dell’ultimo Libro della Bibbia ha influenzato le arti occidentali.

 

 

 

Ricchissimo anche il programma degli eventi che si snoderanno nel locale Teatrotenda secondo la cadenza dei «sette sigilli» dell’Apocalisse; il primo dei quali sarà «aperto» il 13 maggio alle 20.30, con una conferenza dello storico del cristianesimo Edmondo Lupieri, la declamazione dell’attore Giuseppe Bevilacqua e l’esecuzione del «Quartetto per la fine dei tempi» di Olivier Messiaen.

Altri appuntamenti: l’8 giugno incontro con l’arcivescovo di Praga Miloslav Vlk; il 9 giugno Moni Ovadia interpreta inni sacri ebraici; il giorno successivo meditazione del cardinal Albert Vanhoye, biblista, su «La santità dei redenti e il cantico nuovo».

 

L’11 luglio il «Quinto Sigillo» sarà svelato da un «Dialogo sull’Epilogo» con lo scrittore e filosofo Umberto Galimberti, il rabbino Benedetto Carucci Viterbi e l’esegeta cattolico Rinaldo Fabris.

 

Infine, domenica 16 settembre alle 16.30 incontro con René Girard, autore del Libro «Vedo Satana cadere come folgore». La mostra sarà aperta dalle 10 alle 19, tranne il lunedì; informazioni: 0433/44445 o 2054.

 

Caravaggio, la Cattura di Cristo   

di Luca Frigerio

 

La notte, l'in­certa luce delle lanterne, il ri­verbero delle armature, le urla, il silen­zio...

 

-Si adempiano dun­que le Scritture!-, escla­ma il Cristo nella pagina evangelica di Marco. Ma qui, qui sulla tela del Ca­ravaggio, Gesù appena sussurra quel suo totale abbandono, mormorando tra le labbra socchiuse, le mani intrecciate, come in un gesto che pare di nervosa im­potenza, e che è invece consapevole rassegna­zione. ­

 

Lo si pren­de come un bandito, lo si assale co­me un delin­quente.
Peri­coloso, certo, dannoso, senz'altro, da togliere di mezzo al più presto, che più non si sentano quelle sue parole che turbano, che più non si veda quel volto che interroga. Lo scandalo insopportabile di un Dio che si è fatto uomo, e che su questa terra neppure ha voluto regnare...

 

Giuda non ce l'ha fatta. Ha venduto la sua in­quietudine e la sua rab­bia al Sinedrio, per tren­ta denari, certamente per molto di più. Tradisce il suo maestro riconoscendolo come tale, tragico paradosso, usando un simbolo di quell'amore di cui nulla, infine ha compreso: un bacio biascica­to sul volto del Rabbì.

Una forza disperata spinge l'Iscariota. La for­za stolta di chi non vuoI più ragionare, di chi non vuoI più ascoltare, per paura forse di capire, per timore forse di fermarsi. E invece bisogna andare avanti. Il Cristo quasi va­cilla sotto l'urto di Giuda.

 

E si lascia stringere dal traditore, senza ricam­biare l'abbraccio, lui che ha abbracciato le folle, e che dall'alto della croce continuerà ad abbraccia­re il mondo. Non c'è incrocio di sguardi, e in questo il Caravaggio è sublime. Gesù chiude gli occhi. Quelli, di Giuda fissa­no il nulla, orbite vuote di chi non vede ormai che l'abisso della disperazione.

 

Andate a vederla, que­sta «Cattura di Cristo» del Caravaggio. Un capolavoro. Un dipin­to di smagliante bellezza, di eccezionale qualità pittorica uno dei vertici del­l'arte di Michelangelo Me­risi. Ma anche un'opera di emozionante intensità, di straordinaria profondità, che poco viaggia e poco si è vista. A meno di essere nel cuore dell'Ir­landa, naturalmente.

 

Il quadro arriva infatti da Dublino, dove un cu­rioso destino l'ha portato, come spesso accade alle opere d'arte. Caravaggio lo dipinse trentenne, nel fulgore del suo genio creativo, quando da bra­vo pittore stava già diven­tando un mito vivente. Con tutto ciò che il ruolo poteva comportare, com­presa 'irascibilità, l'orgo­glio e il desiderio di ricchezza. Per questo aveva abbandonato i suoi primi protettori romani. Per questo aveva accettato l'ospitalità e la commit­tenza di una delle fami­glie più in vista dell'Urbe, quella dei Mattei. La ‘Cattura di Cristo’ il Me­risi la realizzò per loro.

 

E a Roma il dipinto rimase fino all'alba del di­ciannovesimo secolo, seppur dimentico del suo originario, straordinario autore. La tela, infatti, fu venduta a dei ricchi scoz­zesi come opera di un o­landese ‘italianizzato’ come Gherardo delle Notti, che nel Caravaggio aveva trovato la sua totale fonte di ispirazione.

 

Per questo, forse, un secolo più tardi, la nostra ‘Cat­tura’ non fu ritenuta ‘de­gna’ di essere donata al­la National Gallery of Scotland, ma destinata ad un'asta per amatori.

 

Ad acquistarla una signora irlandese che era stata colpita, più che dal­l'eccellenza della pittura, dalla singolarità del soggetto, che le ricordava la tragica morte del marito.

 

Soltanto nel 1990, dopo che l'opera fu donata alla comunità gesuitica dublinese, si riuscì a provare quel che illustri storici dell'arte avevano già ipotizzato, e cioè che questa ‘Cattura di Cristo’ era veramente quel­la dipinta dal Merisi nel 1601 e che si credeva perduta.

        

Una bella storia, intricata quanto basta ad ag­giungere interesse a inte­resse, valore a valore. U­na bella storia che tutta­via non può distoglierci dall'ammirazione esta­siata dell'opera. Che sa­rebbe grande anche sen­za il nome di Caravaggio a firmarla; ma che solo il Caravaggio, oggi ne sia­mo certi, avrebbe potuto realizzare.

 

Da osservare c'è ancora quel telo scarlatto che sta per calare sulle teste del Cristo e di Giuda, una re­te che già prefigura la futura passione e morte del Salvatore, che consegna Gesù ai suoi carnefici, ma che allo stesso tem­po imprigio­na il tradi­tore al suo destino disgraziato.

 

Attorno, soldati in lucenti co­razze. Cara­vaggio pren­de a modello quelle lombarde che ben conosceva, vanto delle botte­ghe milanesi e bresciane, splendide nella tornitura, terribili quali simboli di ingiustizia e prevaricazio­ne. Sono armature mo­derne, appunto. Quelle proprie dell'inizio del Sei­cento. Un'attualizzazione cara al Merisi, che ripro­pone la cattura di Cristo ai suoi giorni, ai nostri giorni, perché sempre ed ancora Gesù è tradito dai mille e mille Iscariota che non esitano a sacrificare degli innocenti sull'altare della menzogna e della violenza.

 

E c'è poi da notare quell'uomo che fugge ur­lando, sul limite sinistro della tela, alle spalle del Cristo. È un apostolo, senza dubbio; san Gio­vanni, probabilmente. Vi­le qui nell'orto del Getse­mani, ma che ritroverà il coraggio di salire sul Gol­gota, unico tra i discepo­li. E il suo grido pare lo stesso di quando sarà sotto la croce. Anzi, pare già essere sotto la croce, le braccia e lo sguardo al­zati verso l'alto.

C'è altro? Sì, almeno un ultimo dettaglio. Quello del giovane uomo che s'intrufola da destra, sollevando una lanterna, tirando il collo per vede­re. Un uo­mo sulla cui fronte s'accende una lama di lu­ce. È lo stesso Caravaggio. O­ra contem­pla ed assi­ste l’inizio della pas­sione di Cri­sto.

 

Caroli Flavio. La storia di artisti che dipingevano Cristo per indurre a credere

Arte Nel libro di Flavio Caroli la storia di artisti che dipingevano Cristo per indurre a credere

Quei volti dipinti per convertire

Zurbarán più religioso di Raffaello. Il sacro che manca a Warhol

 

Come raffigurare il Dio che «si è fatto carne»?
Dal 313, anno in cui Costantino consentì il culto cristiano, il modo in cui disegnare e dipingere la figura di Gesù risultò fondamentale come strumento di persuasione al servizio della fede. Il Dio fattosi uomo, che ha voluto avere sostanza e forma, è un Dio che si è reso raffigurabile, e per questo la pittura è diventata il più potente strumento di trasmissione della dottrina cristiana all' interno della popolazione non alfabetizzata. Gli artisti cristiani sono diventati per questo dei predicatori per immagini, al contrario dei calligrafi islamici, privati della possibilità di raffigurare la divinità. Rinuncia, questa, che per alcuni osservatori (come lo scrittore Martin Amis) è alle radici della contemporanea ostilità dei fondamentalisti nei confronti della occidentale «civiltà delle immagini».

Ma come è stato raffigurato Gesù? In poche righe, ma anche in un libro agile come quello di Flavio Caroli,
Il volto di Gesù, non è ricostruibile la trama complessa della raffigurazione del volto di Cristo, che dapprima si è servita di motivi allegorici (Gesù come pesce, Gesù come agnello...) e successivamente si è assunta il compito di illustrare le Scritture e il Dio risorto. E proprio in questo doppio compito i pittori si sono misurati sulla capacità di «far credere», di indurre alla fede, mostrando a chi osserva la veridicità delle Scritture e la tangibilità (quasi una risposta all' incredulità di Tommaso) del corpo risorto. Agli estremi di questo doppio compito si pongono due casi: lo sforzo di dipingere il «vero» volto di Cristo sulla base di reliquie come il santo lenzuolo della Veronica, perseguito da Francisco de Zurbarán con le «Santa Faz» e la raffigurazione di un' immagine ideale, come pura creazione d' artista, del Cristo risorto, come la «Trasfigurazione» di Raffaello.

Nel primo caso il pittore si muove da quanto fissato sin dal IV secolo su «panni come mezzo di contatto», quali «sudari e grembiali» (Hans Belting, La vera immagine di Cristo, Bollati Boringhieri). Si tratta di false reliquie, portate per lo più in Europa dai crociati di ritorno dalla Terra Santa, ma ritenute oggetti sacri. Proprio da una di queste muove Francisco de Zurbarán (Siviglia, morto nel 1664) per inventare una decina di «Santa Faz»: nell' iperrealismo di alcuni di questi dipinti-sinopie del sacro volto, il Cristo ci appare più semitico e, talvolta, cadavere. Ma in esse il fedele può specchiare il proprio dolore in quello del Cristo sofferente trovando, al contempo, una moltiplicazione figurativa della veridicità delle Scritture attestata dalle reliquie.

Su un altro piano si pone il problema di raffigurare il Cristo risorto, perché qui l' atto di Fede deve coniugarsi con l' atto immaginativo senza tracce del «reale». Il volto di Cristo, che prende plasticità a partire da Giotto, trionfa nel «capolavoro estremo» (Caroli) di questa dimensione immaginativa, che è la «Trasfigurazione» di Raffaello. La «Trasfigurazione» raffigura una doppia scena: sopra il Cristo risorto, sotto la guarigione del fanciullo indemoniato. «L' immagine si ispira direttamente al passo del Vangelo di Matteo (17,1-3): "Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce"». Il Cristo di Raffaello coniuga divinità e umanità nella bellezza attraverso l' immaginazione, che diventa strumento della fede. Caroli coglie questo aspetto: «Il capolavoro di Raffaello associa, con eccezionale potenza fantastica, divinità e umanità» (p.59). E in ciò l' arte trae forza perché rinsalda la sua arcaica e originaria connessione con il sacro, come mostrato da Adorno e Benjamin.

In assenza di statistiche e restando inaffidabili le cronache delle varie epoche sui miracoli, c' è da ritenere che la «Sacra Faz», riproduzione «esatta» della «vera icona», sia risultata un mezzo di persuasione più potente rispetto al sublimato Cristo glorioso di Raffaello o di Piero della Francesca. Ne consegue una specie di equazione: là dove c' è più creazione immaginativa c' è meno fascinazione popolare verso il sacro; dove il contenuto ideativo è più modesto la Fede è straripante. Per questo «L' Ultima Cena» di Andy Warhol risulta «un mito del consumo» che non dà prova dell' aldilà. Ma c' è un' altra questione. Mentre il Cristo di Zurbarán è l' incarnato che lascia una traccia, quello di Raffaello è l' immagine del Cristo risorto che non ha lasciato traccia fisica: qui solo il medium dell' immaginazione può servire a raffigurarlo.

La «vera immagine» di Cristo è quella del Cristo morente; ma la vera sfida pittorica è quella del Cristo risorto. Come mostrano le varie cene in Emmaus e le varie incredulità di San Tommaso che, non a caso, vuole vedere e toccare l' incarnato risorto, e non solo immaginarlo! Ma, è questa l' aporia, solo l' immaginazione pittorica può fornire ai credenti questa possibilità, come con superba capacità mostra Bernardo Strozzi nel suo «Incredulità di San Tommaso» (1620) a Palazzo Rosso di Genova.

FLAVIO CAROLI Il volto di Gesù MONDADORI PP. 112 17 €   L' autore Flavio Caroli è docente di Storia dell' Arte al Politecnico di Milano. Ha dedicato studi al Cinquecento e alla fisiognomica. È stato anche curatore delle mostre di Palazzo Reale. Tra gli ultimi libri: «L' anima e il volto» (1998) e «Tutti i volti dell' arte» (2007)

Panza Pierluigi

Guttuso. La crocifissione - scandalo

Nel Novecento anche i pittori atei si cimentarono sulla raffigurazione del corpo di Cristo. Due i casi più clamorosi: quello di Renato Guttuso e quello di Andy Warhol, entrambi al centro di polemiche.

 

Nel 1941 Guttuso dipinse una 'Crocifissione' (vedi in Galleria di immagini) ispirata all'impegnato 'Guernica' di Picasso, con Maria Maddalena e la Madonna nude. Quando nel 1943 l'opera venne esposta a Bergamo, papa Pio XII si infuriò a tal punto che minacciò la scomunica per i visitatori.

 

Didese il pittore il ministro fascista per l'educazione giuseppe Bottai, attribuendo all'opera il secondo premio del concorso.

 

Guttuso dirà poi: "Le migliori cose che abbiamo prodotto, le cose veramente nostre, le abbiamo fatte sotto il fascismo. Sia Elio Vittorini con 'Conversazione in Sicilia', sia Luchino Visconti con 'Ossessione', sia io con la Crocifissione."

 

Quanto a Warhol, secondo Caroli fu il 'cinismo' a indurlo nel 1986  ad accettare la proposta del gallerista Alexandre Jolas a realizzare un'opera derivata dall'Ultima Cena di Leonardo. Caroli rivela un retroscena: "Incontrai Warhol a cena dopo l'inaugurazione dell'opera... e in quell'occasione mostrò un gelo, una paura del nulla. Quell'opera era il suo omaggio al nulla del consumo".

 

Pagina 32   (18 febbraio 2008) - Corriere della Sera

 

Chagall: lavorare è pregare  

Lavorare è pregare - Chagall e la Bibbia

"Là dove si affacciano le case stanche, là dove sale la via del cimitero, là dove scorre libero il fiume, là ho sognato la mia vita". Così scriveva Marc Chagall (1887-1985) nel suo libro di memorie, "La mia vita" e, intanto, attraverso contrasti cromatici e caleidoscopiche forme, il pittore ebreo bielorusso raccontava la dimensione onirica dell'esistenza umana. "Forse esiste un'altra vita, un occhio di altro genere, e un posto altrove, non dove siamo abituati a trovarlo.(...) Tutto il nostro mondo interiore è realtà, forse anche più reale del mondo apparente; chiamare fantasia ciò che appare illogico significa non capire la natura".

E proprio in questa interiorità Chagall coglieva nitido il messaggio divino: "È buio. All'improvviso si spalanca il soffitto; un tuono, un lampo di luce ed ecco irrompere nella stanza, un'impetuosa creatura alata, avvolta in volute di nuvole. Un forte fremito di ali. 'Un angelo!', penso io. Ma non riesco ad aprire gli occhi: dall'alto sgorga una luce troppo forte.

L'ospite alato vola per tutti gli angoli della stanza, si solleva nuovamente e vola via attraverso la fenditura del soffitto, portando con sé il fulmine e l'azzurro. E di nuovo torna il buio. Mi sveglio". Questo racconto, tradotto in pittura nell'opera che appunto ha per titolo "Visione" (1917-18), ci immerge nel misticismo del pittore ebreo che, come scrisse, fin dalla sua prima gioventù sperimentò una forte attrazione nei confronti delle Sacre Scritture.

"Mi è sempre sembrato e mi sembra tuttora - affermava Chagall riferendosi alla Bibbia - che questa sia la principale fonte di poesia di tutti i tempi. Da allora, ho sempre cercato questo riflesso nella vita e nell'arte".

Il testo sacro divenne per lui punto di partenza e fonte di ispirazione per una serie di opere, dedicate appunto al Messaggio della Bibbia, che consentono di ripercorrere il suo cammino di artista e di uomo. Quadri che, nel pensiero di Chagall, "non rappresentano il sogno di un solo popolo, ma quello dell'umanità". Dipinti affinché "gli uomini cerchino di trovarvi una certa pace, una certa spiritualità, una religiosità, un senso della vita".

"Lavorare è pregare" affermava Chagall. E dalla preghiera emergevano meravigliose immagini di un sogno tutto spirituale: "Mi sveglio disperato/ per il nuovo giorno, per i desideri/ ancora non disegnati,/ non ancora coperti di colori./ E corro lassù,/ ai miei pennelli secchi./ E come il Cristo vengo crocifisso..."

Fonte: SIR Supplemento n.45 del 15 giugno 2004

 

Cimabue. Il Cristo Crocifisso torna ad Arezzo

Cimabue. Il suo Cristo Crocifisso torna al posto ad Arezzo.

Il Crocifisso restaurato di Cimabue è tornato nuovamente sopra l'alater centrale della basilica di san Domenico ad Arezzo. Per l'occasione è stata realizzata tra l'altro una nuova illuminazione che consentirà ai visitatori di ammirare il capolavoro della pittura medievale sotto una luce migliore. Il Crocifisso è stato sottoposto a un lungo restauro che ha interessato sia la tavola in legno che il colore, consentendogli di riacquistare l'originario splendore impresso dal maestro toscano. In particolare è stato ricuperato il blu lapislazzulo che fa da sfondo al Cristo Crocifisso.

 

Cristo crocifisso in un cimitero ebraico  

“Avvenire” 7 dicembre 2003

di Maurizio Cecchetti

Se ne stan lì, ai piedi della croce, mordono la terra come un coro dal cui «stridor di denti» s'intoni un sinistro requiem con tanto di virtuoso che spalancando l'ossea mandibola in realtà par che rida; strana confraternita di crani quella che Giovanni Bellini dipinse su questa tavola che ci pare la più strana e misteriosa fra tutte le sue opere. E' il «Crocifisso» di proprietà della Cariprato, ora esposto a Vicenza nella sede della Banca Popolare, che già dal titolo lascia sorpresi: 'Cristo crocifisso in un cimitero ebraico' è infatti un «unicum iconografico», come nota Enrico Maria Dal Pozzolo, presentandolo per questa mostra che s'intitola appunto Bellini e Vicenza, ma che immediatamente fa passare sullo sfondo, come nel dipinto stesso, la silhouette urbana della città veneta, per attirare l'attenzione su un tema storico e teologico che non si riscontra in altre opere né medioevali né rinascimentali.

Mostra fatta di due dipinti, accanto alla «Crocifissione», troviamo la Madonna col Bambino detta Contarini, proveniente dalle Gallerie dell'Accademia di Venezia. Il tema vicentino, comune ai due dipinti per lo sfondo urbano che il pittore vi delinea, pur nella vastità aperta del paesaggio, interessa più che per la fisionomia «esteriore» della città, per la questione storica e culturale che si è sedimentata in quell’insolita immagine del sacrificio di Cristo. Insolita per il luogo, appunto.

La croce è in primissimo piano rispetto allo spazio. Lo stipes parte dal limite superiore del quadro e lo attraversa tutto fino a quello inferiore; il patibulum invece si avvicina molto ai due lati della tavola, e rende bene l'idea del Cristo che nel suo sacrificio abbraccia tutto lo spazio umano. Questa «Crocifissione», dunque, diventa una sorta di centro prospettico, anzi un diaframma, attraverso cui il pittore ci obbliga a guardare lo spazio retrostante. La croce è misura di tutte le cose: c'è la città, con i suoi edifici pubblici e sacri, le case, il mulino e le macine, gli animali (un bove e un asino, un uccello, una lucertola) alcune persone che vivono il giorno intente nelle loro attività quotidiane.

La prima domanda che viene spontanea è: possibile che il mondo continui a svolgere le sue rituali faccende senza accorgersi di quanto sta accadendo poco più in là, ai margini di un cimitero? Senza avvertire la gravità assoluta di quel fatto? È una idea di tempo e di storia quella che ci viene posta sotto gli occhi dal pittore: anche oggi il mondo è un susseguirsi di riti e azioni quotidiane, nel quale sembra all'apparenza che nulla sia mutato dopo quella crocifissione: si nasce e si muore, il ciclo continua, il dolore e la gioia si mischiano, ma molti faticano a cogliere i segni di quella redenzione che ebbe luogo duemila anni fa su una croce e nella resurrezione che ne seguì. Redenzione che s'innesta, nel quadro, sul suolo dove la morte celebra il suo pasto. I teschi ai piedi della croce, simbolo di Adamo e della caduta umana, hanno infatti un che di ironico, una smorfia che li avvicina a quelli delle danze macabre nordiche.

E poi c'è il fatto inedito. Il cimitero ebraico.
Naturalmente, l'interpretazione potrebbe immediatamente fare appello alla teologia e vedere in quella croce il compiersi per tutti, anche per gli ebrei, di quella profezia che loro stessi non riconobbero in Gesù Cristo. Il quadro, che vive di una luce tenue, ma potente, delineando con precisione lenticolare i particolari anche più piccoli, cela in realtà un fuoco lacerante che contrasta nel significato l'apparente quiete in cui si compie il sacrificio.

Varietà di elementi figurativi: la città con i suoi edifici e le sue torri (dove però si riconoscono anche le architetture di San Ciriaco di Ancona e il campanile di Sant' Apollinare in Classe, edifici che spostano il significato dell'insieme verso una rappresentazione della Gerusalemme celeste); le essenze floreali; gli animali; le lapidi del cimitero; le ossa e i teschi; il cielo e le nuvole; le rocce; un corso d'acqua; un sentiero… Tutto sembra avere un valore simbolico in questa «Crocifissione», che alcune date incise sulle lapidi del cimitero, pur decifrate con qualche difficoltà e non in modo definitivo, sposterebbero all'inizio del Cinquecento (1501 o 1502), ma che Achille Tempestini nel catalogo pensa piuttosto sia da fissare verso il 1480.

Quest'ultima datazione si concilierebbe meglio con una vicenda il cui apice risale al 1486, anno in cui gli ebrei vennero ufficialmente cacciati da Vicenza. Erano giunti nella città attorno al 1300, quando la lotta della Chiesa verso l'usura fece venir meno i prestatori (allora cristiani) e attirò nella città quelli ebrei. L’ostilità verso le pratiche del prestito ad altissimo interesse mise ben presto gli ebrei in cattiva luce e i predicatori cristiani dell'epoca sfoderarono l’argomento del deicidio per meglio aizzare l'odio dei fedeli verso la comunità giudaica. I capifila di questa propaganda antigiudaica erano il canonico Alessandro Nievo e il vescovo vicario Pietro Bruto che fra il 1477 e il 1489 produsse alcune opere polemiche verso gli ebrei (l'ultima s'intitolava Victoria contra Iudaeos). Si diffusero dicerie secondo le quali alcuni ebrei compivano rituali terribili bevendo il sangue dei cristiani e spuntarono presto anche i nomi dei martiri, fra cui un certo Simonino da Trento che fu un cavallo di battaglia del Bruto per cacciare gli ebrei.

Il cimitero ebraico che vediamo nel dipinto è extra moenia, come prevedevano i decreti dell'epoca. Dal Poggetto nota, in proposito, che l'esodo colpiva gli ebrei anche nella morte: reietti fino all'ultimo, insomma. È su questo sfondo che va visto il dipinto, e dunque la sua luminosa chiarezza in realtà lo rende abbastanza tragico, per non dire sinistro. C'è, è vero, un uccello bianco sul ramo del salice dietro la croce, che si pensa sia una colomba (ma forse si tratta d'altro), dunque un segno di pace e riconciliazione. I tempi per questo, però, mi sembrano un po’ troppo precoci, soprattutto se l’opera è stata dipinta nell'intorno dell'anno che vede la cacciata degli ebrei da Vicenza. Il tema della persecuzione e quello della redenzione universale del sacrificio di Cristo s'incrociano in questo quadro che, da solo, sembra contenerne più d'uno, quanto al senso e alle tematiche iconografiche. E Vicenza, più che nel ritratto fisiognomico, sembra emergervi come caso storico, attraverso un'immagine che meriterebbe uno studio corposo con gli strumenti di una disciplina oggi un po' in disuso che un tempo si chiamava «storia della cultura».

 

Duccio da Boninsegna

“Avvenire” 5 ottobre 2004

Duccio, umano e «gentile»
Di Maurizio Cecchetti

«Sis Ducio vita Te quia pinxit ita», sii vita per Duccio, perché ti ha dipinto così. Questa invocazione, che Duccio stampa sul gradino del trono sul quale siede la Vergine di Siena, la Maestà che rappresenta uno dei dipinti più affascinati che la storia della pittura ci abbia tramandato, è qualcosa di più di un'invocazione. Nella prima parte, dice: «Madre Santa di Dio, sii ragione di pace per Siena...»; nella seconda l'accenno del pittore cade su se stesso. Non è singolare di per sé questo accostamento, ma in quanto attesta il legame fra Siena e Duccio e dà al pittore un riconoscimento pubblico, istituzionale, che nessuno mai ebbe così apertamente.

Enzo Carli, che è stato uno dei patriarchi degli studi sull'arte senese medievale e primo rinascimentale, vedeva la Maestà come «una sorta di cattedrale umana dipinta entro una cattedrale di pietre e di marmo»; mentre uno studioso del mito e delle religioni, Titus Burckhardt, in un libro dedicato a Siena, «città della Vergine» (ma intendeva un legame storico più esteso di quello cristiano, giacché «si ritiene che sulla collina del Castelvecchio, dove oggi sorge il Duomo, vi fosse un tempio consacrato a Minerva... la vergine dea della sapienza» pensando al quadro di Duccio scrisse: «E come se il linguaggio sublime della liturgia greca fosse stato tradotto nel popolano eppur nobile "volgare" di Toscana».

C'è il succo di una rivoluzione in atto che si spreme dall'arte senese di fine Duecento e primo Trecento che intride lo sguardo dei pittori successivi fino al Quattrocento (e non solo senesi). Ma è un distillato che non mischia mai il sangue della propria origine, un sangue matriarcale, femminile. Pur collaborando pienamente a definire la svolta «umanistica» maturata a Firenze, e che si dirama nel plesso innovativo di Cimabue e Giotto, la pittura di Duccio conserva quel carattere «gentile» che è la sua cifra profonda nell'umanizzazione del simbolo. Sempre Burckhardt, parlando delle Madonne senesi del Quattrocento, nota una metamorfosi la cui genesi, in realtà, è in Duccio: «Il volto della Regina del cielo non è più, come in passato, misteriosamente avvolto dalla luminosità del nimbo; ora vi è soltanto una gentile, ma già un po' borghese, testa di donna, sullo sfondo di un disco chiaro sospeso nello spazio».

Burckhardt lo dice a modo suo. Lo dice da antropologo e studioso del simbolo, non certo da cultore dell'arte e dell'estetica. Ma coglie un fatto che si può verificare oggi nella mostra che Luciano Bellosi ha orchestrato a Santa Maria della Scala attorno a Duccio, per risalire «alle origini della pittura senese» (catalogo Silvana). E chissà se queste origini siano davvero in Cimabue, nella bottega del quale il giovane Duccio entrò come entra un allievo che ha già, di suo, uno sguardo e un’idea della pittura ben chiara e una testa sgombra da soggezioni verso il maestro. Quel tono «pagano», diciamo così, che Burckhardt vede eccedere nella pittura successiva a Duccio e che si realizza «umanizzando troppo», è un pregiudizio che emerge quando Burckhardt conclude che si tratta di una trasformazione «spiritualmente più limitata».

Ma credo che, per strade diverse, sia ciò che intende Bellosi quando dice a più riprese che Duccio dà alla pittura un tono più gioioso e luminoso, persino ironico, e comunque antitragico rispetto al modello cimabuesco. Stempera, cioè, quelli sacralità un po’ distante che è del simbolo, per dare all’immagine quel senso di vicinanza alla condizione dell'uomo che, propriamente, appartiene al «materno». La Maestà e l'immagine, si toccano, nel significato profondo, divenendo l'una l'indice dell'altra.
Anche come emblema civile dopo la Battaglia di Monteaperti. Il passaggio «dalla maniera greca al “volgare”», è ben documentato dalla mostra che presenta precedenti e contemporanei di Duccio, mettendo in evidenza alcuni nomi e una diversa loro rilevanza nel contesto senese: Dietisalvi di Speme, Guido da Siena, Rinaldo da Siena, Guido di Graziano, Vigoroso da Siena, confermando attribuzioni recenti e aprendone altre, così che l’incipit è piuttosto una sequenza di scatole cinesi, illuminate retrospettivamente dalla luce duccesca. Poi il prim'attore entra d'imperio nel discorso, e sorprende la sicurezza del segno che traspare dalla sequenza “filmica” delle opere.

Il primo documento in cui si parla di Duccio pittore risale al 1278, e la sua opera si allunga fino al 1319, un arco piuttosto esteso, diviso sostanzialmente in due segmenti, il primo, che modifica il verbo di Cimabue applicandolo al sentire senese, in una sorta di trasfigurazione apollinea di quella rivoluzione verso la «naturalezza» e l'umano che Cimabue interpretava ancora come una tensione formale e un senso della drammaticità. Il secondo segmento porta alla luce la volontà di mettere a registro l'umanizzazione delle forme e la loro estetica: è come se il fatto antropico perdesse il primato di fronte alla resa di una forma «naturale» più che naturalistica. E il manifesto, sempre che lo si accolga come autografo, può essere appunto la Croce dipinta della collezione Salini.

Per quanto riguarda questo sviluppo o doppio registro che si apre nel cursus pittorico di Duccio, i confronti di Bellosi con le opere di Cimabue sono stringenti sul piano formale: ribadisce l'importanza che ebbe l'attribuzione a Duccio, oggi indiscussa, della Madonna Rucellai; difende l'autografia della Flagellazione della Frick Collection (di recente scoperta); evidenzia alcune innovazioni duccesche, come quella del trono in marmi che sostituisce quello ligneo di tradizione bizantina ricorrente nelle Madonne di Cimabue; esamina l’attribuzione dei dipinti a secco di Santa Maria Novella, e la supporta con paragoni convincenti fra lo stile morbido e lanoso che disegna gli abiti dell’Eterno in trono e quello che definisce il mantello e la veste della Madonna Gualino; conferma con entusiasmo l'intuizione di Enzo Carli, che per primo vide la mano di Duccio nella grande vetrata del Duomo di Siena, riscontrandovi non solo un intervento ideativo sui cartoni, ma il tocco fattivo del pittore. Infine, assegna con decisione alla mano di Duccio la Croce dipinta della collezione Salini, che molti storici avevano avvicinato all'ambito di Cimabue e Duccio, senza arrivare a un accordo definitivo.

Chi vedrà questa grande croce proverà uno spaesamento soprattutto formale: si è lontani dalle Croci di Cimabue, e forse un po' più oltre quelle di Giotto. Si direbbe che sia il fondamento di una visione moderna del corpo e del simbolo, ma in realtà valori arcaici si fondono ancora a un vedere nuovo: il tipo del Cristo trionfante, a quel tempo tramontato dall'iconografia, una raffinatezza quasi decorativa nella sovrapposizione del corpo alla croce, una sinteticità della forma che smaterializza la carne fino all'astrazione. Il volto, confrontato con quello della vetrata del Duomo, è pressoché lo stesso. È questo il nuovo enigma che passa nelle mani degli storici: se questa croce si deve alla mano di Duccio, forse molto della storia che porta al primo Rinascimento andrà rivista e corretta sul versante filogenetico.

 

E l’Ultima Cena diventa un’orgia gay. di Andrea Tornielli  

di Andrea Tornielli

Gli organizzatori della mostra sono caduti dalle nuvole e hanno detto che non si aspettavano una reazione così dura. Eppure non ci volevano certo improbabili doti da sensitivo per immaginare che l’esposizione di un’Ultima cena con gli apostoli distesi sul tavolo che si masturbano a vicenda avrebbe provocato lo sconcerto, e le critiche, di tante persone. Soprattutto perché l’«opera» in questione (le virgolette sono d’obbligo) veniva esposta nientemeno che all’interno del Museo della cattedrale di Vienna.

È l’ennesima oltraggiosa ferita alla fede cristiana quella che è andata in scena nella capitale austriaca con l’iniziale compiacenza delle locali autorità, in un’Europa dove si deve portare il massimo rispetto verso ogni fede religiosa ad eccezione di quella che ha maggiormente contribuito alla nascita della sua stessa civiltà.

Questi i fatti. È stato esposto all’interno del Museo della cattedrale, nell’ambito di una mostra retrospettiva dedicata a uno dei grandi artisti austriaci, Alfred Hrdlicka, che ha appena compiuto 80 anni, un quadro intitolato Ultima cena di Leonardo, restaurata da Pier Paolo Pasolini. La scena è molto esplicita. Invece di un pasto consumato tra amici, nel cenacolo si assiste a un’orgia omosessuale, con scene di sesso esplicite.

Com’era prevedibile, in molti si sono indignati e la stampa austriaca ha paragonato la vicenda alle famose vignette su Maometto (anche se queste ultime non erano certo state esposte nei locali adiacenti a una moschea). Un vero e proprio tam tam è partito dai siti web cattolici, anche italiani, che hanno protestato vivamente criticando il direttore del museo e lo stesso cardinale arcivescovo di Vienna, Christoph Schoenborn.

I curatori della mostra, intitolata «Religione, carne e potere», pur sapendo che avrebbero dovuto affrontare malumori, non credevano che la protesta sarebbe stata così forte. E pensare che lo stesso Hrdlicka, l’autore, aveva definito la sua tela come «un’orgia omosessuale».

Alla fine il quadro è stato tolto, per intervento dell’arcivescovo, anche se sono rimaste altre opere dello stesso artista, raffiguranti ad esempio un Cristo flagellato con il carnefice che afferra i suoi genitali e un Crocifisso senza volto giudicati osceni. Il direttore del museo, Bernhard Boehler, non si è sentito in dovere di scusarsi, ma ha invece difeso sia l’Ultima Cena di Leonardo restaurata da Pier Paolo Pasolini, sia la decisione di esporla nelle sale della mostra, in un museo collegato con la Chiesa cattolica. «Crediamo che Hrdlicka abbia le credenziali per rappresentare le persone in questo modo così carnale, così drastico», ha detto. Boehler ha aggiunto che il museo non aveva intenzione di offendere nessuno, ma ha spiegato che l’arte serve anche per dare vita a un dibattito e discutere. L’ottantenne artista, dal canto suo, ha affermato che gli uomini dell’ultima cena sono stati rappresentati in questo modo perché «non ci sono donne nell’affresco di Leonardo da cui ho tratto ispirazione». Quello che è certo è che Pasolini, autore del Vangelo secondo Matteo, un film che continua a competere come bellezza con molte altre più recenti vite di Gesù, non avrebbe mai fatto qualcosa di simile.

In ogni caso, dall’inaugurazione della mostra sono passati otto giorni prima che le autorità diocesane si rendessero conto della gravità del fatto e facessero togliere la tela. È immaginabile che il cardinale non ne sapesse nulla. Ma è anche lecito chiedersi dove fossero tutti gli altri suoi collaboratori e soprattutto perché non abbiano pensato quanto sconveniente fosse esporre una tale rappresentazione dell’ultima cena nel museo diocesano.

Il Giornale n. 84 del 2008-04-08 pagina 1

 

Ecce Homo

Anche l'Ecce homo è di origine orientale. In Occidente, il suo sviluppo corre parallelo a quello della messa di Gregorio, di cui è un elemento costitutivo. All'origine del motivo sta un'icona greca raffigurante Gesù nel sepolcro, dal XIII secolo venerata nella basilica romana di Santa Croce e diffusa attraverso le immaginette delle indulgenze. Tale origine si collega anche a quella del panno della Veronica e all'iconografia, che vedremo più avanti, di Gesù nel torchio da uva. Al centro dell'Ecce homo sta la figura eretta di Gesù, vivo o morto, sul cui corpo nudo sono visibili, di solito fortemente accentuate, le tracce della passione: numerose ferite, molto sangue, spesso la corona di spine sul capo; le mani sono generalmente incrociate sul petto. In alcuni casi, Gesù è raffigurato seduto o in piedi su un sepolcro, in altri è sostenuto da Maria o affiancato dalla Vergine addolorata e da Giovanni l'evangelista; ancora, è sostenuto da Dio Padre o da uno o più angeli (pala d'altare del Maestro dell'Imperialissima, Trefjòlet, Danimarca, fine del XIV secolo; dipinto di Manet, 1864). Molto spesso Gesù è circondato dagli arma Christi. Lo stretto legame tra questa immagine e la preoccupazione propria del tardo Medioevo per la salvezza dell'anima dopo la morte si osserva in un rilievo di alabastro del XV secolo conservato ad Amport (Hanfordshire), nel quale, sotto il volto di ~ Giovanni il Battista, è raffigurato l'Ecce homo, mentre, in alto, gli angeli portano in paradiso un'anima salvata dal purgatorio. Queste raffigurazioni compaiono soprattutto in relazione all'eucarestia, che in questo periodo è particolarmente sentita come presenza reale della passione e morte di Gesù (Maestro della Genealogia di sant'Anna, Intercessione di Gesù e Maria, 1500 circa; o, addirittura due volte, sulla predella del monastero di Wienhausen presso Celle, 1519), ma anche su tombe ed epitaffi (epitaffio di Lidwach, 1443), nelle immagini e nelle stampe di devozione (Roldàn 1474; Van Meckenem, Imago pietatis, incisione su rame, 1495). La relazione dello schema iconografico con la citata messa di Gregorio nasce dall'apparizione di Gesù come Ecce homo durante la messa celebrata da Gregorio Magno (590 circa).

 

 El Greco

“Famiglia cristiana” 15/2004
a cura di Paolo Perazzolo

La passione di El Greco
Non ha apparenza né bellezza..., disprezzato dagli uomini, uomo dei dolori, uno davanti al quale ci si copre la faccia». Queste parole del profeta Isaia, prese dal quarto canto del "Servo di Jahvé", compariranno a tutto schermo come prologo a La Passione di Gesù Cristo di Mel Gibson, dal 7 aprile nelle sale cinematografiche italiane. Esse sono un po' l'emblema di questo film, che si preannuncia carico di quel brutale realismo che ha davvero caratterizzato il sacrificio di Cristo: lo "scandalo della croce" di cui parla san Paolo. Esiste però un altro modo di rappresentare il Cristo della Passione, che abbiamo colto in uno straordinario pittore: El Greco.
Il suo nome (si chiamava in realtà Domenico Theotokòpulos) dà il titolo a una stupenda mostra a lui dedicata, aperta alla National Gallery di Londra fino al 23 maggio. Attraverso 58 capolavori, il visitatore è condotto a rivivere l'originalissima esperienza spirituale di questo pittore, nato a Creta nel 1541. Il suo inizio fu quello di uno dei tanti madonneri che dipingevano icone sull'isola (a quel tempo si chiamava Candia), insidiata dai turchi e protetta dalla Repubblica della Serenissima. A 25 anni El Greco da Creta si trasferisce in Italia, dove lavora per una decina d'anni, maturando la sua arte a contatto con i grandi coloristi veneziani (Tiziano e Tintoretto) e l'opera di Michelangelo alla Sistina. Nel 1577 è a Toledo, capitale spagnola della Controriforma, dove rimarrà fino alla morte (1614).
Il Cristo di El Greco, di cui abbiamo ricostruito questa serie di "quadri della Passione", tratti dalla mostra londinese, è lontano tanto dal Cristo portacroce di Tiziano (schiacciato dal terribile peso) così come dal cruento Cristo flagellato e Cristo coronato di spine di Caravaggio (tanto vicino invece al film di Mel Gibson). Il Cristo della Passione di El Greco è invece un Cristo che appare come trasfigurato, e che sembra invitarci a seguirlo con le parole dell'evangelista Matteo: «Il mio giogo è dolce, il mio carico leggero». Il Cristo portacroce di El Greco è sereno e trionfante; gli occhi, lucidi di pianto, sono elevati al cielo; l'incarnato del volto è luminoso e splendente, rigato da poche gocce di sangue; la croce che porta sulle spalle sembra non avere peso, mentre le lunghe, tremule dita, più che sostenerla l'accarezzano, quasi fosse un'arpa.
A Londra, davanti al Volto Santo della Veronica, si rimane letteralmente inchiodati dal magnetismo di quello sguardo che sembra dilatarsi, quasi fosse dipinto sulla superficie di uno specchio convesso. «Ora vediamo come in uno specchio, confusamente, ma un giorno vedremo faccia a faccia», scrive san Paolo (1Cor 13,12). El Greco, non dimentichiamolo, era un valente pittore di icone, come possiamo vedere da alcune sue tavole presenti in mostra.
Nel retablo della Crocifissione gli angeli e la Maddalena raccolgono nelle mani e assorbono con fazzoletti il sangue di Cristo, alludendo al sacrificio eucaristico, al mistero della transustanziazione. Nel retablo della Risurrezione il bellissimo corpo di Cristo si eleva vittorioso sopra le spade snudate, impotenti contro il cielo; al suo corpo luminoso che sale si oppone, michelangiolesco, quello dell'uomo rovesciato a terra. Il retablo dell'Orto degli Ulivi propone il medesimo percorso dal basso verso l'alto: dalla pesantezza della carne (i discepoli che dormono) all'elevazione di Cristo nella preghiera, consolato dall'angelo. Cristo domina la soldataglia nel quadro della Spoliazione: mentre i servi stanno per togliergli la tunica il suo sguardo sale, lucido e vibrante, oltre le lance e le alabarde che affollano il cielo, lacerato come una tenda. Gli stessi occhi, la stessa torsione, si ritrovano nel volto della Maddalena penitente.
Gli stessi colori di Renoir e Cézanne

La filiforme pennellata di EI Greco è straordinaria, i suoi colori, intensi e luminosi, vibrano come fossero deformati dall'aria calda che sale da invisibili fiammelle. Ma qual è il segreto di questo artista, che sembra anticipare di tre secoli la pittura moderna? Di lui scrive nel 1920 il critico d'arte Julius Meier-Graefe: «Ciò che Rembrandt cercava nelle ombre, El Greco riuscì a produrre con brillanti colori, il rosso chiaro di Renoir, il purpureo di Cézanne, il bianco di Manet». Meier-Graefe mette dunque a confronto un pittore come El Greco, ignorato per secoli dalla critica, addirittura con i grandi artisti francesi del XIX secolo.
Alle sue parole fanno eco quelle della santa spagnola contemporanea di El Greco, Teresa d'Avila, che così descrive l'esperienza mistica: «Ciò che vedo sono un bianco e un rosso che non si trovano in natura... e sono tuttavia la natura e la vita stessa, la più affascinante bellezza che si possa immaginare».

 

Episodi poco raffigurati

Non è chiaro il motivo per cui alcuni episodi della vita di Gesù vengono raffigurati nell'iconografia, mentre altri soltanto in certi periodi o praticamente mai. Si pensi all'importante, ma raramente rappresentato, Discorso della montagna (Mt 5-7; affresco nella catacomba della via Latina a Roma, metà del IV secolo; Hans Hoffmann, rilievo ligneo sul pulpito del duomo di Treviri, 1570-72), o a Gesù e il giovane ricco inutilmente invitato a lasciare le sue ricchezze per seguirlo (opere di Watts, 1875 circa, e Gebhardt, 1892). Si incontrano soltanto sporadicamente anche l'adultera, che Gesù difese dall'accusa (pissidi eburnee del VII secolo a Leningrado, Ermitage, e Parigi, Musée de Cluny), l'obolo della vedova, lodata per la generosità della sua offerta (mosaico in 5. Apollinare Nuovo a Ravenna, primo quarto del VI secolo; Maerten de Vos, pannello laterale di un trittico del 1601 ad Anversa, Kon. Museum voor Schone Kunsten; affresco di Von Mòlk nella chiesa di Michelhausen presso Tulln, 1784) e il tributo della moneta.

 

Evoluzione nella figura della croce

Si possono indicare alcuni temi particolari del Medioevo collegati alla passione. Prima fra tutti, la figura della croce, che ha subito una profonda evoluzione e ha assunto forme diverse. Abbiamo già ricordato il monogramma XP o +R (III secolo nelle catacombe di Domitilla: accompagnato dall'iscrizione "Biktoria", vittoria). È solo un passo verso il segno della vittoria sormontato dalla corona d'alloro, quale si vede al centro dei sarcofagi del IV secolo (Roma, Musei Vaticani), e verso la croce cosmica delle absidi (mosaico in S. Apollinare in Classe a Ravenna, VI secolo). Nel regno visigoto spagnolo la croce, affiancata dall'alfa e dall'omega, era simbolo del regno (rilievo nel palazzetto di Narranco presso Oviedo, Asturie, metà del IX secolo). Montata su un'asta, la croce della vittoria veniva portata in processione (croce Herimann da Werden, prima del 650), tenuta da monaci e papi (miniatura del Sacramentario di Gellone, probabilmente da Meaux, prima del 1056). Veniva indossata sul petto (VIII o IX secolo, Bruxelles, Kon. Musea voor Schone Kunsten), e in preziosi reliquiari si custodivano e veneravano frammenti della vera croce (stauroteca bizantina da Mariengrade, 1240 circa). Talvolta il legno della croce prendeva la forma di una forca (croce trecentesca nella chiesa della Vergine ad Andernach), oppure di un albero ricoperto di gemme (crocifissione del 1015 sulle porte di Bernward nel duomo di 5. Biagio a Hildesheim; vetrata quattrocentesca nella sacrestia della chiesa di Long Melford presso Cambridge). Quest'ultimo poteva trasformarsi in un' allegoria, grande o piccola: Pacino di Buonaguida, tavola del 1315 circa; Giovanni da Modena, pittura murale in cui l'albero di Gn 2, 9 e 16-17 ha la funzione della croce (1415; Bologna, 5. Petronio); miniatura del 1471 nel Messale di Furtmeyer. Nel Medioevo, non appena venne personificata in una figura femminile, l'Ecclesia ebbe come principali attributi la (pag. 120) croce, simbolo della fede, e il calice della passione di Gesù: da un disegno del 1165 circa in un codice di Prùfening presso Ratisbona e da un affresco anteriore al 1186 sulla volta del coro nella stessa località, fino al Trionfo della Chiesa in una tela di Otto van Veen del 1580-85 e alla figura alla base del pulpito della chiesa di Haesdonck (Belgio; 1689). Ancora, la croce ornava la pagina di fronte all'inizio del canone della messa di tutti i messali. Nell'inczpit "Te igitur", la T funge da croce (Sacramentario di Carlo il Calvo, seconda metà del IX secolo). A irlandesi e bretoni, la croce ricordava la passione di Gesù, oltre a segnare gli incroci delle strade (IX o X secolo, Clonmacnoise presso Offaly) e i luoghi pericolosi. Talvolta era soltanto bella e misteriosa (croce eburnea del re Fernando I, 1063); oppure era di una concretezza irreale, una morte stilizzata (croce di Colonia, 1307 circa, museo di Perpignan). Un'immagine della croce decorava le chiese (vetrata del XII secolo in Saint-Pierre a Poitiers: con trave purpurea come nell'inno di Venanzio Fortunato Vexilla regis prodeunt, fine del VI secolo) e compariva sugli altari, nelle aule dei tribunali e nelle stanze delle case (con Gesù in pose sempre diverse). Era adorata in cattedrali e cappelle: si pensi alla croce di san Gereone nel duomo di Colonia (976 circa), al catalano "Christ vètu" come quello di La Trinité (XII secolo), alla croce della peste di Villanueva de Argaiìo (presso Bourgos, XIII secolo), al singolare Misericors Salvator di Kalkar nella chiesa di Neerbosch presso Nimega (1510 circa) o alla croce bronzea di Dachau nel coro del duomo di Utrecht, opera di Kneulman (1967). La religiosità popolare si affidava spesso al suo potere.



FRANCIS BACON: CROCIFISSO, IL CORPO MACIULLATO

Francis Bacon Il corpo maciullato (vedi in Galleria di immagini il particolare del Crocifisso)

Che La fantasia di Francis Bacon sia ossessionata o, meglio, abbia come suo fulcro il Golgota, è provato da una semplice ricognizione cronologica sul catalogo. Prima di darsi completamente alla pittura, Bacon lavorava come arredatore per le famiglie dell’alta borghesia londinese. Era reduce da un soggiorno a Berlino: cosa questa di notevole interesse, in quanto la pittura tedesca del Novecento è quella che più si è aggrappata, in modi (per fortuna) non immediatamente canonici, alla figura di Cristo, e anche perché è la pittura che più si lega alla tragedia della vita - sebbene lo faccia con esiti in cui un'eccessiva preoccupazione per il sociale, o sociologica, frena la totalità di questa investitura esistenziale.

Di questo periodo in qualche modo pre ­pittorico di Bacon è la prima immagine del suo catalogo: un Crocifisso ridotto ad una sorta di filo. Questo segno rimarrà impresso in tutta la sua arte, tanto che, anni dopo, alla domanda sul perché insista tanto sul Crocifisso, Bacon risponderà: «Perché quando devo meditare sul dolore del mondo mi rendo conto che il Luogo pertinente per questa meditazione è il Golgota».

Tuttavia, dopo quell’inizio ci vorrà del tempo perché Bacon riaffronti Cristo nella sua pienezza. Dapprima si sofferma nelle sue vicinanze: nel '43, ad esempio, in una mostra con Sutherland e Moore, egli espone un trittico: «Tre figure ai piedi della croce»; figure urlanti ove la mitologia greca si sfascia dentro la realtà evangelica. Negli stessi anni il pittore alsaziano Gruber affronta La crocifissione con un quadro dal titolo analogo: «Ai piedi della croce». Manca ancora la forza necessaria per fare Cristo. In seguito, Cristo viene ridotto da Bacon ad una bocca, ad una sorta di foro urlante. Bacon affronta il tema della sua totalità, con una serie di polittici, di cui questo del '62, è tra i più belli.

Con Cristo ritornano i fantasmi del passato, tutti i Cristi che la storia dell’arte ha macinato; in Bacon ritorna il Crocifisso forse più barbarico, quello di Cimabue, che in Bacon si sovrappone per oltranza a quello di Grunewald. Tuttavia, c'è un gesto, insieme d'amore e di bestemmia, che Bacon compie: quello di rovesciarlo, di capovolgere Cristo. Un'ulteriore crocifissione, la crocifissione di una crocifissione, forse. O, forse, il bisogno di rendere l’immagine meglio accoglibile in un grembo, o in un lenzuolo e, in questo senso, si può ben dire che così facendo Bacon unisce la Crocifissione e la Deposizione. Il Crocifisso di Bacon è il Cristo che si lascia accogliere.

L’immagine ha qualcosa del mattatoio in cui vive anche una sorta di terribile compiacimento («Vorrei dipingere le piaghe dei miei personaggi» diceva Bacon, «come Monet dipingeva le ninfee»: e ce l’ha fatta; eppure, nel suo essere sconciato, il Cristo sfigurato, si rioffre come in un atto di estremo amore all'uomo che l’ha così ridotto, affinché l’uomo possa tornare a toccarlo.

Così Bacon realizza il Calvario, e direi che La sua obbedienza alla realtà di Cristo va ben oltre la sua stessa volontà. L’invasione del Cristo morto tocca anche a chi più è apparentemente lontano da Lui, anche perché chi più è lontano non presume di capire. Bacon non ha presunto di capire nulla dell’actus tragicus della Croce, ma proprio per ciò si è lasciato capire, ha cioè lasciato che La comprensione gli venisse hon:da sé, ma da quell’actus medesimo, cioè Cristo. In questo senso la sua immagine di Cristo, umiliata ma anche umile, ci si offre come la più alta, la più corrispondente al nostro tempo. Questo suo Cristo rovesciato è il blasfemo che c'è in ciascuno di noi, ma rovesciato in bellezza strepitosa, dove il sangue si fa rubino; e in questa bellezza c'è, ancora una volta, la luce della Resurrezione.


GESÙ CON I BAMBINI

L'incontro di Gesù con i bambini, che egli benedice e loda nonostante l'aspro rifiuto degli apostoli, è invece raffigurato spesso nei secoli XVI e XVII, forse più per l'implicazione sentimentale che per il significato inteso dall'evangelista (Mc 10, 13-16): Cranach il Vecchio (più volte, per esempio tavola del 1538), Bloclilandt (disegno, 1579/80 circa) e Van den Valckert (Portrait historié di Michiel Poppen con la famiglia, tavola; 1620, Utrecht, protestante: meglio rappresentare le parole di Gesù, «Lasciate che i bambini vengano a me», che un episodio della redenzione). Dopo un periodo di mediocre romanticismo (per esempio Kirchbach, 1897), il soggetto fu ripreso da Nolde (1910 e 1929), Rouault (1940-48) e Kokoschka (1945; Amsterdam, Stedelijk Museum). 


GESÙ È IL GIUDICE NEL GIUDIZIO UNIVERSALE

Il giudice e il giudizio universale sono, dal punto di vista iconografico, un'invenzione dell'Oriente ortodosso. Lo schema nacque nei manoscritti, dai quali passò nelle icone e nella pittura monumentale (manoscritti a partire dal VI secolo nella Biblioteca Vaticana; icona del 1450 circa a Mosca, Galleria Tretjakov; pittura murale del XVI secolo a Voronet, in Romania). Attraverso le vie commerciali che andavano da Bisanzio a Venezia e Amalfi, il tipo iconografico raggiunse l'Occidente (affreschi di Mùstair del IX secolo e, soprattutto, mosaico dell'XI secolo nel duomo di Torcello; avorio veneziano della fine del XII). Nello schema, scandito in registri, il giudice, con le stimmate alle mani e ai piedi, è raffigurato sempre al centro ed esprime a gesti la sua sentenza (come nel mosaico con la Separazione delle pecore dai capri in S. Apollinare Nuovo a Ravenna, primo quarto del VI secolo: la più antica raffigurazione occidentale del Giudizio universale). Intorno a lui stanno angeli, in piedi e in trono, e gli apostoli, che partecipano al giudizio. Accanto al giudice è sempre una Deesis. In basso, angeli con le trombe e la resurrezione dei morti. Con la mano destra, il giudice indica ai beati il paradiso, con la sinistra manda i dannati all'inferno. Da notare è il ruolo di Pietro come custode della porta del paradiso, che i beati oltrepassano. 
In Oriente, al tema del Giudizio universale sono aggiunti motivi accessori, come il mare che restituisce i suoi morti (Ap 20, 13), Michele che pesa le anime e una ricca raffigurazione del paradiso e dell'inferno (con scomparti per i diversi tipi di peccatori). In Occidente, si osservano tre peculiarità: gli angeli che, per placare l'ira del giudice, gli si avvicinano in volo recando gli strumenti della passione; il petto scoperto di Gesù, che mostra la ferita sul costato; e la dettagliata rappresentazione del paradiso e dell'inferno (spesso veicolo di critica sociale): elementi che si riallacciano al senso di paura ricordato sopra. Dopo le raffigurazioni imponenti dello schema nella miniatura ottoniana (Pericopi di Enrico II, 1007-12, da Reichenau; Apocalisse di Bamberga, 1020 circa) e un preciso esordio alla metà dei XII secolo (Beaulieu, Conques, Autun), il Giudizio universale si diffuse in tutta l'Europa occidentale: da Magonza (prima del 1239) e Bamberga (Portale dei principi, 1230-40) a Reims (primo quarto del XIII secolo) e Salamanca (dipinto del XV secolo di Nicola da Firenze nel coro della cattedrale, con un'ampia Vita di Cristo di circa cinquanta scene coronata dal (Giudizio universale), da Orvieto (Signorelli, affreschi del 1499-1503) a Oldenburg (dipinti della volta, primo quarto del XIV secolo) e Delden (1500 circa). Molti gli artisti che si dedicarono al soggetto, da Lochner (1445 circa) a Michelangelo (1536-41, Roma, Cappella Sistina) e Rubens (1620). Nelle chiese dei Paesi Bassi si sono ben conservate numerose pitture parietali, da Limbricht (XIV secolo) a Groninga (secondo quarto del XVI secolo); non mancano neppure le miniature (Libro d'ore di Caterina di Cleve, 1440 circa; Libro d'ore di Jan van Amerongen miniato dal Maestro di Evert van Zoudenbalch, 1460, Bruxelles, Koninldijke Bibliotheek), gli avori (dittico di Parigi, 1280-1300 circa) e le tavole memoriali (Crispin van den Broeck, 1590, e Hermann Ring, 1596; Utrecht, Catharijneconvent), e persino lo stallo di un coro con questo soggetto (a Bolsward, XV secolo). In una pagina di William de Brailes, il miniaturista ha raffigurato se stesso nell'atto di sfuggire al terribile giudizio (1230-40; Oxford, Fitzwilliam Museum). Il giudice e il giudizio suscitavano sempre apprensione per la salvezza personale, ammonivano contro la cattiva condotta e davano la speranza di un posto tra i beati (Maestro di Hoogstraten, Giudizio universale, 1490-1500 circa; Anversa, Kon. Museum voor Schone Kunsten; vedi Matteo). Un'opera anonima (poco dopo il 1400, Wùrzburg, Bischòfliches Ordinariat) allude al legame tra la giustizia divina e la giustizia umana raffigurando il tribunale civile proprio sotto il Gesù giudice. 


GESÙ È IL MAESTRO

La figura del maestro rimanda in origine più al messaggio di Gesù che alla sua persona: la "vera filosofia", così come la presentavano gli apologeti cristiani del II secolo. Figurazioni accessorie chiariscono il maestro, con uno o più allievi -immagine generale dell'uomo che, attraverso la riflessione, vuole partecipare dell'immortalità già in questa vita - allude alla filosofia antica o a quella cristiana (sarcofago della via Salaria a Roma, III secolo). I teologi alessandrini, come Clemente, rifacendosi al libro biblico della Sapienza (per esempio, Sap 7, 25) adattarono presto il tema classico al Logos, a Gesù, che compare dunque come maestro, pedagogo, un'unica volta persino con la spalla scoperta, nella tunica sciolta del filosofo professionista classico (frammento di sarcofago del IV secolo a Roma, Museo delle Terme). Questa figura del maestro continua a comparire, in ambientazioni sempre più ricche, nelle decorazioni delle basiliche e dei sarcofagi, ora in trono (mosaico di 5. Pudenziana a Roma, IV secolo: nella Gerusalemme celeste attorniato dal senato degli ~ apostoli), ora stante sul monte paradisiaco secondo l'iconografia della traditio legis (sarcofago del 380 circa nel Musée Lapidaire di Arles). Il maestro in trono sopravvive nelle numerose raffigurazioni della Majestas Domini e, nella versione stante, nelle immagini del Sacro Cuore, nelle quali indossa sempre la tunica, mandate in soffitta appena una generazione fa (Batoni, dipinto del 1781 nella chiesa dei Carmelitani a Lisbona; Fabbrim, affresco del 1770 circa nella chiesa di Vallombrosa). 


GESÙ È IL PASTORE

La figura del pastore deriva dalla mitologia (Ermete crioforo) e dalla letteratura bucolica (esaltazione della vita rurale). Essa venne applicata a Gesù nell'iconografia e nella predicazione sulla scia di Sal 23, Lc 15, 3-7, Gv 10,1-16 (da intendere più nella sua totalità che come "buon" pastore) e 1 Pt 2, 15, e compare nel IV secolo nella statuaria (pastore proveniente dagli scavi di Ostia, IV secolo), nei mosaici (un mosaico pavimentale di Aquileia), nei primi sarcofagi e dipinti (III secolo: sarcofagi di Brignoles e di S. Maria Antiqua a Roma e sarcofago di fanciullo a Ravenna; affreschi nella domus ecclesiae di Dura Europos e nelle catacombe di Priscilla a Roma). Si tratta quasi sempre del crioforo (portatore di agnello), talvolta di un pastore in riposo o nell'atto di mungere, con gregge e cane (sarcofago del III secolo, Roma, Musei Vaticani; sarcofago di Baebia Hertofile, Roma, Museo delle Terme; affresco del Coemeterium Maius a Roma), a volte ridotto quasi a cliché, ma sempre bello, al centro di un'esuberante scena di vendemmia (sarcofago dei tre pastori, anch'esso nei Musei Vaticani). La figura del pastore cede gradualmente il passo a quella del sovrano, come nel mosaico del cosiddetto mausoleo di Galla Placidia a Ravenna (450 circa). Nelle epoche successive il motivo viene ripreso sporadicamente: per esempio nel barocco, con dipinti di Murillo (1669 circa) e Rubens (1600 circa), e, ancora, da Marc 1911: Fanciullo con agnello o buon pastore). Nel XVIII secolo compare nella decorazione dei pulpiti (per esempio Donner, 1720 circa, duomo di Gurk). 


GESÙ È L'AGNELLO

L'agnello di Es 12, 3,Is 53, 7, Gv 1, 29 e, soprattutto, dell'Apocalisse, allude tanto alla passione di Gesù (agnello del sacrificio pasquale), quanto alla sua vittoria redentrice (Ap 5, 6-14); questa immagine contiene già molto presto un ulteriore rimando al pane della vita, simbolo indiretto dell'eucarestia (affresco della catacomba di Commodilla a Roma, 530 circa: agnello con ceste di pane). Nelle antiche basiliche romane, la figura dell'agnello non manca mai nella fascia inferiore dei mosaici absidali. All'Agnello sulla montagna del Paradiso con i quattro fiumi si avvicinano due file di sei agnelli (apostoli e/o fedeli) che escono da due città (ebrei e pagani): una visione della redenzione dell'umanità peccatrice attraverso il sangue dell'agnello. Da questa immagine deriva la figura dell'agnello incoronato d'alloro presente anche nei battisteri e negli avori diplomatici (Roma, battistero lateranense, prima metà del IV secolo; dittico eburneo del VI secolo nel duomo di Milano). Nel Medioevo, l'Agnello - si pensi alla «porta delle pecore», Gv 10, 7 - trova posto sui portali delle chiese (Aulnay-deSaintonge e Sigoldsheim, 1200 circa) e viene raffigurato con la sua sposa, l'Ecclesia (miniatura del IX secolo nel Lezionario di Fulda; miniatura normanna con le Nozze dell'agnello, 1220 circa), oppure poggiato sul libro con i sette sigilli, con stendardo di vittoria nella zampa destra (rilievo marmoreo del V secolo nei Musei Vaticani, chiave di volta dell'XI secolo a Cluny e medaglione dipinto del XIX secolo nella chiesa della missione San Carlos Borromeo de Carmelo in California). L'ultimo accordo dell'inno di lode medievale all'agnello è l'Adorazione dei fratelli Van Eyck (1426-32, Gand, 5. Bavone). Nel simbolo si insinuano connotazioni diverse, quali purezza, innocenza o pazienza, fino alla completa riduzione a graziosa bestiola (già nella Sant'Anna con la Vergine, il Bambino e l'agnello di Leonardo, 1508-10) o a vuoto oggetto di devozione (Parigi, immaginetta del 1861). 


GESÙ NELLA SUA MAESTÀ

La Maestà è frutto, da una parte, della concezione teologica di Gesù che presiede la liturgia, celebrata nella basilica dalla sua comunità, come anticipazione della liturgia celeste; dall'altra, della posizione della Chiesa nell'Impero romano battezzato, in cui si scambiano elementi cerimoniali e protocollari fra il Cristo trionfante (Fil 2, 7-10) e l'imperatore regnante. Come in un'aula imperiale, la comunità cristiana celebrava nella liturgia la presenza del Cristo dominatore del cosmo e del tempo, la cui immagine nella calotta absidale era ben visibile a tutta l'assemblea. Sulle pareti laterali dell'aula - anche in questo caso, come si usava fare per l'imperatore - sono raffigurate le gesta di Gesù (mosaici del IV secolo in S.Maria Maggiore a Roma e del VI in S. Apollinare Nuovo a Ravenna). Lo schema della Maestà si conservò fino ai secoli XIII-XIV negli affreschi absidali delle chiese romaniche (per esempio a Tahull, nella Catalogna settentrionale, e a Berzé-la-Ville presso Cluny) e nelle lunette sulle facciate delle chiese (Gesù è raffigurato austero ad Arles e a Chevron, 1130 circa; a Carrion de los Condes, 1165; a Moarbes, seconda metà del XII secolo; a Moissac, secondo quarto del XII secolo. Con tratti più miti, sul Portale reale di Chartres, 1135-55). La Maestà è spesso completata da una raffigurazione di Ap 4, con i quattro viventi, i 24 vegliardi e angeli: affresco dei primi del XII secolo a Saint-Martinde-Fenollard; sculture del 1135-55 a Moissac e a Chartres. Lo schema si incontra anche in avori (gruppo di Ada, IX-X secolo), smalti (XII secolo, Parigi, Musée de Cluny), frontespizi di evangeliari (Codice aureo di Bcbternach, 1025 circa), fonti battesimali (Freckenhorst, 1129) e pale d'altare (da Santo Domingo de Silos, XII secolo, oggi a Burgos, Museo archeologico). Era questa la figura di Gesù familiare ai cristiani medievali: monumentale, celeste e cosmica. Verso la fine del Medioevo, essa scompare quasi interamente, ma si riaffaccia qua e là (Correggio, cupola della chiesa dei benedettini a Parma, 1520-23) fino all'inizio del XX secolo (Hildegard Buchholz, ricamo dei primi del Novecento; Sutherland, arazzo del 1960 circa nella cattedrale della commemorazione a Coventry).


GESÙ NELL'ORTO DEGLI ULIVI

Nelle raffigurazioni del Getsemani o Orto degli ulivi (il luogo appena fuori Gerusalemme dove Gesù pregò con i discepoli, visse momenti di angoscia per la sofferenza che lo attendeva e fu arrestato). 

L'accento cade, di volta in volta, sul conflitto interiore di Gesù, sul tradimento di Giuda, la ribellione di Pietro o la cattura di Gesù. A volte si ha una combinazione di più scene: per esempio, mosaico di Ravenna (inizi del VI secolo) e dipinti di Mantegna (1455 circa) e Crivelli (1468). Inizialmente l'interesse era rivolto soltanto al momento della cattura: sarcofago del IV secolo nelle Grotte vaticane a Roma, miniatura del 1300 circa nel Salterio di San Pietroburgo conservato a Bruxelles, Koninklijke Bibliotheek. 

Attraverso modelli bizantini (cfr. l'icona con scene della passione, 1475 circa; Venezia, Accademia), l'iconografia del Getsemani si evolve in uno schema fisso comprendente l'episodio di Malco, il bacio di Giuda, la cattura e la fuga degli apostoli: affresco del XII se-colo a Vic-Nohant (Indre), pannello delle porte bronzee di Benevento (inizio del XIII secolo), opere di Huber (1530 circa: intenso patetismo) e del Maestro della Cattura di Cristo (1545-64).

Rembrandt, che eseguì un disegno della cattura di Gesù, si interessò anche all'incontro con gli apostoli addormentati (disegno, 1655); nell'acquaforte del 1657 circa, un grande angelo sostiene Gesù nella sua agonia. 

Quest'ultimo soggetto (Lc. 22, 43-44) compare per la prima volta in un avorio dell’ XI o XII secolo e divenne gradualmente oggetto di devozione popolare: per esempio, Gesù sul monte degli ulivi, esposto nella chiesa parrocchiale o nelle immediate vicinanze (gruppo ligneo dei Paesi Bassi settentrionali, 1440 circa, Utrecht, Catherijneconvent; statue a Spira, 1505, e Ried, dopo il 1700). Generalmente l'angelo porge il calice a Gesù inginocchiato (cfr. Lc 22, 42): Maestro dell'Altare di Trehon (Repubblica Ceca, XIV secolo); dipinto del Greco (1600 circa).


GIOTTO A PADOVA. PERDE GLI EVANGELISTI?

La scoperta di Giuliano Pisani: le quattro figure affrescate a fianco del Cristo Giudice nella Cappella degli Scrovegni a Padova non sono i simboli tradizionali, ma animali ben più insoliti.

 

Giotto perde gli Evangelisti?

 

di Marco Bussagli. Avvenire 17 aprile 2007

Ci si riferisce al particolare inferiore della 'mandorla' in cui è racchiuso Cristo Giudice

E’ assolutamente sorprendente come, talvolta, negli studi, si continuino a ripetere le me­desime affermazioni senza nessuno spirito critico, un po' per pigrizia, un po' per autoconvinzione.

Mi spiego meglio. Quando, per in­veterata tradizione, studiosi autore­voli si abbandonano ad affermazio­ni banali e scontate che, però, sono comode in quanto non sollevano problemi e, in fondo, sembrano la soluzione più ovvia, anche nel caso di una riconsiderazione della que­stione ab imis, come per la Cappel­la degli Scrovegni di Padova, si fini­sce per vedere con gli occhi della tra­dizione, orale o scritta che sia.

 

Non si può certo dire, infatti, che ne­gli ultimi anni la Cappella dell' Are­na, come pure viene chiamata l'edi­ficio di Enrico Scrovegni, non sia sta­ta studiata. Basterebbe la campagna di restauro condotta magistralmen­te da Giuseppe Basile nel 2002, nel corso della quale gli affreschi sono stati ripuliti, restaurati, studiati e fo­tografati, letteralmente, centimetro per centimetro.

 

Eppure, la lettura data fin qui di al­cuni particolari è sempre stata la medesima. Tutti, infatti, hanno con­tinuato ad affermare che il Cristo giudice sia seduto su un trono di lu­ce sostenuto dalle figure simboliche degli evangelisti. Così, per esempio Claudio Bellinati, nel suo bellissimo Giotto. Padua felix. Atlante icono­grafico della Cappella di Giotto (1996), scrive: «Sotto il trono di dia­spro verde stanno i quattro simboli degli Evangelisti: Aquila (Giovanni), Vitello (Luca), Angelo (Matteo), Leo­ne (Marco). Ugualmente, gli stu­diosi precedenti e quelli successivi, con qualche distinguo.

 

Il fatto è che le cose non stanno co­sì. Allora, in questi casi, ci vuole qual­cuno che guardi con occhi nuovi e dica che «il re è nudo». Così, a gettar via gli occhiali del preconcetto e a dire finalmente che quelli non sono gli evangelisti che la tradizione vor­rebbe, ci ha pensato Giuliano Pisa­ni, appassionato di Giotto, grecista e latinista, già assessore alla Cultura del Comune di Padova, non storico dell’arte e forse proprio per questo capace di osservare i fatti da un nuovo punto di vista.

 

Per capire che quelli dipinti da Giot­to a Padova non sono i simboli de­gli evangelisti secondo l'iconografia

Canonica, in realtà, era sufficiente guardarli; ma solo Pisani l'ha fatto con un articolo che sarà pubblicato

nel prestigioso Bollettino dei Musei Civici di Padova. In. realtà, come ri­corda lo stesso Pisani, già Aldo Fo­ratti, nel 1921, metteva in guardia nei confronti di un'identificazione, per così dire, automatica di quelle figure come evangelisti, ma poi tut­ti avevano dimenticato l'avverti­mento e nessuno aveva più affron­tato il problema, rifugiandosi nella versione di comodo.

 

Il fatto è che - mentre a destra guar­dando compaiono due figure alate, una con la testa di leone ed una con la testa di uomo che assume l'a­spetto di un cherubino con le ali ri­piegate sul corpo, così come l'altro - a sinistra le cose si complicano. La figura più vicina al Cristo è una sor­ta di centauro, con zampe da quadrupede e busto umano (notato an­che da studiose come Irene Hueck e Chiara Frugoni che, però, lo riconduce forzatamente al simbolo di Luca), mentre quella più lontana è ancora più inspiegabile. Si tratta di un orso in posizione eretta che strin­ge fra le zampe ungolate un pesce, verosimilmente un luccio, come Pi­sani afferma nell' articolo e conferma alla luce delle perizie degli zoologi.

 

Una cosa, intanto, è certa: l'aquila che tutti hanno visto non c'è e nep­pure il vitello di Luca, anche se il pre­sunto centauro ha gli zoccoli fessi degli ovini. Il mistero s'infittisce e per darne spiegazione Pisani ricor­re giustamente all'impostazione ge­nerale del programma della Cap­pella, che si basa, co­me ha dimostrato in un altro articolo pubblicato sul Bol­lettino (2004), sul rapporto fra la Giu­stizia umana (dipin­ta da Giotto a mono­cromo fra le Virtù contrapposte ai vizi) e quella divina rap­presentata da Cristo come «sole di Giusti­zia». Ne deriva, secondo Pisani, che l'aggiunta di queste singolari figure simboliche voglia esaltare alcuni a­spetti del Cristo, a cominciare dal Centauro che allude alla doppia na­tura del Redentore, umana e divina.

 

A loro volta, il pesce e l'orso sono due altri aspetti cristologici che ri­tornano coerentemente in questo contesto. E’ ben noto, asserisce Pisani, che il pesce sia uno dei più an­tichi simboli di Cristo; ma la scelta del luccio, non farebbe altro che rafforzare questa simbologia per­ché «il lucius dei latini è il ‘pesce­ luce’ cui già i primi cristiani attri­buivano accostamenti al Signore lu­ce del mondo», come spiega sinte­ticamente. Non solo, ma il pesce al­luderebbe all'umanità ‘pescata’, ossia salvata dalla Chiesa, come specifica sant' Agostino in un passo del De Civitate Dei (XVIII, 49), nel quale non manca certo il paragone con la rete da pesca definita evan­gelica (‘sagenam evangelicam’),  come sottolinea lo studioso.

 

Infine, l'orso sulla scorta dell'inter­pretazione di Isidoro di Siviglia - u­no degli enciclopedisti più frequen­tati dai teologi medievali come Al­tegrado de’ Cattanei, probabile ispi­ratore del programma e canonico della Cattedrale di Padova - allude­rebbe alla Provvidenza divina. Pisa­ni invita gli studiosi ad approfondi­re, ma - grazie a lui - un bel pezzo di strada è stato percorso.

 

GIOTTO AD ASSISI. L'ALTRO VOLTO

Assisi. Nuovi studi rivelano: i dipinti della Basilica Superiore non sono del maestro del Mugello

 

L’altro volto di Giotto ad Assisi

 

di MARCO BUSSAGU  Avvenire 22 settembre 2002

 

La storia continua. Quando poco meno di cinque anni or sono i giornali di tutt'Italia

gridarono allo scandalo perché, in una conferenza stampa, Bruno Zanardi e Federico Zeri avevano tolto l'attribuzione a Giotto degli affreschi della Basilica superiore di Assisi, mi permisi di scandalizzarmi dello scandalo proprio sulle pagine di questo giornale. Certo è che quando si tocca il nome di Giotto, subito si accendono riflettori e microfoni, come accadrà proprio ad Assisi il prossimo 26 settembre, in occasione dell'inaugurazione del restauro dell' affresco di San Girolamo: un dipinto ridotto in decine di migliaia di frammenti dal sisma del '97 e tornato alla sua forma originaria grazie al lavoro dell'équipe guidata da Giuseppe Basile.

 

Altrettanto certo, comunque, è che per gli storici dell'arte l'attribuzione del ciclo di affreschi della Basilica superiore era tutt'altro che scontato almeno da quando Ghiberti, nei suoi Commentari attribuisce al maestro del Mugello solo la decorazione della Basilica inferiore e Vasari, nelle ben più celebri Vite, gli assegna anche quelli dell'edificio superiore. Adesso l'ultimo libro di Bruno Zanardi, Giotto e Pietro Cavallini (edito da Skira) viene a mutare del tutto la complessa prospettiva della questione. Il fatto è che, a differenza della gran parte degli storici dell'arte italiani, Zanardi ha la pratica diretta del cantiere perché oltre a essere un fine ricercatore e un grande studioso, è anche un restauratore di straordinario livello che ha compreso, calcando i ponteggi, che l'idea romantica di un artista isolato nella solitudine dell'atto creativo è assai lontana dalla realtà di una bottega medievale che procedeva sistematicamente alla realizzazione dell' opera pittorica per rispettare tempi e costi. Al vertice di una simile organizzazione rigidamente gerarchica era il capo-maestro che aveva, soprattutto il compito, dice Zanardi, di «normalizzare» le singole opere, ossia di fare in modo che gli esecutori rimanessero fedelmente aderenti alle sue convinzioni stilistiche e narrative.

Non per nulla il sottotitolo del libro è «La questione di Assisi e il cantiere medievale della pittura a fresco». In questo modo la scena di Assisi si rianima del suo vociare, dell'odore acre delle tinte e della calce appena data, del rumore dei passi sui ponteggi di legno e Giotto smette di essere un nome da appiccicare qui o lì secondo le tendenze o, peggio, per coprire, come un tappeto, problemi critici troppo difficili da affrontare. Lo scenario proposto da Zanardi (che condizionerà tutti gli studi successivi sul cantiere assisiate), allora, è questo: Giotto, in questa fase, non è il capo-maestro di un cantiere che terminerà il suo lavoro nel 1295, almeno un anno prima dell' affidamento al maestro del Mugello del ciclo degli affreschi della Basilica inferiore.

 

A dirigere il ciclo dovette essere Pietro Cavallini, insieme con quello che la critica ha chiamato «Maestro d'Isacco» e che Angiola Maria Romanini (Zanardi conferma) ha indicato come Arnolfo di Cambio. Giotto viene chiamato a collaborare all'interno di questo immenso cantiere diretto da un artista romano, ossia Cavallini, e da qui deriva la difficoltà di riconoscere la sua mano. Le prove stilistiche evidenti emergono già dalle foto che Zanardi pubblica sulla copertina del suo bel libro. Qui subito si colgono le analogie formali fra il volto di San Pietro del Giudizio universale di Pietro Cavallini in Santa Cecilia a Roma (o del suo cantiere, come meglio scrive Zanardi), quello di un frate nell'Apparizione del Concilio di Arles nella Basilica superiore di Assisi e il viso di San Francesco nella «Rinuncia ai beni paterni», sempre nello stesso edificio.


GIOVANNI REALE: IL BELLO DEL CRISTIANESIMO

Da Platone a Kierkegaard alla ricerca dell’amore
Il Bello del cristianesimo

 

di Giovanni Reale

Agli occhi di Platone - così come in generale dell'uomo greco - non può esservi eros senza il bello. Eros parte dal bello che si manifesta nel sensibile e giunge, nel suo momento culminante, alla visione e alla fruizione della vera Bellezza, del Bello supremo (che coincide con il Bene supremo). La Bellezza, nelle teorie platoniche, coincideva con la Forma (o Idea): era espressione di una «giusta misura», di rapporti armonici, di un ordine ontologico. Platone definiva Dio come «Misura suprema di tutte le cose», e intendeva il Bello come la sua suprema manifestazione.

In base a queste teorie molti pensano che, mentre Platone, nell'ottica ellenica - che è un'ottica della visione - poteva connettere l'Eros con la bellezza e considerare la bellezza stessa come fonte dell'Eros, non così potrebbe accadere per la concezione cristiana dell'amore, inteso nella dimensione della donazione. In realtà, anche l'amore come agape connette amore e bellezza, ma su un nuovo piano, e intendendo la bellezza in un senso capovolto, in una dimensione totalmente innovativa. L'Amore assoluto coincide con la Bellezza assoluta, che è la donazione assoluta. La Bellezza assoluta è l'Amore di Cristo, che si è donato all'uomo per la sua salvezza, e che si è «abbassato» al punto che anche il più misero di tutti i miseri potesse essere certo di essere amato da Lui e innalzato a Lui. In Cristo, dunque, si manifesta quel Bello nel fulgore massimo, che solo può salvare tutto e tutti in senso assoluto.

Kierkegaard sottolinea in modo perfetto il messaggio cristiano, che è il messaggio più dirompente di tutti i tempi: «Cristo dice: "Neppure un passero cade a terra, senza la volontà del Padre" (Mt 10, 29). Oh, io faccio un'offerta più umile ancora: davanti a Dio io sono meno di un passero: tanto è più certo allora che Dio mi ama, tanto più saldamente si chiude il sillogismo. Sì, lo Zar delle Russie, di lui si potrebbe forse pensare che Dio lo potrebbe trascurare: Dio ha tante altre cose da ascoltare! 

E lo Zar delle Russie è una cosa tanto grande. Ma un passero... no, no..., perché Dio è amore, e l'amore si rapporta inversamente alla grandezza e all'eccellenza dell'oggetto. Quando ti senti abbandonato nel mondo, sofferente, quando nessuno si prende cura di te, tu concludi: "Ecco che Dio non si prende cura di me". Vergògnati, stolto e calunniatore che sei! Tu che parli così di Dio. No, proprio chi è più abbandonato sulla terra, quegli è più amato da Dio».

Ritroviamo lo stesso concetto mirabilmente riassunto in Memoria e Identità di Giovanni Paolo II: «Ma la passione di Cristo sulla croce ha dato un senso radicalmente nuovo alla sofferenza, l'ha trasformata dal di dentro. Ha introdotto nella storia umana, che è storia di peccato, una sofferenza senza colpa, affrontata unicamente per amore. È questa la sofferenza che apre la porta alla speranza della liberazione, dell'eliminazione definitiva di quel "pungiglione" che strazia l'umanità. È la sofferenza che brucia e consuma il male con la fiamma dell'amore e trae anche dal peccato una multiforme fioritura di bene». Questa è la vera Bellezza, la Bellezza che sola salverà: la Bellezza dell'Amore assoluto, che «brucia e consuma il male con la fiamma dell'amore».

E vorrei concludere con Agostino, che questi concetti esprime trasfigurandoli in dimensione lirica: «O Signore, io ti amo. Non ho dubbi, sono certo che ti amo. Tu hai percosso il mio cuore con la tua parola, e io ti ho amato. Ma il cielo e la terra e tutto ciò che è in essi, ecco, da ogni parte mi dicono di amarti, né cessano di dirlo a tutti, affinché non trovino scuse. (...) Ma che amo, amando te? Non una bellezza corporea, non una leggiadria transitoria, non un fulgore come quello della luce, che piace a questi occhi, non dolci melodie di canti d'ogni specie, non soave profumo di fiori, di unguenti, di aromi non manna e miele, non membra gioconde all'amplesso carnale. Non queste cose amo io, amando il mio Dio. E tuttavia amo, per così dire, una luce, una voce, un profumo, un cibo, un amplesso, quando amo il mio Dio, luce, voce, profumo, cibo, amplesso dell'uomo interiore che è in me, dove risplende all'anima mia una luce, che non è contenuta in un luogo, dove risuona una voce che il tempo non rapisce, dove odora un profumo che il vento non disperde, dove mi stringe un amplesso che la sazietà mai discioglie. Questo è quello che io amo, quando amo il mio Dio».

Ma può ancora, l'uomo di oggi, intendere questi messaggi e hanno ancora un valore per noi, nel nostro mondo, le parole di Platone?


GIUDIZIO UNIVERSALE, TRA ARTE E FEDE

di Marcello Angheben

 

Dalla prefazione al volume 

Alfa e Omega. Il Giudizio universale fra Oriente e Occidente.

Ed. ItacaLibri

 

Durante tutta la seconda metà del Medio Evo, il tema iconografico del Giudizio Universale ha occupato nel cuore delle arti cristiane d'Occidente e d'Oriente un posto a parte, sia per la sua visibilità e il suo sviluppo spaziale che per la diversità delle figure che vi si svolgono. Il Cristo Gesù che separa i dannati dagli eletti era spesso la prima immagine che il fedele vedeva penetrando nella chiesa, o l’ultima che si imponeva quando ne usciva. I portali e le contro­facciate, che ne furono generalmente i luoghi privilegiati, offrivano agli artisti delle superfici talvolta gigantesche che permettevano lo svolgimento di composizioni che includevano decine, di più centinaia, di figure. la grande originalità del Giudizio Universale, in rapporto alla maggior parte degli altri temi biblici, consiste precisamente nella giustapposizione di figure immobili - il Cristo-Giudice, i suoi prossimi e gli intercessori - e in scene drammatiche i cui autori principali sono gli angeli e i demoni. Il Cristo-Giudice, seduto su un trono o su un arcobaleno, incastonato in una gloria luminosa e abitualmente circondato dalla sua corte celeste, costituisce un'autentica teofania, vale a dire una visione di Dio nella sua gloria. la staticità che regna in cielo si ritrova abitualmente in paradiso, cosa che impone in una certa misura la natura stessa di dimora definitiva degli eletti, un luogo di pace e di beatitudine da cui chi ci sta non subisce alcun mutamento. Al contrario di questi due luoghi grandemente valorizzati, l’inferno è spesso animato da una specie di movimento perpetuo il cui fine è quello di garantire un castigo eterno ai dannati.

 

Del resto all’interno e intorno a questo luogo infernale gli artisti hanno dimostrato, principalmente nella seconda metà del Medio Evo, tutto il dinamismo e l’espressionismo di cui erano all'altezza. Per una buona comprensione dei diversi aspetti del Giudizio Universale in generale e delle rappresentazioni medioevali in particolare, è indispensabile situare in un primo momento il posto che occupa nella concezione cristiana della storia della salvezza, ed evocare in seguito le numerose sorgenti testuali che ne fanno menzione e, a questo punto, ricostituire le diverse tappe del suo svolgimento. Il giudizio pronunciato da Dio alla fine dei tempi costituisce la conclusione logica della storia dell’umanità come la concepiscono la Bibbia e i teologi che l’hanno interpretata. Il mondo sensibile non è eterno; è stato creato da Dio con tutti gli esseri viventi che ci si evolvono, e necessariamente un giorno deve sparire. Quando verrà la fine dei tempi, gli eletti vivranno in compagnia di Dio e degli angeli in un luogo paradisiaco, in un'eternità che non conoscerà notte. E se l’avvenimento che segna la fine di questo mondo è un giudizio è anzitutto perché i primi uomini hanno peccato e hanno trascinato nella loro decadenza l’intera Umanità. Dopo la Caduta. la storia cristiana dell’umanità, che si confonde con quella della salvezza, potrebbe essere descritta come un ritorno progressivo a questo paradiso perduto e riassumersi nelle due tappe fondamentali che sono la Redenzione il Giudizio Universale.

 

Nel cuore di questa avventura si inscrive infatti l'Incarnazione - la Prima Venuta di Cristo o Parusia ­e il sacrificio sulla croce. Nel momento della sua morte, il Salvatore è sceso, secondo i teologi, agli inferi o al Limbo – lo sheol degli ebrei -, ne ha spezzato le porte e ha estratto tutti i giusti dell’Antico Testamento, cominciando da Adamo ed Eva. In seguito ha riaperto le porte dell'Eden, dove ha introdotto il buon ladrone, a cui aveva promesso che sarebbe stato il primo a entrare in paradiso e tutti quelli che aveva

appena estratto dagli artigli di Satana.

Come altra conseguenza della Redenzione, la morte è diventata il momento di una prima separazione fra i buoni e i cattivi: in questa nuova prospettiva, l’inferno, diventato nel frattempo un luogo,di supplizi, è destinato unicamente ai secondi, mentre il paradiso le cui porte sono state riaperte è diventato la dimora dei primi. Per determinare il destino postumo di queste anime, un tribunale celeste deve necessariamente procedere ad un primo giudizio, il giudizio immediato, chiamato anche giudizio particolare o giudizio dell'anima. La sentenza pronunciata non è tuttavia sempre irrevocabile poiché un secondo giudizio, annunciato dalle Scritture, deve avvenire alla fine dei tempi. Cristo è in effetti chiamato a tornare accanto agli uomini Si tratta della Seconda Parusia ­per giudicare insieme i vivi e i morti e pronunciare per gli uni una revisione del primo giudizio e per gli altri una conferma della sentenza. Ma a differenza del giudizio immediato, questo riguarda la totalità degli uomini, presenta un carattere definitivo e si rivolge alle anime che saranno state riunite ai loro corpi resuscitati e non a delle anime separate.

Il concetto di resurrezione dei corpi era dunque essenziale, tanto che fu introdotto nel Credo e, di conseguenza, elevato al rango di dogma. Esso implica che alla fine dei tempi tutti gli uomini resusciteranno, seguendo il modello di Cristo e che le anime entreranno di nuovo nei corpi da cui erano uscite, attraverso la bocca, con l’ultimo sospiro. Ma al contrario di questi corpi, quello che rivestiranno le anime sarà glorioso, spirituale e incorruttibile (1 Cor 15, 35-38) e presenterà “l’età perfetta del Cristo” (Ef 4 , B), cioè trent’anni. Si pone allora il problema dei vivi al quale risponde San Paolo: essi saranno ‘cambiati’ in un istante «perché questo corpo corruttibile rivesta d’incorruttibilità» (1 Cor 15, 52-53) e sollevati con i resuscitati “sopra le nuvole, incontro al Signore per l’aria (1 Tess 4, l7), e questo implica per i teologi che moriranno e resusciteranno istantaneamente. Dopo il Giudizio Universale, sono dunque i corpi resuscitati che dimoreranno per l’eternità all’inferno o in paradiso.

 

Un quadro di Ambrogio Lorenzetti, circa del 1330 {Siena, Pinacoteca nazionale) mostra in tre tappe che si succedono da sinistra a destra, La Caduta, accompagnata da una discesa fisica di Adamo ed Eva ­preceduti dalla personificazione della morte che esibisce La sua falce minacciosa - verso un luogo inferiore a quello che occupa il paradiso; la Redenzione, raffigurata da una Crocefissione, il cui asse divide la composizione in due parti ineguali sovrastanti un mucchio di corpi falciati dalla morte; e infine il giudizio Universale al cui termine i condannati sono respinti verso l’inferno mentre gli eletti cominciano ad elevarsi nella direzione del Giudice che appare allo stesso livello del paradiso terrestre.

 

Questo quadro sintetizza così con una notevole chiarezza il movimento prima discendente - la caduta - ­e poi ascendente - il ritorno a Dio - che ha ritmato la storia della salvezza, e la cui fase di mezzo è segnata dal sacrificio del Cristo sulla croce. Questo sacrificio d'altronde è richiamato a due riprese nella scena del Giudizio Universale in cui la croce è esibita da due angeli e portata da uno degli eletti, il che significa esplicitamente che per raggiungere il suo Creatore in cielo, il fedele deve imperativamente seguire il suo esempio e, per riprendere l'immagine del dipinto, portare la sua croce.

 

Il Nuovo Testamento ha spesso ripreso i termini delle profezie veterotestamentarie, sia insieme, sia separatamente, aggiungendo al massimo delle nuove precisazioni. I testi neotestamentari che sono stati determinanti per la genesi e lo sviluppo dell'iconografia del Giudizio Universale, sono il capitolo 24 e 25 del Vangelo di Matteo e il capitolo 20 dell’Apocalisse. Il lungo discorso che Matteo dedica alla fine dei tempi costituisce anzitutto un monitor di ordine morale legato alla subitaneità dell'evento futuro del Giudice, e un'esortazione alla vigilanza che egli illustra per mezzo di numerose parabole, di cui quelle delle vergini sagge e delle vergini stolte (Mt 25,1-13).

L’altra parabola o piuttosto un'allegoria utilizzata dall'evangelista è quella del pastore che separa le pecore dai capri, mettendo le prime alla sua destra e i secondi alla sua sinistra (Mt 25,32-33). Questa immagine si inserisce tuttavia in una descrizione più realistica della fine dei tempi che, con un brano del. capitolo 24mo, costituirà uno dei fondamenti dell’illustrazione del Giudizio Universale. Per cominciare vi si impara che il ritorno del Figlio dell’uomo - il Cristo - sarà preceduto da cataclismi: «Il sole si oscurerà, la luna non avrà più splendore, le stelle cadranno dal cielo» (Mt 24,29; Mc 13,24).

 

L’Apocalisse precisa su questo tema che il cielo si ritirerà «come una striscia di papiro che si arrotola» (Ap 6,14). Questi due passaggi spiegano la presenza del sole e della luna ai lati del Cristo giudice, cosi come un altro tema iconografico, piuttosto raro in Occidente ma onnipresente in Oriente, cioè il cielo avvolto da un angelo. «Allora apparirà nel cielo il segno del Figlio dell'uomo» (Mt 24,30). L’interpretazione tradizionale di questo segno è che sia la croce, cosa che traduce in immagini una gran parte dei giudizi universali normali. Gli uomini vedranno poi il Cristo «circondato di gloria e di maestà, tornare sulle nuvole del cielo» (Mt 24,30; Mc 13,27), accompagnato da tutti gli angeli e assiso «sul suo trono glorioso» (Mt 25,31). Fino a questo stadio della descrizione, le due versioni sono abbastanza concordi, ma il giudizio consecutivo alla Seconda Parusia vi è evocato in due modi diversi. Il capitolo venticinquesimo spiega che il Giudice manderà i suoi angeli, che al suono della tromba risonante, raccoglieranno i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all'altro della terra (Mt 24,31; Mc 13,27), il che lascia supporre che gli angeli che suonano le trombe risusciteranno gli eletti prima di raccoglierli, secondo l'allusione di san Paolo (1 Cor 15,52, 1 Tes 4,16). Questo brano sembra implicare che i dannati non risusciteranno, ma gli esegeti hanno chiaramente affermato il contrario, precisando che se l'evangelista nomina solo gli eletti, è perché i dannati non meritano di essere raccolti in quel modo. Il brano non evoca dunque il Giudizio propriamente detto, né la sorte riservata ai dannati, ma associa al Giudizio Universale il tema degli angeli buccinatori che diventerà praticamente inscindibile dalla sua iconografia.

Il capitolo 25 afferma, al contrario dal capitolo precedente, che saranno tutte le nazioni ad essere raccolte davanti al Giudice -"'sicuramente dopo la Risurrezione dei morti "- e che sarà il Signore a «separare gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri» (Mt 25,32). «Allora, a quelli che saranno a destra il Re dirà: Venite benedetti dal padre mio, prendete possesso del regno che è destinato a voi fin dalla creazione del mondo» (Mt 25,34).  «Poi si girerà verso quelli che sono alla sua sinistra: lontano da me dirà, maledetti, andate nel fuoco eterno destinato al diavolo e ai suoi angeli».

 

Il secondo testo fondamentale per l'iconografia del Giudizio Universale si trova nell’Apocalisse. Come in Matteo, il Giudizio vi è preceduto da cataclismi: dopo essere stato incatenato per mille anni, Satana sarà liberato e farà guerra alle nazioni, prime di essere bloccato e divorato da un fuoco sceso dal cielo, e affondato in uno stagno di fuoco e di zolfo in cui sarà tormentato nei secoli dei secoli (Ap 20,7-10). Qui comincerà l'ultimo atto della storia umana: il Giudice, che qui resta anonimo, apparirà su un grande trono bianco (Ap 20,11). Poi, i morti risusciteranno scagliati da una parte nel mare e dall'altra nella "morte e inferno" (Ap 20,13). E mentre si aprirà il Libro della Vita e altri libri, i morti grandi e piccoli staranno davanti al trono e saranno giudicati secondo ciò che è scritto nei libri delle loro opere (Ap 20,12). Alla fine, l'inferno, la morte e tutti quelli che non saranno scritti nel Libro della Vita saranno gettati nello stagno di fuoco (Ap 20,15).

 

Nella seconda sezione dell'Apocalisse, direttamente conseguente all'evocazione del giudizio universale, il testo descrive lungamente la Gerusalemme celeste come una città circondata da mura, ornata da pietre preziose e destinata ad accogliere gli eletti (Ap 21-22). Nei commentari questa città appare come una raffigurazione della chiesa attuale ma anche di quella che deve venire, questa è la ragione per cui il soggiorno degli eletti è stato spesso raffigurato sotto l'aspetto di una villa fortificata. A partire dal XI secolo, il fuoco venuto dal cielo e lo stagno di fuoco in cui è affondato Satana diventeranno due componenti fondamentali dei Giudizi Universali dei bizantini, prima di essere adottati in Italia e, più raramente, al nord delle Alpi.

Benché questi due testi fondamentali descrivano l'essenziale di ciò che comporrà i Giudizi Universali medievali, essi restano per certi aspetti un po’ lapidari. Così, il Vangelo di Matteo designa senza ambiguità il Cristo come l'unico giudice del tribunale celeste, ma senza spiegarne la ragione, tanto quanto è sorprendente l'assenza del Padre. La risposta a questa domanda è portata dal Vangelo di Giovanni che tuttavia parla assai brevemente della fine dei tempi: «poiché, così come il Padre ha la vita in se stesso, così ha dato al Figlio di avere la vita in sé, e gli ha dato inoltre il potere di esercitare il giudizio poiché è Figlio dell'uomo» (Gv 5,26­ - 27). Questo brano giustifica così non soltanto la parte centrale svolta dal Cristo nell’iconografia del Giudizio Universale, ma anche lo straordinario ricorrere del tema dell'ostentazione degli strumenti della Passione: i chiodi, la corona di spine, la colonna della flagellazione, la lancia, la spugna e soprattutto la croce, anche se essa può apparire prima di tutto come un segno trionfale, il segno del Figlio dell'uomo del Vangelo di Matteo. Queste arma Christi o signa compaiono in effetti quasi sistematicamente in prossimità del Giudice, su un trono o nelle mani di uno o di numerosi angeli, per richiamare con insistenza la natura umana del Cristo su cui si fonda la legittimità della sua funzione giudicatrice.

 

Numerosissimi giudizi universali mostrano, ai lati del Giudice, il collegio degli apostoli in cui è stato integrato san Paolo. La loro presenza e il loro ruolo non sono evocati né nei due testi maggiori (Mt 24-25; Apc 20) né in san Giovanni, ma in un altro brano del vangelo di Matteo: «In verità vi dico: nel giorno del rinnovamento del mondo quando il figlio dell'uomo sarà seduto sul trono di gloria, voi che mi avete seguito, anche voi sarete seduti per giudicare le dodici tribù d’Israele» (Mt 19,28). Nell'iconografia, la presenza degli apostoli ai lati del Cristo provocherà spesso una dilatazione della composizione nella sua parte superiore. Ma quando mancherà lo spazio, in particolare sui portali gotici, si farà in fretta a farli scomparire o a relegarli in uno spazio secondario. Quanto alla presenza di san Paolo si può facilmente spiegarla con la dignità di apostolo che gli è stata accordata. La legittimità della sua integrazione nel cuore del collegio apostolico, allo stesso livello si san Pietro, è stata del resto rapidamente affermata dalla posizione obliqua dell'immagine, e in particolare nella rappresentazione dei due avvenimenti principali della vita del Cristo ­l'Ascensione e la Pentecoste - ai quali per altro l'apostolo dei Gentili non ha assistito. Era dunque perfettamente logico che egli conservasse questo stesso posto, alla destra o alla sinistra del Cristo, alla fine dei tempi.

 

Nei Giudizi Universali della seconda metà del Medio Evo, l’inferno ha subito una dilatazione progressiva ma sostanziale tanto che occupa spesso uno spazio che sorpassa di molto quello che i differenti testi biblici gli avevano accordato. La Bibbia offriva soltanto qualche indicazione sulla natura dei castighi destinati ai peccatori: «I dannati saranno gettati nelle tenebre esterne dove vi saranno pianti e stridori di denti» (Mt 8,12;24,51; Lc 13,28), affondati in uno stagno di fuoco (Ap 20,15) o divorati da un verme imperituro e dal «fuoco che non si spegnerà» (Is 66,24). Questi riferimenti sommari non corrispondevano d'altra parte alle numerose domande che si ponevano i cristiani sulla geografia dell’inferno, i diversi supplizi che vi erano praticati e il loro rapporto con le colpe commesse. Numerose visione dell’aldilà sono venute a colmare queste lacune, a cominciare da quelle sviluppate dalle Apocalissi apocrife, come quelle di Pietro (II secolo), di Paolo (III secolo) o della Vergine (IX secolo). Si apprende particolarmente che l'inferno è suddiviso in un gran numero di luoghi distinti e che qui i supplizi sono adattati alla natura del peccato. I boia sono naturalmente i diavoli stessi, ma anche i serpenti e i vermi mentre mordono la parte del corpo che è stata la sorgente o lo strumento del peccato.

 

Teoricamente, il paradiso terrestre è un luogo destinato a ricevere le anime separate dopo il giudizio immediato, ma nei testi come nell’iconografia, è stato spesso interpretato come la dimora definitiva degli eletti. Una certa ambivalenza esiste anche riguardo alla Gerusalemme nuova, interpretata sia come una raffigurazione della chiesa presente, sia come un'immagine della chiesa futura. Malgrado queste divergenze, la dimora definitiva degli eletti in genere ha ricevuto l'aspetto di un giardino, di una città circondata da un muro adorno di pietre preziose, o anche di un giardino racchiuso in un recinto di questo tipo, una formula che risulta dalla combinazione dei due testi.

Le sorgenti bibliche sono state completate dalle numerose visioni paradisiache riportate dalle Apocalissi o da altri tipi di letteratura, come l’inno che Efrem il Siro ha dedicato al paradiso.


GLI ARMA CHRISTI

Un secondo tema iconografico è costituito dagli arma Christi, le armi con le quali Gesù combatté il diavolo, ossia gli strumenti della passione attraverso i quali egli attua la redenzione: croce, lancia, spugna, chiodi, sferza e colonna della flagellazione, corde, corona di spine, dadi e veste senza cuciture, il gallo di Pietro, mani, piedi e cuore con i segni delle ferite, persino lo sputo dei carnefici. Inizialmente sobri simboli di Gesù trionfante (lancia e asta con la spugna: mosaico dell'arco trionfale in S. Michele in Affricisco, Ravenna, VI secolo) o giudicante (croce con la corona di spine presso il sedile del giudice nel Giudizio universale orientale: avorio veneziano del XII secolo), dalla fine del Medioevo divennero gli indispensabili accessori di un arsenale iconografico volto a suscitare la devozione al Christus patiens. 

Da quel momento in poi, gli arma Christi accompagnano il tipo dell'Ecce bomo (Maestro Francke, 1435; Geertgen tot Sint Jans, ultimo quarto del XV secolo, Utrecbt, Catharijneconvent) o diventano un motivo a sé (rilievi degli stalli del coro a North Cadbury, Somerset, e a Laucells, Cornovaglia; dipinti sulla volta in S. Giovanni a Bosco Ducale). 

Come elemento accessorio, compaiono in un'opera del XVI secolo del Maestro di Delft (Amsterdam, Rijksmuseum: in una tenda-tabernacolo, Dio Padre siede in un segmento di cielo presso un altare carico degli strumenti della passione), nell'affresco sulla volta della chiesa Zum-gegeisselten-Heiland a Wies presso Steingaden in Alta Baviera (Zimmermann, 1750-54), nell'altare domestico di una beghina di Anversa (XV o XVI secolo, Anversa, Kon. Museum voor Schone Kunsten), appesi alle croci d'argento ottocentesche sotto campane di vetro, o intorno alla croce portata in processione nella via crucis (XX secolo; Bergen op Zoom, Marldezenhof). 


I CICLI DELLA PASSIONE

Una prima sistematizzazione dei momenti della passione si può leggere sui sarcofagi paleocristiani con questo soggetto (350 circa; Musei Vaticani). Il primo grande ciclo, peraltro privo della crocifissione, è quello sulla parete sud di 5. Apollinare Nuovo a Ravenna (VI secolo). La situla eburnea Basilevsky (vaso liturgico; 980 circa) e la vetrata della passione sulla facciata ovest della cattedrale di Chartres (1150 circa) costituiscono due importanti esempi del primo Medioevo. 

Pitture murali, pale d'altare grandi e piccole che ornavano chiese e cappelle laterali suscitavano nel popolo e nei membri delle gilde un'intensa partecipazione alla passione e morte di Gesù, così come i piccoli avori e smalti facevano con i singoli fedeli. Esempi in questo senso sono le tavole di Isenmann (1462-65), gli affreschi quattrocenteschi di Stary Plzenec (Repubblica Ceca),le lamine a smalto attribuite aJean Il Pénicaud (seconda metà del XVI secolo), un trittico eburneo francese del 1335 circa (Rotterdam, Museum Boymans-Van Beuningen) e il grande altare della passione di Kalkar (1488-1500 e 1505-08). 

Sorprendente per la posizione, ma caratteristico dell'uso, è il ciclo con dieci scene dipinto sulla cornice dello specchio nei Coniugi Arnolfini di Jan van Eyck (1434). Rembrandt dipinge verso il 1633-39 un ciclo per il ricco mercante d'arte Frederik Hendrik, Memling realizza intorno al 1470 una tavola in cui la storia si snoda come un lungo nastro intorno alla città di Gerusalemme. Delle ventidue scene della Passione di De Gelder (1715) se ne sono conservate dodici (parte ad Amsterdam, Rijksmuseum). 

Il tema vive una seconda fioritura nella grafica popolare (stampa pubblicata dalla vedova di Jacobus van Egmont, Amsterdam 1761-1814). Artisti moderni come Nolde, Dix, Kokoschka, Rouault (Miserere, 1927), Willy Fries (Grande Passione, 1957) uniscono nella passione di Gesù il dolore dell'uomo contemporaneo, esprimendo una critica alla società che si dice cristiana. Witteman realizza intorno al 1939 uno smalto-finestra con dieci figurazioni intorno alla classica Maestà (Amsterdam, Stedelijk Museum). 

Il culmine dell'iconografia ciclico-tipologica della vita di Gesù - serie parallele difatti della vita di Gesù e del Vecchio Testamento - si ha tra i secoli XI e XIII. 

Sono da ricordare il ciclo del vescovo Bernward, molto maturo dal punto di vista teologico, raffigurato sulle porte e su una colonna del duomo di Hildesheim (1015-25); la croce dell'abate Suger de Saint-Denis con 684 scene (1141), perduta ma nota attraverso descrizioni, la Bibbia mosana di Floreffe (1150-60), l'altare di Nicola da Verdun a Klosterneuburg (1181),l'Hortus deliciarum di Herrad di Landsberg (1270-90) e gli affreschi nella chiesa di S. Maria Lys a Colonia (secondo quarto del XIII secolo). 

Nei secoli XIV e XY la tipologia si evolve nelle Biblia pauperum, nello peculum humanae salvationis e nella Bible moralisé,assumendo le proporzioni di vere e proprie enciclopedie con immagini e testi. In alcuni casi, scene del Nuovo Testamento sono affrontate contrappuntiscamente (episodi della vita contrapposti a momenti della passione, come nei dittici eburnei: uno francese del 1350 circa, uno del 1400 circa a Utrecht, Catherijneconvent, e uno, del terzo quarto del XIV secolo, proveniente probabilmente da Magonza e conservato a 's-Heerenberg, nella Huis Berg); a volte la crocifissione è circondata da altri momenti della redenzione (i già menzionati avori carolingi). 

Cicli dei magnalia, o miracoli di Gesù, si incontrano tra gli altri nei sarcofagi paleocristiani (secoli IV e V), nei mosaici parietali di 5. Apollinare Nuovo a Ravenna (VI secolo) e negli affreschi di Oberzelì Reichenau (X secolo).


 I CICLI DELLA VITA DI GESÙ

Nei cicli della vita di Gesù, ripartita in registri, si possono distinguere quattro tipologie: cicli dell'infanzia, della passione, i grandi cicli della vita e le serie tipologiche. Si capisce che i cicli maturi sono preceduti da un lungo periodo di preparazione durato secoli. Nei sarcofagi paleocristiani e nei programmi iconografici delle catacombe, gli avvenimenti del Vecchio e del Nuovo Testamento non seguono inizialmente un ordine preciso (sarcofago di Giunio Basso, 359 circa, Roma, 5. Pietro; affreschi del III secolo nella cappella greca delle catacombe di Priscilla a Roma). Un primo ordine si rintraccia negli inni del poeta spagnolo Prudenzio (400 circa), nelle notizie di Paolino da Nola sull'arredo della sua chiesa (425 circa), nell'inno abecedario di Celio Sedulio (430 circa) e sulle porte lignee della basilica romana di 5. Sabina (430 circa; la sequenza fu alterata in epoca successiva). Il dittico di Milano della seconda metà del V secolo, l'importante avorio armeno di Echmiadzin del 550 circa e le miniature del cosiddetto Evangeliario di sant'Agostino (di Canterbury) del VI secolo seguono l'uso di rappresentare la vita di Gesù con un certo ordine cronologico in scene marginali intorno a una figura centrale. Una disposizione più ordinata è stata sicuramente incoraggiata anche dall'esigenza di miniare i codici della Bibbia, secondo l'uso classico (codici di Rossano e Rabula, VI secolo). 
I primi cicli monumentali compaiono in Oriente, con le pitture delle chiese rupestri di Gòreme (Cappadocia; 900-1050), e influenzano i primi cicli dell'Occidente: mosaici del XII secolo sulle cupole delle chiese di Monreale e Venezia e del battistero di Firenze. Di dimensioni più modeste, ma non meno importanti, sono anche il ciclo di Susteren (X secolo o prima; conservato solo in parte), con le lamine di un reliquiario d'argento sbalzato; il ciclo di affreschi di S. Angelo in Formis (1070-80), i rilievi sulle porte lignee della chiesa di 5. Maria in Campidoglio a Colonia (1065), i capitelli di Santa Maria de l'Estany (XII secolo), la Maestà di Duccio (1308-11: uno dei momenti più alti dell'evoluzione di questa iconografia fino a quella data) e le pitture murali nella chiesa di S. Martino a Groninga (secondo quarto del XVI secolo). Delle centinaia di cicli medievali (illustrazioni di libri, smalti, pale d'altare, vetrate, avori, tessuti), ricordiamo alcuni esempi particolarmente significativi: le illustrazioni dell'Evangeliario di Echternach di Enrico 111(1043 -46), gli affreschi di Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova (1304-06), le porte bronzee del Ghiberti per il battistero di Firenze (1403-24) e l'altare di Brùggemann proveniente da Bornholm in Slesia (1521). Meritano di essere menzionate le miniature di un manoscritto del 1333 della Rijmhv bel ("Bibbia in rima") di Jacob van Maerlant e il più ampio ciclo cristologico intitolato Dat leven ons Heeren Christijesufiguerhjck uuten text der vier Evangelisten ("La vita di nostro Signore Cristo Gesù figurata, dal testo dei quattro evangelisti") di Willem van Brantegbem (1537), con 186 xilografie di Lieven de Witte, dall'iconografia particolarmente originale. Dopo il XVII secolo, i cicli cristologici subiscono un calo tanto nella qualità, quanto nella visione (Maulpertsch, 1761). 
I cicli moderni hanno come soggetto quasi sempre la passione, a volte la vita di Gesù. Nolde dipinse nel 1911-12 un quadro d'altare in nove parti, dalla natività all'ascensione. Nel corso del XX secolo Servaes, Matisse e De Haas hanno realizzato dipinti per la via crucis. Nei cicli cristologici orientali, le singole scene sono articolate secondo lo schema iconografico classico (icona del monte Athos del XII secolo: scene ai margini della crocifissione; dittico musivo del XIV secolo nel Museo dell'Opera del duomo di Firenze; icona quattrocentesca del dodekaheorton "dodici grandi feste"] a Ocrida, ordinata secondo le festività dell'anno ecclesiastico). 


I CICLI DELL'INFANZIA

Il primo grande ciclo con l'infanzia di Gesù si trova nella serie di mosaici, unica nel suo genere, dell'arco trionfale di S. Maria Maggiore a Roma (V secolo). 

Dall'industria palestinese dei pellegrinaggi proviene una croce di smalto con una serie completa di sette scene (secolo VIII o IX, Roma, Musei Vaticani: sei episodi dell'infanzia e battesimo nel Giordano), la cui sequenza eserciterà un'influenza duratura. 

Un ciclo in Otto parti a illustrazione delle 'ore di Maria" nei libri d'ore più antichi, logorati dall'uso e dunque perduti, diventa il modello seguito a partire dal 1275 circa (cfr. il ciclo di Simon Marmion, 1470 circa). Da qui il ciclo viene ripreso pressoché con il medesimo schema nell'arte monumentale dal XII secolo in poi: vetrata ogivale sulla facciata ovest della cattedrale di Chartres (1150 circa), affreschi delle chiese di Auzon, Le Petit-Quevilly e di Bubovice (Repubblica Ceca) e di Sint-Salvius a Limbricht (XIV secolo; con significative differenze locali). 

Un'ulteriore evoluzione si osserva, tra gli altri, nei rilievi del terzo quarto del XIV secolo sul portale sud del duomo di Augusta (molto ampio) e nelle Biblia pauperum dei secoli XIV e XV Alcune di queste scene vengono inserite anche nei cicli dedicati alla vita della Vergine. Ciascun avvenimento è stato raffigurato più volte anche autonomamente. Dopo l'avvento del presepio (mangiatoia dal XIII secolo; presepi dal 1487 circa, da Napoli), il tradizionale ciclo dell'infanzia scompare gradualmente.


IL CRISTO MORTO

Da “Il nostro tempo” 4 aprile 2003 

Le lacrime della speranza

Di Luca Frigerio

E così infine tutto si è compiuto. Non ci sono più le grida, non ci sono più i soldati di Pilato a controllare, né gli uomini del Sinedrio a spiare. I curiosi se ne sono andati, gli amici intimoriti si sono nascosti, lontano dalla Croce. Resta sulla pietra il corpo senza vita di Cristo. Rimangono le lacrime di Maria, madre mutilata del figlio. E il silenzio della morte. 
«Il Cristo morto» di Mantegna è uno dei più straordinari capolavori dell'arte di tutti i tempi. Il più grande fra tutti i dipinti, semmai avesse un senso fare una classifica in questo campo. Osò l'impensabile, Mantegna. Realizzò !'incredibile. Uno scorcio ardito, inaudito, che solo un genio poteva inventare: il trionfo del virtuosismo prospettico. Eppure ancora molto, molto di più. 
Lo vediamo dal fondo, il Cristo morto. Dal basso verso l'alto. In primo piano i piedi, che sembrano quasi uscire dalla tela, quasi potessimo toccarli. Poi le mani, abbandonate, già rigide. Le une e gli altri segnati dalle ferite, la carne squarciata, dilaniata dal ferro. 
Non si può distogliere lo sguardo da quelle piaghe, che sono vere, che sono terribili. Né possiamo evitare di fissare i nostri occhi sul suo volto. 
Noi spettatori, noi uomini, siamo ai piedi del Crocifisso, come se fossimo in ginocchio, come se fossimo ancora ai piedi del Legno, sul Golgota, in un'agonia prolungata. È questa la visuale che Mantegna ricrea. Ci guardiamo attorno, e tutto ci appare contratto, duro, c1austrofobico. «Aria! Aria!», vien da gridare. Perché Gesù non è ancora stato messo nel sepolcro, ma noi ci sentiamo già sepolti con lui. Sepolti vivi. 
Quasi non c'è colore sulla tela. Di più: c'è l'assenza stessa del colore. Solo un tono verdastro a modellare il cadavere di Cristo, un'ombra terrosa ad avvolgere ogni cosa. In un angolo, relegati ai margini del dipinto, come spinti fuori dal quadro, Maria e Giovanni, piangenti, stravolti, invecchiati da una sofferenza insopportabile. Più oltre verrà l'ora della riflessione, della consolazione, della speranza, perfino. Ma ora, ora c’è solo il dolore che strazia il cuore, che strappa le viscere. Mantegna è geniale perché trova un modo nuovo e fortissimo di esprimere il dolore di chi sente di avere perso ogni speranza, ogni ragione di vita. Ci mette in una situazione di disagio, di irrequietezza, che da visiva si fa fisica, reale, concreta. E allora ci muoviamo in su, in giù, ma il corpo straziato del Cristo è sempre lì, a seguirci. Non possiamo liberarcene. Non si può far finta di nulla. 
Gesù è adagiato su una lastra rossastra, striata di bianco e di grigio. Guardatela bene. Chi è stato a Gerusalemme, presso il Santo Sepolcro, potrà forse riconoscerla: è la Pietra dell'unzione, davanti alla quale ancor oggi si inginocchiano i pellegrini a pregare, come ha fatto anche Giovanni Paolo II nella sua visita. La pietra, cioè, dove secondo la tradizione fu adagiato il corpo di Cristo, e cosparso di aloe e mirra, gli unguenti portati da Nicodemo, prima che fosse avvolto nel sudario e deposto nel sepolcro. Un vasetto, s noti, è posto accanto alla testa di Gesù nel dipinto mantegnesco. 
Quella Pietra dell'unzione che oggi si trova a Gerusalemme, tuttavia, è solo una copia ottocentesca. Sappiamo infatti che la lastra antica, veneratissima, fu traslata a Costantinopoli durante il regno di Manuele Comneno, attorno al 1170. Ma appena trent'anni più tardi, dell'eccezionale reliquia già non si sapeva più nulla. Scomparve durante il sacco della capitale bizantina, nel 1204, vergognosa e terribile pagina della quarta crociata. Forse fu nascosta dai monaci ortodossi che l'avevano in custodia, e da allora è rimasta celata. O forse fu depredata insieme a centinaia, migliaia di altri oggetti preziosi, tesori d'arte e di fede, gioielli e reliquie, che i crociati portarono con sé tornando alle loro case in Italia, in Francia o in Germania. 
Quel che è certo è che la Pietra dell'unzione non fu dimenticata. Molte sono infatti le sue raffigurazioni, come quella, bellissima, di Giovanni Bonsignori, dove il Bambin Gesù riposa sulla lastra mortuaria, simbolo e prefigurazione del destino che dovrà compiersi. Su di lui veglia la Madre, le mani giunte, percorsa da un fremito, da un presentimento che può solo serbare nel suo cuore. 
Mantegna e Bonsignori dipingono la stessa pietra, è evidente. Si affidano alla tradizione, probabilmente, alle descrizioni tramandate. O forse la videro con i loro occhi, come ipotizzava con grande suggestione Federico Zeri, avendola vista magari in una chiesa o in un monastero del Veneto o della Lombardia. Dove ancor oggi sarebbe, in attesa di essere riscoperta. 
Un ultimo sguardo al dipinto del Mantegna. Per osservare come tutto sia vero, reale, concreto, nella perfezione dell'anatomia, nella fedeltà alle forme. E tuttavia tutto è simbolo, tutto rimanda ad altro, tutto è immagine di qualcosa di più, che va oltre la semplice percezione. Il Cristo giace morto. Ma noi sappiamo che il giorno della Resurrezione è vicino. 


IL GESÙ DI CHAGALL

Un linguaggio molto personale è elaborato da Chagall partendo dal materiale iconografico tradizionale: gouache del 1939 circa, come Il pittore e Cristo, Il pittore crocifisso, Deposizione dalla croce (in quest'ultimo, Giuseppe di Arimatea ha una testa d'uccello medievale, ebraica); serie del 1950-51, Crocifissione del 1956 (con un pesce che reca l'omaggio di una corona di fiori), Cristo con una coppia (1958-59) e scultura in pietra di Rogne del 1953 circa. 
Manca, tuttavia, una moderna iconografia universale di Gesù, e forse, visto l'intrico delle opinioni sull'argomento e l'estrema individualizzazione della pratica artistica, non è neppure possibile (ancora). 


IL GESÙ EROICO

Il Gesù eroico dei secoli XVI e XVII non è una creazione dell'epoca rinascimentale e barocca, né segna una rottura con l'immagine di Gesù dei periodi precedenti. Neppure allora, infatti, si trascurava il suo aspetto eroico, combattivo o trionfante: si pensi al Gesù militare del V secolo nella cappella arcivescovile a Ravenna, al Cristo germanico di Niederdollendorf (fine dell'Vili secolo), all'eroe del poema epico Heliand (850 circa), al lanciatore di giavellotto del Salterio di Utrecht (820-830; Utrecht, Biblioteca universitaria), al severo pantocratore orientale (mosaici nella chiesa degli Apostoli a Costantinopoli, IV secolo, e a Palermo, XII), al Cristo re della già ricordata pala di Gand (1426-32) o al SalvatorMundi di Memling (1478). 
Il trionfatore di Ap 19, 11-16 è stato sempre una fonte di ispirazione. La novità iconografica di questi periodi sta nell'applicazione degli ideali di bellezza classici, veri o presunti: non - come pure si è pensato - come espressione di una mentalità a-religiosa, contrapposta a quella medievale, o in conseguenza di un processo di secolarizzazione, ma proprio come un tentativo di suggerire, nella bellezza e nella dignità umana, l'idea della massima perfezione (Melozzo da Forli,Ascensione dalla basilica dei Ss. Apostoli, Roma, 1480 circa; Cristo marmoreo di Michelangelo, 1518-21). 
Le immagini di Cristo che accentuano soprattutto la bellezza fisica sono spesso mutuate direttamente da soggetti tardomedievali. Il Redentore di Giovanni Bellini (1500 circa) e la Pietà di Michelangelo (1498-99; Roma, 5. Pietro) sono forme nuove degli Andachtsbilder medievali. 
Il giudice del Giudizio universale della Cappella Sistina (1536-41) si distingue da quelli del Medioevo soltanto nella sua nudità ideale (coperta in una fase successiva), e così quello di Rubens del 1617. I giganti delle resurrezioni di Dùrer (xilografie del 1511) e di Piero della Francesca (affresco nel palazzo comunale di Borgo San Sepolcro, 1463 - 65) sono legati direttamente alla predilezione per questo soggetto e alla sua iconografia del XV secolo. 
Quello che gli italiani e gli italianeggianti nordici realizzano sottolineando la perfezione fisica, è ottenuto da Rembrandt per mezzo degli effetti di luce (Cena in Emmaus, 1648). 
Nei secoli XVII e XVIII, questo aspetto eroico si riduce gradualmente a un trionfalismo talvolta grottesco, come nelle volte affrescate di Amort il'Vecchio, in cui Gesù compare sull'Olimpo come un eroe antico per umiliare Giove, tra l'ammirazione di tutti gli dèi (chiesa abbaziale di Benediktbeuern, 1647), o quelle in cui i simboli dei quattro evangelisti tirano un carro del sole con un monogramma cristico risplendente, l'IHS di san Bernardino da Siena (Rottmayr, affresco nella chiesa di S. Matteo a Breslavia, 1704-06). La venerazione per il Cristo re dei primi del XX secolo, legata alla devozione ottocentesca al Sacro Cuore, ha poco o nulla a che fare con il tipo del Gesù eroico.


IL GESÙ SENTIMENTALE

La figura sentimentale di Gesù nasce dalla fusione tra l'introiezione soggettiva dell'esperienza religiosa, già avviata da san Bernardo (XII secolo), san Francesco (XIII) e santa Brigida di Svezia (XIV), il processo di formazione della borghesia iniziato con la nascita delle città (Italia, XIV secolo) e, infine, l'evoluzione del ritratto realistico di Cristo (sotto l'influsso, tra gli altri, della lettera di Lentulo) in epoca barocca. Poiché, dopo i grandi artisti della Riforma (Dùrer, i due Cranach, i due Holbein e Rembrandt), la diffidenza calvinista nei confronti delle immagini inibì la figurazione religiosa nei territori protestanti, il processo si verificò soprattutto in ambito cattolico, dove si affiancò alla spiritualità intensamente cristocentrica della Controriforma: si pensi al Discours de l'état et des grandeurs de fesus di Bérulle (1623), che risente l'influsso della pietà di sant'Ignazio di Loyola. Sguardo languido (Guido Reni: Ecce bomo e Crocifissione, 1639-42 circa), gestualità estatica (Caravaggio, Deposizione nel sepolcro, 1602-04), resa esasperatamente realistica della sofferenza (Velàzquez,Crocifissione, 1630 circa), progressiva riduzione in senso sentimentale del soggetto (Velàzquez, Flagellazione: una piccola anima, raffigurata come un bambino, compiange Gesù) e, soprattutto, perdita della carica dogmatica dove si tratta della raffigurazione della vita e degli atti di Gesù, caratterizzano la produzione di questo periodo. È stata profonda anche l'influenza di certe mediocri illustrazioni della Bibbia (Schnorr von Carolsfeld, 1851-59, e Richter, 1955; un tentativo di rinnovamento si ha con Véronique Filozof con una Bible en images, 1957). Nei secoli XIX e XX, quando si prendono a modello gli epigoni, in un gran numero di oggetti devozionali l'immagine di Gesù scade nell'inverosimile e nel kitsch. Neppure artisti di spicco, come Thorvaldsen (1825 circa, duomo di Copenhagen), i nazareni o i preraffaelliti (tra i quali Hunt con il dipinto La luce del mondo, 1853-56), Doré o Von Uhde, aprono strade sostanzialmente nuove. Inoltre, i rinnovamenti dell'arte del XIX secolo trascurano quasi interamente l'immagine di Gesù.


IL GESÙ UMANO

Per Gesù umano si intende la figura di Gesù - in gran parte svincolata dall'iconografia tradizionale, dimenticata o non più sentita come fonte di ispirazione - che dal periodo immediatamente successivo la prima guerra mondiale si ricerca nellesituazioni umane estreme e che si tenta di esprimere in forme molto personali: Schmidt-Rottluff, xilografia del 1918 intitolata Ist euch Kristus nicht erschienen (“Cristo non vi è apparso?"); Grosz, Gesù con la maschera antigas (1928); Scheibe, Crocifissione sul piazzale della fabbrica (1956); Desnos, Ultima cena sulla Senna (prima metà del XX secolo). 
Si tratta di tentativi non ostacolati da pregiudizi dogmatici, in cui l'interesse è rivolto più alla grandezza - o meglio, piccolezza - umana di Gesù che alla divinità, alla sua umanità più che all'uguaglianza con Dio (Ensor, Entrata di Cristo a Bruxelles,1889). 
Sono comunque pochi gli artisti che riescono a infondere nuova vita al vecchio tema, come Rouault (tela con la Croce, 1918 circa), Matisse (Via crucis nella cappella del convento delle domenicane di Vence, 1948-51), o Eugen Keller (statue bronzee della via crucis nella chiesa di S. Clemente a Nes, isola di Ameland, 1961-62).


IL PRESEPE PIÙ ANTICO DEL MONDO 

Il Presepe più antico del mondo di Roberto Beretta   Avvenire 8 Dicembre 2005


La notizia - clamorosa - viene rilanciata da Il Presepio, rivista dell' Asso­ciazione italiana Amici del Presepio,

che negli ultimi due numeri ha pub­blicato a puntate l'articolo «Giusep­pe viene dal Bosforo?» dell' esperto Joachim Huneke; sottotitolo: «Rifles­sioni di fronte al più antico Presepe d'Europa». Stupisce il sottotono de­gli esperti del periodico: se quella presentata sulle p'agine del trimestrale è la Natività più vecchia del Vecchio Continente, lo è quasi di sicuro del­l'intero pianeta, no?

 

Se. Perché - finora - tutte le storie della tradizionale composizione betlemmita accreditano compatte il primato tra i presepi alle cinque statue ri­maste di un gruppo scultoreo del grande artista e architetto gotico Ar­nolfo di Cambio, del quale si apre proprio ora a Firenze una mostra nei dintorni del VII centenario dellamor­te; le statue sono ospitate nell'appo­sito oratorio del Presepio, annesso a Santa Maria Maggiore a Roma (vera­mente adesso se ne sta concludendo il restauro, dopodiché le sculture saranno collocate in via provvisoria nel museo della basilica). Arnolfo avreb­be eseguito il monumentale gruppo tradizionalmente nel 1283, ma con più probabilità tra 1285 e 1292, su ri­chiesta del papa francescano Niccolò IV. L'opera è un «presepio» piuttosto diverso da ciò che oggi definiamo con lo stesso nome: la Madonna è infat­ti seduta in trono e tiene Gesù Bam­bino in braccio, san Giuseppe sta da una parte, ci sono il bue e l'asino ac­covacciati e i tre Magi. Convenzio­nalmente, comunque, anche se dif­ferente dalle attuali, questa è la pri­ma rappresentazione tridimensio­nale conosciuta della Natività (in pre­cedenza c'erano solo bassorilievi, af­freschi, mosaici); il

primo vero presepio.

 

Ma come altrimenti definire allora il gruppo marmoreo di tre statue (altezza sul metro) - Madon­na in trono con Bambino, Giuseppe in piedi e con basto­ne, Re Magio genu­flesso - conservato nel seminario patriarcale di Venezia e da poco restaurato dalle 'Restituzioni 2004' finanziate da Banca Intesa?

La tipologia è infatti la medesima, anche se finora il gruppo veneto -in pietra aurisina originariamente di­pinta a colori vivaci- era noto come 'Adorazione dei Magi'... Gli esperti lo collegano al portale centrale di San Marco, nella cui lunetta - trattato con la stessa pietra e dalla medesima ma­no - sta un «Sogno di Giuseppe» che avrebbe fatto parte dello stesso com­plesso; nonché con un'altra lunetta, quella del timpano di San Mercuria­le a Forlì: dove sono raffigurati (in misura invero più ridotta) la solita Ma­donna in trono, incoronata e nell'atto di prendere una coppa da un Magio genuflesso, san Giuseppe, gli altri due Magi in piedi e la stella.

Pure quest'opera è nota come «Sogno e adorazione dei Magi» (anche perché in un angolo figurano allineati i giacigli dei sapienti caldei) e viene comunemente attribuita al Maestro dei Mesi di Ferrara, primi decenni del secolo XIII, più precisamente 1230. 

 

Il catalogo data invece «ante 1240» il ­presepio veneziano e ricostruisce la vicenda così: l'anonimo «Maestro»,

discepolo di Benedetto Antelami, dopo aver lavorato a Ferrara e a Forlì ed essersi abbeverato al gotico francese ­esegue a Venezia «tra terzo e quarto decennio del Duecento» un protiro (una sorta di portichetto) che comprendeva appunto sia l' «Adora­zione», sia il «Sogno», lasciandoli pe­raltro incompiuti. Significa che il presepio lagunare - opera tanto pregevole da essere stata esposta al Louvre nel 1968 come esempio di gotico (oggi però è visitabile solo su prenota­zione) - ha almeno 50 anni più dell'Arnolfo romano...

Né sarebbe l'unico primato della Na­tività veneziana. Il citato Huneke, su Il presepio, segnala infatti che per la prima volta Giuseppe vi è raflìgumrato mentre s'appoggia al bastone, quando in genere (secondo l'icono­grafia orientale, che fa riferimento al­la tipologia dei «sogni» del padre pu­tativo di Cristo) sedeva «da solo ed in disparte, col volto pensieroso sorret­ to da una mano». Come mai questa novità? Si tratterebbe di una traspo­sizione a san Giuseppe della figura

tradizionale del pastore-profeta così come viene dipinta nelle icone bi­zantine, dunque di un'importazione orientale che per la prima volta ap­proda in Occidente: appunto nella città marinara e commerciale per eccellenza, la quale aveva inoltre gui­dato la crociata che nel 1204 sac­cheggiò Costantinopoli, appro­priandosi di una quantità di model­li artistici nuovi. Infatti «prima il sog­getto iconografico del pastbre-pro­feta in Occidente non esisteva" ma ad Oriente era piuttosto frequente.

 

Si tratterebbe quindi di un'influenza ortodossa sull'iconografia dei prese­pi. Primato anche «ecumenico» per il

presepio veneziano, dunque. Il quale rappresenterebbe così una me­diazione tra la tipologia occidentale delle «adorazioni dei Magi» - con la Madonna in trono come un signore feudale che riceve l'omaggio dei vas­salli - e quella delle icone orientali, dove la Vergine partoriente era rappresentata sdraiata su un mantello di porpora con attorno altre figure

(san Giuseppe seduto e pensieroso, le levatrici che fanno il bagno a Ge­sù, l'angelo annunciante ai pastori...); mancano solo l'asino, il bue e la man­giatoia: elementi che saranno poi introdotti da Amolfo di Cambio (ma chi dice che non fossero già nella composizione veneziana?) grazie al­la tradizione francescana nata da Greccio.

 

Ci sono già, invece, i colori. Nell'ulti­ma ripulitura delle sculture di Vene­zia, infatti, sono stati rinvenuti gli stra­ti cromatici che in origine rivestivano le statue; la veste di san Giuseppe do­veva avere un co­lore ocra e il manto della Ma­donna dava de­cisamente sul­l'azzurro: pro­prio come le sta­tuine delle nostre Natività dome­stiche. E se il pri­mo presepio fos­se nato davvero in laguna?

 

GLI ALTRI PRETENDENTI

Sono tre, oltre a quella veneziana, le Natività del XIII secolo che ambiscono al primato assoluto tra i presepi tridimensionali a figure staccate e -almeno idealmente- movibili. La prima per antichità sarebbe il pregevole gruppo scultoreo collocato nel timpanio del portale principale della basilica di san Mercuriale, monumento simbolo di Forlì.

 

L'opera è attribuita al Maestro dei Mesi di Ferrara e datata al 1230, anche se alcuni -a causa dei suoi tratti popolari- la definiscono invece una 'copia libera' della più raffinata Natività veneziana.

Segue cronologicamente il presepio in legno policromo conservato nell'Abbazia di santo Stefano a Bologna e dipinto intorno al 1270 da Simone dei Crocifissi: anche qui la Vergine in trono col Bambino riceve i doni dei Magi, mentre Giuseppe osserva in disparte a mani giunte.

 

Infine c'è la celebre Natività scolpita da Arnolfo di Cambio a santa Maria Maggiore datata a seconda dei critici tra il 1283 e il 1294. La tipologia del gruppo è la medesima dei precedenti, ma il suo vantaggio in quanto 'presepio'  è di contare tra i personaggi anche l'asino e il bue.


IL RISORTO 'VIVO' ALLA CENA DI EMMAUS

di Micaela Soranzo    da Vita Pastorale. Luglio 2005

 

Molto usata nell'arte, antica e moderna, la cena

di Emmaus è associata al banchetto eucaristico.

"Rimani con noi, Signore, perché si fa se­ra" (Lc 24,29)... Ed egli accettò. Di lì a poco, il volto di Gesù sarebbe scompar­so, ma il Maestro sarebbe 'rimasto' sotto i veli del 'pane spezzato', davanti al quale i loro occhi si erano aperti» (Giovanni Paolo II  Mane nobiscum Domine 1.  Lettera apostolica per l'Anno dell'euca­ristia) .

Tutta l'iconografia cristiana ha spesso associato il racconto della "Cena di Em­maus" alle altre cene di Gesù nei cicli che comprendono "Il pa­sto in casa di Simone il fariseo", "Le nozze di Cana" e "L'ultima cena".

Gesù, dopo la risurrezione, appare ai discepo­li in diverse occasioni, per confermare agli uomi­ni che ha trionfato sulla morte, ma l'apparizione ai discepoli di Emmaus è riportata solo dal van­gelo di Luca (24,13-35), poiché Marco non ne fa che una breve allusione (16,12).

 

L'iconografia cristiana ha tratto da questo racconto due scene principali, che possono esse­re unite, come nel coro di Notre-Dame di Parigi (XIV secolo), o più spesso separate: l'Andata in Emmaus e la Cena in Emmaus. Raramente si aggiungono la Scomparsa di Gesù dal convito e l'Annuncio della risurrezione a Pietro.

Nell'iconografia dell'incontro sulla strada di Emmaus, Gesù risorto appare ai due discepoli, che camminano verso la città, non sotto l'aspet­to di un giardiniere, come con la Maddalena, ma vestito con un saio di pelle d'animale, con il bastone e la bisaccia: da qui ha origine la rappre­sentazione del "Cristo pellegrino". L'immagine nasce dal passo di Lc 24,18 dove uno dei disce­poli, chiamato Cleopa, domanda a Cristo: «Tu solo sei così straniero a Gerusalemme (Tu solus peregrinus es in Jerusalem), da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?».

Nel linguaggio medievale, "straniero" è sino­nimo di "pellegrino", ma è più difficile spiegare perché anche i due discepoli vengano spesso trasformati in pellegrini, tanto da essere sopran­nominati "I pellegrini di Emmaus". Allo stesso modo il borgo di Emmaus è qualificato dalla Vulgata come castellum e molti artisti medieva­li, per fedeltà al testo, lo rappresentano sotto l'aspetto di un castello fortificato. Tra i primi esempi iconografici vi sono il mosaico di San­t'Apollinare Nuovo a Ravenna (VI secolo), l'af­fresco di Sant'Angelo in Formis (XI secolo) e il Salterio di Sant' Albano di Hildesheim del XII secolo, dove si vede uno dei discepoli mostrare a Cristo il sole che discende all' orizzonte per in­vitarlo a restare con loro: Mane nobiscum.

 

L'episodio è spesso a sua volta suddiviso in due scene distinte: l'incontro di Gesù con i due discepoli e il loro cammino verso Emmaus, co­me nel bassorilievo di Guido da Corno, che de­cora il coro di San Bartolomeo in Pantano (Pt). In una lunetta della cattedrale di Vézelay, inve­ce, vediamo i tre momenti della storia: l'incon­tro sulla via di Emmaus, la cena alla locanda e il ritorno a Gerusalemme. Si nota prima di tutto Gesù, in piedi, che si avvicina ai due viandanti; poi nella locanda, rappresentata da una struttu­ra a volta, è seduto in mezzo a loro e spezza il pane dell'eucaristia; e infine si vedono i due uo­mini che ritornano sui propri passi.

Come gli attori del dramma sacro, i due disce­poli hanno un tascapane. Anche in un pilastro del chiostro di Saint-Trophine ad Arles i discepoli hanno il tascapane e un berretto a punta tipico dei viandanti medievali, mentre Cristo, a capo scoper­to e piedi nudi, tiene il bastone e la bisaccia del pellegrino. In un bassorilievo del chiostro di San Domingo di Silos, che si trova in Castiglia lungo il "Camino de Santiago", è Gesù stesso che porta un berretto da viaggio e la bisaccia, che tiene a tra­colla, è decorata con la conchiglia compostelana.

 

Infatti nel Medioevo il dramma liturgico as­sume un ruolo sempre maggiore nella celebra­zione delle festività più importanti. Già dal X se­colo in molti luoghi vengono rappresentate del­le versioni drammatizzate dei racconti della Bib­bia e spesso, nell'adattare il testo, sono introdot­ti personaggi non nominati nella Scrittura, che potevano avere un significato simbolico essen­do, ad esempio, prefigurazioni dell' Antico Testamento all'interno del Nuovo Testamento. E chiaro che gli artisti, assistendo fin da bambini a queste rappresentazioni, ne riprendessero e rielaborassero gli elementi principali al momen­to di tradurre in immagini i temi biblici. In età romanica l'abbigliamento dei personaggi risen­te della drammaturgia sacra e in questo caso i discepoli, e a volte Cristo stesso, portano, come gli attori, l'abito dei pellegrini di Compostela.

 

Generalmente viene rappresentata, però, so­lo la Cena alla locanda o Frazione del pane, che evoca l'ultima cena, anche se il numero dei com­mensali è ridotto a tre al posto di tredici e dove Cristo risorto si rivela alla fractio panis.

La cena di Emmaus è stata molto rappresenta­ta non soltanto sui capitelli romanici e sui portali delle cattedrali, come a Chartres, dove si mette in evidenza che la sorpresa dei due pellegrini è così forte che si tengono con una mano alla tavo­la, ma in tutte le epoche il tema è stato interpreta­to da grandi artisti: da Duccio al Beato Angelico (che veste i due discepoli con l'abito dei domeni­cani), da Carpaccio a Pontormo, da Velazquez a Rembrandt, da Rubens a Delacroix, fino alle

opere del XX secolo di Maurice Denis e Paul Le­roy.

 

Allo stesso modo dell'ultima cena, di cui è la riproduzione in miniatura, la cena di Emmaus è concepita dai pittori sia come una comunione eu­caristica unita a una "scena di riconoscimento", come per Rembrandt, sia più volgarmente come una semplice "scena di genere" senza alone di mi­stero, sotto l'aspetto di un pasto di tre pellegrini. Il pasto è generalmente all'interno di una casa appartenente a uno dei discepoli, e solo raramente è ambientata all'aria aperta sotto un pergolato, come nelle tele di Marco Marziale (1506-1507) che presenta la scena in entrambi i luoghi.

 

Dal punto di vista della composizione, c'è un esempio interessante di gruppo ternario, ma già a partire dal XVI secolo presenta numerose va­rianti: spesso il gruppo diventa quaternario per l'aggiunta di un servitore, come nella tela di Caravaggio alla National Gallery di Londra o di Carpaccio nella chiesa di San Salvatore a Vene­zia, dove sono raffigurati cinque personaggi, mentre in una tavola di Jean François (1649) al museo di Tolosa, si contano già quattro servito­ri più tre commensali. Jacopo da Bassano intro­duce nella composizione dodici figuranti senza contare il cane, spiato da un gatto, che rosicchia un osso sotto la tavola; per un moltiplicarsi di personaggi secondari, vere e proprie comparse, si giunge alla tela di Veronese al Louvre, che mostra addirittura diciassette personaggi.

 

Il tema è molto diffuso nel XVII e XVIII seco­lo poiché rimanda all'eucaristia, per la quale vi era grande considerazione in tutte le opere di ca­rattere agiografico; inoltre, come gli altri sogget­ti di cene, anche questo è stato molto utilizzato, nella stessa epoca, per decorare i refettori mona­stici. Con il XVII secolo, però, Gesù non è più al centro della composizione, ma sta da un lato del­la tavola; restando comunque il personaggio prin­cipale, grazie al chiaroscuro, che concentra la luce sul suo volto, come nelle tele di Tiziano e Cara­vaggio, che affronta tre volte questo tema. In par­ticolare, sulla tela di Londra, presenta oltre ai personaggi evangelici, anche un oste che, non citato da Luca, viene spesso raffigurato nelle opere d'ar­te, in alternativa o insieme a un servitore. Sulla to­vaglia bianca sono messi bene in evidenza, fra le altre vivande, il pane e il vino, perciò il tavolo del­la locanda di Emmaus si trasforma in un altare dove si celebra il sacrificio eucaristico. Interes­santi sono anche i diversi atteggiamenti dei due discepoli; uno fa un gesto di stupore, che può es­sere letto come un'imitazione di Gesù in croce, secondo il concetto dell'immedesimazione del fe­dele con Cristo, l'altro, invece, scatta in avanti e si appoggia ai braccioli della sedia come per alzar­si: Caravaggio vuole alludere alla prontezza con cui si deve rispondere al richiamo di Gesù. La conchiglia appuntata sul petto identifica il disce­polo come un pellegrino di Santiago, ma è anche l'attributo di chi si mette in viaggio per fede.

 

Contrariamente alle prime due raffigurazio­ni, la Scomparsa di Cristo è un'immagine molto rara. La più antica è del XII secolo e si trova in una miniatura del Salterio di Sant' Albano di Hil­desheim: qui i due discepoli, tenendo nella ma­no il loro pezzo di pane, guardano con stupore il posto vuoto di Cristo, di cui si vedono in alto i piedi. In un'incisione francese del XVIII secolo, invece, è raffigurato Cristo che scompare dopo il pasto, come l'Angelo guardiano dopo aver presentato ai suoi parenti il giovane Tobia (Tb 12,17-22), mentre in una tela della stessa epoca al museo di Augsburg si vede Cristo che si vola­tilizza come un fantasma evanescente.

Ancor più rara è l'immagine dei discepoli di Emmaus che annunciano la risurrezione a Pie­tro. Questa è la replica della scena dove le pie donne annunciano la risurrezione agli apostoli e l'unica rappresentazione, oggi conosciuta, si trova nel Tesoro del Laterano.

 

L'evoluzione del tema lungo i secoli risente cer­tamente dell'alternarsi del sentimento religioso, per cui a fronte di una pittura italiana che dal Ri­nascimento pone l'accento principalmente sul pa­sto, la pittura fiamminga, e in particolare Rembrandt, cerca di restituire alla scena la sua dimen­sione sovrannaturale. Egli presenta, infatti, i due pellegrini in controluce, che si stagliano sulla sce­na come ombre cinesi, uno rovesciando la sua se­dia e gettandosi in ginocchio davanti a Cristo, l'al­tro in piedi che lo guarda con stupore. Spesso l'ef­fetto chiaroscurale è dato dalla fiamma di una candela, che illumina il volto del Maestro, con tutto il significato simbolico che ne consegue.

 

An­che l'arte contemporanea continua a misurarsi con questo soggetto, ma per lo più l'iconografia si rifà all'essenza del tema, presentando solo la Ce­na alla Locanda e solo i tre personaggi lucani. Ri­mane, comunque, la preoccupazione, presente in tutte le epoche, di provare, mostrando Cristo a ta­vola, che non si tratta di uno spettro, di uno spiri­to, ma di un uomo risorto in carne e ossa.


IL SANGUE DEL REDENTORE

Occorre ricordare che le raffigurazioni della passione esprimono un'attenzione esasperata per il sangue del redentore. Rifacendosi senza dubbio ai testi paolini (per esempio Rom 5, 9 e Col 1, 20), alla mistica del Graal e incoraggiati, tra gli altri, da santa Caterina da Siena (seconda metà del XIV secolo), i devoti del tardo Medioevo manifestano un profondo interesse per l'elemento materiale attraverso il quale è stata attuata la redenzione: il sangue di Gesù. 

Ne è espressione il corpo di Gesù abbondantemente sanguinante (Pietà Ròngten, 1350 circa, con un enorme ferita aperta sul costato, probabilmente ricettacolo per l'ostia consacrata nella liturgia del giovedì e del venerdì santo). Si arrivò addirittura a far raccogliere dagli angeli il sangue della ferita sul costato (Baldung Grien, disegno a pennello, 1522; opera di Barend van Orley del 1520, in cui il sangue, fonte della vita, riempie uno stagno), a farlo scorrere sui fedeli (Dùrer, incisione del frontespizio della Passione, 1510) o sgorgare insieme al latte (elemento della devozione bernardina) dal seno di Maria davanti a Dio Padre, oppure a farlo sprizzare dal costato di Gesù (miniatura di un seguace di Jan van Eyck, 1450 circa).

Vi era un'indubbia implicazione eucaristica: nell'Ecce homo sulla destra della predella nel monastero di Wienbausen presso Celle (1519), dei fili di ferro corrono come fiumi di sangue verso un calice con l'ostia.


L’ARTE DEL NOVECENTO HA TRADITO?

L’arte del Novecento segnerebbe il distacco dalla religione

L’Arte ha tradito?

Il problema nasce dal dibattito se l'arte del Novecento, staccatasi dalle forme e soggetti tradizionali, ignori il fenomeno religioso. Oggi l'arte preferisce la natura, la tecnica, il nudo, l'indagine psicolo­gica spesso distorta, il dramma con­fuso e depressivo. Ciò è confermato da scelte editoriali, mostre, rasse­gne e dai manuali scolastici. Non si apre un volume fino alla fine dell'Ottocento senza trovare continue e meravigliose figure di Madonne e Santi che ognuno è invi­tato a gustare cogli occhi e col cuore, indipendentemente dalle pro­prie convinzioni e pratiche religio­se.

Dopo il passaggio all'arte con­temporanea, sembra proprio che il mondo sia cambiato: i linguaggi di­ventano diversi e i soggetti più vari e individuali: dal comunicare qual­cosa di reale si passa al soggettivo, all'incertezza e, spesso, al nulla.

L’Architettura

Ma non è così. Analizziamo il set­tore dell'architettura. Nessuno può negare che gli edifici sacri di Le Corbusier (Cappella di Notre Dame du Haut, Convento Saite Marie de la Tourette) du Haut, Convento s.te Marie-de-la­Tourette) respirino dall' ambiente na­turale un'elevazione al divino, come le cattedrali gotiche; è così per l'americano Wright (la chiesa ascensionale di Madison), per il fin­landese Aalto con i suoi slanci di luce verso il cielo, per le articola­zioni armoniche di Pier Lui­gi Nervi, e per il Michelucci della chiesa dell'autostrada a Firenze, mo­mento di sosta e meditazione nella corsa quotidiana, o per Gaudì con il suo funambolistico balzo in alto, fan­tasiosamente Barocco.

La Scultura

Si vuole, però, qui proporre un richiamo e una interpretazione religiosa di grande valore spirituale al settore della scultura della prima metà del Nove­cento, che - non lo si deve dimenti­care - è stata squarciata da due guerre mondiali e da fenomeni sto­rici come Auschwitz e Hiroshima. Mi ha sollecitato questa ricerca la recente mostra di Acqui Terme sulla lingua viva della scultura del nostro tempo. Sono esposte opere di 65 artisti di notevole valore per le ricer­che sul linguaggio che non deve essere imitativo e riproduttivo della realtà, ma espressivo di una sua in­terpretazione.

L'opera più importan­te era il gruppo Figliol prodi­go (1931) di Arturo Martini, poco visto perché proprietà di una fonda­zione privata. Martini, artista trevi­giano strano e originale, può essere considerato il massimo sculture del primo Novecento per il tentativo di esprimere con il marmo e il bronzo essenziali emozioni. E spesso lo fa, affrontando appassionatamente il soggetto religioso. In questo incon­tro del figlio peccatore con il padre misericordioso si può notare lo slancio trattenuto delle braccia, le une timide e le altre vibranti nel­l'abbraccio paterno; i volti concen­trati rispettivamente sul perdono e sulla gioia intensa. Così i piedi e le mani, gli occhi e le labbra e tutta la superficie, in modo che l'impatto con la luce vivifichi la fredda mate­ria nella vibrazione emotiva voluta.

Mi ha colpito l'affermazione di Martini, conosciuto come irregolare e straordinario: "Io sono un superbo: io so di essere un artista fuori classe, ma quando sento parlare di una mia scul­tura una donna che ha l'anima pia e innocente come questa suora, io mi sento umile pur diventando miliarda­rio di gioia". Altrove definì l'opera quasi sacerdotale dell'artista: "L'arti­sta non ha che la funzione di purifica­re una passione, distruggere la mate­ria e portarla a Dio".

Circa il confronto tra Madonna e maternità è profonda l'osservazione del massimo scultore inglese Henry Moore: ‘Cominciai a pensare a Madonna e Bambino per St. Mattew, considerando in qual modo una Ma­donna differisce da una scultura che rappresenti solamente madre e fi­glio’. La differenza gli appare nei caratteri di ‘austerità, nobiltà e un certo senso di grandeur (e di ierati­co isolamento) che mancano nell'i­dea quotidiana di madre e fi­glio’.

Un artista che si è espresso con un linguaggio concreto e plasti­camente vitale è Giacomo Manzù. Non solo in statue, monumenti, al­tari, ma nelle sue famose porte di cattedrali, dalle scene complesse e organi­che sul tema di Dio, della vita e della morte, della pace e della solidarietà. Si potrebbe vedere, nei gran­di riquadri bronzei in San Pietro a Roma, a Salisbur­go e Rotterdam, una sto­ria dell'uomo a confronto con i comandamenti e col Vangelo.

Qualche volta la gente comune, o anche la critica prevenuta, non sono state capaci di leggere la fede in alcuni artisti per la dif­ficoltà di un linguaggio diverso dal figurativo rea­listico. Si vedano le figure umane, scheletrite e allun­gate in deformazioni sof­ferenti di Giacometti, e si leggano le sue righe sull’uomo che e vuoto e disperato senza una fede.

Invece Francesco Messina, più composto e solare, è un siciliano che sente di più l'armonia greca. Al contrario altri fanno pensare dura­mente all'assenza di Dio e dei senti­menti umani, anche se, forse, ne esprimono il bisogno. Si spiega a volte con le loro esperienze negati­ve, come la guerra e l'umiliazione dell'Olocausto negli stracci e chiodi di Burri e nelle membra orrende dell'austriaco Egon Schiele, distrut­to e impazzito in trincea.

Ho di fronte la Via Crucis di Lucio Fon­tana, di cui si ricordano solo le sue forme geometriche luminose, se­gnate da elementi spaziali, alla ri­cerca di ordine e proporzione. Ma si vedano queste 15 stazioni del dolo­re di Cristo e dell'uomo, disfatto da contrastanti violenze. Così il pro­getto per la porta del Duomo di Mi­lano e il Sacro Cuore della chiesa di San Fedele, un impasto di divino e umano, esplosivo sopra i limiti quo­tidiani.

Perché non si è parlato anche di questi artisti? Perché la scultura del Novecento sembra solo celebrativa o politica o commerciale? La rispo­sta si rifà a motivi diversi, economi­ci, di committenza, e soprattutto a motivi ideologici che hanno condi­zionato l'editoria, la scuola, i me­dia. Sta a noi, singoli e istituzioni, favorire la produzione di opere d'ar­te anche su questa tematica religiosa che fa parte strutturale di ogni uomo e artista.


L’ARTE NEL SEGNO DELLA RISURREZIONE DI MICAELA SORANZO

Prima di riflette­re sulle opere esposte nelle Mostre di Verona in occasione del Convegno di Verona ‘Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo’ del settembre 2006, è necessa­rio fare un breve accenno sullo sviluppo iconografico di questo tema nel corso dei secoli.

Innanzitutto le rappresentazio­ni della risurrezione risultano meno numerose e diffuse rispetto ad altri episodi della vita di Cristo e, soprattutto nei primi secoli, il nucleo centrale della predicazione e dell'annuncio del­la Chiesa non è il tema più rappresentato nel­l'arte cristiana. Inoltre, tra i diversi tipi icono­grafici, quello anche oggi più comune, cioè il Cristo vittorioso,che esce dal sepolcro, spesso a forma di sarcofago, lo scavalca, poggiandosi su di esso o si eleva in alto sulla tomba, è nato in Occidente solo nell'XI secolo. Infatti, a par­tire dal VII secolo, si diffonde una diversa in­terpretazione iconografica, costi­tuita dalla Discesa al Limbo di Cristo, tipologia che si ispira al testo apocrifo del vangelo di Ni­codemo del IV-V secolo, ripreso poi dalla Legenda aurea di Jaco­po da Varagine.

La difficoltà di rappresentazio­ne dell'evento nel suo momento più cruciale è chiaramente giusti­ficata dai testi evangelici, in cui si racconta il prima e il dopo, ma non il fatto in sé, l'evento stesso della risurrezione. Gli artisti ri­corrono perciò nelle loro rappre­sentazioni a segni, forme, simboli e, come ne­gli stessi testi evangelici, un ruolo fondamenta­le rivestono la luce e i colori:

 «Il suo aspetto era come la folgore e il suo vestito bianco co­me la neve» (Mt 28,3); in Luca le donne al se­polcro videro «apparire due uomini [...] in ve­sti sfolgoranti» (24,4) e Marco aggiunge «ven­nero al sepolcro al levar del sole» (16,2).

La risurrezione viene immaginata e rappre­sentata come un evento di luce, un'esplosione luminosa, la cui fonte è Cristo stesso, sole di giu­stizia e di vittoria, che sorge sulle tenebre della morte. Il Risorto indossa una veste i cui colori rimandano immediatamente alla trasfigurazione; completa la rappresentazione della gloria un al­tro elemento iconografico: il vessillo della vitto­ria, costituito da una croce o da un'asta sormon­tata da una banderuola, talvolta provvista di croce. Anche nelle rappresentazioni bizantine dell'Anastasis Cristo afferra con una mano Ada­mo mentre con l'altra regge una lunga croce.

Il tema iconografico della risurrezione è quan­to mai vasto e complesso, ma emerge chiara­mente, sia nell'arte orientale che in quella occi­dentale, come gli artisti cristiani, di epoche va­rie e tendenze artistiche diverse, abbiano sem­pre voluto rappresentare la straordinaria novità raccontata dai vangeli e tradurre l'annuncio di gioia e speranza dell'angelo adoperando simbo­li, immagini, segni e colori pieni di significati.

Nella mostra "Splendori del Risorto" il tipo iconografico più presente è quello occidentale, con il Cristo benedicente che regge nella mano sinistra il vessillo crociato; ma si possono ammi­rare anche due raffigurazioni della Discesa al limbo: uno splendido bassorilievo in alabastro di un artista inglese (XV secolo) e una particola­re tela di Giovanbattista Ponchino (XVI secolo).Oltre alle sculture e alle molte tele di gran­di artisti come Tintoretto, Luca Giordano, Gianbattista e Giandomenico Tiepolo, Jaco­po da Bassano, sono esposti ostensori, calici, reliquiari, libri liturgici, poiché la mostra atte­sta, afferma monsignor Betori, come la fede nel Risorto sia stata fonte germinale di una variegata espressione artistica che ha nutrito la liturgia, la pietà popolare, la devozione.

L'Unione cattolica artisti italia­ni ha proposto una particolare in­stallazione dedicata alla Via Lucisnella chiesa di San Tommaso Can­tuariense. Con questa scelta, spiega don Stefano Russo, direttore dell'Ufficio per i beni culturali del­la Cei, si vuole esprimere l'esigen­za che l'arte del nostro tempo tro­vi le forme espressive adeguate al culto e alla liturgia e allo stesso tempo sottolineare la necessità del­lo svilupparsi di una committenza ecclesiale sempre più ispirata e at­tenta a favorire la realizzazione di opere che lascino una testimonian­za visibile del passaggio della co­munità cristiana contemporanea. L'arte per la Chiesa non può essere fine a sé stessa, ma deve trovare giustificazione in modo coerente all'in­terno degli edifici di culto, come sempre è acca­duto nella storia, in quanto espressione della di­namica liturgica e della pietà popolare.

La Via Lucis nasce nel 1988 come nuova for­ma di pietà popolare. Con le sue quattordici sta­zioni che percorrono le tappe di Cristo risorto, dalla scoperta del sepolcro vuoto fino alla Pente­coste, si presenta simmetrica alla Via Crucis, che così completa: insieme sono l'espressione della preghiera che è sempre intreccio tra dolore e gioia. Nel 2002 viene ri­conosciuta ufficialmente dal diret­torio della Congregazione per il cul­to divino, ma già nell'agosto 2000 vi era stata la solenne celebrazione della Via Lucis durante la Giornata mondiale della gioventù a Roma.

La Via Lucis presente a Vero­na, realizzata da 14 artisti le cui opere sono accompagnate dai ri­spettivi testi biblici di riferimento, manifesta, attraverso un plurali­smo di tecniche e di pensiero, un momento comunitario in un luo­go di culto. L'arte cristiana rag­giunge il suo vertice nel compi­mento dell'evento celebrativo e l'artista è chiamato a pensare alla sua opera nel contesto cultuale, come parte dell'evento litur­gico. Per questo è importante ricordare !'impe­gno dell'Ucai, che si preoccupa della formazio­ne spirituale degli artisti, perché diano il loro contributo al tema della nuova evangelizzazio­ne attraverso l'arte.

Una riflessione più articolata e complessa emerge dopo aver visto la mostra su "L'arte e Dio. La scommessa di Carlo Cattelani". Indub­biamente Cattelani, convinto che attraverso il linguaggio dell'arte è possibile veicolare il Vangelo, ha tentato coraggiosamente di ricer­care un nuovo modo di fare "arte sacra", che non fosse più imitazione dell'antico, ma un libero confronto con le più diver­se espressioni artistiche del nostro tempo. Pur nel rispetto delle diverse scel­te di fede dei vari artisti che avvicinava, ha saputo provocarli ponendo loro il problema religioso, invi­tandoli a confrontarsi con esso e diventando egli stes­so committente di opere a tema religioso.

Mi sembra importante, però, a questo punto chiari­re qual è la differenza tra ‘arte religiosa’, ‘arte sacra’ e ‘arte liturgica’, co­sì come viene definita dal Cattelani, poiché trop­po spesso si scambia impropriamente l'una per l'altra. Abbiamo arte religiosa quando l'opera nasce dal modo di sentire la religione da parte di una persona e la sua espressione soggettiva può non permettere a tutti di capirne il contenuto; ar­te sacra se l'opera nasce da una manifestazione delle verità di una religione positiva e storica, an­che se vi è un'interpretazione personale; arte liturgica, invece, se l'opera riflette la preoccupa­zione di sottostare alle regole fondamentali del culto cristiano. E’ un'arte al servizio della liturgia in tutte le sue parti e con una tale fedeltà da di­ventarne essa stessa parte costitutiva.

La Chiesa ha, dunque, bisogno degli artisti, perché con le loro capacità creative sap­piano interpretare e trasmettere il messag­gio evangelico, conducano il fedele alla preghiera e suscitino in lui lo stupore del divino. La Sacra Scrittura è una sorta di ‘atlante iconografico’ diceva Marc Cha­gall, filone inesauribile di ispirazione.

«La vostra arte è quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi ‘tesori’ e rivestirli di parola, di colore, di forma, di accessi­bilità. Voi avete questa prerogativa nel­l'atto stesso che rendete accessibile e comprensibile il mondo dello spirito», di­ceva Paolo VI nel famoso discorso agli ar­tisti riuniti nella Cappella Sistina nel 1964, affermando anche la necessità che la Chiesa del nostro tempo realizzi una ‘nuova alleanza’ con essi, ma insisteva anche sull'im­portanza di una loro preparazione religiosa poi­ché, diceva, «non è lecito inventare una religio­ne, bisogna sapere che cosa è avvenuto tra Dio e l'uomo, come Dio ha sancito certi rapporti re­ligiosi che bisogna conoscere per non diventa­re ridicoli o balbuzienti o aberranti».

Per evitare, allora, che l'artista faccia riferi­mento solo alla propria esperienza e cultura reli­giosa, troppo spesso carente, è indispensabile che gli stia accanto una committenza ‘illumina­ta’, che lo sappia guidare a comprendere e quin­di a esprimere i contenuti della fede, pur nella piena libertà dell'espressione artistica. Il linguaggio della fede, però, chiede all’arte un linguaggio comprensibile; è infatti ancora attuale il monito di Paolo VI agli artisti: «Non si sa cosa dite, non lo sapete tante volte anche voi: ne se­gue un linguaggio di Babele, di confusione. E al­lora dov'è l'arte? L'arte dovrebbe essere intui­zione, dovrebbe essere facilità, dovrebbe essere felicità. Voi non sempre ce la date questa facili­tà, questa felicità e allora restiamo sorpresi ed intimiditi e distaccati».

Purtroppo, in questo difficile rapporto tra Chiesa e artisti, nonostante ci si lamenti spesso della banalità e dell'insignificanza delle opere d'arte presenti nelle nostre nuove chiese, piutto­sto che impegnarsi in un nuovo dialogo con l'ar­te contemporanea perché sia capace di esprime­re il vissuto di fede della Chiesa di oggi, si prefe­risce rifugiarsi in un passato nostalgico e ‘più si­curo’, con oggetti di imitazione, contribuendo all'allargarsi di una produzione seriale di dub­bio gusto, che però ha tanto ‘successo’ in gran parte delle nostre comunità cristiane.

Un serio tentativo di tenere aperto il rappor­to tra la Chiesa e l'arte contemporanea, e di dia­logare in maniera costruttiva con gli artisti, lo si deve alla Fondazione Stauròs, che da molti an­ni, attraverso la sua Biennale d'arte sacra, cerca di offrire il suo contributo alle chiese, consape­vole della forza evangelizzatrice dell'arte.


LA 'ZINGARELLA' DI ROBERTO FERRUZZI

‘La  Zingarella’ di Roberto Ferruzzi

E' indubbia­mente uno dei quadri della Madonna più noti e familiari nelle nostre case.

Ma singolarmente interessante è anche la storia di questo dipinto del 1866.

Sr. Angela Maria Bovo, nata negli Stati Uniti da genitori veneti, investigando sulle sue origini italiane, ha fatto una scoperta sorprendente. Rimasta orfana in tenera età, voleva saperne di più del suo paese di origine, dei suoi genitori e del motivo della loro emigrazio­ne in America. Fu così che, nei mesi estivi del 1924, ottenne dalle sue Superiore il permesso i di compiere un viaggio in Italia; e così ebbe l’occasione di conoscere le sue origini. A casa di un'anziana zia Giulia rintracciata a Venezia dopo accurate ricerche, c'era una piccola immagine di forma rotonda, dalla cornice dorata: era la familiare ‘Madonna delle Vie’ detta anche ‘La Zingarella’ del Ferruzzi.

Questa è tua madre!’, disse zia Giulia. ‘Lo so’ rispose Suor Angela Maria, credendo che la vecchia zia parlasse della Madonna.

‘No, no’, insistette la zia, comprendendo la reazione della religiosa: ‘È la tua vera madre!’.

 

Da principio la Suora era scettica. La zia restò come offesa: ‘Perché dubiti?’. Poi, mediante l'interprete, Giulia cominciò a narrare una storia sorprendente: rifugiatisi i genitori di lei sui Colli Euganei nel

1866 a causa delle guerre che allora sconvol­gevano la Repubblica di Venezia, fu lì che Roberto Ferruzzi vide Angelina Cian - la futura madre di Sr. Angela - allora dodicenne, che custodiva il fratellino ancora lattante, formando un quadro stupendo.

 

Ferruzzi, giovane artista di appena trent'anni, fu colpito dalla bellezza e dal candore della scena e decise di dipingerla.

Forse non ebbe mai l'idea di dipingere un qua­dro della Vergine; ma il soggetto era tale che gli venne spontaneo intitolarlo ‘Madonnina’. Il dipinto fu per la prima volta esposto a Venezia nel 1896. Col tempo acquistò fama mondiale e i venne chiamato ‘La Madonna delle Vie’ (e anche ‘La Zingarella’. Pochi anni dopo Angelina sposò il diciannovenne Antonio Bovo e questi nel 1906, per evitare di fare il soldato fuggì negli Stati Uniti con la giovane moglie. Intanto i Cian, trasferitisi durante la Prima Guerra Mondiale, persero contatto con la parente emigrata in America.

 

Questa storia singolare è riportata per la prima volta dal Catholic Digest di San Francisco.

Ma scrive il dott. Elio Ricciardi da Albignasego (Padova):

"Ho qualche dubbio che il quadro [del Ferruzzi] possa riguardare familiari di Sr. Angela Maria Bovo, che l’artista avrebbe incontrato sui Colli Euganei nel 1866. Il Ferruzzi infatti [come risulta dal vol. di Vanni Tacconi relativo alla Dalmazia: "Istria e Dalmazia, uomini e tempi", Ed. Del Bianco, Udine, pp. 464-465], nato a Sebenico nel 1854, si trasferì a Venezia con la famiglia nel 1868. Nel 1866 aveva, quindi, 12 anni e viveva ancora nella sua [e mia] Dalmazia. Il Ferruzzi visse comunque i suoi ultimi anni sui Colli Euganei, a Torreglia. Avanzerei quindi l’ipotesi che la famiglia di Sr. Angela, a conoscenza della presenza dell’artista negli Euganei e vedendo una somiglianza dei modelli del quadro con i propri congiunti, abbia supposto, convincendosene con il tempo, quanto narrato dalla stessa Sr. Angela [con la quale mi scuso per i miei dubbi].

Sempre restando nel campo delle ipotesi, ricordo di aver letto che il Ferruzzi avrebbe incontrato i modelli del quadro in questione in una collina sopra Genova e che il bambino in braccio alla giovane madre sarebbe poi diventato un "camallo", portuale genovese".


LA CACCIATA DEI MERCANTI DAL TEMPIO E L'ULTIMA CENA

La cacciata dei mercanti dal tempio e l'Ultima Cena

L'episodio della cacciata dei mercanti dal tempio è collocato da Giovanni (2,13-16) all'inizio della vita pubblica di Gesù, mentre i sinottici lo presentano come causa immediata della passione. Dopo l'entrata in Gerusalemme, Gesù scacciò mercanti e cambiavalute dal tempio, luogo di preghiera. Il tema, inizialmente raffigurato in una scena tranquilla (evangeliari del VI secolo e del Medioevo), venne elaborato in chiave assai più movimentata soprattutto a partire dal XVI secolo. L'allusione è indubbiamente all'imminente vittoria di Gesù sul male (Pieter Bruegei il Vecchio, 1556 circa; rilievo bronzeo del Calcagni nella chiesa della Santa Casa a Loreto, 1565; Dirck Pieter Crabeth, vetrata di Gouda, 1567; Rembrandt, acquaforte, 1635; Lì Greco, 1570-1614, in dieci versioni). Durante la Riforma, l'episodio fu caricato anche di allusioni ai misfatti della Chiesa di Roma (illustrazioni della Bibbia di Lutero: 1522,1534 e 1541). In alcuni casi, offre lo spunto per raffigurare un caos variopinto (Castiglione, 1650 circa).


La sera della pasqua ebraica, Gesù celebrò con gli apostoli il pasto rituale prescritto (ricordo di Es 12,1-13 e 17) nella cosiddetta ULTIMA CENA. Dopo aver lavato i piedi dei discepoli, pronunciò tre discorsi e una preghiera (Gv 14-17); durante la cena, diede un nuovo segno della sua morte e resurrezione: il suo corpo e il suo sangue nella forma del pane e del vino, da mangiare e bere fino al suo ritorno. Offrì a Giuda l'occasione di attuare il suo tradimento e predisse la negazione di Pietro. A tavola, Giovanni occupava un posto di riguardo. 
La vicenda iconografica della cena è lunga e complessa. Esiste tuttavia una linea di sviluppo, che va dalla raffigurazione paleocristiana del rito del refrigerium a quelle dell'Ultima cena nei tabernacoli del XVII secolo, come quelli di Duquesnoy il Vecchio nella chiesa di 5. Martino ad Aalst e degli altari cattolici del XIX. Nell'epitaffio dell'intagliatore di sarcofagi Eutropo (300 circa) è raffigurato un personaggio che leva il calice; in un affresco con una scena di banchetto, le iscrizioni recitano "Agape, versa ancora" e "Irene, passa l'acqua calda" (fine del III secolo; Roma, catacombe dei Ss. Pietro e Marcellino). Per i cristiani, questi segni esprimevano in primo luogo la gioia del trovarsi vicino a Cristo dopo la morte. Essi contenevano anche - insieme alle scene del miracolo di Cana e della moltiplicazione dei pani, ricorrenti spesso in questi ambienti - un'allusione alla cena rituale, che veniva celebrata nelle comunità, ma non era raffigurata. La rappresentazione del refrigerium si atteneva alla forma classica della tavola semicircolare, intorno alla quale i commensali giacevano sui triclini (cfr. frammento di sarcofago del IV secolo conservato al Museo di Antichità di Leida). A partire dal dittico eburneo di Milano (475 circa), da un mosaico ravennate (500-526 circa) e da una miniatura del Codice di Rossano (VI secolo), Gesù è raffigurato con gli apostoli in questa posizione, e sulla mensa stanno pane, pesce e calici di vino.


Dal X secolo in poi, compaiono la benedizione e la distribuzione del pane e del calice da parte di Gesù, con un'attenzione particolare al contrasto fra il tradimento di ~ Giuda e questa cena d'amore (Gv 13,12; disegno nel Salterio Chludoff, X secolo; rilievo di Anselmo da Campione nel duomo di Modena, 1165-75; particolare di una croce con la passione, inizi del XIII secolo) e al posto particolare occupato dall'apostolo Giovanni. Inizialmente, tuttavia, la figurazione ricordava principalmente l'avvenimento in sé e conteneva appena un'allusione al sacramento dell'altare (ancora in una vetrata del 1500 circa nella Wiesenkirche di Soest, in Vestfalia: sulla mensa, una testa di maiale, prosciutti e boccali da birra). Solo nel tardo Medioevo, scene ausiliarie tratte dal Vecchio Testamento alludono al carattere sacrificale dell'avvenimento, una concezione che aveva guadagnato terreno a partire dalla disputa sull'Ultima cena dei secoli IX e XI. Una fioritura tardiva di questa tipologia è rappresentata dall'Ultima cena di Dirck Bouts nella chiesa di S. Pietro a Lovanio (1464-67).


Nel Rinascimento, il soggetto - che si prestava particolarmente bene a una resa monumentale in prospettiva, al raggruppamento dei personaggi e all'espressione dei caratteri individuali - compare molto spesso sulle pareti dei refettori dei conventi (affresco del XV secolo nella chiesa di S. Patroclo a Naturns; a Firenze, Andrea del Castagno nel convento di S. Apollonia, 1447, Taddeo Gaddi in Santa Croce, 1335, Ghirlandaio nella chiesa di Ognissanti, 1480; Leonardo in 5. Maria delle Grazie a Milano, 1495-97). Sotto l'influsso della Riforma, si tornò a rappresentare l'atto di bere dal calice, che nel Medioevo era caduto in disuso (cfr. la xilografia della scuola di Cranach in cui Jan Hus e Lutero distribuiscono le due specie, 1550 circa).

Dopo la Controriforma, si fissò un nuovo, rigido schema: in primo piano Gesù siede a una tavola rettangolare e benedice il pane e il vino, mentre gli apostoli guardano in atteggiamento commosso o devoto, oppure ricevono reverenti la loro parte del pane. Un antesignano di questo schema è Giusto di Gand, con un dipinto del 1470 raffigurante Gesù che distribuisce la comunione. Cambiano solo i particolari: la forma, l'arredo e le dimensioni della sala; il raggruppamento degli apostoli, il vasellame e, eventualmente, la presenza di servitori. É importante notare che, da questo momento in poi, l'Ultima cena viene vista come il momento in cui Gesù istituisce l'eucarestia (e il sacerdozio rituale). Così, in un dipinto di Juan de Juanes del 1560 circa, Gesù solleva l'ostia nell'inconfondibile gesto della consacrazione. Dopo la fase di imitazione classicistica e neogotica e le scarse novità dei secoli XVIII e XIX, sorprende ritrovare un impianto tradizionale: Aleijadinho a Congonhas do Campo, con figure policrome a tutto tondo intorno a un tavolo (1796-99); Nolde, dipinto del 1909. Nel suo dipinto del 1955, anche Dali. si rifà alla composizione tradizionale. 


LA CROCIFISSIONE

l numero di crocifissioni è immenso, infatti è il momento della salvezza più importante 

Il numero di crocifissioni è immenso. Non c'è da stupirsi: si tratta infatti del momento della salvezza più importante e vissuto più intensamente. Così, nel Polittico dei Sette Sacramenti (1450 circa; Anversa, Kon. Museum voor Schone Kunsten), Rogier van der Weyden dispone i "mezzi della salvezza" (i sacramenti) in una chiesa gotica con cappelle, intorno a questo momento della salvezza per eccellenza (cfr. vetrata quattrocentesca nella chiesa di Doddiscombsleigh, Devon). 

Le raffigurazioni della crocifissione sono ora cicliche, con l'intera sequenza, dall'arrivo sul Golgota alla morte di Gesù, riunita in un'unica composizione (Memling, 1470 circa; Maestro del Dittico di Anversa, 1480 circa); ora si torna a rappresentare i singoli momenti, come Gesù spogliato, il gioco dei dadi per la veste senza cuciture, la crocifissione, Gesù sulla croce, la spugna con fiele e aceto, la morte il gruppo del Calvario (il crocifisso con Maria e Giovanni), o Gesù da solo (sofferente, morente o morto). 

Gesù spogliato delle vesti (Gv 19, 23-24) compare soltanto dopo Giotto (tavola del 1320 circa a Firenze, Uffizi; più tardi in un pannello laterale del trittico di Cornelis Engelbrechtsz del 1515 circa e nel Greco, Toledo, cattedrale, 1590-95). 
Anche il realismo di Gesù inchiodato alla croce, con la croce poggiata a terra, è di data relativamente recente (Gerard David, 1515-20). 

In alcuni casi, Gesù stesso sale sulla croce per mezzo di una scala (Guido da Siena, seconda metà del XIII secolo; Utrecht, Catharijneconvent): espressione dell'idea professata da alcuni devoti medievali secondo la quale Gesù, una volta accettata la passione, desiderava la sua croce. In Occidente, anche l'erezione della croce come soggetto a sé è relativamente recente; dopo Altdorfer (xilografia, 1515 circa), divenne uno dei temi preferiti del barocco (Rubens nella chiesa della Vergine di Anversa, 1610; Rembrandt, tela, 1634 circa). 

In età paleocristiana, le raffigurazioni di Gesù sulla croce sono rare. Sommarie e quasi brutali le più antiche: pannello con i due ladroni sul portale ligneo di S. Sabina a Roma (430 circa) e avorio del 420-430. Soltanto a partire da una miniatura del Codice Rabula (586), da un reliquiario palestinese del VI secolo ai Musei Vaticani, dai rilievi sulle ampolle d'argento dei pellegrini (in Vaticano e a Monza) e dall'affresco dell'VIlI secolo in S. Maria Antiqua a Roma, la raffigurazione si arricchisce di particolari. 

Vennero aggiunti: il paesaggio, Maria e Giovanni, Longino e Stefaton, la ferita al costato, l'iscrizione sulla croce (Mt 27, 37), il sole e la luna (Mt 27, 45, da GI 2, 10 e 3, 4). Gesù è poggiato sulla croce, dapprima quasi nudo, poi coperto da una lunga veste, poi di nuovo quasi nudo. Questo schema si conserva nelle icone orientali (icona musiva, fine del XIII secolo), negli smalti ottoniani (la piccolissima raffigurazione della croce da Sint-Odiliénberg, ora Maastricht, Bonnefantenmuseum; 1000 circa) e negli avori carolingi. 

In questi ultimi, lo schema è arricchito da due figure simboliche poste tra Maria e Giovanni: la Mater Ecclesia (la Chiesa come madre dei battezzati), che raccoglie il sangue dal costato, e la Sinagoga (il popolo ebraico), in una posa abbandonata e con la lancia spezzata, nonché dalle figurazioni di altri momenti della redenzione - natività, resurrezione, ascensione e pentecoste. Ulteriormente elaborata, l'allegoria Ecclesia-Sinagoga si mantenne a lungo nelle raffigurazioni della croce (grande miniatura in uno Speculum humanae salvationis del 1340-50 da Kremsmùnster; Hans Fries, pala d'altare, 1500 circa). 

Lo stesso vale per il sole e la luna, simboli della partecipazione del cosmo al dolore per la morte di Gesù, che non mancano quasi mai nelle crocifissioni: da una miniatura del Codice Rabula (586) al riquadro con la crocifissione dell'Alta-re di Grabow di Bertram van Minden (1379-83). Negli avori carolingi e nelle miniature del primo Medioevo, al sole e alla luna si allude di preferenza con i simboli classici di Apollo e Selene: legatura eburnea della scuola palatina di Carlo Magno per le Pericopi di Enrico II(870 circa) e miniatura del Sacramentario di Stavelot (XI secolo; Bruxelles, Koninlilijke Bibliotheek). 

Verso la fine del Medioevo, questo particolare scompare dall'iconografia corrente. 
Un certo realismo dei pittori bizantini di icone, con una chiara espressione del dolore in Gesù, Maria e Giovanni, con angeli è il teschio di Adamo ai piedi della croce, ha influenzato soprattutto gli artisti italiani dei secoli XIII e XIV (croci con scene della passione della seconda metà dei secoli XII e XIII; icona di Ocrida, 1300 circa). 

Questi artisti aumentano anche il numero dei personaggi e ne accentuano la gestualità (Cimabue, affresco nella basilica superiore di Assisi, 1277-80; Ferrari nel duomo di Varallo, 1513). La croce diventa alta e sottile; ai suoi piedi, cominciano a comparire Maria svenuta e Maria Maddalena addolorata, talvolta accompagnate da altri santi (Girolamo e Domenico nel Maestro del Trittico di Anversa, 1480 circa; Giovanni il Battista nell'altare di Isenheim, (fine pag. 118) 1512-16). Questa tendenza si impone soprattutto nell'Europa settentrionale del XV secolo. Nelle grandi raffigurazioni del Calvario e sulle pale d'altare con scene della passione, il dolore, espresso nel corpo martoriato o emaciato di Gesù, èrappresentato fin nei minimi particolari. Si accentua anche la varietà delle reazioni della folla (Konrad van Soest, altare della passione nella chiesa di Nieder-Wildungen, 1403, e altare della passione di Anversa nella chiesa di S. Giovanni a Bosco Ducale, 1500 circa). 

In alcuni casi è introdotto un episodio particolare: per esempio i figli di Caino, Iabal e Tuban-Kain (il primo fabbro: Gn 4, 21-22), che forgiarono i chiodi per la crocifissione (tavola del 1470 circa e xilografia in uno Speculum humanae salvationis dei Paesi Bassi, 1475 circa, Utrecht, Catharijneconvent). 

La scena si fa più calma e meno affollata a partire da Rogier van der Weyden (1435 circa: con cinque scene della passione e la resurrezione). In seguito, sotto l'influsso degli artisti italiani, ora rinascimentali (Masaccio, 1426 circa; affresco di Andrea del Castagno nel refettorio di 5. Apollonia a Firenze, 1445-50), torna a guadagnare terreno una resa più passionale (già nel dipinto della cerchia di Jan van Eyck del 1435 conservato a Berlino, Staatlicbe Museen). 

A questa, si contrappongono raffigurazioni più trattenute: per esempio quella del Maestro H, tavola del 1440 circa nella Ca' d'Oro a Venezia, o i gruppi della croce, detti Calvari, con Maria e Giovanni afflitti sotto la croce, che in tante chiese romaniche, gotiche e neogotiche sono collocati in alto, alla separazione tra coro e navata (~ Giovanni l'apostolo). Al massimo è presente, inginocchiato o stante, un solo donatore, uomo o donna, in atteggiamento riverente. In seguito, muterà soltanto la posa di Gesu: morente o morto, con la testa reclinata o levata al cielo, con o senza corona di spine, sanguinante o ormai esangue. Gesù morente, senza personaggi accessori, accentua la solitudine della sua sofferenza (Mt 27, 46-47; Rembrandt, 1631). Dopo il XVIII secolo, che non porta alcuna novità, (fine pag. 119) il rinnovamento parte dalla tradizione (Burne-Jones, vetrata, 1887); da Gauguin in poi (Le Christjaune, 1889), si ricerca e talvolta si trova una nuova espressione.


LA CROCIFISSIONE IN UN AVORIO PALEOCRISTIANO. LONDRA

Scorrendo il repertorio figurativo paleocristiano, si può agevolmente constatare che scene inerenti al ciclo della Passione di Cristo, soprattutto in epoca anteriore alla prima metà del IV secolo, compaiono solo molto raramente. A parte l'episodio dell'incoronazione di spine, dipinto nella catacomba romana di Protestato, bisogna attendere il periodo costantiniano, e in particolare i sarcofagi detti appunto «di Passione» per poter vedere raffigurazioni come il giudizio di Pilato o la simbolica rappresentazione dell'Anastasis, ossia della Resurrezione. In particolare, solo intorno al 420-430 si hanno — stando alla documentazione conservata — i primi esempi di Cristo crocifisso, in un celebre pannello ligneo del grande portale della basilica romana di s. Sabina e in un piccolo, ma prezioso ed interessante, avorio, oggi conservato al British Museum di Londra. Ci si è perciò interrogati sul motivo, per cui non si trovano scene di Crocifissione prima di quest'epoca. Gli studiosi hanno avanzato varie ipotesi in merito, ritenendo che vi potesse essere anche una certa ritrosia nei riguardi di questa particolare rappresentazione, dovuta all'accusa dei pagani, che aveva ossessionato i cristiani dei primi secoli, di essere adoratori di un uomo in croce, poi per la visione spiccatamente ottimistica dell'arte paleocristiana, che celebrava piuttosto il momento di trionfo celeste dei martiri (e quindi a fortiori del Redentore), piuttosto che quello del loro cruento martirio.


Si può osservare, inoltre, riguardo alle due scene più antiche della Crocifissione, già ricordate, che si tratta di due monumenti in certo senso minori, riconducibili non alla pittura, né al mosaico, né alla scultura, ma all'artigianato artistico e che entrambi sono grosso modo contemporanei, risalendo alla prima metà del V secolo. In particolare, a Londra la scena appare in una delle quattro formelle eburnee, che in origine formavano i lati di un cofanetto, tutte con scene della Passione di Cristo: il preannuncio della negazione e il giudizio di Pilato, fusi insieme, le pie donne al Sepolcro, l'incredulità di s. Tommaso e, appunto, la Crocifissione.

In origine doveva essere un reliquiario di dimensioni molto ridotte, se si tiene conto del fatto che ognuna delle quattro placchette misura poco meno di 10 centimetri di larghezza per 7, 5 di altezza. Questo pregevole oggetto fu acquisito dal British Museum nel 1856 da una collezione privata (la Collezione Maskell) e si pensa che esso sia riconducibile a manifattura romana, anche se purtroppo si ignorano l'epoca, le circostanze e il luogo esatto del suo ritrovamento. Esso, comunque, si inserisce in una serie di avori paleocristiani di grande raffinatezza esecutiva, che si esprimono ancora con modi classici, sia pure proponendo tematiche essenzialmente cristiane, fra i quali si possono ricordare almeno la Lipsanoteca di Brescia e il Dittico Trivulzio di Milano.


LA DISCESA AGLI INFERI

L’antico racconto della discesa all'inferno (da interpretare come oltretomba, Ade) si basa su miti della salvezza precristiani e su alcuni testi biblici (tra gli altri, Sal 107, 13-16; Sap 16,13; Mt 12, 40 e 1 Pt 3,19-20). È narrato nel Vangelo di Nicodemo e ha il seguente svolgimento. Dopo la sua morte, Gesù si presentò accompagnato dagli angeli alle porte del regno dei morti. Dopo aver inutilmente intimato a Satana di farlo entrare, apiì le porte colpendole con l'albero della croce, sconfisse i demoni, liberò tutti i giusti e uscì con loro in un corteo trionfale. 

Il significato è che la redenzione di Gesù è universale, che essa agisce nel tempo anche a ritroso e, attraverso di essa, tutti possono essere salvati. Lo schema iconografico: Gesù, sempre potente e in posizione centrale, colpisce le porte, che precipitano in un abisso trascinando, con tutte le serrature e i lucchetti, anche il demonio; Gesù porge la mano ad Adamo, il primo di due file di personaggi in attesa (re, profeti e giusti del Vecchio Testamento); ~ Giovanni il Battista dà spiegazioni. 

Lo schema si ripete uguale in tutte le figurazioni; possono variare i particolari e l'ambientazione. In alcuni casi, la raffigurazione è schematica, di carattere soprattutto simbolico: rilievo in una lunetta della chiesa di Quenington, Gloucestershire, XII secolo; particolare di un'ancona lignea del 1440 circa, Amsterdam, Rijksmuseum: il diavolo, sotto forma di rana, è calpestato. 

Il leggendario incontro tra Gesù e sua madre dopo la resurrezione, narrato nella Legenda Aurea, è raffigurato spo radicamente: per esempio da Rogier van der Weyden nel 1437 e in una vetrata del 1500 circa nella chiesa di Fairford, Gloucestershire.


LA DISCESA DELLO SPIRITO SANTO

Pur riguardando più da vicino la terza persona della Trinità, la discesa dello Spirito Santo contiene alcune implicazioni cristologiche. Gesù promise che il suo Spirito avrebbe proseguito la sua opera e spiegato le sue parole. 

Inoltre, i cicli della vita di Gesù più tardi si concludono spesso con questo episodio (tavola proveniente da Roermond, 1435 circa, Amsterdam, Rijksmuseum). Lo schema della composizione èfissato già nella miniatura del Codice Rabula (586). In una sala, che nel corso del tempo può variare notevolmente, Maria siede in mezzo agli apostoli (cfr. l'ascensione). 

Sul capo di ogni personaggio sono raffigurate delle fiammelle, spesso collegate da raggi che partono da un unico punto luminoso (At 2, 3; anche schematiche, come sul reliquiario del 1071 conservato a Minden). 

In alcuni casi, Gesù stesso attiva lo Spirito Santo (lettera capitale nel Sacramentario di Drogo, 850 circa), oppure i raggi partono dalle sue mani (timpano a Vézelay, 1130 circa; vetrata a Canterbury, XIII secolo) o, ancora, da un fuoco ardente (miniatura nel Pontificale del vescovo Roberto di Winchester, 990-1037, e ancona mosana in rame sbalzato e smalto proveniente da Stavelot, 1160 circa); a volte le fiammelle partono dal cielo, da una mano e una croce sovrapposte (miniatura in una concordanza dei vangeli di Treviri o Echternach, 1100 circa), oppure soltanto dallo Spirito (mosaico della cupola di S. Marco a Venezia, XIII secolo).

Nelle icone raffiguranti lo Spirito Santo che cala sulla solenne assemblea degli apostoli e degli evangelisti, in basso, in un ambiente buio, compare la figura di un re: rappresentante del cosmo e dell'umanità, che ricevono anch'essi lo Spirito Santo (icona di Novgorod, XV secolo). 

In età moderna, la discesa dello Spirito Santo, presentata secondo lo schema tradizionale, è raffigurata soprattutto nelle chiese italiane: per esempio, dipinti del Vasari in Santa Croce a Firenze (1568), del Farinato in 5. Stefano a Verona (1596); anche di Preissler nella Spitalkirche a Norimberga (1660) e di Daret nel Saint-Esprit ad Aix (Aube; 1652). In alcuni casi, la scena compare nelle decorazioni delle volte: Salviati in 5. Maria dell'Anima a Roma (1550 circa) e Wegscbneider nella chiesa del monastero di Beuron (1738).


LA FASE DEL PROCESSO

Gli interrogatori davanti al sinedrio, a Pilato, a Erode Antipa. La Passione. Il cane di Rembrandt. Gesù alla colonna.

Gli interrogatori davanti al sinedrio (generalmente rappresentato da Anna e Caifa) e davanti a Pilato sono raffigurati spesso; più raramente, quello davanti a Erode Antipa (che è il probabile soggetto di un rilievo sulle porte bronzee del duomo di Hildesheim, 1015). Le prime raffigurazioni si incontrano sul reliquiario eburneo di Brescia (370 circa) e sulle porte lignee di 5. Sabina a Roma (430 circa). A volte, è suggerito l'intero sinedrio (mosaico a Ravenna, inizi del VT secolo; tela di Gerard van Honthorst, 1617, e disegno di Rembrandt, 1650 circa). 

Ai devoti del tardo Medioevo, le notizie sulla passione di Gesù riportate dai Vangeli non bastavano: si compulsò tutto il Vecchio Testamento alla ricerca di ulteriori indicazioni e, applicando la teoria delle tipologie, se ne trovarono a profusione. Alcuni particolari dell'iconografia della passione, in passato di difficile interpretazione, sono stati spiegati proprio in base a questo atteggiamento, che emerge anche dalle tante "storie" quattrocentesche della vita e della passione di Gesù che citano o parafrasano i brani in questione (numerosi manoscritti conservati alla Biblioteca reale dell'Aia). 

Così, intorno alle scene della passione, compaiono animali o allusioni ad animali (ariete, leone, cane) mutuati da Sal 22, 13-14 e 21-22 (miniatura del Maestro di San Bartolomeo nel Libro d'ore di Sofia di Bylant con Gesù davanti a Pilato, 1490 circa). Queste figure non sono delle semplici allusioni ai carnefici di Gesù, ma hanno una funzione nell'ambito della raffigurazione stessa. Così, nelle scene della passione dei secoli XV e XVI, compare regolarmente il cane (miniatura con Gesù davanti ad Anna nel Libro d'ore di Alberto di Brandeburgo, inizio del XVI secolo), che imita le pose dei personaggi urlanti (Maestro di Pulkau, Pala dell'Ecce homo, 1520 circa; Pulkau, chiesa del Santo Sangue); nel Cristo porta la croce del Maestro del "Pink of Baden" (fine del XV secolo) persino l'espressione del carnefice ha qualcosa di canino. 

In Rembrandt, un cane che latra caratterizza gli accusatori di Gesù davanti a Caifa (disegno del 1650 circa). A volte l'allusione è celata in un collare da cane che chiude il collo della corazza di un carnefice (Hieronymus Bosch, Incoronazione di spine, 1511 circa; cfr. il cane nel Figliol prodigo, 1510 circa, anch'esso di Bosch, conservato a Rotterdam, Museum BoymansVan Beuningen), a volte in un gesto (Barend van Orley, Ecce homo, dipinto, 1525 circa, cattedrale di Tournai: il carnefice tiene la sferza nella bocca digrignando i denti, come un cane tiene il bastone). 

Anche il minaccioso leone compare più volte come elemento decorativo sulle vesti e le corazze dei soldati o dei carnefici (Maestro IAM di Zwolle, incisione con la cattura di Gesù, 1385 circa; maestro della Germania meridionale, tavola con la Flagellazione, inizio del XVI secolo). Nelle scene della passione, l'aspetto di Gesù è definito spesso con estremo realismo secondo, tra gli altri, Is 1, 6 (picchiato a sangue), 50, 6 (particolari della passione) e 63,1-3 (spruzzato di sangue). 

Le più antiche raffigurazioni della flagellazione alla quale fu condannato da Pilato presentano Gesù coperto di un solo perizoma, con le mani legate a una colonna e affiancato dai carnefici che lo colpiscono con la sferza. Il corpo è ricoperto di ferite (disegno nel Salterio di Utrecht, 820-830; pannello delle porte bronzee del duomo di Verona, fine dell'XI secolo). Questo semplice schema compare immancabilmente nei cicli della passione. Nel tardo Medioevo, la scena venne fortemente drammatizzata e ampliata con l'aggiunta di personaggi che deridono Gesù, accentuando in tal modo il contrasto tra la sua pazienza e la brutalità dei carnefici (Bair, pannello d'argento sbalzato di un altare domestico; 1620 circa). 

In epoca barocca, la resa del tormento assume forme di vero e proprio sadismo, perdendo però in forza espressiva (Velàzquez, Gesù alla colonna, 1631-32). A partire dal Rinascimento, si sviluppa dalla Spagna l'immagine devozionale di Gesù alla colonna (a Gerusalemme e a Roma si venerava una colonna come reliquia della passione). Il culmine di questo fenomeno è la piccola statua conservata a Wies (1730, Wieskirche, Baviera).


LA NATIVITÀ

La Natività di Gesù (Mt 1-2 e Lc 1-2) è il soggetto di una delle più antiche pitture catacombali (affresco nelle catacombe di Priscilla a Roma, III secolo), in cui il profeta Balaam indica un segno luminoso al di sopra di Maria, raffigurata nell'atto di allattare il bambino. Verso il 230-240, epoca in cui prese forma anche la celebrazione liturgica, era pronto lo schema iconografico della natività. Maria è sempre raffigurata nella posa fissa della partoriente su un letto da parto: stanca e abbandonata, il bambino giacente in un cesto di vimini o sotto una piccola tettoia. 

Il bue e l'asino (secondo Is 1, 3 e Ab 3, 2, testi usati nella liturgia) non mancano quasi mai. A questa scena si combina spesso quella dell'adorazione dei Magi (coperchi di sarcofagi dell'inizio e della fine del IV secolo a Roma e Ancona, sui quali compare anche un pastore adorante). La raffigurazione allude alla venuta della Parola in forma umana. 

Situazioni locali del VI secolo e i pellegrinaggi a Betlemme, dove già all'epoca di san Girolamo si venerava il luogo della nascita di Gesù in una grotta, ispirano una nuova composizione, che durò fino al Medioevo inoltrato (pitture a Limbricht, XIV secolo, e Anloo, XV secolo, fortemente arcaizzanti) e, in Oriente, divenne quella definitiva (icona di Novgorod, XV secolo). All'idea originaria dell'apparizione di Dio in forma di bambino, si aggiunse il carattere sacrificale dell'incarnazione: il bambino avvolto in fasce giace su un altare ed è indicato da una stella (il bambino in fasce compare ancora in un dipinto anonimo del XV secolo nella chiesa di Maria Assunta in Cielo ad Assen). Maria giace su una lettiga e Giuseppe, rannicchiato in un angolo quasi come un personaggio secondario, porta la mano al mento (il gesto classico della confusione); generalmente è aggiunta la scena popolare di Salomè e Zelomi che fanno il bagno al bambino. 

A partire da questo periodo con il precedente del ciclo musivo sull'arco trionfale di 5. Maria Maggiore a Roma (dopo il 430) - cominciano a svilupparsi anche cicli più o meno ampi dedicati all'infanzia: croce reliquiario di smalto dell'VIII-IX secolo nei Musei Vaticani, rilievi sul portale ligneo di 5. Maria in Campidoglio a Colonia (1050 circa), cassettoni dipinti del soffitto della chiesa di Zillis (Grigioni; 1150 circa), affreschi a Saint-Martin-de-Fenollard (1115 circa). 

Dal XIV secolo, la devozione francescana, influenzata dalle visioni di Brigida di Svezia, e il gusto medievale per i particolari familiari hanno adattato l'iconografia della natività al sentimento del tempo, umanizzandola, ma anche svuotandola della sua carica dogmatica. Dopo Hugo van der Goes (Adorazione dei pastori, 1480 circa) e Rembrandt (1646), ci si dovette accontentare della folcloristica stalla di Natale. 

L'interesse per l'infanzia di Gesù, avvertito sin dagli albori del cristianesimo, fu integrato con i racconti apocrifi, ispirando in questo periodo una quantità mai vista prima di raffigurazioni (miniatura del 1440 circa nel Libro d'ore di Caterina di Cleve, con il bambino Gesù che impara a camminare; coronamento del ciclo dell'infanzia di Bening, 1530 circa, con Gesù bambino che prega mentre Maria cuce; dipinto di Strigel del 1500 circa, con la sacra famiglia nella bottega di Giuseppe). Questo tipo di immagini sopravvive nelle piccole stampe devozionali (per esempio, L'interieur de Nazareth, 1855 circa, da Parigi: Gesù bambino cura i fiori sotto l'occhio vigile dei genitori) e in alcune opere dei preraffaelliti (Millais, Gesù in casa dei suoi genitori, 1849-50). 

Dal XIII al XVI secolo, le monache giocavano con piccoli Gesù, che vestivano e cullavano: filiazione distorta della classica mistica della sposa (Gesù bambino ligneo e culla, Utrecht, Catharijneconvent). 
L’unico avvenimento noto dell'infanzia, Gesù dodicenne nel tempio (Lc 2, 41-50), è raffigurato, in età paleocristiana, in due importanti serie: nel dittico eburneo milanese della seconda metà del V secolo e in una pagina della Bibbia di Agostino (fine del VI). Il battesimo di Gesù nel Giordano, archetipo del battesimo di ogni cristiano, è stato raffigurato innumerevoli volte.


LA RISURREZIONE

La resurrezione non viene raffigurata prima del IX secolo: nessun occhio umano l'aveva vista. L'evoluzione iconografica segue strade diverse in Oriente e in Occidente. Inizialmente, la scena delle donne al sepolcro (già nella domus ecclesiae di Dura Europos, III secolo) fu l'unica allusione alla resurrezione. 

L'avvenimento mistico della discesa all'inferno, penetrato in raffigurazioni probabilmente siriane dei secoli VIII e IX (per esempio, croce reliquiario di Fieschi, VIII secolo) attraverso la patristica grecosiriana (V secolo) e accolto nell'esperienza della fede, sostituì gradualmente, in Oriente, la raffigurazione delle donne, mentre in Occidente venne ad affiancarla; qui, le donne al sepolcro continuarono a comparire nei cicli. 

In Occidente - in Oriente mai - si cominciò gradualmente a rappresentare la resurrezione stessa. Ciò avviene per la prima volta nel IX secolo, come in una visione contemplata da Davide (Salterio di Utrecht, 820-830 circa: cfr. Sal 19). Più avanti, sono possibili diverse soluzioni: Gesù si desta nel sepolcro, sorge da esso o vi sta accanto. A partire dal XII secolo, l'episodio viene raffigurato in termini realistici. 

Con il petto scoperto a mostrare la ferita sul costato e con l'asta della croce (quella della discesa all'inferno) tra le mani, il risorto esce dal sepolcro, la cui pietra di chiusura è spostata lateralmente. In alcuni casi, sono presenti degli angeli in atteggiamento riverente. 

Le guardie dalle epoche più antiche, allusione al paganesimo sconfitto (rilievo di alabastro nella cattedrale di Ripon, Inghilterra, 1400 circa: Gesù poggia il piede su uno di essi) - sono addormentate o spaventate: smalto del Maestro di Verdun, XII secolo; miniatura della bottega del Maestro di Sarum, XIII secolo; tavola di anonimo spagnolo del XIV secolo, Parigi, Louvre (Maria osserva in atteggiamento riverente), scultura dei Paesi Bassi settentrionali, 1500 circa, Amsterdam, Rijksmuseum. 

Spesso l'episodio è ambientato in un ameno paesaggio e accompagnato da avvenimenti secondari, come l'apparizione a ~ Maria Maddalena (Albert Bouts, probabilmente prima del 1476, L'Aia, Mauritsbuis). Gli artisti barocchi raffigurano Gesù fluttuante sopra il sepolcro in un alone di luce, oppure circondato da angeli (El Greco, 1570 circa). Nel 1639, Rembrandt dipinge un angelo che apre il sepolcro.

Intorno al 1640 anche Benjamin Cuyp, nel rispetto della tradizione più antica, non raffigura Gesù, ma una luce sfolgorante. Chagall crea una sua personale iconografia: il pittore stesso assiste alla Resurrezione presso il fiume (1947); la gouache con la resurrezione del 1958 è come una festa intorno al crocifisso, paragonabile alla Crocifissione bianca (tela, 1938)

 

LA SAMARITANA

L'episodio più rappresentato 

Il racconto della Samaritana è di gran lunga il più rappresentato nell'iconografia. A Sichar in Samaria, presso il pozzo di Giacobbe, Gesù incontrò una donna samaritana, popolo che gli ebrei non vedevano di buon occhio. Con sua grande sorpresa, egli le chiese da bere: si aprì allora un dialogo durante il quale Gesù sembrò vedere nell'animo della donna e le parlò dell' “acqua viva" che egli offriva. 

Già dalla domus ecclesiae di Dura Europos (affresco della metà del III secolo), i cristiani affrontano il tema della samaritana, insieme a quello della rupe di Mosè, come simbolo dell'acqua che dona la vita, così come il miracolo di Cana e la moltiplicazione dei pani lo erano del pane della vita. Una doppia carica simbolica, dunque, nell'allusione al battesimo e alla bevanda di vita. 

Il motivo iconografico è semplice: una donna con un secchio presso un pozzo, vicino al quale sta Gesù, seduto o in piedi. Questo schema non ha mai subito mutamenti sostanziali; cambiano soltanto le figurazioni accessorie: il paesaggio e gli apostoli (che, nel racconto evangelico, compaiono in un momento successivo). 

Per l'età tardoantica, si vedano la pisside eburnea del 500 circa conservata al Louvre, una miniatura del 586 nel Codice Rabula e un avorio egiziano del VI secolo (Gesù con il bastone con la croce, che indica la funzione redentrice dell'episodio); per il Medioevo, un rilievo del 1020 circa sulla colonna di Bernward nel duomo di 5. Biagio a Hildesheim, un capitello del 1150 circa a San Juan de la Pena e un affresco del 1385 circa nella foresteria del monastero di S. Giovanni a Strakonice (Repubblica Ceca). 

Risalgono al Rinascimento una tavola di Martorel (1449 circa), un gruppo ligneo nella chiesa di Zyfflich (1500 circa) e la devota tavola di Joest van Kalkar (1505-08; Kalkar, chiesa di 5. Nicola); di epoca successiva è un dipinto di Paolo Veronese (1560 circa). Rembrandt si interessa soprattutto al rapporto tra Gesù e la donna (acqueforti 1634 e 1658; disegno 1648-49 e dipinti 1655 e 1659). Con rare eccezioni, il soggetto scompare nel corso del XVIII secolo (Dyce, dipinto del 1860 circa).

 

LA TRASFIGURAZIONE SUL MONTE TABOR

Rientra fra le grandi teofanie (manifestazioni di Dio) del Nuovo Testamento. 

La trasfigurazione sul monte Tabor rientra fra le grandi teofanie (manifestazioni di Dio) del Nuovo Testamento. Una volta che Gesù si era ritirato su un'alta montagna (secondo la tradizione, il monte Tabor) con Pietro, Giovanni e Giacomo, la sua persona fu trasfigurata da una luce abbagliante, apparvero i due grandi esponenti del Vecchio Testamento, Mosè ed Elia, e risuonò una voce che defini Gesù "mio figlio, l'eletto". 

Al termine dell'avvenimento, di cui i discepoli non compresero la portata, Gesù domandò di non farne parola fino alla sua resurrezione. Discesi dal monte, Gesù guarì un fanciullo epilettico. In Oriente, l'episodio è celebrato con un'importantissima festa liturgica: quella della "metamorfosi". 

La prima raffigurazione dell'episodio compare, secondo lo schema classico completo, nell'abside del monastero di S. Caterina sul monte Sinai (565-566): Gesù fluttua in un alone luminoso su un monte appena accennato; dalla sua figura partono sette raggi (nominati in un inno liturgico); alla sua destra e alla sua sinistra stanno Mosè giovane ed Elia vecchio, che compiono il gesto dell'eloquenza. Sul monte giacciono gli apostoli: Pietro, che indica Gesù, Giacomo, che si rialza a fatica, e Giovanni che si copre il volto con il mantello. 

Questa composizione fissa definitivamente l'iconografia dell'episodio per quanto riguarda l'Oriente (icona musiva, inizio del XIII secolo). L’Occidente trovò alcune soluzioni leggermente diverse (in un evangeliario di Colonia dell'XI secolo, Gesù, Mosè ed Elia stanno sul monte, mentre gli apostoli - anche qui nelle pose descritte sopra - si allontanano; così anche Baldovinetti: tavola della seconda metà del XV secolo). 

Generalmente, tuttavia, ci si attenne al modello orientale (gruppo statuario del Gagini nel duomo di Mazara, 1515 circa; dipinto di Terwesten nella chiesa cattolica di S. Agostino all'Aia, 1730 circa; quattro dipinti di Pino, 1578 circa; affresco del Cesi nella Certosa di Bologna, 1615 circa); Raffaello (1518-20) vi aggiunse la guarigione del fanciullo. Dal punto di vista tipologico, l'episodio veniva collegato alla consegna della legge a Mosè sul Sinai (affresco del XIII secolo nella chiesa di S. Maria Lys a Colonia).

 

LA VIA DELLA CROCE

La via della croce inizia con la scena di Gesù che porta la croce sui sarcofagi della passione, per assumere proporzioni grandiose verso la fine del Medioevo. Sui sarcofagi della passione, Gesù porta la croce in maniera trionfante, accompagnato al massimo da un soldato (Gv 19,17; sarcofago nei Musei Vaticani; avorio della metà del IV secolo, Londra). 

Anche alla via crucis vengono aggiunti diversi particolari curiosi: ragazzini che lanciano pietre (2 Re 16, 6: Multscher, pala d'altare di Wurzach, 1437); folla variopinta sulle mura della città (Sal 69,13: Andrea da Firenze 1366-68; pala d'altare del 1500-20 circa in Saint-Denis a Liegi; gruppo ligneo del 1520 circa, Utrecht, Catharijneconvent); pietre, spine e cardi disseminati sulla strada (Ct 2, 2 e Gn 22,13: Maestro dell'Altare di Halepagen nella chiesa di S. Pietro a Buxtelbude, 1500-10); e, da Is 53, 7, la posa di Gesù come agnello condotto al sacrificio (Maestro dell'Altare di Hersbruck, 1490 circa: i carnefici tirano Gesù per una corda). 

La fantasia si spinse tanto avanti da interpretare come strumenti della passione persino i fardelli imposti dai farisei (Mt 23, 4: burden nei testi del tardo Medioevo nederlandese). La parola nederlandese burd (bord, "carico", ma anche "piatto di legno") veniva collegata alle strisce con ricami puntiformi (ora interpretati come chiodi) all'orlo della veste di Gesù sacerdote nelle raffigurazioni medievali della passione (miniatura nel ms 9081-82 della fine del Medioevo conservato nella Bibliothèque Nationale di Bruxelles). 

Dalla combinazione di questi burden con i punti del ricamo nacque la raffigurazione di due piatti di legno pieni di chiodi attaccati ai piedi di Gesù (Derick Baegert, tavola del 1480 circa a Mùnster, Landesmuseum). I piatti con i chiodi compaiono persino tra gli arma Christi (piccolo trittico di Goos van der Weyden, 1507, Anversa, Kon. Museum voor Schone Kunsten) e furono curiosamente accolti nella collezione di reliquie del cardinale Alberto di Brandeburgo, custoditi in un reliquiario appositamente realizzato (1526-27, Aschaffenburg).

 

L'ASCENSIONE

L'ascensione, considerata il momento conclusivo della vita terrena di Gesù, ha costituito a lungo il coronamento di molti cicli con questo soggetto. Prima del V secolo, l'avvenimento in sé non viene raffigurato, ma vi si allude con l'ascensione al cielo di Elia (2 Re 2). Da quel momento in poi, si sviluppano due schemi dell'ascensione, ciascuno con sfumature proprie: Gesù è tirato verso l'alto dalla mano diJahwèh (avorio, V secolo; miniatura dell'Evangeliario di Bernward, 1011-14), oppure sale assiso in maestà entro un'aureola raggiata sorretta da angeli (reliquiario e ampolle anteriori al VII secolo nei Musei Vaticani e nel Tesoro del duomo di Monza; miniatura del Codice Rabula, 586). 

In quest'ultimo schema, sotto la figura di Gesù, in un paesaggio alberato è raffigurata Maria, con le mani levate nel gesto della preghiera e affiancata da sei apostoli per lato (personaggi che rappresentano la Chiesa che rimane sulla terra). Essi guardano in alto pieni di meraviglia, gesticolano oppure ascoltano due uomini celesti che spiegano l'avvenimento. 

In generale, questo schema influenza tutte le raffigurazioni dell'ascensione posteriori, come quella sul timpano di Monceaux-l'Étoile (Saòne-et-Loire; XII secolo). Dal XII secolo, si osservano due cambiamenti. Poiché si cominciò ad accentuare il monte (Mt 28, 16), il gruppo dei personaggi rimasti a terra fu diviso in due, generalmente con Maria alla testa del gruppo di sinistra e Pietro a destra (miniatura dell'Evangeliario di Reichenau, XII secolo). 

La nube che solleva Gesù (At 1, 9) acquista un'importanza maggiore e, sotto l'influsso del gusto per le speculazioni cosmiche tipico del XII secolo, si trasforma in una sorta di macchina con diversi strati di cieli e angeli, spesso resa in modo tale da lasciare intravedere soltanto i piedi e il bordo della veste di Gesù (pittura a secco del XIV secolo nella chiesa di Sint-Salvius a Limbrichì; miniatura del 1440 circa nel Libro d'ore di Caterina di Cleve; Dùrer, xilografia della Piccola Passione, 1511). 

In alcuni casi, lo schema si amplia fino a occupare un'intera facciata: così nel fregio di Saint-Génis de-Fontaine (1019-20), nei rilievi di Angouléme (prima metà del XII secolo), nel mosaico sulla facciata di 5. Frediano a Lucca (1200 circa). In epoca rinascimentale e, soprattutto, barocca, si ricorre a tutti i mezzi per dare risalto alla maestà di Gesù: cortei di angeli e fasci di luce (Mantegna, 1488 circa; Rembrandt, 1636). Nelle icone, che seguono il secondo schema, i messaggeri celesti vestiti di bianco indicano l'ascesa di Gesù al cielo (icone russe del XVI secolo). Von Uhde (1897) sottolinea la separazione di Gesù dagli apostoli.

 

L'ASPETTO DI GESÙ

Agostino: non sappiamo quali fossero le sue sembianze. 

L’unica verità sull'aspetto di Gesù si trova in Agostino: non sappiamo quali fossero le sue sembianze. Ogni ipotesi - da quella fondata su Is 53, 2-3, secondo la quale sarebbe stato brutto, a quelle che lo vogliono piccolo di statura, d'aspetto giovanile e dotato di una bellezza straordinaria - è priva di fondamento. 

Sin dalle prime raffigurazioni - che compaiono esitanti e non prima del III secolo - Gesù è presentato o giovane e imberbe, secondo un ideale di bellezza tardoantico, oppure di età maggiore, adulto, con barba ora tonda, ora a due punte. Insieme con alcuni altri esempi del VI secolo menzionati da Teodoro Anagnostes (Historia ecclesiastica, 530 circa) e da un anonimo piacentino (Itinerario, 570 circa), il ritratto di Abgar, che contribuì a definire la fisionomia di Gesù nelle icone, è una delle prime indicazioni di un suo presunto ritratto storico. 

Una leggendaria descrizione nei minimi particolari del volto di Gesù e dei tratti che esprimono il suo carattere si trova nellalettera di Lentulo>/I> (1100 circa), con la quale l'autore, predecessore di Pilato, riferisce al senato romano su Gesù e ne descrive l'aspetto esteriore. A questa lettera spuria fu attribuita tanta importanza, che essa determinò la ritrattistica (occidentale) di Gesù dal XV secolo fino al periodo neogotico (tavola della fine del XV secolo con lettera e ritratto, Utrecht, Catharijneconvent). Se ne ritrovano le tracce fino nell'arte moderna, la quale peraltro parte da una concezione più libera e personale.

 

LE TENTAZIONI NEL DESERTO

I primi cristiani non rappresentano la tentazione nel deserto.

I primi cristiani non rappresentano la tentazione nel deserto, da sempre interpretata come il deciso rifiuto da parte di Gesù il Messia di qualsiasi ambizione mondana, come le tre che gli presentò il diavolo. La prima miniatura con questo soggetto compare nel Vangelo di Kells (VIII secolo). L'avorio di Metz (850 circa; con un ciclo dell'infanzia) raffigura la prima tentazione (le pietre-pane) sotto un rigoglioso albero del deserto. 

Nel Medioevo, le tre tentazioni sono raffigurate in registri sovrapposti o affiancati (Evangeliario di Grosz Sankt Martin proveniente da Colonia, 1230 circa; Bruxelles, Koninlilijke Bibliotheek); oppure, una sola tentazione contenente allusioni alle altre (rilievo di Bonanno Pisano sulle porte bronzee del duomo di Pisa, 1180) o, ancora, una sola, generalmente la prima (capitello del XII secolo a Plaimpied, Cher, unico nel suo genere). 

Sui capitelli si accentua la mostruosità del diavolo (Saulieu, XII secolo). Dalla fine del Medioevo, il soggetto offre spesso lo spunto per rappresentare ampi paesaggi e scene drammatiche (Van Alsloot e De Clerck, 1611; Stròber, 1781). In alcuni casi l'accento cade tutto sugli angeli serventi dopo la tentazione (Van Oostsanen, 1500 circa). 

Il disegno di Rembrandt del 1640-42 con un paesaggio rigoglioso presenta un diavolo caricaturale, carattere ancor più accentuato in un altro disegno, raffigurante la terza tentazione, del 1650 circa. Nel XVIII secolo, il soggetto scompare quasi interamente. All'inizio del XX secolo, Picasso gli dedica, con un disegno, una delle sue rare opere a soggetto biblico. 
Dei dialoghi narrati all'inizio del quarto vangelo (Gv 3-4), importanti dal punto di vista teologico, sono quello con Nicodemo e quello con la samaritana.

 

L'INCORONAZIONE DI SPINE

Nel resoconto della passione, l'incoronazione di spine e la derisione avvennero per iniziativa dei soldati romani del pretorio di Pilato. La raffigurazione dell'episodio comincia a comparire soltanto nel Medioevo, a parte il motivo sui sarcofagi paleocristiani della passione in cui un soldato tiene sul capo di Gesù, già caricato della croce, una corona d'alloro (metà del IV secolo).

Nella maggior parte dei casi Gesù è raffigurato frontalmente, seduto o in piedi, mentre uno o più carnefici gli pongono sul capo la corona di spine (Holbein il Vecchio, tavola dell'Altare della passione per la Kreuzkirche di Augusta, con dodici scene; 1499 circa). All'inizio dell'XI secolo, compaiono diversi carnefici con bastoni, due a due, che spingono con forza la corona sul capo di Gesù. 

Questo motivo si mantiene fino a molto dopo la fine del Medioevo (Breu il Vecchio nel monastero di Melk, 1510 circa; Tiziano 1570 circa; Van Heemskerck 1570, Haarlem, Frans Hals Museum). Con la Piccola Passione del 1511, Dùrer crea un nuovo tipo: Gesù è seduto di profilo al margine della figurazione, mentre un carnefice gli pone sul capo la corona di spine e altri lo deridono, sotto lo sguardo dei sacerdoti. Lo schema ebbe molto seguito: 

fu ripreso, tra gli altri, da Aertgen van Leyden (disegno, 1530 circa) e Van Baburen (dipinto del 1623, Utrecht, Catharijneconvent). La tavola di De Keyser che si conserva nello stesso museo (1637), raffigurante il momento precedente la flagellazione, è un esempio iconografico unico di Gesù che soffre da solo. Il soggetto scompare nel XVIII secolo. 

La derisione, che in realtà è un momento dell'incoronazione di spine, compare anche come soggetto autonomo (Hieronymus Bosch, 1515 circa, Rotterdam, 'Museum Boymans-Van Beuningen; Rembrandt, disegno, 1625-55; Rouault, 1932). L’episodio non va confuso con quello della derisione da parte degli ebrei che presero Gesù in consegna dopo la cattura (miniatura nel Libro d'ore di Caterina di Cleve, 1440 circa, da Lc 22, 63-64: l'uomo che suona il corno a destra, raffigurato in molte scene della passione, è ripreso da Nm 10, 10). 

Dall'applicazione del testo di Is 63,1-6 ai momenti della derisione e dell'incoronazione di spine deriva l'iconografia mistica di Gesù pigia nel tino. Già usata nell'antichità (Giustino, 150 circa), la metafora fu raffigurata, spesso con grande ricchezza di particolari, dal XII secolo e per tutto il Medioevo (per esempio, dipinto del 1108 circa nella chiesa di Kleinkomburg e tavola del Maestro di Breslavia del 1486-87). 

La grossa trave del torchio ha spesso la forma della croce, e il sangue di Gesù è raccolto in un calice (pittura murale nel convento dei francescani di Cracovia, 1450 circa, con scene della passione e una raffigurazione della messa; dipinto di Meinardi in 5. Agostino a Cremona, 1594, con sant'Agostino che raccoglie il sangue). Talvolta il soggetto è inserito in una grande allegoria (tavola della scuola di Jan van Eyck con la "fontana della vita", 1444-47, Madrid, Prado).

 

'L'ULTIMA CENA' DI LEONARDO DA VINCI, L'EUCARISTIA E IL CENACOLO: UNA LETTURA TEOLOGICA

card. Dionigi Tettamanzi Milano - Museo Diocesano, 3 maggio 2005

'L'Ultima Cena' di Leonardo da Vinci, l'Eucaristia e il Cenacolo: una lettura teologica 

Introduzione

Iniziamo con un interrogativo: Che cosa sarebbe il mondo occidentale e orientale senza l'arte cristiana? Che cosa sarebbe senza il potere trasfigurante delle chiese, delle cattedrali, delle icone, degli arredi sacri e delle suppellettili liturgiche, delle produzioni pittoriche, musive, scultoree, musicali e corali? L'interrogativo è del tutto pleonastico, perché la storia della Chiesa e della stessa società è profondamente e indelebilmente segnata dall' intreccio vivo tra la fede e la cultura, tra la fede e l'arte, tra la rivelazione di Dio e le forme concrete con cui l'uomo si apre e accede alla trascendenza e al sacro. 
Ciò trova un' espressione singolare in riferimento al! 'Eucaristia, cui - come sappiamo - quest'anno in una maniera particolare va l'attenzione della Chiesa, sia universale e italiana sia della nostra Diocesi. Una simile attenzione comporta anche una rinnovata considerazione e una più convinta valorizzazione del rapporto fecondo tra il mistero del Corpo e del Sangue del Signore e il linguaggio artistico. 
L'Eucaristia è stata ed è il motore segreto di una trasformazione culturale che esprime, per così dire, il vertice della gratuità e dello splendore della vita cristiana. E l'arte, quale segno luminoso del cuore credente della Chiesa, è quasi la teca preziosa che racchiude la ricchezza di quel dono incomparabile di Dio che è l'Eucaristia. 
Nel contesto di quest'anno eucaristico, come potevamo dimenticare di avere a Milano un'immagine dalla bellezza ineguagliabile per dire e annunciare l'Eucaristia di Gesù? Era necessario, dunque, trovare un' occasione in cui ripercorrere, con l'ammirazione dello sguardo e con l'intelligenza della fede, il capolavoro di Leonardo da Vinci, il Cenacolo, custodito nel refettorio del Convento dei Domenicani di Santa Maria delle Grazie. 
In questo senso, desidero ringraziare il Museo Diocesano - e nella persona del suo presidente, monsignor Luigi Crivelli, vorrei che tutti i collaboratori si sentissero personalmente ricordati - per avere organizzato questa serata, all'interno di una più ampia serie di conversazioni all'incrocio tra arte e teologia. 
lo stesso mi sento in qualche modo un po' responsabile di questa iniziativa, perché lo scorso 17 settembre, inaugurando il nuovo allestimento del Museo Diocesano, avevo rivolto l'invito a «promuovere uno studio sempre più approfondito e chiaramente orientato ad una "intelligenza credente" delle opere artistiche: uno studio capace di dischiudere i grandi tesori della rivelazione cristiana e della spiritualità, favorendo l'incontro e il dialogo tra il mondo della storia e delle arti e quello della teologia, della spiritualità e della liturgia» (Il Museo Diocesano: scrigno di bellezza e di fede: in «Rivista Diocesana Milanese» 2004, p. 969). E così, quando mi è stato rivolto l'invito ad intervenire in prima persona a questa iniziativa, non ho potuto esimermi dall'accoglierlo; anzi mi sono sentito in dovere di arrischiare una meditazione teologico - artistica, nella convinzione allora dichiarata che «occorre studiare e tentare nuove vie per rinnovare l'annuncio della fede attraverso il nostro patrimonio artistico» (ivi). 
Prima però di iniziare la meditazione vera e propria vorrei spendere ancora qualche parola, in generale, sul rapporto tra fede e cultura e poi, in particolare, su di una sua interessante, luminosa declinazione ad opera di un mio illustre predecessore, il cardinale Federico Borromeo. 

Fede, cultura e arte

Ogni generazione è chiamata a rileggere il proprio patrimonio artistico - e questa sera noi lo facciamo con quel capolavoro del genio leonardesco che è il Cenacolo - per essere culturalmente viva e feconda e per riconoscere come la fede sia un vero, potente e specifico fermento di trasformazione della cultura. 
In realtà, quando sa aprirsi al destino trascendente dell'uomo, la cultura trova una forza espressiva capace di dire l'inenarrabile racconto del dialogo tra l'uomo e Dio. O, meglio, il racconto di Dio che con amore assolutamente gratuito viene incontro all'uomo per prenderlo per mano, per portarlo e condurlo fino a sé. 
La parola della fede, in perfetta coerenza con la logica dell'Incarnazione, ossia del Figlio di Dio che si fa uomo, si è sempre alimentata alle risorse della cultura e dei linguaggi umani. 
Arte e fede: ecco un rapporto che deve essere rinnovato e deve ritrovare un proprio posto nella missione evangelizzatrice della Chiesa. 
Dobbiamo riconoscere che la teologia odierna è sempre più orientata e attrezzata a disegnare i tratti di quella che viene chiamata "estetica teologica". Veramente esemplare, al riguardo, è l'opera magistrale di Hans Urs von Balthasar, che il compianto Giovanni Paolo II volle nominare cardinale pochi giorni prima che il teologo svizzero morisse. 
Lo splendore del bello, la percezione e l'importanza del lato gratuito dell'esistenza che il bello rivela e cui esso educa, sono un antidoto forte e decisivo all'attuale "deriva funzionale" di una società che pone al centro l' homo faber, l'homo oeconomicus. Ma chi legge in profondità il cuore umano, non fatica a riconoscere che l'uomo, se si limitasse a produrre e trasformare, a calcolare e misurare, ad ammassare e consumare, finirebbe per "morire" - sì, per morire: tornano alla mente le parole di Gesù: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita» (Luca 12, 20) -: muore, infatti, nella sua autentica umanità chi non percorre il sentiero dell' homo viator, dell'uomo pellegrino dell'assoluto. Il bastone che sostiene l'uomo, la meta che suscita e orienta il cammino umano non possono essere che il senso della gratuità e della bellezza. Il bello, nel suo riferimento forte alla vita personale e sociale, ne è come lo strumento di conoscenza. E la percezione delle forme della vita trova nello splendore della gratuità la pista di lancio e la via nobile per accostarci al mistero di Dio. 
Il bello, di cui parliamo, è la forma e il senso dell'esistenza, che affiora nell’incanto del creato e nella fecondità degli affetti come promessa di felicità; è la luminosa rivelazione dell'altissima dignità dell'uomo, di ogni uomo, come vocazione al suo compimento in Dio; è la gloria divina che brilla nella carne piagata e gloriosa di Cristo, il Signore crocifisso e risorto, suprema rivelazione dell'amore di Dio, che si dona in assoluta gratuità all'uomo. Sì, il mistero di Dio non può essere incontrato senza venir rapiti da questo duplice movimento: quello dell'amore divino che si rivela e quello del desiderio dell'uomo che incontra colui che solo può veramente riempirgli il cuore! 

La pastorale dell'arte e il cardinale Federico Borromeo

Nell'intreccio fede, cultura ed arte nella storia della nostra Diocesi occupa un posto particolare il cardinale Federico Borromeo. Infatti, questo straordinario testimone del dopo - concilio di Trento e della riforma cattolica, sulle orme del grande Carlo Borromeo, sentì urgente il bisogno di promuovere un fecondo connubio tra la fede e l'arte. Le grandi verità della coscienza cattolica non potevano essere difese solo con lo strumento forte della teologia e della controversia, ma anche con le armi della cultura e dell'arte. Il suo programma pastorale volle raggiungere non solo l'intelligenza degli uomini, ma anche il cuore, o meglio, quel punto sintetico dove tutto si raccoglie che sono il senso del bello e la curiositas culturale (cfr. Pamela M. JONES, Federico Borromeo e l'Ambrosiana, Vita e Pensiero, Milano, 1997; da questo volume prendo le citazioni dei testi del Borromeo). 

La Biblioteca Ambrosiana, fondata nel primo decennio del Seicento, fu arricchita nel 1618 dal Museo e nel 1620 dall'Accademia delle Belle Arti. Così egli scriveva: «Per nessun'altra ragione fu fondata la presente Accademia di Pittura, Scultura e Architettura, se non per aiutare gli artisti (artifices) a realizzare opere per il culto divino, migliori di quelle che si fanno attualmente» (Leges observandae in Accademia, quae de graphide erit, pp.1-2). Come si vede, l'amore per le arti figurative è un tratto significativo della ricca personalità di Federico, una componente non secondaria della sua vasta cultura. Per questo egli scrisse un De Pictura sacra (1624) e l'opera Musaeum (1625), quasi gioielli incastonati sul grande portale della Biblioteca Ambrosiana. 
Il Cardinale concepiva questo interesse come attuazione dei dettami del Concilio di Trento: «Confido - così scrive - nell'ubbidienza... ai decreti del Sacro Concilio di Trento che impone ai vescovi di insegnare al popolo le verità della fede e della storia sacra, non solo con le parole, ma anche con la pittura e con qualunque altra rappresentazione che sia capace di risvegliare la sensibilità dell'anima e i sentimenti dei fedeli ai misteri della religione» (De Pictura sacra, p. 3). Egli sentì questo non come l'opera di un erudito, ma come parte del suo magistero. 
Interessante, al riguardo, è il parallelismo che stabilisce nel suo trattato De Pictura sacra tra l'oratore sacro e il pittore sacro: e l'uno e l'altro sono partecipi del programma pastorale del Concilio, quello cioè di difendere e di promuovere la dottrina cattolica, influendo sugli uditori e sui fruitori, per introdurli alla visione cattolica con tutte le risorse della cultura umana. 
Nell'altra opera, Musaeum, il cardinal Federico ha voluto trasmettere la sua passione di collezionista, facendoci conoscere le preferenze che lo guidarono nel costruire il Museo che affiancò alla Biblioteca. È qui che si inserisce il suo gesto di far dipingere dal Vespino una copia del Cenacolo vinciano, quando ne osservò il grave stato di deterioramento. Ecco le parole del Cardinale: «Fui preso da un'ardente brama di salvare quel capolavoro per quanto umanamente possibile». Il fascino dell'opera - sono sempre sue parole - sta «nella rappresentazione e nella varietà degli affetti».

Federico, perciò, non apprezzava il capolavoro di Leonardo solo dal punto di vista estetico, ma anche sotto il profilo dottrinale e storico - religioso, perché vedeva nel Cenacolo rappresentato non tanto il rito dell'Eucaristia, ma il suo momento seguente, il momento nel quale Cristo manifesta il senso dell'Ultima Cena nel dramma del rifiuto e del tradimento, che tocca persino il cuore dei suoi discepoli. Apprezzava che Leonardo - del resto in continuità con la tradizione bizantina e con l'iconografia medievale - non rappresentasse il rito dell'Ultima Cena, bensì il momento più drammatico della rivelazione del traditore. Il dipinto era come l'eco della cena pasquale e si sposava perfettamente con l'ambientazione nel refettorio del Convento, dove la cena eucaristica celebrata nella chiesa delle Grazie trovava la sua irradiazione nella cena fraterna, con il silente ed eloquente monito che quest'ultima non divenisse la contraffazione della verità del rito. 

Un percorso meditativo seguendo l'intuizione del Borromeo 

Ora è a partire dalla descrizione fatta da Federico che possiamo trovare il canovaccio della nostra meditazione teologica. Così afferma il mio grande predecessore: «Il suo [di Leonardo] merito maggiore sta nella rappresentazione e varietà degli affetti... L'artista non ha espresso solo la sofferenza e le lacrime - come chiunque sarebbe stato in grado di fare -, ma ha raffigurato i moti dell'animo insieme a quelli del corpo, perché chi guarda attentamente il dipinto ha l'impressione di udire le parole che si scambiano tra loro, mentre il Salvatore aveva appena finito di pronunciare quel terribile colui che ha intinto la mano nel piatto costui mi tradirà» (Musaeum, p. 28). 
Proprio questa bella citazione di Federico Borromeo ci fornisce, dunque, la trama del racconto che tesse la riflessione teologico - artistica sull'Ultima Cena di Leonardo. 
Dinanzi alla forma del racconto evangelico, il pittore sperimenta una povertà radicale. Egli non può disporre della distensione temporale, ossia delle risorse di un racconto che si snoda nel tempo e che, dunque, ha un prima e un dopo. Egli deve, piuttosto, fermare in qualche modo un'istantanea della scena, senza però cadere nella trappola di impoverire il racconto, di appiattirlo, di raffigurarlo in modo statico. È in questa prospettiva che, leggendo i commenti inviatemi dal prof. Pietro C. Marani e dal dottor Paolo Biscottini, direttore del Museo Diocesano, è sbocciata in me questa specie di intuizione, che vi comunico. L'Ultima Cena di Leonardo è un racconto che traduce in modo splendido, con le risorse proprie della pittura, il dispositivo narrativo del racconto evangelico. 

Federico Borromeo l'aveva capito perfettamente: come il racconto ha un lettore, così un affresco ha uno sguardo che lo legge e dal quale si lascia attrarre. La pittura ha un carattere atmosferico, serve a costruire un ambiente e a disporre gli atteggiamenti dell' animo di chi lo abita. La cena fraterna dei Domenicani deve essere plasmata dalla cena liturgica dell'Eucaristia. Più precisamente, la carità fraterna deve lasciarsi ispirare dalla carità eucaristica. Al centro c'è il passaggio stretto e la drammatica del tradimento e di tutte le forme (i moti dell'animo) che lo rappresentano: la maldicenza, la noia, l'assuefazione, la solitudine, il contrasto, il conflitto e la violenza. Abitando quello spazio, lasciandosi prendere e forgiare da quella visione, il credente fa passare l'Eucaristia nella carità fraterna e, reciprocamente, alimenta di continuo la carità fraterna alla Cena del Signore. 
Per questo penso che il Cenacolo vinciano, se rappresenta come una sorta di ‘fermo immagine’ sulla parola di Gesù che rivela il tradimento e il traditore, non ferma però la scena. Leonardo la mette in movimento, non solo in rapporto allo sguardo di chi la contempla, ma anche in relazione alla vicenda che raffigura. Così la povertà della dimensione figurativa viene superata. Con un po' di audacia, potremmo dire che l'Ultima Cena di Leonardo è un racconto in tre momenti: il primo è la percezione della scena che fa ascoltare la parola rivelatrice di Gesù; il secondo è il cuore della scena che introduce nel mistero santo della dedizione di Gesù; il terzo è il movimento della scena che coinvolge i moti dell 'anima e del corpo di colui che abita lo spazio e contempla il Signore che si dona a noi nonostante il nostro rifiuto. 
In questo, penso, sta il genio di Leonardo: egli ha trasformato la pittura in racconto. E non solo perché, come dicono molti interpreti, la scena è attraversata da un brivido drammatico; ma anche e soprattutto perché introduce tutti noi nel dramma: il dramma dell'amore rifiutato, del tradimento dell'amico e dell'abbandono dei discepoli, e, infine, del turbamento di tutti che tocca gli affetti dell' anima e del corpo! Seguendo questi tre momenti del racconto pittorico, troveremo e percorreremo la strada anche per la nostra meditazione. 

La percezione della scena: la parola rivelatrice di Gesù 

La pittura di Leonardo ferma una scena del racconto evangelico, ma, come abbiamo detto, non appiattisce la narrazione. A differenza però del Borromeo che indica il "fermo immagine" di Leonardo nel momento della reazione dei discepoli, e in particolare di Giuda, alla parola di Gesù sul traditore che intinge nel piatto - in coerenza con la tradizione iconografica bizantina e medievale -, gli interpreti moderni sottolineano che il momento esatto rappresenta piuttosto l'annuncio del tradimento. 
Certo, la scena mostra poi quasi l'onda d'urto di questo annuncio sui discepoli presenti; ma l'emozione che suscita negli apostoli è incomprensibile senza ascoltare la parola di Gesù. E la parola di Gesù è ripresa secondo il vangelo di Giovanni, con assoluta precisione. 
Ascoltiamola: 
«Dette queste cose, Gesù si commosse profondamente e dichiarò: "In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà". I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: "Dì, chi è colui a cui si riferisce?". Ed egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: "Signore, chi è?". Rispose allora Gesù: "È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò". E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone. E allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui. Gesù quindi gli disse: "Quello che devi fare fallo al più presto". Nessuno dei commensali capì perché gli aveva detto questo; alcuni infatti pensavano che, tenendo Giuda la cassa, Gesù gli avesse detto: "Compra quello che ci occorre per la festa", oppure che dovesse dare qualche cosa ai poveri. Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte» (Giovanni 13,21-30). 

Osserviamo: la scena di Leonardo si riferisce solo alla prima parte del brano letto. Dopo la dichiarazione commossa e amarissima di Gesù: In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà, l'evangelista commenta: «I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: "Di', chi è colui a cui si riferisce?"». 
Qui si pone il "fermo immagine" di Leonardo. La parola rivelatrice di Gesù sul traditore si trasmette come una scossa sismica sui presenti: i discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse. L'onda d'urto, che Leonardo aveva descritto nei suoi studi, attraversa tutta la scena: ai lati dispone i discepoli in quattro gruppi di tre persone, al centro lascia Gesù, lo lascia al centro nella sua solitudine amorosa e dolente. Il pittore non propone l'episodio del Discepolo amato con il capo reclinato sul cuore di Gesù: ciò appartiene alla scena seguente degli affetti e delle emozioni che la rivelazione di Gesù suscita. L'immagine è fermata qui, ma è un'immagine in movimento che ha un prima e che chiede allo sguardo di chi contempla di entrare nella drammatica della parola rivelatrice di Gesù. 
Vorrei far notare come Leonardo riveli qui una profonda consonanza con la tradizione della comunità cristiana delle origini, che collocava i racconti dell'istituzione dell'Eucaristia nella notte in cui Gesù fu tradito. Tale notizia storica appartiene in modo indelebile al rito dell'Eucaristia. È da notarsi, infatti, che questa è l'unica circostanza ricordata nel racconto stilizzato dei Vangeli Sinottici e dell'apostolo Paolo: la notte del tradimento di Giuda e dell'abbandono dei discepoli. Questa è la rivelazione del cuore che la scena dell'Ultima Cena fissa in modo indelebile. Gesù resta a tavola e offre il suo Corpo donato e il suo Sangue versato anche a coloro che lo rifiutano. Si noti, il Corpo è già donato e il Sangue è gia versato nel gesto del pane spezzato e del calice condiviso, ma questo, invece di essere accolto come l'amore assoluto, suscita già nella cerchia dei discepoli incomprensione, tristezza, appannamento della mente e del cuore, abbandono e tradimento. 
Di qui la parola di Gesù. Essa appare, in prima battuta, una parola di giudizio e di rivelazione. Nei Sinottici si aggiunge: «Il Figlio dell'uomo se ne va, come è scritto di lui, ma guai a colui dal quale il Figlio dell'uomo viene tradito; sarebbe meglio per quell'uomo se non fosse mai nato!». Gesù ci dice che l'uomo, invece di accogliere il dono di Dio che si consegna a noi, tradisce, misconosce il dono, lo vuole trattenere per sé. Invece di trasmettere, tradisce. E nel testo biblico c'è questa stupenda coincidenza del verbo tradere (in greco paradidomi): il verbo, infatti, significa sia trasmettere, consegnare, donare che tradire, abbandonare, sfigurare. Gesù smaschera l'ambivalenza con cui gli uomini accolgono il dono di Dio: ci dice che essa è mortale, non solo perché rende "vittima" Gesù, ma anche perché produce morte attorno a noi. Lo sconcerto e il terrore che percorrono la scena sono, dunque, come un filmato che va visto e rivisto. 

Andiamo a visitare il Cenacolo di Leonardo e lasciamoci trascinare dentro il vortice della parola rivelatrice di Gesù, che smaschera tutte le nostre fughe, meschinità, pusillanimità, abbandoni, tradimenti. Esso rivela l'abisso del nostro cuore, la vischiosità dei nostri rapporti quando ci chiudiamo al dono di Dio. Guardate i volti di Pietro, Giovanni e Giuda nel primo trittico seduto alla destra di Gesù, ammirate il gioco delle mani di Tommaso, Giacomo e Filippo nel gruppo alla sinistra del Signore. E che dire dell'intensità degli sguardi di Bartolomeo, Giacomo e Andrea sulla sinistra del dipinto, e dell' interrogativo che anima le mani, i volti e il corpo di Matteo, Giuda Taddeo e Simone lo zelota, alla destra della scena? La parola di Gesù sul tradimento svela i cuori, attraversa come una lama di luce che dà risalto ai volti, alle mani, alla postura delle persone, che sono attraversate dalla luce luminosa del dono. Occorre lasciarsi sconvolgere dalla drammatica di questa parola di Gesù che, prima di manifestare noi a noi stessi, svela l'amore povero e indifeso di Gesù. 

Il cuore della scena: il gesto di dedizione di Gesù

Chi si lascia turbare dal "fermo immagine" di Leonardo, finalmente vede la pittura trasformarsi in racconto. Dopo lo shock iniziale, lo sguardo viene riportato al centro, viene fissato sulla figura dolce e dolente di Gesù. Lo spostamento, provocato dalla parola di giudizio verso il sommovimento tellurico dei corpi e degli affetti degli apostoli, ritorna a riposare sul centro della scena, per scoprirne il segreto, l'invisibile motore che muove il racconto: il gesto di dedizione di Gesù. 
Gli studiosi fanno osservare la ricerca tormentata di Leonardo, testimoniata dagli schizzi preparatori al dipinto, per disegnare le mani di Gesù. Ora le mani si richiamano a vicenda: l'una sembra indicare il traditore e l'altra aperta offre il dono, che è già avvenuto nel rito pasquale, ossia il pane spezzato e il calice condiviso. Il gesto delle mani allude a ciò che è invisibile agli occhi, ma che si vede solo con il cuore: l'inaudito amore che dona se stesso anche quando gli uomini rifiutano e tradiscono. 
I discepoli di Gesù, coloro che l'avevano seguito dall'inizio, sono ora di fronte al "caso serio" dell'amore di Dio che viene testimoniato nel corpo piagato e nel sangue versato sino alla fine. Ma essi si chiedono: sono forse io? Sono, dunque, più preoccupati di rispondere al sospetto che si è abbattuto su di loro, che non di accogliere il dono. Ma dovranno imparare che il dono guarisce anche la paura e il rinnegamento, la fuga e il tradimento. Proprio Pietro che chiede al Discepolo amato di strappare a Gesù il nome del traditore, quasi ad allontanare da sé ogni tenebrosa possibilità di rifiuto, dovrà tra non molto piangere amaramente il suo codardo rinnegamento. 
Così, se i quattro gruppi dei discepoli sono attraversati dall'ansia del dubbio, la figura centrale di Gesù, lasciata da Leonardo ieraticamente e dolcemente sola al centro della scena, ci fa riscoprire il segreto della dedizione di Gesù. Gli uomini discutono, ma il Signore non ritrae il suo amore. Noi lo rifiutiamo e lo barattiamo con il nostro orgoglio personale, ma lui rimane alla mensa con la mano aperta e con il viso pietoso e amante che ci fissa nel cuore e ci cambia la vita. Questo momento centrale che ci riporta a prima del momento tremendo della parola rivelatrice di Cristo, ci parla della sua cena ultima, del Corpo dato e del Sangue versato. Noi sussultiamo perché la sua parola ci ha trafitti, ma lui rimane con il suo gesto e il suo sguardo, quasi raccolto nell'icona del suo Corpo offerto che è il roveto ardente della scena. 

Ed ecco la vera rivelazione, di cui la parola tremenda di giudizio era solo la faccia che muove la mente e gli affetti, sconvolge il cuore e la vita. Quando noi lo tradiamo, quando lo rinneghiamo o siamo semplicemente indifferenti, Gesù non si sottrae, ma passa attraverso il nostro rifiuto, il nostro delirio di onnipotenza: passa e li scioglie dal di dentro con la sua morte, li trasfigura con la potenza disarmata e disarmante della sua vita donata "per noi e per tutti". Da "vittima" diventa "offerta", oblazione innocente "per la vita del mondo".
Gesù prende il nostro posto, quando noi fuggiamo dal nostro posto. Egli resta colui che non ci abbandona, mentre noi scappiamo dal suo amore. Questo è l'amore della Croce, perché nel volto turbato e sofferente di Gesù si rivela la carità del Padre e il soffio dello Spirito dell'amore. Ricordiamolo: l'amore di Gesù non è solo un amore più grande, ma è l'amore per l'amico che diventa nemico e per il nemico che rimane ostinato nel suo rifiuto. È la rivelazione del Padre, il bacio dello Spirito di carità. Il volto di Cristo è icona del Risorto, è il Corpo dato e il Sangue versato che sono trasfigurati e diventano principio di una nuova unità, della comunione che è la vita stessa di Dio. Il suo sguardo passa attraverso la tenebra del peccato, del rifiuto, del tradimento, dell'abbandono, per trasfigurarla nella luce abbagliante della vita dello Spirito. Ne fa, semplicemente, il "nuovo corpo" della Chiesa, della fraternità e della missione. 
Si comprende perché l'Eucaristia sacrificio fa l'Eucaristia convito (senza che si possa ridurre a un banchetto tra amici), e perché l'Eucaristia convito è il segno vivo dell'Eucaristia sacrificio (senza che diventi semplicemente uno che paga al posto di tutti)! E così ora possiamo, con le parole mirabili della liturgia, pregare: «fa' che adoriamo con viva fede il santo mistero del Corpo e del Sangue del Signore». Sì, al centro della scena, con le braccia aperte, appare non solo l'illuminazione dei cuori, ma la rivelazione dell'infinita carità di Dio! 

Il movimento della scena: i moti dell'anima e del corpo 

Ora possiamo tornare con fiducia al racconto del dipinto di Leonardo. 
Se tralasciamo il cuore della scena, i personaggi del racconto sono sorpresi, ma non parlano; sono colpiti, ma non trasformati. Il "fermo immagine" di Leonardo però racconta anche il seguito della scena e suscita in noi la risposta credente. Egli ci fa sedere alla mensa della parola e del pane, perché, quando entriamo nel cammino della passione, da discepoli timidi e dubbiosi possiamo diventare apostoli forti e coraggiosi. La concitazione della domanda "sono forse io? " diventa contemplazione, solo se ci fa abitare il Cenacolo come la casa dell'uomo perdonato, del volto ritrovato, dei moti dell' anima e del corpo riconciliati. 
Proviamo a immaginare il seguito della scena. Il pittore sa che chi vede il dipinto ha ascoltato tante volte il racconto evangelico. Ma la potenza dell'immagine lo spinge quasi a continuare le parole e le emozioni suscitate dalle luci e dai colori dentro la trama della sua vita. Allo stesso modo che il quadro ci porta a visitare le sequenze precedenti della narrazione evangelica, ci coinvolge anche per disporci ai momenti che seguono alla parola e al gesto di Gesù. Il Cenacolo vuole farci partecipare all'Ultima Cena di Gesù, vuole farci comunicare al suo Corpo donato e al suo Sangue sparso, per essere e per diventare la comunione dei credenti. 
Gesù non fa proclami, ma mette davanti ai nostri occhi uno stile di vita: si presenta come una figura esemplare. In tal modo la nostra contemplazione può fermarsi sul servizio di Gesù, per ricavarne i gesti, gli atteggiamenti, per imparare uno stile, per lasciarsi istruire e accendere nei moti dell'animo e del corpo. Sì, l'Eucaristia del Signore entra nella nostra vita per trasformare gli affetti e il corpo, anzi per farne propriamente il suo nuovo corpo, che è la comunione dei credenti, la Chiesa dalla pasqua. 

In particolare, possiamo intravedere tre fondamentali atteggiamenti di Gesù che «sta in mezzo a noi come uno che serve» e che tratteggiano il suo stile di vita, come paradigmatico di ogni suo discepolo. 
Anzitutto, la sopportazione eroica, fino all'ultimo, rispetto a Giuda: se lo tiene vicino e parla con lui come amico fino all'ultimo. 
C'è in Giovanni un'espressione audace e quanto mai eloquente che il Signore Gesù rivolge a Giuda quando viene con la sua banda per arrestarlo: «Disse loro: "Chi cercate?". Gli risposero: "Gesù, il Nazareno" ... "Vi ho detto che sono io. Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano". Perché s'adempisse la parola che egli aveva detto: "Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato"» (Giovanni 19,5.8-9). Mentre viene ricercato per essere ucciso, Gesù si preoccupa che i suoi siano lasciati liberi. Quando i suoi lo abbandonano, egli non li lascia soli. Anzi non vuole perdere "nessuno" di quelli che gli sono stati dati. Come non sentire una speranza tenerissima e infinita in questo "nessuno ", detto proprio dinanzi a Giuda e ai suoi persecutori? 

Inoltre, Gesù ricorre alla delicata e invitante persuasione, invece che al rimprovero amaro, per coloro che tradiscono, per coloro che non trasmettono il suo messaggio e il suo stile di vita ma litigano disputandosi il primo posto. 
È soprattutto l'evangelista Luca che sottolinea questo aspetto, mettendo a ridosso dell'annuncio del tradimento la discussione animata degli apostoli su chi fosse tra di loro il primo. «Sorse anche una discussione, chi di loro poteva esser considerato il più grande. Egli disse: "I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve"» (Luca 22, 24-27). Ai discepoli che si disputano il primo posto, Gesù indica il servizio come forma della comunione e della missione. Mi viene da chiedere: chissà quante volte coloro che sedevano a tavola nel refettorio avranno sentito risuonare la parola di Gesù nel bisbiglio dei discepoli sulla parete? E ne avranno sentito il disagio, quando il cuore non era capace di servire alla mensa dei fratelli e di aprire le porte alla carità? 

Infine, dobbiamo ricordare l'esempio decisivo della lavanda dei piedi fatta da Gesù. Con parole chiarissime, sprona i suoi così: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi». (Giovanni 13,14-15). 
Levandosi dalla tavola, i fratelli sanno che essa li fa passare dall'Eucaristia alla vita, sanno che la comunione fraterna è il motore della missione e che la missione è la verità della comunione. In tal modo il Cenacolo di Leonardo diventa icona delle nostre case, dove l'Eucaristia di Gesù si fa domestica e da lì parte per le vie della vita e della missione. Se nella Messa incontriamo il Signore dell'Eucaristia che ci fa il suo nuovo corpo, nelle case dobbiamo rendere trasparente, disponibile e sciolto questo corpo che è la Chiesa perché sia davvero segno vivo per tutti gli uomini. 
Il servizio cristiano, educato dal Cenacolo, è intessuto di gesti e di parole, di silenzi e di sguardi; è fatto di pazienza e di infinita e amorevole cura per il fratello. Chi ha sperimentato per sé e per la sua inquieta libertà di essere stato attratto, abbracciato, fasciato e penetrato dal Signore, come potrà dimenticarsi di questo quando parlerà e agirà con gli altri? Gesù forma i suoi discepoli stando in mezzo a loro come uno che serve, persuadendoli con amore, servendoli sino alla fine. Una fede che ha fatto l'esperienza di una consegna così, saprà essere anche capace di essere una fede testimoniale, ossia una fede che parla di un incontro e di un'accoglienza, una fede che sa consegnare senza possedere, trasmettere senza tradire, perché è stata toccata dallo stile di Gesù. 

In questo modo, la pittura ci rimanda al racconto, l'icona ci rinvia alla parola della Chiesa: anzi, fa della comunità fraterna, riunita nel Cenacolo vinciano per condividere la mensa, la comunità ecclesiale che è mandata nel mondo. Non dimentichiamo, al riguardo, che il Cenacolo è dipinto per i fratelli predicatori, per coloro che sono per definizione missionari. Essi non possono essere uomini della missione se non diventano ogni giorno uomini della comunione. 

La bellezza che salva il mondo

Al termine del percorso della nostra meditazione teologico - artistica, dobbiamo riconoscere che, lasciandoci condurre per mano dal dinamismo del Cenacolo di Leonardo, siamo stati affascinati, conquistati e in qualche modo rapiti nel circuito della vita della beata Trinità e nel dinamismo della vita dello Spirito. 
In questo senso vorrei riprendere la spiegazione che del meraviglioso incontro tra la fede e la bellezza ha dato il teologo, già ricordato all'inizio, Hans Urs von Balthasar. Per una simile spiegazione egli soleva citare il prefazio del Natale (cfr. Gloria I. La percezione della forma. Jaca Book, Milano 1975, p. 105). Lo si potrebbe chiamare il canto dell'Incarnazione di Gesù - dal Natale sino alla Pasqua - e, pertanto, della trasfigurazione della cultura, delle forme della vita e del mondo. 
«Quia per incarnati Verbi mysterium nova mentis nostrae oculis lux tuae claritatis infulsit: ut dum visibiliter Deum cognoscimus, per hunc in invisibilium amorem rapiamur» (Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente la luce nuova del tuo fulgore, perché conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all'amore delle realtà invisibili). 
L'opera di Leonardo, come quella di molti poeti e di molti santi, accende la nuova luce della bellezza, raggiungendo il nostro sguardo e il nostro cuore. Nutro la speranza che, mentre ci siamo accostati a questa grandiosa opera del genio italiano - certo, da parte mia solo balbettando - sia avvenuto anche in noi ciò che canta il prefazio di Natale. Sì, mentre abbiamo conosciuto Dio visibilmente e abbiamo accolto il suo dono senza condizioni, siamo stati rapiti all'amore delle realtà invisibili sino alla vita trinitaria di Dio, la bellezza di tutte le bellezze, la bellezza che salva il mondo. 
Di questa bellezza il Signore ci faccia dono, perché essa - quasi irradiazione del mistero dell'Eucaristia - è il pane necessario dell' homo viator, dell'uomo che è pellegrino sulle strade del mondo verso la casa di Dio, verso il suo cuore beato e beatificante.

 

MADONNE DEI NOSTRI TEMPI 

Se rappresentare la figura di Gesù, nella sua umanità e nella sua divinità, è per l'artista un'impresa difficile e rischiosa, al­trettanto lo è rappresentare la figura di Maria per la sua natura, unica ed eccezionale, di crea­tura madre del Creatore, per la sua partecipa­zione al mistero della Croce come correden­trice, che apporta alla redenzione quel contri­buto femminile, che Cristo uomo, di per sé, non poteva apportare. Considerazioni filosofi­che e teologiche che richiederebbero appro­fondimenti, ma che sono necessarie, se non si vuole cadere in un devozionismo superficiale, che talvolta guasta una produzione artistica scadente e e convenzionale. Ma i grandi artisti hanno saputo affrontare questa tematica con sicurezza, perché l'intuizione creativa sa coglie­re il mistero. Così la rappresentazione della Vergine/Madre, che attraversa tutta la storia dell'arte, è presente anche nell'arte contempo­ranea, e ha impegnato artisti espressione di mondi culturali diversi, appartenenti a diverse confessioni religiose.

Paul Gauguin, quando nel 1891 ripara a Tahiti per fuggire dal mondo frenetico, caoti­co e inquieto della civiltà occidentale, sente il bisogno di rappresentare un'Annunciazione a Maria con figure di donne maori in vestiti tradi­zionali. Maria ha già in spalla il bimbo Ge­sù, entrambi con le aureole, davanti due donne in atteggiamento di preghiera con un movimento di danza come le danzatri­ci scolpite nel tempio giavanese di Boro­budur, in secondo piano l'angelo Gabrie­le. Non è una dissacrazione - il quadro ri­porta nella composizione stessa la scritta La Orana Maria - ma una ambientazione esotica per un mistero universale.

Vincent van Gogh, dopo avere eser­citato la missione di pastore tra i minatori del Borinage, si dedica in­teramente all'arte recandosi nel Sud della Francia, ad Arles, per trovare una luce migliore per i suoi quadri. Qui cade grave­mente ammalato nel corpo e nella men­te, viene ricoverato nell'ospedale, muore tragicamente. Durante il forzato interna­mento dipinge alcune delle sue opere mi­gliori. In una di queste, poco nota ma mol­to significativa, Pietà (1889), si ritrae co­me Cristo morto in una deposizione tra le braccia spalancate di Maria.

Il volto del Cristo dalla barba e dai capelli rossi è un autoritratto. In una lette­ra al fratello Teo descrive l'opera: «Il cada­vere sfinito giace reclino all'ingresso di una grotta, le mani all'infuori dal lato sini­stro, e la donna posta dietro. È sera dopo un temporale e la figura disperata, con una veste blu sollevata dal vento, si staglia contro un cielo in cui si muovono delle nuvole viola con contorni d'oro. Anch'es­sa ha le mani protese all'infuori, con un grande gesto di disperazione, e si posso­no vedere bene le sue mani, delle buone forti mani da lavoratrice». L'artista è più preoccupato della resa cromatica dei co­lori che del valore iconografico dell'ope­ra, ma la motivazione profonda resta que­sta ricerca di Maria come madre.

Anche Henri Matisse ha dedicato una particolare attenzione a Maria, sottoli­neandone la femminilità. Per la grande fi­gura della Vergine con il Bambino per la Cappella del rosario delle Domenicane di Vence ha fatto molti disegni preparato­ri. In quel periodo l'artista era attratto dal­le linee dei contorni, cercava l'essenzialità dell'immagine, tanto che nella cappella i volti di Maria e del Bambino tracciati in ne­ro sulle piastrelle bianche non hanno oc­chi, naso, bocca, e il visitatore, non abitua­to a questo scarno linguaggio figurativo, resta perplesso. Ma in alcuni disegni pre­paratori e in alcune litografie precedenti, il volto ha tutti i suoi tratti fisionomici pur ridotti a segni essenziali. Partito, nello stile dei fauve, con il prevalere del colore sulle linee, Matisse al termine del suo lungo percorso, giunge a cogliere nella pura linearità la figura che vuole rappresentare.

 

Gli artisti fino ad ora analizzati si confrontano con l'immagine di Maria più in una ricerca di perfe­zione estetica che di una testimonianza di fede, ma c'è un artista contemporaneo che fa della sua creazione artistica una missione religiosa, pur riconoscendo al­l'arte la sua autonomia espressiva. Michel Ciry, questo l'artista di cui parliamo, ha de­dicato a Maria numerosissimi quadri, inci­sioni, una sinfonia, soffennandosi soprat­tutto sul tema dello Stabat Mater, perché vede in Maria, non ai piedi della Croce, ma in piedi di fianco al Cristo crocifisso, il momento culminante della sua collabora­zione alla redenzione. Nel quadro, che rappresenta il punto di arrivo della lunga ricerca iconografica, la croce, quasi un'astrazione è ridotta a un legno vertica­le, Maria, con gli occhi rossi di sofferenza, non guarda il Crocifisso, ma si rivolge ver­so di noi, per coinvolgerci nel Mistero, perché la redenzione in Cristo è compiu­ta, ma non è completa; come dice san Paolo, ha bisogno di completarsi nella sof­ferenza di tutti gli uomini. L'artista com­menta: «Non meno crocifissa del suo Fi­glio, la Vergine subisce il supplizio dei chiodi nelle profondità del suo spirito. Co­me madre non potrebbe soffrire di più e con più dignità. Rude come il montante della Croce, essa chiama a testimonianza la folla di coloro per i quali il frutto purissi­mo della sua came immacolata è morto nel modo più ignominioso. Li chiama a te­stimoni, ma invano, poiché, ciechi e sordi, essi non vogliono niente, non capiscono niente, lasciando nella sua sublime solitu­dine questa donna senza pari»

Henry Moore, Madonna con Bambino, chiesa di San Matteo a Northampton

Nella scultura contemporanea nu­merose opere sono state dedica­te a Maria, ma posso soffermar­mi solo su due artisti, l'inglese Henry Moore e il polacco Marek Szwarc, per­ché il primo mi permette di considerare le avanguardie moderne, che colgono la figura nelle sue linee informali, e il secon­do mi permette di constatare il persiste­re di un'arte figurativa, che recupera le forme della tradizione classica e medioe­vale. Moore forse è il più grande scultore contemporaneo, figlio di un minatore di origini irlandesi, che ha inserito l'Inghilter­ra nel quadro della scultura europea, e partendo da forme arcaiche, rimeditate alla luce della scultura rinascimentale, giunge a valorizzare la figura umana im­mergendola nello spazio circostante con grandi opere, come ha documentato la mostra di Firenze del 1972 sulla spianata di Forte Belvedere. Lo scultore nel 1943 è chiamato a preparare una Madonna con Bambino per la chiesa di San Matteo a Northampton, che gli storici dell'arte amano confrontare con la michelangiole­sca Madonna con Bambino di Bruges.

 

Se Moore è paragonabile per la monumen­talità delle sue figure a Michelangelo, il no­stro Minguzzi per l'Annunciazione dram­maticamente tracciata sui due battenti della porta centrale della chiesa Stella Ma­ris a Porto Cervo potrebbe essere para­gonato al Donatello dei pulpiti di San Lo­renzo a Firenze.

Marek Szwarc, ebreo, si converte al cattolicesimo, vive a Parigi, dove entra in relazione con i Maritain, e a Londra, do­ve insegna ceramica e tappezzeria. Si de­dica all'arte religiosa, mettendo a punto una particolare tecnica di rilievo in rame sbalzato. Nel 1937 alla Esposizione uni­versale di Parigi decora il padiglione ponti­ficio con una serie di bassorilievi. La sua Vergine con il Bambino pur nelle forme tozze della composizione esprime la te­nerezza della Madre verso il Figlio. Mari­tain scrive di lui: «Era interamente dedito alla sua arte e al suo Dio. La sua arte e la sua fede erano pacificamente unite co­me negli artisti medioevali».

Anche lo scultore lombardo Adol­fo Wildt, docente a Brera, recupera, nella modernità, lo stile gotico, levigando il marmo, fino a trarne la massima luminosi­tà, lavora la materia spiritualizzandola. Due sue opere riguardano Maria: la Con­cezione, un pannello quadrato nel quale il volto di Maria si affianca al volto del Pa­dre in contemplazione del Bambino ap­pena nato; e Vergine, che nella perfezione assoluta del solo volto, gli occhi chiusi, as­sorto in preghiera, in primissimo piano, esprime la purezza di una donazione tota­le, quel raccoglimento interiore di cui par­Ia l'evangelista Luca: «Maria serbava tutte queste cose nel suo cuore». Proprio il pannello Concezione, quasi una metopa di un tempio greco, affiancando Maria al Padre evidenzia il contributo ontologico di Maria alla redenzione. Essendo col Pa­dre generatrice del Figlio di Dio, senza di Lei, Dio non avrebbe potuto incarnarsi!

 

Giovanni Battista Montini, a Milano come arcivescovo, e poi a Roma come Pontefice, era in rapporto di amicizia con numerosi artisti, credenti e non credenti, di cui incoraggiava la creazione artistica nel rispetto più assoluto dell'autonomia dell'arte. Non per nulla volle integrare una "Galleria di Arte reli­giosa moderna" nei Musei Vaticani, ben distinguendo la "religiosità dell'arte" dal­l'''arte sacra", finalizzata alla liturgia. Tra questi artisti molti si sono confrontati con il tema di Maria nei modi più diversi; ricor­do alcuni tra i più significativi. Trento Lon­garetti, direttore della Accademia Carra­ra di Bergamo, in un olio su tavola divide la scena trasversalmente su due piani triangolari, in basso un Paolo VI in abiti pontificali e l'immagine del duomo di Mila­no e del cupolone di San Pietro, in alto Maria con il Bambino, circondata dagli an­geli, a significare l'unità della Chiesa nel tempo e nell'etemità.

Aldo Carpi, docente a Brera, fu in­ternato nei campi di Mauthausen e di Gu­sen, e al rientro in patria fu acclamato di­rettore dell'Accademia. Carpi non ha mai voluto dire il nome del collega che lo ave­va denunciato alla polizia fascista per ave­re aiutato una ragazza ebrea. L'artista ha una vena narrativa popolare, ricca di colo­re e di originalità. Nel quadro di Paolo VI in Terra Santa immagina il Pontefice sedu­to ai bordi del Giordano a colloquio con un pescatore nella barca che approda.  Nella serie dei "carabinieri" c'è anche una tela in cui Gesù è arrestato da due carabi­nieri.

Nella serie delle "maschere" Maria con il Bambino viene presentata da un clown bianco agli altri teatranti; potrebbe essere il Pontefice che media e raccorda il mondo del soprannaturale con la vita quotidiana del popolo. Paolo VI aveva una grande stima di questo artista, tanto da ricordarto nella omelia del 1974 per la Giornata mondiale della pace insieme a Massimiliano Kolbe, Gandhi, Albert Schweitzer con queste parole: «Ha testi­moniato la possibilità di vivere nell'amore in mezzo all'odio, di vivere una giustizia che trascende le giustizie egoistiche che mettono limiti e avanzano continuamen­te delle rivendicazioni al nostro prossimo, dando se stesso, servendo gli altri, con pa­zienza, con umiltà, con bontà».

 

Passando agli scultori, bisogna con­siderare la magnifica Assunta di Enrico Manfrini, che nella vigoro­sa ed elegante costruzione piramidale esprime una grazia e una leggerezza che si concentrano nel volto sorridente di Maria. A questo artista si debbono le porte del Duomo di Siena, che si accom­pagnano alle sculture di Giovanni Pisano e di Tino di Camaino. Jean Guitton ricor­da questo giudizio di Paolo VI, durante una conversazione a Castelgandolfo: «Ho molto apprezzato l'opera di Manfri­ni, che ripensa i primitivi, ma è un primiti­vo molto cosciente dei suoi mezzi, che attua un ritomo a una certa infanzia con il dominio di una eccezionale sapienza».

Questo scultore romagnolo trasfe­ritosi a Milano, dove segue i corsi di scul­tura di Messina, a cui succede nella catte­dra, animato da un profondo spirito reli­gioso, si dedica all'arte sacra soddisfacen­do numerose committenze in Italia, in Europa e anche in America. Tra le sue Via Crucis, rilevante quella per il mona­stero di Santa Croce a Dublino e quella per la cattedrale di Lecco. È presente nel Santuario di Loreto con sedici for­melle sulla Vita di Maria. Nell'anno 2000 ha realizzato la porta di bronzo per la ba­silica di San Paolo fuori le mura a Roma.

 

Lo scultore più vicino a Paolo VI fu Eugenio Scorzelli, figlio di un pitto­re napoletano, autodidatta, che si fa conoscere alla Biennale di Venezia del 1942. Dopo un primo approccio naturali­stico volge verso modi espressionistici. A partire dagli anni Sessanta si dedica all'ar­te sacra. Paolo VI gli procura uno studio nella Città del Vaticano. Segue con atten­zione il Concilio Vaticano Il fissando in di­segni e medaglie gli eventi più significativi e i ritratti dei protagonisti. Molto impor­tanti la porta Vita di Maria per la chiesa di Santa Maria sopra Minerva, e La porta del­la preghiera, per la basilica di San Pietro a Roma, che nei quattro pannelli illustra quattro preghiere: il Poter Noster di Gesù, il Benedictus di Zaccaria, il Magnificat di Maria, il Nunc dimittis di Simeone.

In numerose scene di questi pannel­li è presente Maria. L'incontro di Ma­ria con Elisabetta è sufficiente per com­prendere e ammirare come l'artista sap­pia esprimere nella sobria gestualità i sen­timenti delle persone. Scorzelli è noto an­che per il pastorale con il Crocifisso prepa­rato per Paolo VI, che i successori hanno adottato nelle loro peregrinazioni in tutto il mondo. Paolo VI quando vide questo pastorale esclamò: «È forte, carica di espressività. È una fionda tesa al cielo».

Due artisti italiani recentemente si sono impegnati a celebrare Maria attra­verso l'illustrazione delle Litanie e dei Mi­steri del Rosario. Giuseppe Rivadossi, di cui a Verona una grande mostra ha pre­sentato i primi cinquanta anni di attività ar­tistica, ricorda nella sua autobiografia di conservare nella biblioteca i libri di Mari­tain, ai quali si ispira nella ricerca della pro­porzione, della luce, dei rapporti spaziali delle opere. Rivadossi, artista-artigiano, padre falegname, nonno contadino, nelle sue sculture realizza una intenzione filoso­fica che così esprime: «Un blocco di mate­ria-luce contiene in sé la figura della ma­dre, della natura e delle cose come imma­gine globale archetipa del mistero del­l'amore che dà vera unità all'esistente».

L'artista lavora in gesso, in terracot­ta e in bronzo, ma preferisce il le­gno, perché il legno è vivo, non è materia inerte, è come l'uomo che porta in se stesso il tempo che passa, una materia che risponde ai misteri dell'esistenza L'artista cerca la verità; la verità non si la­scia possedere, perché deve essere sem­pre approfondita, ma la verità può essere abitata, se l'uomo vive la sua storia con ge­nerosità, con disponibilità verso gli altri e verso Dio. In questa prospettiva la Madre diventa l'archetipo, perché essere madre significa "essere per" il figlio.

Rivadossi incomincia a costruire mobili, dalle forme e dalle volumetrie più disparate, ma trasformandoli in custodie, che debbono conservare e proteggere le cose care per la vita quotidiana dell'uo­mo. Contrappone al mondo virtuale, con­tinuamente cangiante, la stabilità reale del­le sue costruzioni. Oggetti d'arte molto apprezzati da Mario Botta, che scrive: «Nell'impianto architettonico di questi la­vori vi è una storia millenaria, che riaffiora attraverso un sapere ancestrale, che si realizza in una forma espressiva semplice che tutti noi comprendiamo». L'artista si richiama con modernità alla tradizione, e nel celebrare Maria, come Mater lumino­sa, Mater fidelis, Mater amabilis, e soprat­tutto come Mater Creatoris, intende dare un segnale forte, far comprendere che so­lo una vita come dono merita di essere vissuta: «Solo compiendo il bene ci accor­giamo del mondo come meraviglia».

L'illustrazione dei Misteri del Rosario con l'integrazione, fatta da Giovanni Paolo II, dei cinque misteri luminosi, è sta­to uno degli ultimi lavori di Floriano Bo­dini, con una cartella di venti litografie a colori. L'artista in questi venti disegni, de­finiti e strutturati all'intemo di un tondo, recupera la sua arte di scultore, che più volte si è impegnato a realizzare meda­glie: ma questa volta non si tratta di ri­cordare un avenimento o di celebrare un personaggio, bensì di presentare il Vangelo in una sequenza di immagini coerenti. L'arte è un simbolo, non ripro­duce la realtà, allude alla realtà, la crea­zione artistica si prende delle libertà.

 

Bodini in questo commento per im­magini introduce delle varianti si­gnificative, che portano ad appro­fondire la contemplazione dei misteri del Rosario. Nel primo mistero, quello dell'Annunciazione, non c'è tra l'angelo e la Vergine la tradizionale colomba; ma la lu­ce di una modesta candela su di un casset­tone richiama la presenza dello Spirito Santo. La colomba è invece al centro del­la Presentazione al tempio, a ricordare che il vecchio Simeone e la profetessa Anna sono stati mossi dallo Spirito nel loro rico­noscere la divinità del Bambino. Tre mi­steri della luce, a eccezione delle Nozze di Cana e della Istituzione dell'Eucaristia si svolgono all'aperto, con la partecipazione di molti protagonisti.

Nel Battesimo di Gesù san Giovanni ha in testa il copricapo che portano i ve­scovi, quasi a significare che il sacramento dipende dal potere ecclesiastico a cui il Cristo l'ha affidato. Nell'Agonia un Gesù monumentale, vestito con gli abiti pontifi­cali, la mano benedicente, si richiama ai di­versi monumenti che Bodini ha dedicato a Paolo VI, quasi a significare che il suo Vi­cario non deve dimenticare che è nella sofferenza che si esercita il potere, nella indifferenza degli uomini addormentati co­me i tre apostoli, perché travolti dai biso­gni quotidiani. Nella Pentecoste Pietro è al centro della rappresentazione, ma Maria è al suo fianco e la colomba dello Spirito Santo si posa su di Lei.

Ancora più provocatoria è l'Assun­zione, nella quale l'artista pone Maria in Croce con il Bimbo in grembo tratti in cielo dalla colomba. Nell'ultimo tondo, l'Incoronazione di Maria, nella quale le mani del Figlio si intrecciano con quelle della Madre, Bodini pone la sua firma su

questo testamento spirituale. Un'opera d'arte non è un trattato di teologia, ma l'artista quando è sincero, e rappresenta il mistero, vive in preghiera la sua crea­zione e può, quasi a un livello di espe­rienza mistica, indicare allo spettatore motivazioni sempre nuove per com­prendere il messaggio evangelico.

Possiamo concludere questa rico­gnizione con il grande mosaico absidale della cappella della Pontificia Università "Auxilium" delle suore salesiane a Ro­ma, dove Marko Ivan Rupnik ha realizza­to una rappresentazione delle nozze di Cana, che nella sua composizione evi­denzia quel contributo femminile alla re­denzione apportato da Maria da cui sia­mo partiti. Rupnik, artista sloveno, stu­dia all'Accademia delle Belle Arti di Ro­ma, entra nella Compagnia di Gesù e poi, nel 1985, diventa sacerdote, e orga­nizza l'Atelier dell'arte del Centro Aletti del Pontificio Istituto Orientale per recu­perare gli stilemi dell'arte bizantina ripre­si dalla tradizione figurativa ortodossa. È sua la decorazione della Cappella Re­demptoris Mater, in Vaticano, che l'arti­sta ricopre interamente di mosaici, pieni di luce e di colore.

 

Il mosaico Le nozze di Cana rappre­senta da un lato Maria con un servo che riempie gli otri d'acqua e di fron­te il Cristo crocifisso, in mezzo gli sposi. L'artista stesso commenta la sua opera: «Le nozze sono, in tutta l'interpretazio­ne giudaica e poi cristiana, il simbolo dell'alleanza tra Dio e l'uomo... Il servo ubbi­disce, ma di fatto solo nella Vergine la sua ubbidienza acquista vita. La giara, in­fatti, che ha nelle sue mani coincide con il ventre della Madre di Dio... Gesù non è seduto a tavola, ma sta sulla Croce, ve­stito in bianco per indicare il sacrificio (il bianco è lo Spirito), con gli occhi fissi sul­l'altare, dove si incontra con lo sguardo di Maria... Allora il Cristo è il vero Sposo e la sua Sposa è rappresentata da Maria, che simboleggia la Chiesa... Dunque la nuova generazione di questo nuovo sposo siamo noi che celebriamo n la no­stra salvezza...».

In Rupnik, come nella tradizione orientale, l'arte in un certo qual modo di­venta liturgia, l'artista non vuole solo rap­presentare oggettualmente la scena che ha in mente, ma vuole coinvolgere la soggettività dello spettatore. Non è più l'arte per l'arte, ma è l'arte come preghiera. L'avere introdotto in Vaticano una cappella mosaicata da Rupnik accan­to a tutte le altre cappelle, dalla Niccoli­na (Beato Angelico) alla Sistina (Miche­langelo), che rappresentano il vertice della cultura occidentale, ha significato per Giovanni Paolo II l'inizio di una Chie­sa che respira 'con due polmoni' alme­no sul piano della cultura.

 

MANDYLION

Gesù, il giallo del ritratto

di Marco Bussagu.  Avvenire 11 aprile 2004

Uno dei tratti salienti che distingue il cristianesimo dalle altre due religioni del Libro, ossia quella ebraica e l'islamica, risiede nella possibilità di rappresentare la divinità sotto l'aspetto umano. La questione, fu oggetto di lunghe e dolorose disquisizioni complicate da una crisi politica perfino sanguinosa che coinvolse i vertici dell'impero di Bisanzio fra il 725 e 1'843, con un'interruzione fra il 787 e 1'813. È ben noto, infatti, che questo periodo non solo vide il riaccendersi delle polemiche sulla legittimità o meno di rappresentare gli angeli, i santi, la Vergine o il Cristo, ma fu caratterizzato dalla sistematica scialbatura, ossia occultamento, quando non fu distruzione vera e propria, delle immagini sante: l'iconoclastia. A spingere in questo senso fu, da una parte, il contatto con la civiltà islamica, ormai giunta ai confini orientali dell'impero di Costantinopoli e, dall'altra, la naturale ritrosia a raffigurare quel che non è possibile rappresentare: il divino. Giovanni Damasceno (650 ca.- 749 ca.) nel suo De fide ortodoxa, scrive: «Se noi facessimo un'immagine del Dio invisibile, saremmo sicuramente nell'errore, ma non facciamo nulla di ciò; noi, infatti, non sbagliamo se facciamo l'immagine del Dio incarnato apparso sulla terra nella carne che, nella sua bontà ineffabile, ha vissuto con gli uomini ed ha assunto la natura, lo spessore e il colore della carne». Dunque, è il Cristo l'icona di Dio, colui che, fatto uomo, ma vero Dio, rende possibile e legittima l'immagine del divino. 

Un testo del V secolo, la Doctrina Addai, narra che Abgar, re della città di Edessa, in Siria, avrebbe chiesto al suo servo Anania di recarsi da Gesù per condurlo da lui. Il Salvatore rispose che avrebbe presto mandato un apostolo, ma nel frattempo, ad Anania venne l'idea di eseguire un ritratto del Cristo da portare al suo signore, il quale ebbe cura di conservarlo, come un tesoro, nelle belle stanze del suo palazzo. Era questo il Mandylion, letteralmente "tovagliolo", cui si riferiva lo stesso Giovanni Damasceno per dimostrare che l'uso delle immagini da venerare era contemporaneo addirittura alla venuta del Cristo. La tradizione del dipinto di Anania, però si modificò assai presto e già nel VI secolo era considerato acheropoièton, ossia "non fatto da mano umana"; tale lo ritiene lo stesso Damasceno. 

Il volto del Cristo sul Mandylion si sarebbe formato con il sudore e il sangue della passione, come racconta la Narratio de immagine edessena, scritta dall'imperatore Costantino VII nel 945; appena un anno dopo la conquista di Edessa e l'acquisizione della sacra reliquia da parte del sovrano. 
Che aspetto aveva il Mandylion? I testi ci raccontano che era diverso da ogni altro dipinto ed era talmente scuro che si faceva fatica a distinguere i tratti del volto. Quest'ultima caratteristica ritorna nel Mandylion del Vaticano ed in quello di Genova, entrambi da considerarsi copie dell'originale. 

A questa seconda icona, Genova, città europea della cultura per il 2004, dedica una mostra che ha il non piccolo pregio di riunire insieme le ante del Monte Sinai, su cui è rappresentato l'episodio di Abgar, e il Mandylion stesso: «Mandylion. Intorno al Sacro Volto» sarà aperta al Museo diocesano dal 18 aprile al 4 luglio. Saranno esposti anche oggetti rinvenuti all'interno della cassa che custodiva l'immagine, una seta proveniente da Mosca, manoscritti miniati dei secoli XI e XII, opere bizantine e documenti storici. L'ipotesi degli studiosi, di Weitzmann in particolare (che ha notato la stretta somiglianza fra l'Abgar degli sportelli e il ritratto di Costantino VII autore della Narratio), è che il trittico (Mandilyon genovese e sportelli) sia stato realizzato a Costantinopoli su commissione imperiale. Le misure, infatti, corrispondono, anche se bisogna dire che lo stesso accade con il Mandylion di Roma. Suddivisa in quattro sezioni e corredata dal catalogo firmato Skira, la mostra è curata dai più grandi specialisti della materia: Colette Bozzo Dufour, Herbert Kessler e Gerard Wolf che nel 2000 curò a Roma, con Giovanni Morello, la mostra sul volto di Cristo

 

MASOLINO

“Famiglia cristiana” - n. 15/2004

Masolino ritrovato

di Alfredo Tradigo

Lassù l'azzurro intenso del cielo si è perso, così come le stelle in rilievo sulla volta; le vesti di broccato degli invitati al banchetto di Erode avevano motivi floreali d'oro e argento; l'armatura del soldato che taglia la testa a Giovanni Battista è di stagno, annerito dal tempo, ma conserva ancora l'incisione che imita la cotta di maglia. Si immagini che scrigno prezioso doveva essere questo ambiente nel 1435, appena affrescato da Masolino».
Parla la professoressa Pinin Brambilla Barcilon, che ha diretto i lavori di restauro di questa cappella, capolavoro di Masolino da Panicale, il maestro di Masaccio (insieme, i due grandi artisti dipinsero la cappella Brancacci, a Firenze). 
Mentre tasta con familiarità la superficie del muro - che ha salvato dall'umidità -, la restauratrice racconta: «Ho rifatto le velature che Masolino aveva realizzato sull'intonaco "stanco", cioè già asciutto, e che quindi si erano perdute; invece ho solo dovuto pulire questi bellissimi volti eseguiti "a buon fresco" e che sembrano di porcellana».
Le immagini del piccolo battistero ci avvolgono a 360 gradi, qui sembra di udire il fruscio degli abiti di seta, là il clangore della spada; dall'alto il canto degli angeli e poco più sotto lo scroscio dell'acqua del Giordano, da cui esce un Cristo nudo, splendido. 
Come l’“Ultima Cena” di Leonardo. 
A pochi passi da qui scorre l'Olona, il fiume che dà il nome alla valle e a questo antico borgo, Castiglione Olona, a pochi chilometri da Varese, dove su un ronco (così chiamano qui i piccoli rilievi terrazzati) sorge lo stupendo complesso architettonico della collegiata. Masolino (si chiamava in realtà Tommaso di Cristoforo Fini, detto Masolino, forse nativo di Panicale) realizzò per il cardinale Branda Castiglioni il ciclo pittorico di questa cappella, dedicata alle storie del Battista. Sempre per il cardinale Branda, Masolino dipinse l'abside dell'attigua chiesa della Collegiata, con storie di Maria e dei santi Stefano e Lorenzo. 
«Il recupero dell'abside della Collegiata, che non ho ancora terminato per mancanza di fondi, è stato uno dei miei restauri più difficoltosi», prosegue Pinin Brambilla. «La differenza tra le parti ben conservate e quelle danneggiate rendeva illeggibile il ciclo nel suo complesso: si sono dovute attenuare alcune zone, rinforzarne altre con leggere velature e "cuciture" di colore per restituire la visione d'insieme».
Una tecnica, questa, che la signora Pinin aveva già utilizzato con successo in un restauro che sembrava "impossibile": quello dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci. Lei si schermisce, e con uno spiccato senso di realismo (tutto lombardo) ci riporta al presente. 
Ma noi sappiamo che alle spalle di questa bravissima restauratrice ci sono opere come il Giudizio universale di Giotto nella Cappella degli Scrovegni; e, prima ancora, un'infinità di affreschi, tele e statue (Piero della Francesca, Pollaiolo, Lippi, Crivelli, Mantegna, Lotto, Bellini, Bronzino, Caravaggio, Tiziano e Tiepolo). Ma la signora Pinin ci ha invitati qui a Castiglione soprattutto per mostrare ai lettori di Famiglia Cristiana una sua recente scoperta: sotto la decorazione ottocentesca dell'arco trionfale della Collegiata, rimosso l'intonaco, è apparsa una splendida Dormizione della Vergine. 

Alla ricerca delle teste perdute
Maria appare distesa tra apostoli e angeli, mentre Cristo riceve la sua anima bambina, avvolta in fasce. Dietro quest'arco gli splendidi affreschi di Masolino sulle vele dell'abside, già restaurati (Annunciazione, Sposalizio, Natività, Incoronazione, Assunzione della Vergine), si ricollegano così alla navata centrale, recuperando l'antica grandiosità quattrocentesca del presbiterio. 
«Da campionature eseguite in precedenza sapevo dell'esistenza di questo affresco: troppo rovinato per potere essere attribuito con certezza a Masolino; ma anche troppo raffinato (soprattutto nelle figure di destra) per non poter essere considerato di sua mano. Purtroppo rimangono i colpi inferti nel 1859 dal mazzuolo sulla superficie dell'affresco, per farvi aderire l'intonaco. Qualcuno, prima di ricoprirlo, ha inoltre pensato bene di staccare la testa della Vergine e di due apostoli. Faremo ricerche presso gli eredi di Francesco Nicora, che eseguì le decorazioni. Chissà se riusciremo a recuperare quelle teste perdute...». 

 

MAX BECKMANN, DEPOSIZIONE E AFASIA

Deposizione e afasia (vedi l'immagine in Galleria di immagini)

‘La discesa dalla Croce’, che cade relativamente presto nel cammino di Beckmann, e che si accompagna con un quadro di dimensioni analoghe (<<Cristo e l’adultera»), attesta la posizione nella storia dell’arte di questo grandissimo pittore, uno dei pilastri del secolo XX, che forse solo le esposizioni di due anni fa (n.d.r. si riferisce al 1984) per il centenario della nascita hanno incominciato a rilevare per quel che è stato; una posizione, la sua, che, provenendo per tradizione dall’espressionismo tedesco, accoglie però anche la rivoluzione di strutture e di forme del cubismo.

La difficoltà di questa posizione è stata in un certo senso l’ostacolo ad una più immediata comprensione della sua grandezza; ma essa è anche la tensione che lo rende unico nel tentativo di un sunto quasi impossibile tra un'arte ustionata e distrutta in partenza dal suo farsi espressione diretta della vita (L'espressionismo), e un'arte che blocchi questa febbre e la conduca ad una stabilità, ove il terremoto interno della pittura di Beckmann, pur non travalicandone i limiti (a vederlo, ha quasi il rigore formale dei cloisonners dell'oreficeria medioevale). Ciò non significa che egli si collochi in una posizione mediana; se così agisce, è per la duplice urgenza che lo determina: di esprimere e di essere.

Ciò è ben visibile nella Discesa dalla Croce del 1917, questa straordinaria «crocifissione», in cui si legge tutta la storia dell'interpretazione e dell'iconografia cristiana dell'arte tedesca, e che perviene all'osso del dolore; qui, la spigolosità dell'interpretazione nulla concede al pittorico, ma è tutta tesa all'emblematizzazione dell'atto. In questo senso si può dire che tutta la pittura di Beckmann è come questo Crocifisso, dove la tensione tragica chiede di stabilizzarsi in una forma che non strozzi il senso del dolore, ma che redima il dolore e la morte in una fermezza plastica. In tutta l'opera di Beckmann e nel suo bisogno di diventare un emblema (e non simbolo), si vede il suo continuo riferimento alla grande lezione dell'arte medievale e rinascimentale tedesca. L’apice in questo senso sarà raggiunto nella serie dei «trittici». Ma anche qui la struttura stessa dell'azione e l'anatomia dei corpi, pur appartenendo visibilmente al nostro secolo, tuttavia, a furia di scarnificarsi, escono dal tempo - o, meglio, trascinano il nostro tempo in una sorta di esemplarità.

Il modo in cui Cristo, scendendo dalla croce, occupa tutto lo spazio, continua la logica interna, non astratta, delle immagini sacre del Medioevo tedesco; così che Cristo, pallido, in luogo di ripiegare o abbandonare le braccia, diventa egli stesso croce, e sembra volersi appoggiare alle spalle, soprattutto della Maddalena inginocchiata (che ha la stessa fisionomia dell'adultera dell'altro dipinto coevo, citato all'inizio); quella Maddalena che è il solo personaggio ad avere, non diremo capito; ma patito l'avvenimento di quella morte. Credo che Cristo, cadendo su quelle spalle; incarni, indichi come sia inevitabile, per chi voglia salvarsi, il percorrere il cammino del Golgota e il tenersi sulle spalle la croce con cui ognuno nasce e con cui ognuno non può non vivere.

Questa descrizione di una realtà drammatica s'incarna nell'enorme capacità di Beckmann di trasfigurare l'atto figurativo in emblema, in lezione: non una lezione esposta, bensì lezione in atto, con tutti i margini di violenza che questa lezione richiede, ma con una conclusione di calma coscienziale che il quadro riesce a comunicare. Alla fine, insomma, i conti tornano, e non in virtù del mondo (che non riesce a farli tornare), ma in virtù del corpo di Cristo che, dopo aver portato la croce, si fa egli stesso croce: una croce qui così limpidamente assunta da essere argomento non più di dannazione, bensì di resurrezione.

Non a caso, Beckmann è uno fra i pochissimi pittori contemporanei ad aver dipinto anche una Resurrezione; e un Giudizio Finale: come a dire che, pur al di fuori di un'obbedienza di fede, se l'atto della Crocifissione viene assunto come fatto concernente la propria coscienza, esso contiene già in sé i successivi.

 

MICHEL CIRY

“Il nostro tempo” 4 Aprile 2004 n.13

Quei crocifissi di oggi che sono il volto di Cristo

Di Mariapia Bonante

Florence era una ragazzina che aveva iniziato a prostituirsi a undici anni, a quindici le avevano detto che aveva l'Aids e a sedici era già morta. Eravamo stati da lei due giorni prima che morisse. Non aveva proprio nessuno, anche la mamma l'aveva abbandonata. Ci siamo seduti attorno al letto. "Siamo venuti perché abbiamo saputo che stai male, sei sola, non hai nessuno. “Siamo qui per salutarti, starti vicino”, le dissi salutandola. "Florence, accendi questo cero". Lo accese. Il suo volto si illuminò: un viso bellissimo, ma pieno di pustole, tipico della fase terminale dell'Aids. Florence pregò a lungo spontaneamente, a voce alta, una preghiera bellissima. "Florence, chi è Dio per te?", mi venne spontaneo di chiederle. "Mungu ni mama”, mi rispose in kiswahili, "Dio è mamma". Non capivo più nulla. La mamma l'aveva abbandonata giorni prima, Florence stava morendo come un cane. Mi venne spontaneo farle una seconda domanda: "Florence, chi è per te il volto di Dio?". Guardavo il suo viso rischiarato dal cero. Rimase in silenzio alcuni minuti, poi si illuminò di un sorriso bellissimo: "Sono io il volto di Dio!". È il Mistero che si rivela sui volti dei crocifissi».
È uno stralcio tratto da «Korogocho» (ed. Feltrinelli), l'ultimo libro di Alex Zanotelli, il comboniano che per quattordici anni ha cercato Dio nel volto dei crocifissi della bidonville di Nairobi, dove è vissuto in una baracca a ridosso della discarica, condividendo la vita, giorno e notte, con gli ultimi fra gli ultimi. Sono trascorsi più di duemila anni dal Calvario in cui il Figlio di Dio è stato inchiodato a una Croce. Da allora Cristo ha continuato ad essere crocifisso in ogni parte del mondo, in ogni momento storico, nelle più diverse circostanze. E continua ad esserlo attraverso i nuovi crocifissi della storia che abitano nei sotterranei della storia, nei luoghi dimenticati dal mondo che conta e che decide la loro sorte drammatica in qualche centro di potere. 
I quattro momenti del libro che Piero e Paola Viotto hanno dedicato a Michel Ciry (la solitudine di Cristo nell'orto degli ulivi, lo Stabat Mater, la Risurrezione, Emmaus) disegnano questo moderno Calvario che oggi si estende da Est a Ovest, dal Nord al Sud del mondo. A cominciare dalle tante viae crucis sofferte da milioni di persone che «non hanno voce» per poter essere ascoltate nei loro diritti fondamentali violati, nelle ingiustizie che subiscono, nel silenzio in cui patiscono un martirio quotidiano. Sono la muta e dimenticata folla dei Paesi africani (chi sa di loro, ignorati programmaticamente dai grandi media?), dove donne, bambini, uomini, quando non vengono massacrati nei modi più crudeli devono fuggire continuamente dai villaggi bruciati e rasi al suolo nelle tante guerre che hanno trasformato il continente nero in un immenso Golgota. Sono i milioni di malati di Aids che, come Florence, muoiono in solitudine nelle catapecchie delle baraccopoli, bambini di pochi mesi o anni, ragazze sempre più giovani, madri di famiglia. Ma sono anche, nelle città del benessere e della società consumistica, gli immigrati che arrivano a raccogliere le briciole dei ricchi e vivono, in solitudine e sradicamento, la loro drammatica odissea spesso di profughi costretti ad abbandonare il loro Paese. 
In prima fila, come un giorno Maria sotto la croce, ci sono le donne che hanno visto i figli morire crocifissi alle tante maledizioni dei nostri giorni. Dalle madri e nonne di Plaza de Mayo, che continuano a scendere nelle piazze con i loro foulard bianchi perché non si dimentichi il dramma dei desaparecidos di ieri e di oggi, alle madri algerine che, impotenti, sono state costrette ad assistere alla strage dei loro bambini e familiari, a quelle palestinesi e israeliane che sono ormai in tante a piangere su corpi saltati in aria in quella carneficina senza soste che insanguina i loro Paesi. Ci sono le madri che, accanto al letto del figlio che muore per droga, dinanzi al cadavere del figlio che si è tolto la vita o è morto per qualche atroce violenza, rimangono sole, statue del dolore infinito, a piangere la disgrazia più grande che possa toccare a un genitore, la perdita di coloro che hanno procreato. 
Ma come nelle sequenze pittoriche di Ciry, sul buio del dolore, sul silenzio dell'abbandono, arriva la luce del Cristo risorto per annunciare la vittoria della vita sulla morte. Arriva quella speranza che va al di là di ogni speranza umana. Accade nelle tante viae crucis a noi contemporanee, vissute dalla famiglia della porta accanto o dalla nostra stessa famiglia, nelle città delle nostre fatiche quotidiane, nei Paesi della fame e della guerra, del sottosviluppo. La testimoniano e la comunicano, questa speranza, quei discepoli di Emmaus che continuano a incontrare sulle loro strade il Risorto e, folgorati dal suo amore, scelgono di spezzare ogni giorno il proprio corpo con la folla delle Beatitudini. Come un giorno fece il Maestro, come continuano a fare uomini e donne in tutto il pianeta, come fece Etty Hillesum, la giovane olandese "gasata" ad Auschwitz che, pochi giorni prima di partire per i lager, scriveva con esultanza: «Ho spezzato il mio corpo come se fosse pane. e l'ho distribuito agli uomini. Erano così affamati e da tanto tempo».
Sono costoro a dare volto, voce, braccia e piedi a Cristo uscito dal sepolcro perché possa essere là dove tutti scappano o dove "chi conta" non andrà mai. La loro presenza nelle situazioni estreme, ma anche in quelle di normale sofferenza, permette al dolore e alla sconfitta di non diventare disperazione. Compie ogni giorno miracoli. 

La Passione secondo Ciry

di Gianna Montanari

Un Discorso per parole e immagini: così Piero Viotto, scrittore e filosofo, definisce il libro «Lo sguardo sul Calvario. Temi pasquali in Michel Ciry» (ed. Ancora, Milano, pp. 85, 13 euro), scritto da lui, in collaborazione con la figlia Paola, per presentare la pittura religiosa del francese Michel Ciry. Un dialogo a più voci, dunque, in cui ciascuna voce arricchisce le altre e tutte insieme convergono su una meditazione del mistero cristiano. 
Piero Viotto, professore emerito dell'Università Cattolica di Milano, fa parte del Comitato scientifico dell'Istituto internazionale di filosofia «Jacques Maritain» e collabora alle riviste «Vita e pensiero», «Rivista di teologia morale» e «Studium», oltre che a «Il nostro tempo». Paola Viotto, sua figlia, è docente di Storia dell'arte, autrice di opere sull'arte lombarda. Ha già scritto diversi saggi su Ciry e ha partecipato all'allestimento dell'ultima grande mostra a lui dedicata in Italia, alla Fondazione Lazzati di Milano, nel 2001. Michel Ciry è nato nel 1919 ed è artista dai molti linguaggi: è disegnatore, pittore, musicista, scritto- re; dal 1942 tiene un diario («Journal»), di cui sono stati pubblicati già trenta volumi, in cui è racchiusa la sua storia interiore insieme con l'analisi e il dialogo con il proprio tempo. 
Considera il suo lavoro una forma di preghiera e dice: «È con i pennelli e con le matite che, a modo mio, manifesto la mia fede». Prima che pittore, è disegnatore, perché, come egli afferma, il disegno è la radice di ogni arte figurativa ed è anche una pratica ascetica, che esige un rigore assoluto. La sua arte si rifà ai grandi del Rinascimento italiano, come Andrea Mantegna, e del manierismo, come Caravaggio, oltre che fiamminghi, come Jan Van Eyck, e ha le sue radici in un forte impegno morale e in una ispirazione religiosa, circostanza che rende la sua posizione abbastanza scomoda e isolata nel panorama artistico contemporaneo. 
«Lo sguardo sul Calvario» offre un percorso che è insieme filosofico, artistico e religioso, poiché temi i pittorici di Ciry, incentrati sulla passione di Cristo, sono illustrati dal commento morale di Piero Viotto, ispirato a Jacques Maritain e alla riflessione di due teologi che hanno meditato a lungo sulla figura di Cristo e sulla Chiesa, Charles Journet e Marie-Dominique Philippe; in tal modo il lettore è introdotto passo per passo nel cuore del mistero cristiano che ha il suo centro nella figura del Figlio di Dio fatto uomo. Il commento estetico è fatto da Paola Viotto, che attraverso l'analisi dei quadri, della loro struttura, del colore e delle linee entra nel cuore della creazione artistica. 
Questo approdo alla religione attraverso il discorso artistico è fondamentale ai nostri giorni, come riconosce il cardinale Godfried Danneels, arcivescovo di Malines-Bruxelles, nella prefazione al libro, significativamente intitolata «Il bello è lo splendore del vero». I nuclei tematici della pittura di Ciry intorno alla Passione sono scanditi in quattro momenti: la solitudine di Gesù (nell'orto degli ulivi e nella Via Crucis), lo Stabat Mater, la Risurrezione, Emmaus. Al primo tema appartiene l'olio su tela «Solitudine con due apostoli»: in primo piano ci sono Pietro e Giacomo dormienti. I loro volti privi di espressione, i loro corpi abbandonati in un sonno profondo riempiono il quadro: solo in alto a sinistra, e sullo sfondo di «un minuscolo spazio di cielo incorniciato da un bosco di alberi secchi con i rami contorti» si coglie «la presenza di una piccola figura inginocchiata»: Cristo che prega nell'orto degli ulivi. 
In ogni quadro di Ciry è fissato in tutte le sue implicazioni un episodio di quella storia in cui si svolge il rapporto tra Dio e gli uomini, espresso nei volti, nelle mani, nel gioco sapiente delle masse e dei colori. In una «Pietà» del 1994 Maria è una donna qualunque, il viso impietrito dal dolore, precocemente invecchiata, che si appoggia alla croce del figlio morto; nell’originalissima inquadratura della scena il volto di Cristo dalla croce arriva a sfiorare il capo velato della madre. In «Risurrezione in blu» (1969) Cristo risorto, che «esce dal sepolcro, luminoso su uno sfondo nero di notte e di tempesta», reca ancora nel suo volto emaciato e nel suo corpo i segni della sofferenza patita e della morte; non c'è enfasi nel suo atteggiarsi, ma nei suoi occhi spalancati e nelle sue braccia benedicenti, appena aperte, c'è il primo annuncio della Pasqua. Nell'olio «Incredulità di Tommaso» (1979-1994) di Gesù si vedono solo un pezzo di braccio e le mani piagate, che l'apostolo sfiora, mentre rivolge lo sguardo assorto verso Colui che sta riconoscendo. 
Ciry «esplora i volti» e fa trasparire negli sguardi il momento della rivelazione: gli sguardi attenti dei discepoli che guardano a Cristo risorto senza ancora riconoscerlo, ma col cuore colmo di una strana gioia («Emmaus», 1980); lo sguardo di Maria, sorella di Marta, («La miglior parte», 1994) che esprime la gioia profonda e la sicurezza di chi ha fatto la scelta giusta (vivere contemplando Cristo) insieme col presentimento dei patimenti che attendono il suo Signore.

 

MIRACOLI

Bibliografia
Best 1937; Loos 1965; Mensching 1957; Miracula 1962.

Già nelle pitture di Dura Europos sono raffigurati due miracoli: la guarigione dei paralitici e Gesù che cammina sulle acque (250 circa; quest'ultimo soggetto è un unicum per un’epoca tanto antica). Sui sarcofagi, nelle pitture catacombali e negli avori, a partire dal IV secolo compare gran parte del repertorio evangelico relativo alle guarigioni, alle resurrezioni dei morti e agli altri atti che esprimono l'amore di Gesù per l'umanità.

Le prime due serie alludono alla sua vittoria sul male, il diavolo e la morte; l'ultima serie, al cibo e alla bevanda di vita che egli dona. 
Gli evangelisti descrivono diverse guarigioni degli ossessi. I malati manifestano i sintomi dell'epilessia, ma i resoconti intendono dimostrare in primo luogo come il diavolo, Satana, cerchi di ostacolare il regno di Dio esercitando il suo potere sugli uomini. 

La guarigione sta allora a dimostrare quanto Gesù, che fu egli stesso accusato di possessione diabolica, sia il «più forte» (Mc 3, 20-29). Nelle raffigurazioni, la scena è indicata sommariamente, oppure viene seguito il racconto più eloquente, ossia Mc 5,1-10 (una legione di demoni combattuta e trasformata in un gregge di porci a Gerasa): Gesù con uno o due uomini, nudi o legati e con i capelli arruffati (sarcofago, Mas d'Aire, dopo il 313; avorio di Echmiadzin, 550 circa), o con i maiali che ricordano la località di Gerasa (affresco in S. Sebastiano a Roma, III secolo; mosaico a Ravenna, inizi del VI secolo). 

In un avorio milanese del 990 circa e in un altarolo portatile romanico (Namur, cattedrale; XII secolo), il diavolo esce dalla bocca dell'ossesso sotto forma di creatura mostruosa. Il miracolo è ripreso nei grandi cicli (affreschi a Decani, Serbia, XIV secolo: l'uomo è rappresentato come epilettico, come anche in tanti altri casi), ma non ha una lunga tradizione iconografica (Angelo Trevisani, pittura del 1725 circa sul portale di S. Pantaleone a Venezia). 

La guarigione dei ciechi, raccontata nei vangeli con tanta varietà (un cieco da solo o accompagnato dai familiari, oppure un gruppo di ciechi), è resa schematicamente con la figura di un uomo di piccole dimensioni (talvolta due) inginocchiato davanti a Gesù, che gli tocca gli occhi: affresco del III secolo nelle catacombe di Domitilla a Roma, fregio del sarcofago di Sabino (prima metà del IV secolo; Roma, Musei Vaticani), rilievo nella chiesa di Newcastle-on-Tyne (Northumbria; X-XI secolo). 

Dalla figurazione sulle porte di S. Sabina a Roma (430 circa) in poi, il cieco reca un bastone: per esempio, colonna di Bernward nel duomo di Hildesheim (1015-22). Il codice purpureo di Rossano (VI secolo) presenta in due scene la guarigione del cieco nato che viene mandato a lavarsi nella piscina di Siloe (Gv 9,1-41). Secondo la Legenda Aurea, questo cieco si chiamava Cedonio e si recò in Gallia insieme a Lazzaro. Nel XVI secolo, il Maestro del Miracolo della Manna e Luca da Leida dipingono la guarigione di Bartimeo, il cieco di Gerico (Mc 10, 46-52). 

Quello dell'emorroissa, che dopo aver consultato invano tanti medici osò toccare l'orlo della veste di Gesù in mezzo alla folla confidando che ciò l'avrebbe guarita, è uno dei primi miracoli raffigurati (affresco del III secolo nelle catacombe di Pretestato a Roma). Fepisodio non manca quasi mai nei sarcofagi con cicli dei miracoli (sarcofago di Castiliscar, IV secolo). 

La donna è raffigurata davanti o dietro Gesù; su un amuleto di ematite montato in argento (VI o VII secolo) e in un capitello di San Juan de la Pena (Aragona, 1150 circa) è inginocchiata davanti a lui. In alcuni casi, questo miracolo è affiancato dalla resurrezione della figlia di Giairo (Mc 5, 21-43): ancora Paolo Veronese, 1570 circa. In Lastman (1617; Amsterdam, Rijksmuseum) la donna è inginocchiata dietro a Gesu. La guarigione del paralitico (Mc 2,1-12) si identifica senza fatica nelle più antiche serie dei miracoli. 

Nei vangeli, il racconto più caratteristico è quello in cui gli amici aprono il tetto della casa dove si trova Gesù e calano ai suoi piedi la lettiga dell'uomo. La narrazione più enigmatica è quella che leggiamo in Giovanni: presso la vasca miracolosa di Betesda, le cui acque, messe in agitazione da un angelo, guariscono gli infermi che vi si bagnano, un paralitico arriva sempre troppo tardi, finché Gesù non lo guarisce per la sua fede.

L'episodio è raffigurato in diverse forme. In un unico caso, il paralitico siede sulla lettiga (sarcofago di Trinquetaille, IV secolo; Arles, Musée Lapidaire); quasi sempre si allontana portandola sulle spalle (il già menzionato affresco di Dura Europos; sarcofago con fregio del IV secolo, Roma, Musei Vaticani; particolare del dittico eburneo Andrews, V secolo; avorio del gruppo di Ada, IX secolo). 

In Cantarini (1638-40), la lettiga ha la forma di un carretto, in Sanders van Hemessen (1550 circa) somiglia a un grande divano. Il paralitico calato dal tetto è raffigurato con accenti suggestivi in 5. Apollinare Nuovo a Ravenna. Nel Libro d'ore di Caterina di Cleve (1440 circa), la guarigione del paralitico alla vasca di Betesda (Gv 5, 1-9) è accolta nel ciclo della leggenda della croce: l'acqua avrebbe ricevuto la sua forza taumaturgica da un frammento dell'albero cresciuto sulla tomba di Adamo. 

Il miracolo di Betesda è un soggetto particolarmente ricercato dal XVI al XVIII secolo: rilievo di De' Rossi su un portale di S. Petronio a Bologna (XVI secolo), dipinto di Boeyermans (1675; Anversa, Kon. Museum voor Schone Kunsten), affresco di Sebastiano Conca nell'abside di S. Maria della Scala a Siena (1730 circa). Skovgaard (1887-88) concentra tutta l'attenzione sulla discesa dell'angelo. Recentemente, la vasca di Betesda è stata scoperta presso la chiesa di S. Anna a Gerusalemme. In uno strato più profondo, gli archeologi hanno portato alla luce i resti di un santuario di Asclepio e di una chiesa bizantina. La vicina chiesa di S. Anna fu eretta durante le crociate. 

Il lebbroso guarito è riconoscibile sempre per la pelle ricoperta di piaghe e pustole, che gli danno un aspetto impuro e fanno di lui un escluso (legatura con lamine d'oro sbalzato proveniente da Reims, 860-870; avorio da Metz, metà del IX secolo; miniatura dell'Evangeliario di Hildesheim, XI secolo). Quando le raffigurazioni si trovano troppo in alto perché questo particolare sia ben visibile, per esempio su un capitello, sono accompagnate da un testo esplicativo (capitello del Panteòn de los Reyes a Leén, 1054-76: “volo mundare"). 

Una miniatura del Codice aureo di Echternach (1025 circa) raffigura la guarigione di dieci lebbrosi, uno dei quali torna indietro per ringraziare (Lc 17,11-19). Insieme a quella dei lebbrosi, la guarigione dell'idropico è accolta nel repertorio figurativo paleocristiano: il personaggio con l'addome prominente compare sull'antependio eburneo di Salerno (XI secolo). 

Gesù guarì alcuni malati per intercessione di una terza persona. Nell'iconografia di questi miracoli, gli artisti rivolgono un'attenzione particolare - pur senza trascurare i malati - a colui che intercede: per esempio Pietro, che chiese la guarigione della suocera, le sorelle di ~ Lazzaro, la donna cananea, il centurione di Cafarnao, il capo della sinagoga Giairo e la vedova di Naim. 

Alcune opere del XVII secolo descrivono con ricchezza di particolari l'episodio della donna cananea della Siro-Fenicia: pur non essendo ebrea, ella non si sottrasse al confronto con Gesù, che inizialmente si mostrò poco disponibile, circa la guarigione della propria figlia: Lastman (1617; Amsterdam, Rijksmuseum), Backer (1640), Van Noordt (1650 circa; Utrecht, Catharijneconvent). Cani, bambini e briciole, apostoli e spettatori illustrano lo scambio di idee tra la donna implorante e Gesù, raffigurato nell'atto di indicare. In Bloemaert (disegno, 1595), che omette molti particolari, l'insieme risulta assai meno convincente. 

Il centurione di Cafarnao, che chiese o fece chiedere la guarigione del suo servo, è riconoscibile dall'abbigliamento militare (sarcofago romano del 390 circa a Leida, Museo di Antichità; smalto su altarolo portatile mosano del XII secolo) e dal cavallo (Maestro anversano dell'Altare Bitterleiden, 1510 circa, Jùlich, Sankt Martin). Il soggetto incontrò interesse nei secoli XVI e XVII (Campi, affresco del 1575 nel duomo di Cremona; dipinto del Camerarius del 1650 circa ad Amsterdam, Rijksmuseum). 

La guarigione di numerosi malati (tra gli altri Mt 9, 35 e Lc 4, 40-41) è il soggetto della "stampa dei cento fiorini" di Rembrandt (1648), che negli anni 1655-65 disegnò anche la guarigione del cieco, del lebbroso, dei dieci lebbrosi, della donna (fine pag. 136) cananea e della suocera di Pietro, nonché la resurrezione della figlia di Giairo. 

Nelle scene della resurrezione della figlia del capo della sinagoga Giairo, dell'unico figlio di una vedova e dell'amico di Gesù, Lazzaro, non manca quasi mai la caratterizzazione dell'ambiente: la casa di Giairo, la città di Naim, la casa e il giardino di Lazzaro, fino ai più particolari più minuti, come il gesto di sorpresa dei familiari che hanno fatto la richiesta (la mano al mento). 

Questi episodi sono ripartiti su tre registri in un avorio mosano del X secolo (Liegi, chiesa di S. Paolo): Gesù, rappresentato con il rotolo classico, ha il nimbo cr0-ciato, compie il gesto dell'eloquenza e si china in avanti con benevolenza. Al miracolo della resurrezione è dedicata una delle pitture più importanti dell'Inghilterra del XII secolo, che si trova nella chiesa di Copford (Essex). La resurrezione della fanciulla (affresco nella chiesa di S. Giorgio a Oberzelì, Reichenau, 975 circa: con iscrizione esplicativa in esametri) e del ragazzo (sarcofago del 390 circa a Leida, Museo di Antichità) compaiono nei cicli dei miracoli; nei secoli XVI e XVII, anche in alcune scene a sé. 

Per quanto riguarda la fanciulla, ricordiamo un dipinto di Ambrosius I Francken nella chiesa di 5. Giacomo ad Anversa (1611), cinque disegni di Rembrandt e un rilievo bronzeo nella Michaeliskirche a Monaco di Baviera (1625 circa); riguardo al ragazzo, opere di Santi di Tito (1590 circa) e Hans von Achen (1590), l'affresco del Semenza in Vaticano (1620 circa) e quello di Le Sueur in Saint-Roche a Parigi (1645 circa). 

Spesso sono raffigurati i miracoli in cui Gesù trae d'impaccio qualcuno per la scarsità di cibo o bevande: le nozze di Cana,dove era finito il vino, e le moltiplicazioni dei pani, quando pochi pani e pesci bastarono a sfamare la folla. Sui sarcofagi, i due temi compaiono generalmente accostati: Gesù dona il cibo e la bevanda della vita. Le quantità, ben note a tutti perché i predicatori ne davano un'interpretazione simbolica, sono quasi sempre precise: sei giare, cinque o sette pani. 

Le prime raffigurazioni sono di carattere simbolico. Gesù sta al centro e sfiora con una verga le giare e con le mani i pani o i pesci; ceste e giare sono in fila. Sono presenti degli spettatori (sarcofago del IV secolo in San Félix a Gerona). Dal momento in cui le raffigurazioni esprimono chiaramente il collegamento tra i due avvenimenti, è possibile che contengano un'allusione all'eucarestia - oltre alla connotazione costante di Gesù e delle sue parole come cibo e bevanda di vita (pannello della porta di S. Sabina a Roma, 430 circa; avorio nella cattedra di Massimiano, metà del VI secolo). 

Per quanto riguarda le nozze di Cana, lo sviluppo iconografico parte da una grande festa di nozze, dal Medioevo in poi intesa più come banchetto con connotazione eucaristica che come miracolo del vino, che diventa secondario (Hieronymus Bosch, 1475-80; Rotterdam, Museum Boymans-Van Beuningen: Gesù, raffigurato tra i commensali, benedice il pane). Già in età anteriore sono raffigurati i servi nell'atto di mescere il vino (avorio di Metz, seconda metà del IX secolo), la parte svolta da Maria è espressa chiaramente (dittico Andrews, V secolo), sono raffigurati la coppia nuziale (avorio dell'XI secolo e miniatura nel Salterio della regina Maria, 1310) e i musicanti (formella delle porte bronzee di Benevento, fine del XII secolo). In alcuni casi, si vede il padrone di casa nell'atto di giustificarsi (Maestro della Vestfalia, 1550 circa). 

Nell'XI secolo cominciano a comparire brevi cicli (vetrata detta Notre-Damede-la-Belle-Verrière a Chartres, inizio del XIII secolo). In Tintoretto e Veronese, entrambi 1562 circa, il miracolo si riconosce appena nella confusione della festa. 
La moltiplicazione dei pani si prestava per eccellenza a solenni raffigurazioni simmetriche: a sinistra e a destra, Gesù sfiora il pane e il pesce che gli apostoli gli porgono (mosaico ravenna-te, inizio del VI secolo; miniatura dell'Evangeliario di Ecliternacli, XI secolo). 

Già in un avorio del cosiddetto antependio di Magdeburgo (962-973), tuttavia, vediamo una scena concitata con personaggi che portano, prendono e raccolgono: un elemento che evolve in grandi scampagnate ambientate in ampi paesaggi (cerchia di Luca da Leida, 1530 circa; Ambrosius I Francken, pala d'altare della gilda dei fornai di Anversa, 1598, chiesa della Vergine). Strozzi (1615 circa) si limita al momento della distribuzione dei pani in una scena affollata. 

Il soggetto era adatto ai refettori dei conventi: affreschi del Pomarancio (1610; Firenze, S. Anna sul Prato), De Matteis (1693; Napoli, 5. Luigi in Palazzo) e Metzinger (1747; Laibacli, convento francescano). 
Dei miracoli compiuti sull'acqua, sono raffigurati soprattutto quello in cui Gesù cammina sulle acque, la tempesta sedata e la pesca miracolosa. Il primo compare soprattutto in combinazione con l'entusiasmo di Pietro. Nella tempesta sul lago, Gesù è addormentato in mezzo ai discepoli spaventati, oppure comanda ai venti di placarsi.

A partire dal VI secolo, soprattutto nelle illustrazioni dei vangeli si preferì la prima versione: dalla grande scena con le vele ammainate e l'albero calato nell'avorio del gruppo di Ada (IX secolo) alla tela di Rembrandt del 1633 con la carrucola piegata e Gesù che si sveglia (cfr. disegno 1654-55). Nei secoli X-XI, nasce la doppia raffigurazione: Gesù addormentato e nell'atto di comandare (miniatura del Codice di Egberto, 980 circa).

Quest'ultima scena è raffigurata anche autonomamente. I venti sono resi come teste di cane soffianti (miniatura del Codice aureo di Ecliternacli, 1025 circa; cfL le miniature con i venti cosmici nel Liber divinorum operum di Ildegarda di Bingen, manoscritto lucchese del XIII secolo). Il numero degli apostoli varia. In età moderna, l'episodio è ripreso nelle vetrate (vetrata ad Arezzo, 1510), nella grafica (De Vos, 1580 circa), nelle illustrazioni della Bibbia (Doré, incisione del 1866) e in pittura (Van Reymerswaele, con almeno tre opere del XVI secolo; Boschi, 1647; in età più tarda, in un romantico come Delacroix, 1853). 

Ensor raffigura la tempesta nel 1891 (Ostenda, Casa Ensor). Dove l'artista ha scelto la lettura di Lc 5, 4-11, la pesca miracolosa (mosaico ravennate, inizi del VI secolo) è affiancata dalla vocazione degli apostoli. Se invece ha seguito Gv 21, 2-8 (miracolo dopo la resurrezione), l'episodio è indicato da Pietro coperto da un mantello che entra nell'acqua, o da un'iscrizione con le parole di Gesù "Pax vobis": così, per esempio, in un rilievo di Roda (metà del XII secolo), ancora concepito quasi come un simbolo. La raffigurazione su un capitello del XII secolo di Lewes (Sussex) segue la versione di Luca. In un disegno del 1655 circa, Rembrandt fissa il momento della professione di fede di Pietro dopo la pesca miracolosa.

 

MOMENTI DELLA REDENZIONE

Il termine indica le tappe fondamentali della vita di Gesù in relazione con il suo compito di redentore (1 Cor 1,17-25; 1 Pt 1, 18-20). 

A conclusione di una genesi durata alcuni secoli, questi soggetti compaiono isolati, secondo schemi iconografici fissi, oppure in cicli più o meno fissi (vita di Gesù, infanzia, passione) o, ancora, accostati ad avvenimenti del Vecchio Testamento corrispondenti tipologicamente.

 

NOVE 'TIPI' SU GESÙ

Nove 'tipi' su Gesù: pastore, maestro, agnello. Maestà, giudice, Ecce homo. 
Il Gesù eroico, sentimentale ed umano.

Tre tipi di Gesù dominano l'antichità: il pastore, il maestro e l'agnello; tre il Medioevo: Maestà, giudice ed Ecce bomo; tre, ancora, l'età moderna: il Gesù eroico, sentimentale e umano. Descriveremo brevemente tutti i nove tipi.