Georges Bernanos

Nasce a Parigi il 20 febbraio 1888 da Emile, tappezziere-decoratore di idee monarchiche, e da Hermance Moreau che gli trasmetterà una fede semplice e salda. Gli anni scolastici non furono di particolare soddisfazione; non mancarono però letture e incontri significativi. Nel 1906 ottiene il baccalauréat e a Parigi partecipa attivamente alla vita politica come membro dei Camélots du roi. Nel 1913 si trasferisce a Rouen dove gli è affidata la direzione del foglio monarchico L'avant-garde de Normandie; qui conosce Jeanne Talbert d'Arc, che sposerà nel 1917 e dalla quale avrà sei figli.

Partecipa al primo conflitto mondiale scoprendo la solidarietà dei soldati e l'ipocrisia dell'Arrière che lo lascia pieno di disgusto. Tornato dal fronte, lavora come assicuratore, e nel frattempo scrive. Nel 1926 esce Sotto il sole di Satana il cui inatteso successo lo spinge a dedicarsi esclusivamente al "mestiere" di scrittore; seguono L'impostura e La gioia. Nel 1934 si trasferisce alle Baleari dove scrive Un mauvais reve, Diario di un parroco di campagna (1936), Nuova storia di Mouchette (1937), Un crime e inizia il diario che darà origine a I grandi cimiteri sotto la luna, testimonianza di quanto "visto" durante la guerra civile spagnola.

Trovato "irrespirabile" il clima francese, va a vivere in Brasile fino al 1945, diventando forse il più significativo rappresentante della "resistenza esterna". Nascono così Scandale de la vérité, Nous autres Français (1939), Les enfants humiliés, Lettre aux Anglais, Le chemin de la croix-des-ames. Tornato in Francia, vi svolge un'intensa attività giornalistica che rivela il disagio per la nuova situazione. Nel 194 7 si reca in Tunisia, dove ben presto si manifestano i primi sintomi di un male incurabile. Riesce a concludere Dialoghi delle carmelitane (postumo, 1949) e muore a Parigi il 5 luglio 1948.

 

Paul Claudel

Nato nel 1868 a Villeneuve-sur-Fère - tra la Champagne e le Ardenne - da famiglia benestante che lo educò nella religione cattolica. Dopo un periodo di scetticismo e di indifferenza ritrovò la fede nel Natale del 1886, momento primo di una "conversione" che doveva dare inizio a una ininterrotta ricerca religiosa caratterizzante l'intera produzione letteraria.

Nel 1890 abbracciò la carriera diplomatica vivendo per più di quarant'anni - prima come console e poi come ambasciatore - quasi sempre all'estero: New York, Shanghai, Tientsin, Praga, Francoforte, Amburgo, Roma, Tokyo, Washington, Bruxelles.

Non fu mai letterato di professione, ma lasciò tuttavia una vastissima produzione poetica (Vers d'exil, 1895; Cinque grandi odi, 1910; Cantata a tre voci, 1913; Corona benignitatis anni Dei, 1915; La messe là-bas, 1919; Poèmes de guerre, 1922...), teatrale (Testa d'oro, 1901; Lo scambio, 1901; Crisi meridiana, 1906; [ostaggio, 1911; L'Annuncio a Maria, 1912; Il pane duro, 1918; La scarpina di raso, 1927...) e saggistica (L'Art poétique, 1907; Positions et propositions, 1928-1934; Figures et paraboles, 1936...).

Ritiratosi dall'attività diplomatica nel 1935, visse tra Parigi e il suo castello di Brangues, trascorrendo gli ultimi vent'anni nel libero esercizio della letteratura e dell'esegesi biblica. Nel 1946 viene eletto Accademico di Francia. Muore a Parigi nel febbraio del 1955.

 

Mario Luzi

Nato a Castello (Firenze) nell'ottobre 1914 da Ciro Luzi, ferroviere, e Margherita Papini, ha compiuto gli studi superiori a Siena e a Firenze dove si è laureato in lettere nel 1936 con una tesi su Mauriac. Qui incontra anche poeti e letterati che daranno vita all'ermetismo. L'esordio poetico risale al 1935 con la raccolta dal titolo La barca e Avvento notturno (1940). Collabora a Frontespizio, dove entra in amicizia con Betocchi, Letteratura, Campo di Marte, e insegna negli istituti magistrali di Parma e, poi, di San Miniato.

Nel 1942 si sposa con Elena Monaci e l'anno seguente si dà alla macchia, firmando anche un proclama che lo rende sospetto alla polizia badogliana. Nell'immediato dopoguerra collabora alle nuove riviste culturali Botteghe Oscure, Poesia, Società, Il Mondo.

Pubblica Un brindisi (1946), Quaderno gotico (1947) e la raccolta di saggi L'inferno e il limbo (1949).

Nel 1955 diventa docente di Letteratura Francese alla facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Firenze, dove insegnerà per trent'anni. Ininterrotta è la sua produzione poetica con Onore del vero (1957), Nel magma (1963), Dal fondo delle campagne (1965), Su fondamenti invisibili (1971). Nello stesso anno è radiotrasmesso Ipazia (pubblicato nel 1973), dramma in versi che segna l'inizio della sua produzione teatrale. Viaggia negli Stati Uniti e nei paesi scandinavi, in Cina e in Cecoslovacchia, tenendo letture e conferenze. Pubblica Vicissitudine e Forma (1974) e Al fuoco della controversia (1978) - diventando poeta di fama internazionale -, Rosales (1983), Per il battesimo dei nostri frammenti (1985), Frasi e incisi di un canto salutare (1990), Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994), Sotto specie umana (1999). Nel 1993 esce l'edizione completa del Teatro, cui si aggiungono Felicità turbata (1995), Ceneri e ardori (1997), La Via Crucis (1999). Nel 1998 Mondadori ha raccolto la sua opera poetica in un volume dei "Meridiani". Fatto senatore a vita, muore all'inizio del 2005.

 

François Mauriac

Nasce a Bordeaux nel 1885. Il padre Jean-Paul, ricco uomo d'affari, muore quando egli non ha ancora due anni e la famiglia si trasferisce presso i nonni. Studia all'Università di Bordeaux prendendo la licenza nel 1905 e qualche anno più tardi decide di dedicarsi interamente alla letteratura pubblicando il suo primo volume di poesie, Les mains jointes, nel 1909.

Nel 1913 si sposa con Jeanne Lafon e durante la guerra presta servizio nei Balcani in un ospedale della Croce Rossa. Nascono i primi romanzi (La toga pretesta, 1914; Préséances) e arriva il successo con Il bacio al lebbroso (1922). Il successo si rinnoverà con i romanzi del periodo successivo: Il deserto dell'amore (1924), Thérèse Desqueyroux (1927), Destins, Nodo di vipere (1925), Il mistero Fontenac (1933). Ai romanzi affianca riflessioni, biografie e, nel 1936, la Vita di Gesù.

Occupata la Francia dai nazisti, si ritira nella casa di Malagar, circondato dal sospetto e sottoposto a continue perquisizioni. Riesce tuttavia a pubblicare nel 1941 La pharisienne e, due anni più tardi, Il quaderno nero, testimonianza della sua opposizione al governo di Vichy. Matura anche il suo avvicinamento alle posizioni di De Gaulle, che continuerà a sostenere anche dopo la Liberazione.

Nel 1952 gli viene conferito il premio Nobel e nel 1958 la Legion d'onore. Si dedica soprattutto al giornalismo, mostrandosi decisamente anticolonialista; pubblica memorie personali e una biografia di De Gaulle; l'ultimo romanzo, Adolescente di una volta, è del 1969. Muore a Parigi il primo settembre 1970.

 

Charles Péguy

Charles Péguy nacque ad Orléans, la città di Giovanna d'Arco, nel 1873. Qualche mese dopo il padre, Désiré, muore e la madre, per mantenere la famiglia, deve imparare il mestiere di impagliatrice di seggiole. Nel 1885, grazie a una borsa di studio, entra nel liceo di Orléans dove compie gli studi emergendo soprattutto in filosofia; è questo, probabilmente, il momento in cui abbandona la pratica religiosa.

Nel 1894 viene ammesso alla Scuola Normale Superiore; è ufficialmente socialista e poco dopo fonda il Groupe d'études sociales d'Orléans. Nel 1897 sposa Charlotte Baudouin e pubblica Jean d'Arc, oltre al primo manifesto socialista (De la cité socialiste).

Abbandonata l'università, fonda nel 1900 i Cahiers de la Quinzaine per informare i lettori, in verità e libertà, sugli eventi politici del momento. In essi pubblicherà tutti i suoi scritti più importanti: De Jean Coste (sulla miseria), La chanson du roi Dagobert (critica del regime parlamentare), La nostra patria (sulla guerra, 1905). Nel 1908 confida a Lotte di aver ritrovato la fede e di essere cattolico, come appare dalla nuova produzione: Il mistero della carità di Giovanna d'Arco (1910), La nostra giovinezza, (sulla non opposizione tra il suo socialismo precedente e il cristianesimo, 1910), Il portico del mistero della seconda virtù (1911), Il mistero dei santi innocenti (1912), Eva (1913) ....

Il 4 agosto 1914 parte per il fronte con il grado di tenente; muore il 5 settembre, primo giorno della battaglia della Marna. È sepolto nella Grande Tombe di Villeroy.

 

Clemente Rebora

Nacque (quinto di sette figli) a Milano nel 1885 in una tipica famiglia di quella borghesia settentrionale che parecchio contribuì al progresso sociale ed economico dell'Italia tra i due secoli, attingendo a una spiritualità laica di impronta mazziniana. Laureatosi nel 1910 con una tesi su G. D. Romagnosi, si sentì ben presto estraneo al mondo accademico, finendo a insegnare in scuole tecniche e, anche, in scuole serali e popolari, spinto dall'impulso di "giovare scomparendo".

Nel 1913 pubblica la prima raccolta di poesie, Frammenti lirici. Partecipa alla prima guerra mondiale e i traumi subiti durante il conflitto lo fanno precipitare in una grave crisi esistenziale che ha come risvolto l'inizio di una seria ricerca religiosa. Si collocano in questo clima i Canti anonimi, pubblicati nel 1922.

Il cammino di conversione al cattolicesimo ha tappe particolarmente significative: la prima comunione nel 1929, l'entrata come novizio presso l'Istituto della Carità - la congregazione fondata da Antonio Rosmini - nel 1931 e l'ordinazione sacerdotale nel 1936. Vive il ministero a Domodossola, Rovereto e Stresa come educatore, predicatore e direttore spirituale.

Colpito da grave malattia, riprende anche, fino a quando gli sarà possibile, la sua attività di studioso e di poeta. Nascono così il Curriculum vitae e i Canti dell'infermità, frutti estremi della poesia reboriana ormai vagliata e purificata dalla fede. Muore a Stresa nella festa di Tutti i Santi del 1957.

 

David Maria Turoldo

Giuseppe Turoldo nasce a Coderno (Udine) il 22 novembre 1916, ultimo dei nove figli di Giambattista e Anna di Lenarda. A diciotto anni entra come novizio nel convento dei Servi di Santa Maria a Monte Berico e nel giorno della professione assume il nome di David Maria. Compiuti gli studi filosofici e teologici, è ordinato sacerdote (1940) e inviato poi a Milano nel convento di S. Carlo. Qui fonda, con alcuni amici, il giornale clandestino L'uomo (dove pubblica anche le prime poesie poi raccolte in Io non ho mani) e in seguito il Centro culturale "Corsia dei Servi". Predicatore in Duomo, si segnala anche per l'attenzione ai più poveri e collabora con don Gnocchi e con don Zeno Saltini a Nomadelfia. Per questo, oltre che per le sue idee politiche, gli sarà imposto di lasciare l'ltalia: comincia così il suo peregrinare per tutta l'Europa, Inghilterra, Canada, Messico, Sud Africa sempre in contatto immediato con gli ultimi -, interrotto dal periodo fiorentino (1954-59) in cui riprende le iniziative "milanesi".

Rientrato in Italia, alla morte di Giovanni XXIII si trasferisce a Sotto il Monte e gli viene affidata l'abbazia di S. Egidio a Fontanella che diventa importante centro ecumenico. Partecipa a trasmissioni radio televisive, collabora a giornali, fonda la rivista Servitium e dà vita alla "Casa di Emmaus". Continua l'attività di scrittore con poesie (raccolte in O sensi miei... Poesie 1948-1988, 1990), testi teatrali (raccolti in Teatro, 1999) e saggi; l'attenzione e il gusto per la liturgia sono all'origine della traduzione dei Salmi (1973) e di Opere e giorni del Signore (1989), Il Vangelo di Giovanni (Premio Lazzati 1991).

Nel 1989 si scopre un tumore al pancreas: inizia la sua vita da "paziente". Nel 1991 pubblica Canti Ultimi e l'anno successivo Mie notti con Qohelet, e Il dramma è Dio. Muore a Milano il 6 febbraio 1992 e viene sepolto a Fontanella.

 

Miguel de Unamuno

Nasce a Bilbao nel 1864 e dopo aver compiuto gli studi liceali si trasferisce a Madrid, dove si dedica allo studio della letteratura e della filologia fino al 1884. Partecipa a diversi concorsi riuscendo infine a ottenere la cattedra di greco all'Università di Salamanca, di cui diverrà anche rettore.

Verso il 1894 inizia sia la sua attività politica all'interno del partito socialista spagnolo, sia l'attività letteraria con numerose opere di narrativa (Pace nella guerra, 1897; Nebbia, 1914; Abel Sanchez, 1917; San Manuel Bueno, 1933; Tre novelle esemplari, 1920), teatro (Fedra, 1910; L'altro, 1926; Ombre di sogno, 1926) e poesia (Il Cristo di Velazquez, 1920; Romancero dell'esilio, 1928; Canzoniere, Diario poetico, pubblicato postumo nel 1955).

A causa della sua avversione alla dittatura di Primo de Rivera, viene esiliato a Fuerteventura, nelle isole Canarie, da dove riesce a fuggire in Francia, vivendo prima a Parigi e poi a Hendaye. Nel 1931 ritorna a Salamanca dove, oltre alla cattedra di lingua spagnola, riassume il rettorato. Eletto sindaco onorario della città e chiamato a far parte della Real academia espanola, nell'agosto del 1936 è destituito dall'incarico per aver criticato il governo della Seconda Repubblica. Riconfermato in carica dai nazionalisti, viene nuovamente deposto e condannato agli arresti domiciliari a causa di un violento scontro con un generale. Muore dopo soli due mesi.

I testi citati

G. BERNANOS, Dialoghi delle Carmelitane, Brescia, Morcelliana, 1987

GEORGE BERNANOS, Diario di un curato di campagna, Milano, Mondadori, 1994

GEORGE BERNANOS, La gioia, Roma, Logos, 1985

PAUL CLAUDEL, Credo in Dio, Torino, SEI, 1964

PAUL CLAUDEL, La rosa e il rosario, Milano, Vita e Pensiero, 1954

PAUL CLAUDEL, Via crucis, Novara, Interlinea, 1997

MARIO LUZI, Via crucis, Roma, libreria Editrice Vaticana, 1999 Milano, Garzanti, 1999

FRANCOIS MAURIAC, Giovedì Santo, Brescia, Morcelliana, 1932

FRANCOIS MAURIAC, Il Figlio dell'Uomo, Bologna, Nigrizia, 1963

FRANCOIS MAURIAC, Vita di Gesù, Milano, Mondadori, 1950

CHARLES PÉGUY, Getsemani, Milano, Jaca Book, 1992

CHARLES PÉGUY, I Misteri, Milano, Jaca Book, 1994

CLEMENTE REBORA, Le Poesie, Milano, Garzanti, 1998

DAVID MARIA TUROLDO, Canti ultimi, Milano, Garzanti, 1991

DAVID MARIA TUROLDO, Neanche Dio può stare solo, Casale Monferrato, Piemme, 1991

DAVID MARIA TUROLDO, O sensi miei..., Milano, Rizzoli, 1993

MIGUEL DE UNAMUNO, Il Cristo di Velazquez, Brescia, Morcelliana, 1948

 

 

L'entrata Trionfale

l Povero e i poveri

L'ENTRATA TRIONFALE

E guarda, a proposito, quell'episodio dell'entrata trionfale a Gerusalemme io lo trovo così bello!

Nostro Signore si è degnato assaggiare il trionfo come tutto il resto, come la morte, non ha rifiutato nulla delle nostre gioie, non ha rifiutato che il peccato.

Ma la sua morte, diamine!, l'ha curata, non vi manca nulla.

Invece, il suo trionfo, è un trionfo per bambini, non ti pare? Un'immagine di Épinal, con l'asinello, le fronde verdi, e la gente di campagna che batte le mani. Una parodia gentile, un po' ironica, delle magnificenze imperiali. Nostro Signore sembra sorridere - Nostro Signore sorride spesso -, ci dice: «Non prendete troppo sul serio questo genere di cose; ma infine ci sono dei trionfi legittimi, non è proibito trionfare; quando Giovanna d'Arco rientrerà in Orléans sotto i fiori e le orifiamme, con la sua bella tunica di panno d'oro, non voglio che creda di far del male.

Poiché ci tenete tanto, miei poveri ragazzi, l'ho santificato, il vostro trionfo, l'ho benedetto, come ho benedetto il vino delle vostre vigne».

E, quanto ai miracoli, nota bene, è la stessa cosa. Non ne fa più del necessario. I miracoli sono le immagini del libro, le belle immagini.

Bernanos, Diario di un curato di campagna, pp. 173-174

IL POVERO E I POVERI

È la parola più triste dell'Evangelo, la più carica di tristezza. Prima di tutto, è rivolta a Giuda.

Giuda! San Luca ci riferisce che teneva i conti e che la sua contabilità non era pulitissima; e sia pure! Ma infine era il banchiere dei Dodici; e chi ha mai visto in regola la contabilità d'una banca? È probabile che gravasse un po' sulla provvigione, come tutti. A giudicare dalla sua ultima operazione, non sarebbe stato un brillante commesso d'agente di cambio, Giuda. Ma il buon Dio prende la nostra povera società qual è; al contrario di quello che fanno i buffoni che ne fabbricano una sulla carta, poi la riformano a tutta forza, sempre sulla carta, beninteso!

A dirla in breve, Nostro Signore conosceva benissimo il potere del danaro; e ha fatto accanto a sé un posticino al capitalismo; gli ha lasciato le sue possibilità; ha fatto persino il primo deposito di fondi. Trovo tutto questo prodigioso, che vuoi! Così bello! Dio non disprezza nulla.

Dopo tutto, se l'affare fosse andato bene, Giuda avrebbe probabilmente sovvenzionato dei sanatori, degli ospedali, delle biblioteche o dei laboratori. Avrai osservato che già s'interessava al problema del pauperismo, come un milionario qualsiasi. «Ci saranno sempre dei poveri tra voi» risponde Nostro Signore, «ma io non sarò sempre con voi». Il che significa: Non lasciar suonare invano l'ora della misericordia. Tu farai meglio a restituire immediatamente il danaro che m'hai rubato, invece di cercar di montare la testa dei miei apostoli con le tue speculazioni immaginarie sui fondi di profumeria e sui tuoi progetti d'opere sociali.

Per di più, credi di lusingare così il mio conosciutissimo gusto per i senzatetto; e sbagli completamente. Io non amo i miei poveri come le vecchie inglesi amano i gatti sperduti, o i tori delle corride. Sono abitudini da ricchi, codeste. lo amo la povertà d'un amore profondo, riflessivo, lucido - da uguale a uguale - come una sposa dal fianco fecondo e fedele. L’ho coronata con le mie proprie mani. Non le fanno onore tutti quelli che vogliono, e chi non ha prima rivestito la bianca tunica di lino non può servirla. Il pane dell'amarezza non può romperlo con lei chiunque voglia farlo. Ho voluto che sia umile e fiera, non servile. Non rifiuta il bicchiere d'acqua, purché sia offerto in mio nome; ed è in nome mio che lo riceve.

Se il povero traesse il suo diritto soltanto dalla necessità, il vostro egoismo lo avrebbe presto condannato allo stretto necessario, pagato con una riconoscenza e una servitù eterne. Così, oggi tu ti adiri contro questa donna che ha irrorato i miei piedi con un nardo pagato carissimo, come se i miei poveri non dovessero mai profittare dell'industria dei profumieri.

Sei proprio di quella razza di persone che, avendo dato due soldi a un vagabondo, si scandalizzano di non vederlo precipitarsi sull'istante dal fornaio, a riempirsi di pane raffermo che il commerciante, d'altronde, gli venderebbe come pane fresco. Al posto suo, andrebbero anche loro dal mercante di vino, giacché il ventre d'un miserabile ha più bisogno d'illusione che di pane. Disgraziati!

L’oro, a cui date tanta importanza, è forse qualcosa di diverso da un'illusione, da un sogno, e spesso soltanto dalla promessa d'un sogno? La povertà grava molto sulle bilance del mio Padre Celeste, e tutti i vostri tesori di fumo non ne equilibreranno i piattelli. Ci saranno sempre dei poveri, tra voi, per questa ragione: che vi saranno sempre dei ricchi, cioè degli uomini avidi e duri, i quali cercano meno il possesso che la potenza. Di questi uomini ve n'è tra i poveri come tra i ricchi; e il miserabile che smaltisce in un rigagnolo la sua ubriachezza forse è gonfio degli stessi sogni del Cesare addormentato sotto le cortine di porpora.

Ricchi o poveri, guardatevi piuttosto nella povertà come in uno specchio; poiché essa è l'immagine della vostra fondamentale delusione; essa conserva quaggiù il posto del Paradiso perduto, è il vuoto dei vostri cuori, delle vostre mani. L’ho messa così in alto, l'ho sposata, incoronata, solo perché conosco la vostra malizia.

Se avessi permesso che la consideraste come una nemica, o solo come una straniera, se vi avessi lasciato la speranza di cacciarla un giorno dal mondo, avrei nello stesso momento condannato i deboli. Giacché i deboli saranno sempre, per voi, un fardello insopportabile, un peso morto che le vostre orgogliose civilizzazioni si mandano dall'una all'altra, con ira e disgusto. Ho posto il mio segno sulla loro fronte, e voi non osate più avvicinarli altro che strisciando, divorate la pecora spersa, non oserete mai più attaccare il gregge. Basterebbe che il mio braccio si allontanasse un momento perché la schiavitù, che odio, risuscitasse da sé: poiché la vostra legge tiene i suoi conti in regola, e il debole non può dare altro che la propria pelle.

Bernanos, Diario di un curato di campagna, pp. 54-56

 

 

Omelia tenuta domenica 20 marzo 2005 nella Chiesa Sacra Famiglia di Cinisello Balsamo – Cattaneo Armando

Domenica delle Palme 2005.

La Religione di massa: uno stile superato e da superare.

Con la Domenica delle Palme inizia la Settimana Santa: guardiamola nel suo insieme!

-  In quella splendida mattina di primavera, a Gerusalemme la gente era tanta e tutta acclamava Gesù. Gesù attraversa il podere dell’orto degli ulivi con migliaia di persone intorno!

-  - Il giovedì sera però, all’ultima cena di Gesù, erano rimasti solo i suoi Apostoli … e neanche quelli erano tutti buoni! Ritorna nel Getzemani ormai solo, mai tanto solo! E persino i suoi Apostoli si addormentano e non gli fanno compagnia.

-  il venerdì, che per gli Ebrei era la vigilia della loro Pasqua (Sabato), la folla torna in piazza… ma non è più per Gesù. I potenti l’avevano imbambolata e se l’erano tirata con sé.

-  la domenica mattina seguente, la mattina di Pasqua per noi cristiani, solo un gruppetto di donne pensa ancora a Gesù! Eppure, mentre ancora tutti dormivano, Gesù che i potenti credevano di avere addormentato per sempre, si rialza! Risorge! Eppure quella fu la mattina della Nuova Creazione, del mondo nuovo! La mattina della risurrezione, della morte fatta a pezzi!

 

Che succederà quest’anno, 2005? Si ripeterà questa medesima sequenza?

+Anche qui adesso voi siete tanti e pieni di entusiasmo: proprio come a Gerusalemme, quella mattina di sole!

+Vorrei tanto che giovedì sera non restiamo solo “i fedelissimi”, quelli che vanno sempre in chiesa…

 

+Venerdì, già lo so, torneremo ad essere in molti qui in chiesa. Ma, temo, non tanto ad ascoltare insieme, alle tre del pomeriggio, il racconto della passione, quanto piuttosto per un bacio alla croce, una devozione personale. Buona cosa, certo, ma che risponde più ad una tradizione che al rivivere insieme tra noi e con Cristo la sua Passione.

+ la notte di Pasqua, infine, dove saremo? Saremo già presi dai viaggi, dai parenti, da cene e pranzi, dalla gita fuori porta, e che Cristo Risorga non ci importerà più di tanto? Tanto lo sappiamo già come va a finire!?

E si! Questa è la Religione di Massa! Assomiglia molto a un fatto di convenienza. Che sia economica (molti poveri nella religione cristiana trovano pane) o sociale (molti, specie al sud, trovano nella chiesa un ruolo e un rango) o persino convenienza politica (la Chiesa è sempre la Chiesa!). Magari addirittura un fatto di convenienza “eterna” (salviamoci dal rischio dell’inferno!).

 

Spero sentiate tutti una certa stonatura! C’è una sfasatura tra quello che Gesù ci vuole donare (se stesso, la sua vita) e quello che noi ci aspettiamo da lui! Noi magari apprezzeremmo un po’ di salute molto di più dell’avere Lui sofferto per noi la sua tremenda Passione! Gradiremmo quella tal grazia ben di più della sua Risurrezione!
E’ una sfasatura che fa soffrire Gesù e che deve mettere in discussione le modalità della nostra fede.

 

Cari bambini: oggi tutta la folla fa festa a Gesù, ma lui è silenzioso, pensieroso. Non si sente capito: lui ha scelto apposta un asinello, per dimostrare che è un re di pace (nessuno mai ha fatto la guerra con gli asini, la guerra la si fa coi cavalli!) e la gente si esalta come per un condottiero che guida la rivolta contro i Romani! E’ brutto non essere capiti! E’ come quando tu hai un sacco di pretese e magari non capisci che i tuoi genitori non approvano certi tuoi comportamenti: si sentono delusi da te! E’ brutto!

 

La festa della gente a Gesù è fuori luogo, oggi: lui va a Gerusalemme non da vincitore ma ci va a morire per amore! Ma questo lo capisce solo chi ha con Gesù confidenza, attenzione, rispetto! Le masse no, quelle vanno per conto loro!

E forse l’attuale crisi di fede deriva proprio dal fatto che questa fede proviene da un fenomeno di massa: va in crisi, nell’impatto con il mondo attuale, la fede fondata solo sulle processioni del venerdì santo! Come qui da noi rischia di andare in crisi la fede “da calendario scolastico”: a messa se c’è catechismo e scuola, niente messa se ci sono le vacanze (di Natale, estive o di Pasqua non conta: è vacanza e a messa non ci vado!).

Ormai non siamo più cristiani di massa, di maggioranza! Apriamo gli occhi! Per disgrazia o per fortuna noi cristiani siamo nella società un piccolo gregge. Il fatto dell’ulivo è emblematico: don Armando, perché ci manda a casa l’ulivo con il calendario? Lo prendiamo già tutti in chiesa! Ed io devo rispondere: “Tutti chi? Tutti noi, 10 famiglie su 100!”. Noi che veniamo in chiesa siamo assoluta minoranza ma continuiamo a credere di essere “tutti”. Questo è grave perché ci spinge ad accontentarci di una RELIGIONE DI MASSA, che è superficiale e che crolla davanti alle difficoltà della vita!

Ecco perché è decisivo avere forti convinzioni personali. Essere lievito: forti, convinti, pieni di speranza, di gioia, ricchi di una vita piena, realizzati grazie alla fede in Gesù, caricati e motivati!
Vi aspettiamo giovedì, sera, venerdì pomeriggio e sabato notte!!

 

 

Trincee a Gerusalemme

Il profumo dello scandalo

L'Agnello sente l'ammazzatoio

Gesù ormai solo osserva

Gesù è mascherato in mezzo agli uomini

IL TRIONFO DA SCHERZO

All'alba dovettero supplicarlo: «Soprattutto non passar la notte nella città, vieni a nasconderti qui, la sera». La folla batteva alla porta. Gli avevano condotto un somarello. Egli montò sulla bestia e si avanzò in mezzo alle grida dei fanciulli e delle donne. Mani agitavano dei ramoscelli. Eccolo dunque, il giorno sognato dall'uomo di Keriot! Egli aveva creduto che il Maestro, alla testa d'un popolo armato e fanatico, la corona in fronte, avrebbe fatto tremare i Romani davanti alla sua onnipotenza...

E quella speranza mette capo al trionfo derisorio di un Rabbi estenuato, già promesso al patibolo, d'un fuorilegge che dà a testa china nella trappola, in mezzo a una marmaglia imbecille. Ben possono stendere i loro vestiti sotto le zampe dell'asinello e acclamare il Nazzareno Figlio di Davide e Re d'Israele: ciascuno di quegli osanna aggiunge una spina alla sua corona, una punta alle corregge degli staffili che lo flagelleranno.

I Farisei protestavano: «Non avete vergogna! Fateli tacere! ». Allora il povero trionfatore, dall'alto del suo asino, lanciò la sublime sfida ove Dio si manifesta: «Se costoro tacciono, le pietre grideranno!».

E già sorgono, nel cielo del mattino, la.città e il Tempio.

Il Cristo non ne distoglie più gli occhi. Lazzaro gli ha spremuto le sue prime lagrime. Ora è sulla città, che piange. Non la maledice. Decifra la sua spaventevole storia; geme:

«Se tu conoscessi, anche tu, in questo giorno che ti è dato, ciò che farebbe la tua pace! Ma ora queste cose sono celate ai tuoi occhi. Verranno su te dei giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, t'investiranno e stringeranno da ogni parte; ti rovesceranno a terra, te e i tuoi figli che sono nel tuo seno, e non lasceranno nella tua cinta pietra su pietra, poiché non hai conosciuto il tempo in cui sei stata visitata».

 

Mauriac, Vita di Gesù, pp. 118-119

IL POVERO E I POVERI

Un lebbroso ch'egli aveva guarito, di nome Simone, lo pregò di cenare con Lazzaro e le due sorelle. Marta, secondo il solito, serviva.

Questa Maria che entrò nella sala con una libbra d'olio odorifero, era dunque la peccatrice medesima che innaffiò di lacrime i suoi piedi? Questa contemplativa è anche lei una pentita? Checché ne sia, Maria è pervenuta a quel grado di amore che le rivela la sua propria miseria, e altro non le rimane fuorché modestamente imitare il gesto della cortigiana che ella fu. Ella dunque entrò come aveva fatto l'altra, con un alberello di profumo.

Un'atmosfera di febbre regnava intorno all'uomo che, dopo risuscitato Lazzaro, andava alla testa del popolo a forzare le porte di Gerusalemme, e a sfidare i pontefici e gli stessi Romani. La speranza, in più d'uno, vinceva il timore.

Posto che l'avversario esitava, impossibile impadronirsi del Nazzareno durante le feste senza sollevare il popolo. Il Consiglio gli aveva messo accanto alcuni osservatori. L’uomo di Keriot li trattava con riguardo, mantenendo un certo riserbo: fino all'ultimo momento, impossibile prevedere quale piega l'avventura prenderebbe. Da uomo savio teneva gli occhi aperti, pronto a valersi dell'evento; e in occulto radunava un peculio tolto alla borsa comune: sempre tanto di guadagnato. 

Un solo cuore, sollecitato dall'amore, indovinava in quell'uomo coricato, in Gesù, una creatura stanca di correre, un cervo sfinito, errante di rifugio in rifugio. La lampada non ha più olio (la lampada del suo corpo). Sola rimane a Gesù la forza di sopportare e soffrire. È facile immaginare lo sguardo che si scambiano quella santa fanciulla e il Figlio dell'uomo.

Gli altri non vedono nulla. Ma egli sa che Maria ha compreso, mentre il vaso d'alabastro si spezza e spande il suo profumo. E Maria umilmente, come la peccatrice, asciuga coi suoi capelli i piedi adorati.

E d'un tratto la voce di Giuda che li fa fremere, l'una e l'altro: «Si poteva vendere quel profumo per duecento denari e distribuirli ai poveri!». Gesù tiene fisso lo sguardo su quelle due anime, l'una arsa d'amore, l'altra di avarizia e di gelosia. Non ha mai parlato a Giuda se non con una grave dolcezza quasi intimidita dall'orrore di quel destino.

«Lasciala. Perché le dai noia? È una buona azione ch'ella ha fatto verso di me, poiché voi avrete sempre dei poveri con voi, e quando vorrete potrete far loro del bene, ma me non mi avrete sempre. Ella ha fatto ciò che ha potuto; ha anticipato d'ungere il mio corpo per la sepoltura. Lo vi dico in verità che dovunque questo Evangelo sarà predicato, per tutto il mondo, sarà altresì raccontato ciò che costei ha fatto, per glorificare la sua memoria».

Annuncia egli stesso la sua sepoltura? Giuda si avvicina agli scribi che osservano... Non ha ritenuto che quella parola: sepoltura. Non vede nulla al di là di ciò che è immediato.

Quel brusco lampo sui secoli avvenire: «Dovunque quest'Evangelo sarà predicato, per tutto il mondo...» non rischiara il suo cuore notturno. Anche lui, forse, è colpito dai segni di stanchezza e di logoramento che appaiono in Gesù: un uomo finito.

Mauriac, Vita di Gesù, pp. 116-117

Subito dopo queste parole, Gesù s'interruppe. Sembra veder la sua mano tremante scorrere dalla fronte agli occhi, quasi per non vedere, a due passi da lui, quella porta aperta sulle tenebre: «Ora la mia anima è turbata, e che dirò?». L’uomo in lui è combattuto; l'agnello sente l'ammazzatoio, non vuol più avanzare, si irrigidisce. «Padre, liberami da quest'ora!».

Ma tosto si riprende: è per questa agonia e per questa morte che è venuto. Non è più al popolo, che si rivolge: ma a sé medesimo, per confortarsi, mentre getta il grido di vittoria: «E io, quando sarò innalzato sopra la terra, trarrò tutti a me». Tutti, e anche quelli che lo tortureranno. E tutte le cose altresì, e la carne purificata di Lazzaro.

Mauriac, Vita di Gesù, p. 120 Nell'attesa dell'ora, il Figlio dell'uomo non agisce quasi più. Si limita a guardar passare la gente: gli scribi in lunghe vesti riveriti per tutto in grazia delle loro interminabili preghiere, i fedeli che gettano i loro doni nella cassa delle offerte. Appoggiato a una colonna, nel recinto del Tempio, Gesù si inquieta, si fa beffe dei Farisei, e al tempo stesso s'intenerisce per una vedova che offre a Dio la sua stessa indigenza. Che vale un'elemosina che non ci priva di nulla? Forse, noi non abbiamo mai dato nulla.

Mauriac, Vita di Gesù, pp. 123-124 Allora il Re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del padre mio: ereditate il regno che vi è stato apparecchiato dalla fondazione del mondo. Perché io ebbi fame, e voi mi deste da mangiare; ebbi sete, e voi. mi deste da bere; fui forestiero, e voi mi accoglieste; ignudo, e mi rivestiste; infermo, e mi visitaste; in prigione, e voi veniste a me». I giusti risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo noi veduto aver fame, aver sete; quando ti abbiamo veduto forestiero, o ignudo, o malato, o in prigione?». E il Re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutte le volte che l'avete fatto a uno di questi miei minimi fratelli, è a me che voi l'avete fatto».

Quale speranza! Tutti coloro che scopriranno che il loro prossimo era lo stesso Gesù appartengono, dunque, alla moltitudine di quelli che ignorano il Cristo o l'hanno dimenticato. E nondimeno sono essi, i diletti. Non è in potere di alcuno, tra coloro che portano la carità nel cuore, di non servire il Cristo. Taluno che crede odiarla gli ha consacrato la vita; poiché Gesù è travestito e mascherato in mezzo agli uomini, nascosto nei poveri, negli infermi, nei prigionieri, nei forestieri. Molti che lo servono ufficialmente, non seppero mai chi egli è; ma molti che non lo conoscono neppur di nome, udranno l'ultimo giorno le parole che spalancheranno loro le porte della gioia.

«Ero io, quei figliuoli, ero io, quegli operai; io piangevo su quel letto di ospedale; ero quell'assassino nella sua cella, quando tu lo consolavi».

Mauriac, Vita di Gesù, p. 126

 

 

Prologo

Offertorio

PROLOGO

I miei giorni camminano

davanti ai Tuoi

e dànno loro un senso.

 

Essi Ti hanno strappato

alla Tua dimora eterna

facendoTi

il primogenito dei perduti.

 

Tu ora non sei

che un nostro fratello,

hai sofferto in Te

ogni nostro dolore.

Noi ti sentiamo vicino

nel Tuo lamento

e nel Tuo pianto

sulla fossa di Lazzaro.

 

Ora la nostra carne non Ti abbandona;

sei un Dio che si consuma

in noi. Un Dio

che muore.

Turoldo, O sensi miei..., p.80

 

Offertorio

Preparate vasi ai davanzali,

stendete da balcone a balcone

ghirlande di glicine e magnolie:

o gente, affacciatevi alle porte,

torno ora dai campi e il corpo

è un fascio solo di profumi:

m'invocava l'attesa dei fanciulli

e l'amore infallibile delle cose.

Questo è un ramo di pesco tutto sangue

e questo è un mazzo di vitalbe

e corone di narcisi e rosmarino

e questo è un ramo di bosso tutto candore...

 

Si ammantano i prati all'imminente rito,

sorridono olivi al mio passaggio,

mi espande il vento sulle colline

e come stelle al prodigio

splendono croci e vessilli

dalle torri e dai templi.

Sono laghi di colore gli occhi

delle fanciulle a sera.

 

Pensieri ramificano eguali

a radici giù per il corpo;

nessuno può essere sradicato dalla terra:

frumento e vite

fioriscono per la carne di Dio...

 

Turoldo, O sensi miei..., p. 292

 

La gioia

 

Egli ha amato come un uomo, umanamente, l'umile retaggio umano, il povero focolare, la tavola, il pane e il vino, le strade grigie, dorate dagli scrosci di pioggia, i villaggi coi loro fili di fumo, le piccole case tra le siepi spinose, la pace della sera che cala e i bimbi che giocano sulle soglie.

 

Ha amato tutto ciò umanamente, al modo umano, ma come nessun uomo mai aveva amato, né mai amerà. Così puramente, stringendo tutto a sé, con quel cuore che aveva foggiato per questo con le proprie mani. E la vigilia, mentre gli ultimi discepoli discutevano tra loro la tappa da percorrersi l'indomani e dove dormire e che cosa mangiare, come fanno i soldati prima di una marcia notturna, un po' vergognosi però di lasciare il Rabbi salire lassù quasi solo, gridando forte apposta con le loro voci paesane e battendosi sulle spalle, all'uso dei bovari e dei sensali di cavalli, lui, benedicendo intanto le primizie della sua prossima agonia, come aveva benedetto quel giorno stesso la vigna e il frumento, consacrando per i suoi (dolorosa gente, la sua opera) il Corpo sacro, l'offrì a tutti gli uomini, lo sollevò verso di loro con le sue mani sante e venerabili, al di sopra della vasta terra addormentata, di cui tanto aveva amato le stagioni.

L’offrì una volta, una volta per tutte, ancora nello splendore e nella forza della giovinezza, prima di darlo in balìa alla paura, di lasciarlo faccia a faccia con la ripugnante paura, fino alla remissione del mattino. Senza dubbio l'offrì a tutti gli uomini, ma non pensava che a uno solo. Il solo al quale quel corpo appartenesse davvero, al modo umano, come quello di uno schiavo al suo padrone, poiché si era impadronito di lui con l'astuzia ed aveva disposto di lui come di un bene legittimo, in virtù di un contratto di vendita, stipulato nelle dovute forme, correttamente.

Il solo perciò che potesse sfidare la misericordia, entrare con un salto nella disperazione, fare della disperazione la sua dimora, coprirsi di essa, come il primo assassino si era coperto della notte. Il solo uomo tra gli uomini che possedesse realmente qualcosa, che fosse provvisto, giacché ormai non aveva più niente da ricevere da nessuno, eternamente.

Bernanos, La gioia, pp. 249-250

 

Cattaneo Armando

Omelia tenuta nella Missa in Coena Domini nella Chiesa Sacra Famiglia di Cinisello Balsamo, il 24. 03. 05

 

Giovedì Santo 2005. Messa “in Coena Domini” La Comunità parrocchia.

Gesù in quella sera che riviviamo proprio ora era in vena di confidenze e voglio anch’io cominciare con una confidenza: vari di voi, confessandosi e iniziando con una cosa bella di cui ringraziare il Signore, mi hanno detto: “Ringrazio il Signore per la nostra Comunità, la nostra Parrocchia”.

Gesù questa sera la passa con noi, in intimità profonda, a cuore aperto! Certo si dona per tutti gli uomini, però sta qui in compagnia di pochi, noi! Essere presenti stasera non fa parte dei riti della Religione di massa di cui vi dissi Domenica! Questa sera è il momento dei discepoli, degli amici (“Non vi chiamo servi ma amici”).

Vorrei che capissimo insieme che essere qui stasera, come del resto essere qui ogni domenica, non è un merito, non significa essere “bravi”, non significa poter vantare qualcosa con Dio (c’era anche Giuda, che proprio perfettino non era, ma neppure il Gran capo, Pietro!). Al contrario significa essere stati invitati, immeritatamente, da Gesù alla sua ultima cena. Ogni Eucaristia è una delicatezza squisita di Gesù che non ci dimentica, ma anzi ci invita personalmente: “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con te!”

La vita cristiana tutta intera è ben rappresentata da questo banchetto: è infatti un rapporto personale e insieme comunitario con Gesù. E questa sera è il momento ideale per curare, rinforzare e rinnovare il nostro legame sia personale con Gesù sia comunitario con i fratelli nella fede.

Personale:

Permettetemi di dirvi che il rapporto con il Signore Gesù “presente nell’Eucaristia” dev’essere legato prima di tutto alla celebrazione della Santa Cena, all’ascolto della sua parola, e poi solo come estensione all’adorazione eucaristica, che faremo pure questa notte. L’ostia santa non va mai adorata scollegandola dall’evento – messa! Mai pregata senza l’aiuto della parola di Gesù stesso! Non va presa per un idolo! Allora si che si crea intimità con un Tu, altrimenti il rapporto con il Signore rischia di essere autoreferenziale, un fargli dire quel che voglio e un ascoltare da lui quel che voglio ascoltare!

 

Comunitario:

Ognuno di noi ha la sua storia. Può avere incontrato il Signore su strade anche molto diverse: in oratorio, in un movimento (CL o Focolarini, Opus Dei oppure Rinnovamento dello Spirito… Scouts o Volontariato Terzomondiale), nell’impegno sociale o addirittura in una devianza, nel carcere o sul posto di lavoro…

Bene. Questo testimonia che è vero che lo Spirito di Gesù soffia dove vuole e agisce ovunque. Poi però tutte le strade convergono in un centro che è la Comunità Parrocchiale, anzi l’Assemblea Eucaristica Domenicale, che è qualcosa che va aldilà di ogni esperienza cristiana specifica, le supera tutte e unisce tutte le varie esperienze, riportandole tutte all’essenziale: Cristo Gesù.

La Parrocchia supera ogni figura sia pure carismatica di riferimento (don Giussani, Chiara Lubich, sant’Escrivà, Aguello…) per miscelare le varie preziose specificità nell’unica vera grande comunità cristiana che è appunto l’Assemblea Eucaristica Parrocchiale. Questa non ha l’eguale neppure nella Eucaristia intensissima di un Monastero o del Seminario o in quella oceanica di piazza San Pietro! Non esagero, è la buona teologia cristiana di sempre che lo afferma!

Infine questa sera Gesù sembra dirci che vuole essere da noi conosciuto. Lo conosciamo? Quanto tempo dedichiamo a leggere di Lui, a sentire parlare di Lui. Non di cose genericamente religiose, ma della sua persona. Ho già detto di aver rivisto poco tempo fa una riproduzione della Sindone molto dettagliata: mi ha affascinato e mi ha scandalizzato! Bellissimo quell’uomo, calmissimo, dominatore della situazione nonostante … “quella” situazione! Eppure limitato: alto come me, pesante forse come me… Ogni volta che mi scoraggio per il nostro sito su Gesù, mi riprendo considerandolo un gesto d’amore esplicito verso di Lui.

 

Tra cena e agonia

Possedere chi si ama

Epistola

Il Vangelo

Il viatico

La lavanda dei piedi

Il sacramento dell'Ordine

 

GIOVEDÌ SANTO

Nel giorno del Giovedì Santo, un'ora sola dà al cristiano la gioia di una grazia inestimabile: nella notte stessa del tradimento, il Signore Gesù prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo offerto per voi. Fate questo in memoria di me». Similmente, dopo aver cenato, prese il calice e disse: «Questo è il calice della nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne berrete, in memoria di me».

L’anniversario della sera nella quale la piccola Ostia si levò sul mondo addormentato nelle tenebre dovrebbe riempirci di gioia. Ma la notte è questa, nella quale "il Signore Gesù venne tradito”. I suoi amici, mentre serbano ancora in bocca il sapore del pane, sono sul punto di abbandonarlo, rinnegarlo, tradirlo.

Anche noi, nel Giovedì Santo, abbiamo ancora in bocca il gusto del Pane, che non è più pane, e nemmeno abbiamo finito d'adorare presente nel nostro corpo l'inimmaginabile umiltà del Figlio di Dio, che dobbiamo alzarci in fretta per seguirlo all'orto dell'agonia.

Vorremmo soffermarci, ritrovare contro la spalla il posto dove la fronte di Giovanni si è posata a rivivere in spirito il minuto della storia del mondo, nel quale un boccone fu spezzato tra un grande silenzio e poche parole bastarono a sigillare l'alleanza nuova del Creatore con la sua natura [...].

Tutto il Giovedì Santo, tutta questa lunga giornata di primavera non basterebbe ad esaurire una meditazione ardente di gioia. Ma la Mensa è finita e bisogna entrare nelle tenebre del Giardino; impossibile sostare ancora un solo minuto. Piacque al Signore di istituire l'Eucaristia la notte stessa del tradimento e il mistero si compie mentre il Suo corpo sta per essere spezzato come il pane, ed il Suo sangue versato come il vino. Era necessario che la piccola Ostia si levasse sul mondo proprio in quel momento: oscurata dall'ombra del traditore, che ha già tradito, e della turba di Caifa che complotta.

Mauriac, Giovedì Santo, pp. 15-18

Il Maestro aveva abbassato gli occhi, e tutti guardavano quel volto familiare e sconosciuto, che non era mai il medesimo, incessantemente plasmato e riplasmato da sentimenti ignoti, inumani. Egli teneva un pezzo di pane tra le dita. Lo ruppe con le sante e venerabili mani, e lo distribuì loro dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi, preso il calice e rese le grazie, lo diede loro, e tutti ne bevvero.

E disse loro: «Questo è il mio sangue, il sangue del nuovo patto, che sarà sparso per molti. Io vi dico, in verità, che io non berrò più del frutto della vigna, fino a quel giorno che lo berrò di nuovo nel regno di Dio».
Che cosa compresero quelli che or ora avevano avuto parte di quel corpo e di quel sangue? Il Figlio dell'uomo era lì, adagiato al centro della tavola, e nello stesso tempo ciascuno di loro lo sentiva fremere dentro di sé, palpitare, bruciare come una fiamma che non fosse se non refrigerio e delizia. Per la prima volta in questo mondo si consumava il prodigio: possedere la persona che si ama, incorporarsi in lei, non fare più che una cosa con la sua sostanza, essere trasformato nel proprio amore vivente.

È dalle parole che subito dopo Gesù proferì, che noi possiamo misurar l'amore onde i discepoli traboccavano; poiché chiama figlioli quegli uomini rudi e nel vigor dell'età; e come un fiotto di sangue la tenerezza sgorga all'improvviso da quel cuore che tra poco la lancia aprirà.

Figlioli, io non sono più con voi che per poco tempo. Voi mi cercherete, ma come ho detto ai Giudei che là, dove io vado, loro non possono venire, così lo dico a voi adesso. Io vi do un nuovo comandamento: che voi vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati. Da questo tutti sapranno che voi siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri».

Mauriac, Vita di Gesù, pp. 130-131

Il piccolo cerchio s'è stretto intorno a lui. Come tutti gli uomini che temono di morire. E il Figlio dell'uomo, il cui amore si spandeva altra volta in parole amare e violente, già spezzato, già fiaccato prima del primo schiaffo, prima del primo colpo di verga, li prende sotto la sua ala, li riscalda di parole dove l'uomo e il Dio si tradiscono a vicenda: quale tenerezza e quale potenza! E li introduce nel mistero dell'Unione. «lo non vi lascerò orfani; io tornerò a voi» [...].

Mai ha parlato loro come questa notte. Ora essi sanno che il loro amico è Dio e che Dio è Amore. E chi ha riposato il capo sulla spalla del Figlio dell'uomo, custodirà per sempre ogni parola.

«Io sono la vite, voi siete i tralci. Come il Padre mio mi ha amato, io ho amato voi. Dimorate nel mio amore, perché la mia allegrezza dimori in voi».

Avevano forse bisogno di comprendere altro? L’intera Nuova Legge consisteva in una sola parola, la più profanata del mondo: amore.

«Questo è il mio comandamento: che voi vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati. Non v'è maggior amore di questo: di dar la vita per i propri amici».

 

Mauriac, Vita di Gesù, pp. 132-133

Epistola

Il capitolo undecimo della prima epistola ai Corinti, che si legge nella Messa del Giovedì Santo, attesta che, fin dal giorno appresso alla morte del Cristo, i suoi discepoli credevano ciò che noi crediamo e facevano quel che noi, diciannove secoli dopo, facciamo, quando chiniamo la testa al momento della Consacrazione o ci avviciniamo alla Santa Mensa.

Gravi disordini turbavano la Chiesa di Corinto dove i misteri non erano più celebrati con la dovuta purezza. San Paolo ricorda incidentalmente ai fedeli di quella Chiesa ciò che essi già sapevano: «Dal Signore stesso io ho appreso quello che vi ho insegnato: che il Signore Gesù la notte stessa in cui doveva essere tradito...» e qui continua nel racconto della Cena già riferito, ed aggiunge: «Tutte le volte che voi mangerete e che voi berrete a questo calice voi annuncerete la morte del Signore, fino a che Egli non venga».

Tale sacrificio noi celebriamo ancora oggi. Insegna il Concilio di Trento: lo stesso Cristo che si è offerto sulla Croce, si offre ora mediante il Ministero del sacerdote.

Il corpo e il sangue vengono ora offerti per noi sotto le speci del pane e del vino in olocausto incruento. Nulla è cambiato dai primi albori del cristianesimo se non l'ordine delle preghiere che precedono e seguono la Consacrazione e la Comunione. [...]

Ma quant'era grande la fede di san Paolo in questo mistero inaccessibile della presenza reale, che i cattolici hanno l'obbligo di credere! Così insegnava ai Corinzi: chiunque mangerà questo pane o berrà il calice del Signore indegnamente sarà reo del corpo e del sangue del Signore... Chi mangia e beve indegnamente, mangia e beve la duplice condanna perché non distingue il corpo del Signore.

Anche la prima comunità cristiana credeva quel che noi crediamo, e innanzi all'Eucaristia aveva lo stesso contegno dei cattolici che sono i soli, oggi, a saper distinguere il corpo del Signore.

Misteriosa fusione di opposti sentimenti in chi sta per comunicarsi: timore e confidenza, abbandono e rimorso, vergogna ed amore. La piccola Ostia spande una luce uguale e terribile sulle azioni irreparabilmente compiute dal peccatore che le si accosta, su ciò che ha fatto e che non può più ormai non aver fatto.

Nessuno conosce se stesso se non si è esaminato alla luce di quest'Ostia, che s'innalza sopra il ciborio. La Chiesa con sublime ispirazione ha messo sulle labbra del celebrante e del fedele le parole del centurione: «Signore, io non sono degno che Tu entri sotto il mio tetto, ma dì solamente una parola...»: preghiera sempre esaudita fin dal giorno nel quale il Cristo l'udì a Cafarnao. Tutti i delitti che il comunicante abbraccia in un solo sguardo non sono più suoi, un altro li ha fatti suoi, dopo che il perdono di Cristo è disceso sulla sua anima con l'assoluzione del sacerdote.

La sua miseria, invece che a disperare, l'aiuta a comprendere di quale amore è stato amato. Per un triste e prezioso privilegio, il peccatore ha bisogno dell'amore che più lontano lo insegua e più dal basso lo risollevi; per darsi forza, si incoraggia con sentimenti di fervore che gli vengono forse da Dio. Se noi Lo amiamo è segno che Egli ci ama, perché è dono di Dio l'amare Iddio, che non ci ricompensa se non per ciò ch'Egli stesso ci ha dato. E così una fiducia quasi folle nasconde tutti i nostri dubbi, tutte le nostre inquietudini e cancella il ricordo di tutte le nostre brutture.

 

[...] Felice colui che, ritornando dopo la Comunione al suo posto, non ha bisogno di parole, ma adora e tace.

La sera del Giovedì Santo l'apostolo prediletto aveva posato il capo sul petto di Cristo; dopo il Giovedì Santo è il Cristo che riposa nel petto dei suoi amici e non una volta sola, ma ogni mattina, se il loro cuore è puro.

Il fedele non deve dare troppa importanza alle grazie sensibili dopo la Comunione. Spesso chi soffre di aridità alla Santa Messa, quando meno se lo aspetta, nel corso della giornata, durante un'occupazione qualsiasi, riconosce la benefica presenza; oppure, al momento di una violenta tentazione, prova la certezza interiore di non essere solo, un'impressione di sicurezza divina, come se udisse realmente le parole: «Sono io, non temere».

Nella Comunione frequente quasi sempre si ottiene una grazia più preziosa di ogni grazia sensibile, un accrescimento di luce; meglio ancora: una forza per servire Iddio.

Mauriac,.Giovedì Santo, pp. 25-30

Il Vangelo

Il Vangelo del Giovedì Santo è tratto da Giovanni 13. Gesù lava i piedi agli apostoli, insegnando loro ad amarsi vicendevolmente, non a parole, ma a fatti; Gesù lava i piedi di Giuda; sa di essere prossimo all'agonia, ad un abisso di dolori, e si inginocchia davanti a coloro dei quali conosce l'abbandono, lo spergiuro, il tradimento. Aveva già loro insegnato che il Figlio dell'Uomo non è venuto per essere servito, ma per servire, e li serve; e nella persona di quei poveri uomini inquieti, che nella notte incombente lo circondano e tempestano di domande, Gesù serve tutti noi.

Eluse le resistenze di Simon Pietro, guarda i suoi apostoli e dice: «Voi non siete tutti puri» e, ripreso il mantello deposto prima della lavanda dei piedi, si rimette a tavola. Gesù porge a Giuda il boccone di pane che per sempre lo designa; lo sciagurato apre la porta e dispare nelle tenebre., Gesù si rivolge agli undici, che sbigottiti hanno perso la parola: «Figlioli miei», loro dice, «io vi lascio il comandamento nuovo di amarvi l'un l'altro come io vi ho amato. Da questo tutti comprenderanno che siete miei discepoli, se vi amerete l'un l'altro». 

E Pietro gli chiede: «Signore, dove vai?» e protesta di volerlo seguire dappertutto, pronto a dare la vita per lui. Noi pure, talora, ci sentiamo come innalzati al di sopra di noi stessi e ci riteniamo pronti a tutte le rinunce: «Io darò la mia vita per te». Questo, da lontano, sembra facile al nostro povero amore; ma quante volte il gallo ha cantato per noi, come ha cantato per Simon Pietro, senza che, però, noi ci appartassimo e piangessimo amaramente.

E la notte sopraggiunge. I soli amici, che Gesù ha trovato nel mondo, ammutoliscono. Cristo parla con immenso amore e, mentre di lui quella stessa notte nessuno avrà pietà, con grande commiserazione li rassicura: «Io non vi lascerò orfani», e svela il mistero della sua vita nelle anime e della loro futura unione con Dio: «Se alcuno mi ama e osserverà la mia parola, il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e in lui faremo dimora». La promessa è stata mantenuta nei secoli per miliardi di anime; egli è la vite, noi i tralci che vivono della sua vita: noi vogliamo amarci come egli ci ha amato. Ai discepoli rimasti egli annunzia fin dove arriverà l'amor suo: «Non vi è amore maggiore del dare la vita per i propri amici».

Così parla a coloro dai quali non venne prescelto, ma che egli elesse chiamandoli per nome ad uno ad uno, avvincendoli a se stesso, quasi con essi identificandosi. (I sacerdoti, a questo punto, devono pregare più a lungo). E annuncia loro che il mondo li odierà come ha odiato lui stesso; ma stiano tranquilli, perché li attende una gioia che nessuno potrà loro strappare. In quell'istante gli apostoli non hanno dubbi; Gesù li guarda e sorride, forse malinconicamente, quando dice: «Voi, ora, credete...»; sa che l'ora s'avvicina nella quale la fede sarà fatta a brandelli. Eppure, con affermazione potente, esclama: «Confidate, io ho vinto il mondo».

Non andiamo più oltre; entriamo pur noi nelle tenebre. Domani, venerdì, nessuna Ostia sarà consacrata; il celebrante porta al sepolcro l'Ostia riservata per domani. L’Altare è vuoto; il Pange lingua è cantato sino a che il Santo Sacramento riposa nel sepolcro già preparato (e, mentre dura la salmodia dei vespri, il sacerdote spoglia l'altare dei suoi ornamenti). La Chiesa entra in agonia col Cristo. E fino alla Risurrezione nessuna campana suonerà.

 

Mauriac, Giovedì Santo, pp. 33-36

Il viatico

Voglia il Signore concederci la grazia di non morire senza il viatico, di entrare nel mistero della morte col solo Amico che possa con noi oltrepassarne la soglia; che ci sia data la grazia di ritrovare, al di là delle tenebre, colui che si abbassa sino a unire la sua carne, il suo sangue e la sua divinità a un corpo già quasi corrotto e per tre quarti distrutto.

Ch'egli senta il nostro impercettibile singhiozzo, l'ultimo, quello che nessun orecchio al mondo potrà mai raccogliere; ch'egli riceva sulla sua faccia adorabile l'ultimo respiro, che non riuscirà ad appannare nemmeno lo specchio appoggiato alle nostre labbra, e così addormentati in Cristo, seppelliti nell'Eucaristia, possiamo risvegliarci ai piedi di Cristo Re, Vincitore del mondo; - e ch'egli sia benedetto per l'immensa speranza nostra di non morire soli.

Mauriac, Giovedì Santo, pp. 103-104

La lavanda dei piedi

Col rito della lavanda dei piedi, rinnovato ad ogni Giovedì Santo, con la liturgia, che insistentemente ne precisa il significato, la Chiesa afferma di avere coscienza dell'amore, che da quel giorno ha pervaso il mondo, e di conoscere la propria missione di diffonderlo.

Nulla di più contrastante con la natura dell'uomo della carità di Cristo che dal Giovedì Santo si apre penosamente il cammino in mezzo alla ferocia umana. Gli uomini talora parvero adottarla, ma fu solo quale strumento per raggiungere fini egoistici e l'amore degli umili ha servito di pretesto ad atroci massacri e a spietate tirannìe.

L’amore non fiorisce che in Cristo. Il mondo accusa i fedeli di non far nulla se non per interesse, nella speranza di future ricompense; ma il mondo accusa perché ignora l'amore che nella Chiesa cattolica è sorgente di innumerevoli sovrumane dedizioni.

Amare Cristo, particolarmente nell'Eucaristia, e amare il prossimo è la stessa cosa - due comandamenti in uno solo: «Quel che farete al minimo lo farete a me stesso». Non vi sono qui calcoli né anticipi di mercede, ma solo si tratta di amare.

Le parole rivolte dal Cristo ai discepoli e poi al Padre durante la notte dal Giovedì Santo al Venerdì contengono già tutti gli appelli d'amore che generazioni di beati gl'innalzeranno; e la lavanda dei piedi simboleggia tutte le opere di misericordia, che dopo d'allora rinnoveranno la faccia del mondo.

In quella santa notte i corpi di tutti i sofferenti e il corpo sofferente del Figlio di Dio s'identificano per l'eternità; e sorgono tra gli amici di Cristo due famiglie: l'una, di quelli e di quelle che si voteranno direttamente a consolare la sua umanità dolorante, agonizzando con lui; l'altra di quelli e di quelle che lo servono nel corpo sofferente dei poveri, degli infermi, dei prigionieri, degli appestati e di tutti i rifiuti umani.

 

Mauriac, Giovedì Santo, pp. 74-76

Il Sacramento dell'Ordine

L’Eucaristia non distolga la nostra attenzione dall'altro Sacramento istituito il Giovedì Santo: il Sacramento dell'Ordine. «Fate questo in memoria di me. Fate questo ogni volta che voi berrete a questo calice, in memoria di me».

Quei dodici uomini sono i primi dodici sacerdoti e Giuda il primo dei cattivi preti. Essi stessi ebbero così presto coscienza di non essere più uomini, come gli altri, che prima loro cura, quando Gesù scomparve dalla loro vista, fu di sostituire il traditore Giuda. «Bisogna che uno di coloro, che ci furono sempre compagni durante la vita di Gesù, dal battesimo di Giovanni sino al giorno in cui ascese di mezzo a noi, sia costituito insieme a noi testimonio della sua Risurrezione».

La sorte cadde su Mattia che venne associato agli undici apostoli.

Eccoli quindi ordinati, primi di un'innumerevole famiglia. La santità è entrata con Cristo nel mondo e la sua Chiesa è santa; che cosa possono importare le miserie degli individui, le cadute, i tradimenti? La grande gloria della Chiesa - scrive Jacques Maritain - è d'essere santa, nonostante i membri peccatori. Incessantemente, sino alla fine del mondo, le mani di alcuni uomini eletti innalzeranno l'agnello di Dio che cancella i peccati del mondo [...].

La grazia del Giovedì Santo si trasmetterà sino alla fine dei secoli, sino all'ultimo prete che dirà l'ultima Messa nel mondo semidistrutto. Il Giovedì Santo ha creato questo tipo di uomini e ha impresso loro un marchio e un contrassegno speciali.

Simili a noi e insieme tanto dissimili, mai, come in questo secolo pagano, sono apparsi come una sorprendente stonatura. Può sembrare che i preti facciano difetto, ma, in verità, quale adorabile mistero che vi siano ancora dei preti!

Non più umani privilegi: la castità, la solitudine, più spesso l'odio, lo scherno e, sopra tutto, !'indifferenza di una società, che non sembra più aver posto per essi; ecco la bella parte che si sono scelti. Nessuna apparente onorifica dignità, ma un ufficio che pare talora materiale e che agli occhi di molti li rende simili agli impiegati dello Stato Civile e delle pompe funebri. Sommersi interamente in un'atmosfera pagana, la loro virtù susciterebbe il sorriso del mondo, se alla virtù il mondo ancora credesse [...].

Da secoli, dopo il Giovedì Santo, vi sono uomini che scelgono di essere odiati e, privandosi di ogni umana consolazione, scelgono di perdere la loro vita perché un giorno vi fu chi ha fatto una promessa che sembrava pazzesca: «Chi salverà la sua vita la perderà e chi la perderà per causa mia, la ritroverà...».

 

Mauriac, Giovedì Santo, pp. 55

 

 

Un giorno unico

Felici coloro che mangiarono, un giorno, un giorno unico, un giorno tra tutti i giorni, felici di una gioia unica, felici coloro che mangiarono un giorno, un giorno unico, quel Giovedì Santo, felici coloro che mangiarono il pane del tuo corpo; te stesso consacrato da te stesso; con una consacrazione unica; un giorno che mai ricomincerà; quando tu stesso dicesti la prima messa; sul tuo stesso corpo; quando celebrasti la prima messa; quando consacrasti te stesso; quando di quel pane, davanti ai Dodici, e davanti al dodicesimo, facesti il tuo corpo; e quando di quel vino facesti il tuo sangue; quel giorno in cui fosti insieme la vittima e il sacrificatore, il medesimo la vittima e il sacrificatore, l'offerta e l'offerente, il pane e il panettiere, il vino e il coppiere; il pane e colui che dà il pane; il vino e colui che versa il vino; la carne e il sangue, il pane e il vino.

Quella volta che tu fosti il prete ed essi erano i fedeli, quella volta che tu fosti il prete che operava, che sacrificava per la prima volta. Quella volta che tu fosti l'invenzione del prete, il primo prete a operare, a sacrificare per la prima volta. Ed eri contemporaneamente il prete e la vittima. Quella volta che facesti il primo sacrificio. Che tu fosti il primo sacrificato, la prima ostia. La prima vittima.

Péguy, I Misteri, pp. 53-54

 

 

Il sacerdote

Il sacerdote

[... ]

Il sacerdote è il primo caro acquisto

Del Divin Sangue; e avvera il regale

Sacerdozio che il popolo ha da Cristo.

Il sacerdote è il Sacro Cuor che beve

Il nostro sangue infetto dalle vene

E del Suo intatto le arterie ci imbeve.

Il sacerdote è come Cristo a Cena:

Ringrazia Iddio, benedice e porge

La vita eterna; e si addossa ogni pena.

Il sacerdote cosa possa o sia,

Non sa; come ardirebbe far di Dio

Cibo alle anime? Oh Santa Eucaristia!

Il sacerdote è tal che va distrutto

Dio adorando; e sé piangendo dice:

«Io non merito nulla, Gesù tutto».

Il sacerdote splende nella Messa:

Offrendo al Padre il Figlio del perdono

Con Lui s'immola, e in Lui, dono e promessa.

Il sacerdote è dato dal Signore:

Il sacerdote vien dalla Madonna:

Il sacerdote ottiene il Salvatore.

I.’eccelsa Trinità lodata sia,

In Gesù con Giuseppe e per Maria.

Rebora, Le poesie, pp. 261-262

 

Egli ha avuto paura della morte

SUOR CHIARA: La morte... È difficile raffigurarsi di fronte alla morte il Padrone della Vita e della Morte.

SUOR MARTA: Nel giardino degli Olivi, Cristo non era più padrone di nulla. L’angoscia umana non era mai salita più in alto, e mai più raggiungerà quel livello. Aveva ricoperto tutto in lui, salvo quell'estrema punta dell'anima in cui s'è consumata la divina accettazione.

SUOR CHIARA: Egli ha avuto paura della morte. Tanti martiri non hanno avuto paura della morte...

SUOR GERALDA: Non solo i martiri, anche dei briganti, Suor Chiara. Così Cartouche, a quanto si dice, scherzava al momento d'essere arrotato.

SUOR SAN CARLO: Oh! sicuramente. Sua Reverenza ha ragione. L’eroismo dei martiri e quell'altro son come l'oro e il rame. Uno è prezioso, l'altro vile, ma sono sempre metalli.

SUOR CHIARA: I martiri erano sostenuti da Gesù, ma Gesù non aveva l'aiuto di alcuno, perché ogni aiuto ed ogni misericordia procedono da lui. Nessun essere vivente entrò nella morte così solo e così disarmato.

SUOR MATILDE: Il più innocente è ancora sempre un peccatore, e sente confusamente di meritare come tale la morte. Il più colpevole risponde soltanto dei suoi delitti, ed egli...

SUOR CATERINA: Il più innocente ed il più colpevole, senza aver commesso alcuna colpa e rispondendo di tutte, divorato dalla Giustizia e dall'ingiustizia, insieme, come da due belve infuriate...

Bernanos, Dialoghi delle carmelitane, pp. 144-146

 

 

Pietro rinnega Gesù

San Giuda?

Egli era entrato lì in grazia d'un discepolo che la portiera del sommo sacerdote conosceva. Diffidente, la donna l'aveva squadrato dicendo: «Non appartiene alla stessa banda?» e già Pietro aveva negato. Ora egli si scosta dal fuoco per non essere ravvisato. Un primo gallo roco annunziava l'alba; Pietro però non l'udì, tremante di freddo e di paura. Gente gli si accalcava intorno. «Ma sì! Tu sei Galileo! Ne hai bene l'accento!».

 

Una testimonianza più pericolosa fu portata da un parente di Malco. «Io l'ho visto poco fa nell'orto...». Pietro, atterrito, protestava, giurava che non conosceva quell'uomo; e le sue imprecazioni erano tali che gli accusatori esitarono e tornarono a scaldarsi lasciandolo solo. Un gallo, di nuovo, cantò. Anche nel suo povero cuore si faceva giorno. Tutto uscì dalla notte, tutto si rischiarò in lui, nello stesso tempo che i tetti del Palazzo e delle case e le cime degli olivi e le più alte palme. Allora una porta si aprì. Sospinto da due servi, i pugni legati, un uomo apparve, carne da patibolo e da galera. E guardò Pietro, mettendo in quello sguardo un tesoro infinito di tenerezza e di perdono. L’apostolo contemplava con stupore quella faccia già enfiata dai colpi di pugno. Nascose la propria nelle mani, e appena uscito sparse più lacrime che non avesse versate da che era al mondo.

 

Mauriac, Vita di Gesù, p. 140

Pochissimo è mancato, che le lacrime di Giuda non venissero confuse, nella memoria degli uomini, con quelle di Pietro. Egli avrebbe potuto divenire un santo, il patrono di noi tutti che non ci stanchiamo di tradire. Il rimorso lo soffocava: l'Evangelo precisa che «si pentì». Riportò le trenta monete d'argento al sommo sacerdote, e si accusò: «Ho peccato consegnandovi il sangue innocente...». Giuda tocca il limite della perfetta contrizione. Dio avrebbe avuto ugualmente il traditore necessario alla Redenzione, e la Chiesa un santo di più.

Che gli importava di questi trenta denari? Forse non avrebbe consegnato Gesù se non l'avesse amato, se non si fosse sentito meno amato degli altri. I meschini calcoli dell'avarizia non sarebbero bastati a deciderlo: nel momento stesso in cui il capo di Giovanni riposò sul cuore del Signore, Satana poté stabilire in quello di Giuda il suo eterno regno.

«Allora, avendo gettato il denaro nel tempio, andò a impiccarsi». Il Demonio non ha nulla guadagnato contro l'ultimo dei criminali che ancora spera. Finché sussiste nell'anima più aggravata un barlume di speranza, ella non è separata dall'amore infinito che per un sospiro. Ed è il mistero dei misteri che questo sospiro il Figlio di perdizione non l'abbia esalato.

Mauriac, Vita di Gesù, pp. 141-142

Dal fondo del suo patimento, Gesù abbraccia con un solo sguardo le due creature che ha più amate al mondo, e le affida l'una all'altra. «Donna, ecco tuo figlio. - Ecco tua madre...», e la nostra, per l'eternità. Maria e Giovanni non si lasceranno più.

Mauriac, Vita di Gesù, p. 150

 

 

La divina indecisione

Il Gallo

LA NOTTE DEL SIGNORE

Tutto era pronto. La vita di famiglia, trent'anni, aveva avuto luogo. La vita pubblica, tre anni, aveva avuto luogo. La vita di casa, il banco di lavoro e la morsa, la sega e la pialla, era finito, questo era stato fatto. La vita di popolo, la montagna e la pianura, e il lago di Tiberiade, la predicazione e le similitudini, la curva delle parabole, lungo le strade, era finita; questo era stato fatto. Tutto era pronto. Il coronamento stava per cominciare. Il coronamento stava per aver luogo. Tutto era pronto. Tutte le virtù private e pubbliche, tutte le virtù eroiche dei trenta e tre anni stavano per culminare nel sacrificio supremo.

Durante anni e anni l'albero della croce, pazienza vegetale, senza miracolo aveva preparato la durezza del suo legno. In qualche palude del Giordano la canna era spuntata, lo scettro di derisione, una canna era spuntata, la canna unica e una spina, senza miracolo, una santa spina era spuntata in qualche macchia giudea, in qualche macchia ebraica. Una spina nera, una spina purpurea, forse un semplice rovo, una grossa spina di quei paesi. Tutti erano chiamati in servizio; gli uomini erano chiamati in servizio; gli attrezzi eterni erano pronti, gli strumenti della salvazione del mondo.

Giuda era pronto e il bacio saliva alle labbra di Giuda. Il bacio che attendeva dai secoli dei secoli. Il bacio che nei secoli dei secoli in seguito si ripercuoterà eternamente. Il bacio annunciato, il bacio che si ripercuote da tutta l'eternità.

E in una camerata in basso, appoggiata al terzo affardellamento, la lancia, la lancia per il Fianco, aspettava.

Tutto era pronto, lui solo, lui solo non lo era. Tutta la creazione era convocata, era stata convocata. r.:appello era fatto; non soltanto l'appello di quella prima decuria, e della sinistra di quella seconda, e di Malco: l'appello della creazione intera.

E come la lancia era pronta, anche gli angeli erano pronti. Come la lancia era pronta all'equipaggiamento del Romano, nello stesso modo gli angeli si preparavano. Sorpresi di dover raccogliere un sangue d'uomo, un sangue di Dio, un sangue d'uomo di Dio.

Lui stesso era preparato, la sua preparazione era fatta. La sua volontà era decisa da tutta l'eternità. Aveva deciso questo. Nessuno gli forzava la mano. Chi del resto, chi poi gli avrebbe forzato la mano. Niente lo forzava, niente gli forzava la mano, e ad occuparsi di quell'affare, niente se non un amore immenso, niente se non il suo immenso amore infinito, niente l'aveva trascinato in quell'affare se non un amore immenso, il suo infinito amore eterno. Da tutta l'eternità si era imbarcato in quell'affare.

Da tutta l'eternità la sua decisione era presa. Adesso poteva fermare tutto, disdire Giuda e disdire Barabba, disdire Pilato e disdire Caifa, disdire Malco. L’eternità stessa attendeva, figlio mio, lei che non attende mai, che non attende affatto. Leternità stessa era sospesa.

E lui stesso attendeva come il suo coronamento, da tutta l'eternità sapeva, da tutta l'eternità attendeva questo coronamento. Singolare. Sapere, amico mio, come si vedeva bene, su quest'esempio eminente, su quest'esempio singolare, che c'è un abisso tra sapere e fare, tra sapere la morte (la propria morte) e passarvi. Lui stesso il suo amore attendeva. Da tutta l'eternità il suo amore infinito, il suo amore eterno attendeva. E che c'è un abisso tra volere e fare, tra volere la morte, la propria morte, e anche la morte degli altri, e passarvi.

Perché infine questa volontà che egli diceva altra, di un altro, questa volontà che diceva estranea, alienam, questa volontà che chiamava la volontà di suo padre, non la sua, verumtamen non sicut ego volo, sed sicut tu, infine questa volontà non era soltanto la volontà di suo padre; era anche la sua; da tutta l'eternità era propriamente la sua.

Lui stesso aveva messo l'ultima mano alla sua istituzione, alla fondazione della sua città. La Chiesa era fondata. Pietro era investito. Il pane era stato cambiato in corpo e il vino era stato cambiato in sangue, il vino dell'uva della vite. Cosa dev'essere mai la morte, figlio mio, perché in quel momento egli abbia avuto un'esitazione, perché un'esitazione atroce l'abbia fatto un istante tentennare. Lui stesso l'ultimo dei profeti, il principe dei profeti, aveva tre e quattro volte profetizzato la sua propria morte, aveva appena profetizzato la sua passione e la sua morte.

Ed ecco che non solo stava per smentire tutti gli altri profeti. Ma stava per smentire se stesso profeta. Cosa dev'essere mai la morte, amico mio, figlio mio, perché il solo avvicinarsi, perché la sola attesa, perché la sola apprensione della morte l'abbia messo in un tale stato, in quello stato. Perché non ci si deve ingannare, amico mio, e non dissimulatevelo, era questo, e questo soltanto, che era nel cuore del supplizio, che era il midollo e il cuore della passione!

In questo senso non vi sfugge che la sua passione e soprattutto che la sua morte era come un compimento e nello stesso tempo come una prova e un controllo, una verifica, quasi una concentrazione, una realizzazione suprema della sua incarnazione.

Chi moriva come uomo, a quel punto come uomo, era dunque bene uomo, era dunque ben stato incarnato uomo. Era come una prova per mezzo del limite. Avrebbe dovuto subire la morte, la morte ordinaria, la morte comune, figlio mio, la morte come in Villon, la morte di ogni uomo, la morte di tutti quanti, la sorte comune, la morte comune a tutti quanti, la morte di cui vostro padre è morto, figlio mio, e il padre di vostro padre.

Quale deve essere, figlio mio, quale bisogna che sia questa morte, perché egli abbia preso giustamente questo tempo, in cui immensi preparativi, a cui immense promesse facevano capo, per segnare questo tempo di sosta, questo tempo di spavento, questo tempo di stupore, diciamo la parola, questo tempo di vacillamento, diciamo la parola, questo tempo di arretramento. Questo tempo di sbigottimento.

Per tirar fuori infine questa spaventosa preghiera. Questa atroce preghiera di un'ansietà carnale, di un'ansietà come eterna, quest'atroce preghiera di un'angoscia infinita. Transeat a me Pater mi, si POSSIBILE EST, transeat a me calix iste. Testo niente affatto commovente, come è stato detto migliaia di volte, in tutti i romanticismi, laici, ecclesiastici, antichi, moderni, cristiani, atei. Ma testo letteralmente spaventoso, molto precisamente spaventoso.

Tutti i testi vanno nello stesso senso, i profeti, i santi, e lui profeta e santo. Tutti i testi vanno nello stesso senso che è il senso del compimento della salvezza. E un solo testo contrasta. Un solo testo respinge. Ed è precisamente il testo dell'apprensione della morte.

E fu precisamente il tempo che egli prese, quando tutto attendeva, quando la creazione era sospesa alle labbra del suo Dio, fu precisamente il tempo che prese per darci, per lasciarci questo testo: il testo dell'apprensione della morte per non entrare in tentazione. Perché lo spirito è pronto, ma la carne è debole. Parole spaventose, che non si vogliono affatto intendere nel loro senso, spaventoso.

Testo spaventoso che non si vuole affatto leggere, che si venera, che non si vuole leggere, che si venera per non leggerlo. Parole spaventose, che si venerano per non intenderle. Le si intende, le si legge, come un rimprovero, a quei bambini che siamo, sarebbe come un biasimo, conosciuto, abituale, registrato, dunque senza importanza, digerito, come un ammonimento, una sgridata. Gesù, in questa versione, in questa lettura, Gesù riprenderebbe Pietro come dall'alto, come uno che sa correggerebbe, riprenderebbe uno che non sa, come uno che può riprenderebbe uno che non può.

Amico mio, è tutto il contrario, diametralmente il contrario. Nel momento in cui insegna a quei disgraziati la tentazione e di vegliare e di pregare per non entrare nella tentazione, e che lo spirito è pronto e che la carne è debole, quale riflessione, quale conversione non doveva operare su se stesso, quale marcia indietro non doveva fare su se stesso (sulla sua anima) e sulla sua propria carne.

Era tra il suo primo e il suo secondo, dobbiamo dirlo, mancamento, era tra la sua prima e la sua seconda preghiera di supplica; dopo la prima, prima della seconda. Aveva appena provato, in se stesso, aveva appena conosciuto, istantaneamente aveva conosciuto cosa sia quell'angoscia spaventosa e nella sua propria carne aveva conosciuto cosa sia la debolezza della carne, l'infermità di ogni carne.

Ecco, sembrava dire [era soltanto il fratello, che aveva appena parlato al padre, al Padre comune, era il fratello che (se ne) tornava verso i suoi fratelli, verso uno, verso tre fratelli più giovani, verso tutti i cristiani suoi fratelli (più giovani) e che sembrava dire loro]: Vedete cosa è la nostra carne, e la nostra tentazione. Bisogna vegliare. Bisogna pregare. Non si è mai tranquilli. Per la seconda volta se ne andò, e pregò, dicendo: Padre mio, se questo calice non può passare senza che io ne beva, sia fatta la tua volontà.

Iterum secundo, per la seconda volta se ne va, per la seconda volta prega, per la seconda volta dice: Si non potest, come riprende, come ripete il si possibile est della prima volta, del primo ritiro, della prima solitudine, della prima preghiera. Ma si arrende, si sottomette. E già al negativo: Si non potest; si non possibile est. Nisi bibam illum: si rappresenta già di berlo. Fiat voluntas tua, come riprende il sicut tu. Ma in negativo anche, al contrario, il sicut ego volo (voluntas mea) scompare anch'esso qui.

E per un meraviglioso accordo interiore come risuscita qui, come rianima, come rinnova, come richiama, come rimemora la preghiera (orans, et dicens; oravit, dicens) , come ritrova qui la preghiera che ha lui stesso insegnato agli uomini, lui stesso inventato al tempo della sua predicazione, lui stesso concepito, ricevuto, in un colpo di santità, la preghiera che aveva lui stesso deciso, trovato, insegnato sulla montagna, nel sermone, nel discorso sulla montagna. Cioè in questo culmine del suo sgomento, nel momento stesso in cui, uomo, aveva più bisogno di preghiera, in cui aveva un bisogno maximum di preghiera, un bisogno culminante, lui stesso come uomo, lui stesso uomo ritrova questa preghiera, questa stessa preghiera, perché anche a se stesso, a se stesso uomo, anche a sé se l'era insegnata. 

Perché se l'era insegnata a lui stesso, a lui uomo, come a noi; e in quella notte tragica fu quella preghiera che gli risalì alle labbra, la formula stessa di quella preghiera; ma non più nella sua continuità sulla montagna, in quella bella continuità del suo sermone: Pater noster, qui es in coelis, sanctificetur nomen tuum; adveniat regnum tuum; fiat voluntas tua. Non più quel bel ritmo di fiume e quella continuità, ma una preghiera spezzata, rotta, atroce, in quella notte tragica, la stessa preghiera frammentaria, spezzata dalla tragicità di quella notte. Pater mi, si non potest hic calix transire nisi bibam illum, fiat voluntas tua.

E questa forma come ritirata, come serrata, quest'invocazione come ritirata a sé, Pater mi invece di Pater noster, che attira, che attrae, che riavvicina suo Padre a sé; che fa, che dà una tale fusione, una tale penetrazione delle sue due persone che dicendo questa preghiera d'uomo non si sa di colpo fino a che punto non parli di colpo, molto specialmente, particolarmente, quasi professionalmente, come tecnicamente, da figlio di Dio, bisogna credere che questa inaudita, che questa avocazione incredibile, eco della tripla preghiera, non dicesse niente, non volesse dir nulla, non significasse nient'altro che la morte carnale e la paura della morte carnale: Mio Dio, mio Dio, ut quid dereliquisti me?

Perché mi avete abbandonato?, che questa strana, che quest'incredibile avocazione non mascheri, non sveli, non nasconda un'altra paura e un'altra morte, che non denunci affatto, che non riveli affatto un altro mistero, un mistero mistico, un mistero infinitamente più profondo. Mettiamo che avesse un corpo, e che il suo corpo si fosse ben difeso. Il suo corpo si era rivoltato, il suo corpo si era ribellato davanti alla morte, davanti alla morte del corpo.

E lui stesso seguì il suo corpo, in un certo senso (come noialtri peccatori e come così spesso i santi), seguì come un pover'uomo il suo corpo, l'indicazione del suo corpo, l'invocazione del suo corpo, l'avocazione del suo corpo. Compiendo così, con un coronamento meraviglioso, compiendo la sua incarnazione nella sua redenzione.

Fiat lux, et lux fuit; lux facta. Verumtamen non sicut ego volo, sed sicut tu. Fiat voluntas tua; et voluntas ejus fuit; voluntas facta. A cinquanta secoli di distanza, da prima di Adamo, fino al nuovo Adamo, fino a quel nuovo Adamo, secondo lo stesso ritmo a titolo di eco fedele questa stessa parola, quest'eco risuonò. E a un intervallo di più di cinquanta secoli di distanza il grido della seconda creazione rispose alla parola della prima creazione.

Nella prima, all'inizio, alle soglie della prima (un) Dio attivo, (un) Dio di comando e d'inizio aveva pronunciato (gloriosamente) una parola di comando, una parola d'autorità, una parola di creazione, una parola attiva, effettiva, efficace. Nella seconda, all'inizio, alle soglie della seconda (un) Dio umile, (un) Dio sottomesso, (un) Dio ritirato, aveva pronunciato fedelmente, in tutta fedeltà, da eco fedele, (un) Dio umile aveva pronunciato umilmente, sottomesso, un'umile parola d'umiltà, di sottomissione. Di passione.

Ecco, cristiani, ecco il vostro progresso; ecco qual è il progresso per voi, il vostro reale, il vostro religioso progresso. Più di cinquanta secoli di progresso, di un progresso, del vostro progresso, portano a questo, a questo secondo inizio: un Dio caduto in avanti sulla faccia, procidit in faciem suam, un Dio prostrato sulla faccia della terra, un Dio lo stesso, un Dio umile, un Dio sottomesso, in tutto lo sconforto e più che in tutta l'umiltà dell'uomo.

Fiat lux,fiat voluntas, un'eco lontana risponde alla parola prima, alla parola di creazione, un'eco fedele: un secondo inizio risponde al primo; una seconda creazione risponde alla prima; e questo secondo comandamento.

E come la prima creazione era la creazione di tutto il mondo, la creazione dell'universo, totius orbis universi, di tutta la creazione questa seconda creazione, questa eco fedele, questa fedeltà non è altro, non sta per essere altro propriamente che la creazione dello spirituale, che essere la propria creazione propria, ritardata più di cinquanta secoli, del mondo spirituale.

Péguy, Getsemani, passim.

 

Una volta. Una volta, due volte, tre volte. E il gallo cantò. Ma per noi è la millesima, è la centomillesima, è la centesima di millesime volte che lo consegniamo; che l'abbandoniamo, che lo tradiamo; che lo disconosciamo, che lo rinneghiamo. Popolo ingrato, popolo ingrato, ma anche rinnegato. Migliaia e centinaia di migliaia di volte che lo rinneghiamo nello smarrimento del peccato.

Quante volte, migliaia e centinaia di migliaia di volte i galli delle fattorie, di tutte le fattorie hanno cantato dopo che noi l'abbiamo rinnegato tre volte; sui nostri semplici, sui nostri doppi, sui nostri tripli rinnegamenti. I galli sui pagliai. Sui letamai delle fattorie.

È buffo, si parla sempre di quel gallo, è celebre, del gallo che si trovò lì per cantare, per suonare, per registrare il rinnegamento di Pietro. È per cambiare, per distogliere la conversazione. È per dare il cambio. Ci sono stati galli dopo. Ci sono galli nei nostri paesi. E non sono inoperosi. N ai non li lasciamo inoperosi. Si direbbe che non ci siano galli nei nostri paesi. Non si parla mai dei galli dei nostri paesi. Ahimè, ahimè non c'è gallo in una fattoria che non abbia cantato, che non abbia suonato, che non abbia annunciato al sole nascente, che non abbia registrato, ogni giorno, ogni sole, rinnegamenti peggiori.

Rinnegamenti più che tripli. Che non abbia proclamato la turpitudine dell'uomo. Il gallo canta all'alba. Quello che il gallo canta all'alba, a tutte le albe; dritti sul letamaio di tutte le fattorie; dritti sui loro speroni, quello che vantano, che celebrano, che proclamano, quello che annunciano sono i nostri rinnegamenti senza numero. Come si può sentire al mattino il canto del gallo, come si può sentire cantare il gallo, cantare un gallo, al mattino, e ricominciano tutti i giorni, e quante volte ogni giorno, senza pensare subito al triplo rinnegamento, senza piangere subito il triplo rinnegamento, e i nostri rinnegamenti, che sono più che tripli.

Ogni giorno. Un gallo ha cantato per Pietro; quanti galli cantano per noi; la razza non si è perduta. La razza dei galli non è perduta. Solo che noi non li sentiamo, quelli, non li vogliamo sentire. Ahimè, ahimè, deve cominciare a esserci abituato. Gliene abbiamo dato l'abitudine; un'abitudine proprio a lui; ce l'abbiamo abituato. Gli abbiamo dato questa singolare abitudine: di essere rinnegato. Gli abbiamo fatto prendere quest'abitudine. La stessa storia succede sempre. Grazie alla presenza reale, alla presenza di Gesù, la stessa storia succede sempre.

Ma quei santi di cui parli così leggermente; e non tu soltanto; tutti, dappertutto se ne parla leggermente; quel Pietro, nostro fondatore, del quale parli alla leggera; che tutti prendono in giro; il padrone delle chiavi. Essi furono gli apostoli investiti. Furono i primi discepoli.

Gesù perdonò, e istantaneamente, in anticipo aveva perdonato il rinnegamento di Pietro. Dio voglia che ci abbia preso l'abitudine; e che parimenti perdoni anche i nostri rinnegamenti innumerevoli.

Dio voglia che Dio abbia preso l'abitudine. Dio voglia aver preso l'abitudine. Anche quell'abitudine. [...]
Essi furono i primi. Furono i discepoli. Furono gli apostoli. Furono i martiri. Pietro ottenne l'onore supremo di essere crocifisso. Crocifisso come Gesù! Che segno. Che onore; unico. Degno della sua destinazione. Soltanto fu crocifisso con la testa in giù, per spirito d'umiltà, perché naturalmente nessuno può essere crocifisso esattamente come Gesù.

Gesù era la testa e lui è la base. Gesù era la testa e lui i piedi. Il piede. E Andrea, suo fratello Andrea fu crocifisso a una croce di sant'Andrea. Quando avremo pagato come loro, quanto loro, i nostri rinnegamenti, i nostri propri rinnegamenti, allora, bambina mia, potremo parlare. Quando avremo avuto quell'onore, quando saremo morti per lui, come loro, allora, bambina, potremo forse dire una parola, potremo dire la nostra. (Quasi ridendo dentro di sé).

Ma allora, bambina, è allora che non diremo nulla. Perché è allora che non avremmo nulla da dire. Perché saremmo nel regno. Nel regno dove non si dice più nulla, dove non c'è più nulla da dire. Perché staremo condividendo con loro la beatitudine eterna.

Péguy, I Misteri, pp. 147-149

 

 

«Ed ora a noi due»

La notte del Signore

Avanzatosi un poco, si prostrò con la faccia a terra e pregava. (Mt 26,39)

 

«Ed ora a noi due», avanti

di aprire per l'estremo giudizio le carte:

anche Tu

inoltrando ti ormai nella Notte

solo, assenti

i tuoi o lontani,

gravati gli occhi dal sonno;

solo

anche tu con la mole

del mondo sul cuore;

solo,

sotto la cupa volta del cielo,

un cielo ancor più assente

e sordo

e lontano;

e la Notte nera,

via via ancor più nera; e gli occhi

un grumo di lacrime e fango,

lacrime e sangue:

sangue dalla fronte, dal viso,

dalle mani, sangue e terra

e fili d'erba sulla bocca;

anche Tu, solo:

solo uomo, perfettamente uomo, pienezza

di umanità: «Per questo,

per questo...».

Interrompa

il novello scriba le ciance,

ritorni il silenzio!

Mai nessuno ha saputo.

Pur voi, o Teologi, lasciate...

II

Perfino gli olivi piangevano

quella Notte, e le pietre

erano più pallide e immobili,

l'aria tremava tra ramo e ramo

quella Notte.

 

E dicevi:

«Padre, se è possibile...». Così

da questa ringhiera

quale un reticolato da campo

di concentramento, iniziava

la tua Notte.

Si è levata la più densa Notte

sul mondo: tra questa

e l'altra preghiera estrema:

«Perché, ma perché, mio Dio...».

Notte senza un lume: disperata

tua e nostra Notte. «Perché...?».

 

Turoldo, O sensi miei..., pp. 604-605

 

La notte del Signore

 

III

[... ]

Anche Tu

hai urlato «perché» dall'alto

di quella Cima, e nessuna

risposta è venuta (allora!).

E l'urlo si spandeva a onde

nel cielo cupo e sordo;

un cielo - almeno allora - vuoto,

squarciato dal tuo grido cui

una eco interminabile

ancora si effonde

di balza in balza su clivi

di millenni: «perché, perché...».

E dunque,

anche Tu

finivi con la certezza di essere un abbandonato.

 

Anche Tu

non sapevi! E hai gridato il perché

di tutti i maledetti, appesi ai patiboli. E non era

desiderio di sapere le ragioni del morire:

non questo, non la morte è l'enigma (oh,

la bella morte di chi

operoso e carico di anni

saluta i figli e tramonta come

dopo lungo giorno il sole

si cala a sera).

 

Mistero è che nessuno comprende

come tu possa, Dio, coesistere

insieme al Male, insieme al lungo

penare di un bimbo, insieme

alla interminabile agonia del Giusto;

quando la certezza di essere soli divampa

dagli occhi del torturato (e Tu

non intervieni); quando

il sospetto del Nulla ti avvinghia e navighi,

mozzato il respiro, entro irreali abissi.

È questo tuo abbandono

il più nero enigma, o Cristo.

 

IV

E dunque

anche Tu

ateo? ... Fu questa

la tua vera Notte, Signore,

la tua discesa agl'Inferi

avanti che ti accogliesse

nel suo ventre la Terra.

 

Pensieri - Clemente Rebora

Terza Stazione - Paul Claudel

Quarta Stazione - Paul Claudel

Quinta Stazione - Charles Péguy

Sesta Stazione - Charles Péguy

Nona Stazione - Mario Luzi

Dodicesima Stazione - Mario Luzi

Dodicesima Stazione - Charles Péguy

 

La Via crucis

don Clemente Rebora

I stazione: GESÙ - la Vita - offerto a morte per mio amore, perché io viva in eterno nel Padre nostro che è nei cieli.

II stazione: GESÙ, caricato della croce, mi ricorda l'ammonimento di carità: «Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me».

III stazione: GESÙ cade la prima volta sotto la croce, perché io sia reso capace di rialzarmi in virtù della sua croce, e non mi sgomenti.

IV stazione: GESÙ incontra la sua santissima Mamma, perché io sia mite.e umile a incontrarla con lui misericordiosamente nelle ore decisive della prova.

V stazione: GESÙ aiutato dal Cireneo a portare la croce, perché mi sia d'aiuto a scorgere nei miei prossimi GESÙ da sollevarsi dal peso della croce.

VI stazione: GESÙ asciugato nel volto dalla Veronica, perché io mi accorgessi che, asciugando pietosamente le pene altrui, rimane in me impressa l'immagine del Salvatore.

VII stazione: GESÙ cade la seconda volta sotto la croce, a renderci presente con l'esperienza il «vegliate e pregate per non entrare in tentazione: lo spirito è pronto, ma la carne è debole».

VIII stazione: GESÙ incontra le donne di Gerusalemme a farci intendere che solo il peccato, per togliere il quale Egli dava il sangue, è la causa di tutti i mali: onde poco valeva piangere su lui e far lamenti per quanto segno di umanità in tanta spietatezza , ma dovevano piuttosto piangere su loro stesse e sui loro figliuoli indulgenti a peccare.

IX stazione: GESÙ cade la terza volta sotto la croce, a renderci sensibile il triplice rinnegamento «io non conosco quest'uomo», e avvalorarci nello stesso tempo il suo dire: «senza di me non potete far nulla»; con l'aggiunta di san Paolo, ma «tutto posso in lui che mi conforta».

X stazione: GESÙ spogliato e abbeverato di fiele, perché io mi spogli dell'uomo vecchio con le sue concupiscenze, per rivestire l'uomo nuovo nella santità; e appena gustò il vino misto a fiele, non volle berlo, affinché il patire fosse vinto per amor di Dio, senza attenuanti.

XI stazione: GESÙ confitto in croce, non potendo far più nulla, fa il tutto: dando gloria al Padre ci libera dalla colpa e dalla morte, lasciando a noi questo testo delle sue ultime parole: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che si fanno» - «Donna, ecco tuo figlio. Ecco la madre tua». - «In verità ti dico: oggi sarai con me in Paradiso». - «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» - «Ho sete». - «È compiuto». - «Padre, rimetto il mio spirito nelle tue mani».

XII stazione: GESÙ spira in croce, con un supremo grido di richiamo alla verità della sua pace: perché io così avessi vita, con il mondo rigenerato, nella sua grazia.

XIII stazione: GESÙ dopo esser stato trafitto al costato donde fluirono sangue e acqua, il battesimo con l'eucaristia, i sacramenti della redenzione - è deposto dalla croce nel grembo della Madre, perché ella dall'amore del suo dolore riversasse su di noi universalmente tutte le grazie.

XIV stazione: GESÙ, deposto nel sepolcro, è riepilogato in modo eccelso da due frasi del Vangelo: «Andarono essi, e assicurarono il sepolcro, sigillando la pietra e ponendovi guardie» - «E trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro».

 

Rebora, Le poesie, pp. 423-425

 

Terza stazione. Gesù cade la prima volta.

 

Su, in marcia! Vittima e carnefici, insieme, verso il Calvario.

Dio, trascinato per la gola, tutto a un tratto barcolla, cade a terra.

Che dici di questa prima caduta, Signore? E poiché ora sai, che ne pensi?

È il momento in cui si casca e il peso sbilanciato si abbatte di schianto.

Come la trovi questa terra che tu stesso hai creato?

Ah! Non è solo la strada della giustizia a essere scabra,

quella del male, anch'essa, è perfida e traditrice.

Non resta che procedere tutto d'un fiato

e imparare a conoscere pietra dopo pietra,

e se il piede manca, è il cuore che si ostina.

Ah! Signore, per queste ginocchia sante,

queste due ginocchia che ti sono mancate d'un colpo,

per il soprassalto improvviso, e per la caduta

all'imbocco della terribile via,

per il passo falso che ti ha tradito,

per la terra che hai assaggiato,

salvaci dal primo peccato,

quello che ci prende di sorpresa.

 

Claudel, Via crucis, p. 23

 

Quarta stazione. Gesù incontra sua madre, Maria.

O madri che avete visto morire il primo e l'unico figlio, ricordatevi quella notte, l'ultima, passata

presso il piccolo essere rantolante,

l'acqua che cercavate di fargli bere,

il ghiaccio, il termometro,

e la morte che a poco a poco avanzava.

Una morte da guardare in faccia.

«Mettetegli i suoi piccoli sandali,

cambiategli i panni e i pannolini.

Qualcuno viene a strapparmelo

per deporlo nella terra.

Addio, bambino mio dolce, addio carne della mia carne!».

La quarta stazione è Maria che tutto ha accettato. Eccola qui, all'angolo della strada,

ad attendere il Tesoro d'ogni povertà.

I suoi occhi sono vuoti di lacrime,

la sua bocca è senza saliva.

Non dice una parola e guarda Gesù che avanza.

Accetta. Accetta ancora una volta,

il grido strozzato in gola.

Non dice parola e guarda Gesù:

la Madre guarda il Figlio, la Chiesa il Redentore.

La sua anima si slancia a lui con violenza,

come il grido di un soldato morente.

Sta ritta davanti a Dio e gli offre l'anima,

aperta come un libro.

Non c'è nulla nel suo cuore che si rifiuti o s'arrenda.

Neppure una fibra nel suo cuore trafitto

che non accetti o consenta.

Come Dio stesso che è là, ella è presente.

Accetta e guarda il Figlio che ha concepito

nel suo grembo.

Non dice nulla e adora il Santo dei Santi.

 

Claudel, Via crucis, pp. 25 e 27

 

Quinta Stazione. L’uomo di Cirene

Felice colui che si trovò lì, giusto al momento in cui si doveva portare la sua croce, aiutarlo a portare la sua croce, una croce pesante, la sua vera croce, quella pesante croce di legno, di vero legno, la sua croce di supplizio, una pesante croce ben costruita. Come per tutti, per tutti gli altri suppliziati col medesimo supplizio. Un uomo che passava di lì, forse.

Ah aveva ben scelto il suo tempo, giusto in quel punto, giusto allora, giusto in quel momento. Quell'uomo che passava giusto di lì. Quanti uomini poi, un'infinità di uomini nei secoli dei secoli avrebbero voluto essere lì, al suo posto, essere passati, essere passati di lì giusto in quel momento. Giusto lì. Ma ecco, era troppo tardi, era lui che era passato, e nell'eternità, nei secoli dei secoli non darà il suo posto ad altri. [...]

Un uomo di Cirene, chiamato Simone, che costrinsero a portare la croce di Gesù. Non ha più bisogno, oggi, che lo si costringa ad aver portato la croce di Gesù. Felice soprattutto, felice quello, e anche lui non darebbe il suo posto a un altro, nemmeno lui, felice lui che pure non lo vide che una volta. Felice quello, felice soprattutto, felice sopra tutti, il più felice di tutti, felice colui che lo vide nel tempo, e che pure non lo vide che una volta. 

 

Péguy, I Misteri, pp. 50-51

Sesta Stazione. Gesù è asciugato dalla Veronica

Beata colei che con un fazzoletto, con un vero fazzoletto, con un fazzoletto per soffiarsi il naso, con un fazzoletto imperituro asciugò quella faccia augusta, la sua vera faccia, la sua faccia reale, la sua faccia d'uomo, con un fazzoletto bianco quella faccia peritura; la sua faccia pietosa; e a vederlo allora, in quello stato, il salvatore del genere umano, a vederlo così, lui il salvatore di tutto il genere umano, quale cuore insensibile non si sarebbe intenerito, quali occhi, quali occhi umani, non avrebbero versato lacrime; quella faccia di sudore, tutta in sudore, tutta sporca, tutta polverosa, tutta piena della polvere delle vie; tutta piena della polvere della terra; la polvere della sua faccia, la comune polvere, la polvere di tutti, la polvere sulla sua faccia; incollata dal sudore.

Péguy, I Misteri, p. 49

Nona stazione. Gesù cade la terza volta Il panno umido sul viso

mi ha dato un breve sollievo.

Sono caduto per la terza volta,

qualche braccio soccorrevole mi ha sostenuto nel rialzarmi,

ma il peso per le membra che ho è troppo grave.

L’onta e il castigo della carne, questo

alla loro ferocia piace molto.

Il supplizio della misconoscenza e del tradimento

alla loro perfidia è un piacere più sottile,

lo delibano i sommi sacerdoti.

Ma ora, Padre, sono ingiusto:

ci sono anime innocenti,

creature pietose che si angosciano,

non si danno pace. E questi, ti prego, prediligili.

Tra loro c'è mia madre,

ci sono uomini e donne di cuore che la accompagnano,

 molti altri addolorati e increduli.

Sempre, dal principio fino all'avvento del tuo regno,

il bene e il male si affrontano.

Oggi va al male, secondo appare a noi, la palma.

 

Tra gente come loro ho seminato le beatitudini,

erano meravigliati - alcuni un giorno capiranno,

ma io sarò morto e risorto

per tutti quelli che capito avranno

e per coloro che saranno rimasti chiusi nell'ottusità.

Tutti potranno essere salvi, così vuole l'Alleanza.

Ma dove andiamo, dove va questa trista processione?

Mi conducono a un'altura.

 

Luzi, Via crucis, pp. 47-41

Dodicesima stazione. Gesù muore sulla croce

Padre mio, mi sono affezionato alla terraquanto non avrei creduto.

È bella e terribile la terra. Io ci sono nato quasi di nascosto,

ci sono cresciuto e fatto adultoin un suo angolo quieto

tra gente povera, amabile e esecrabile.

Mi sono affezionato alle sue strade,

mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti,

le vigne, perfino i deserti.

È solo una stazione per il figlio Tuo la terra

ma ora mi addolora lasciarla

e perfino questi uomini e le loro occupazioni,

le loro case e i loro ricoveri

mi dà pena doverli abbandonare.

Il cuore umano è pieno di contraddizioni

ma neppure un istante mi sono allontanato da te.

Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi

o avessi dimenticato di essere stato.

La vita sulla terra è dolorosa,

ma è anche gioiosa: mi sovvengono

i piccoli dell'uomo, gli alberi e gli animali.

Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario.

Congedarmi mi dà angoscia più del giusto.

Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?

Il terrestre l'ho fatto troppo mio o l'ho rifuggito?

La nostalgia di te è stata continua e forte,

tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna.

Padre, non giudicarlo

questo mio parlarti umano quasi delirante,

accoglilo come un desiderio d'amore,

non guardare alla sua insensatezza.

Sono venuto sulla terra per fare la tua volontà

eppure talvolta l'ho discussa.

Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego.

Quando saremo in cielo ricongiunti

sarà stata una prova grande

ed essa non si perde nella memoria dell'eternità.

Ma da questo stato umano d'abiezione

vengo ora a te, comprendimi, nella mia debolezza.

Mi afferrano, mi alzano alla croce piantata sulla collina,

ahi, Padre, mi inchiodano le mani e i piedi.

Qui termina veramente il cammino.

Il debito dell'iniquità è pagato all'iniquità.

Ma tu sai questo mistero. Tu solo.

Luzi, Via crucis, pp. 51-5

 

 

Omelia del Venerdì santo 25.03.05 nella chiesa Sacra Famiglia di Cinisello Balsamo Cattaneo Armando

Venerdì Santo 2005 – La croce dell’incomprensione

L’incomprensione è una realtà che entra quotidianamente nella nostra vita! Non ci deve scandalizzare, è la regola! Ci deve invece far trasalire di gioia la scoperta di una sintonia, di un esserci capiti, intesi, magari spontaneamente! Ma di regola si parte da punti di vista diversi. Ed è logico, siamo persone diverse!

Dico questo per medicare e lenire un po’ le ferite che l’incomprensione apre!

Ci capita di non capirci tra estranei, ma anche tra conoscenti, tra parenti, tra familiari, tra coniugi!! E più stretto è il legame che ci unisce e più profonda è la ferita che riportiamo! Il colmo è che persino Gesù sulla croce è assalito dalla paura di non essere capito:

-dagli avversari che lo deridono: proprio non capiscono cosa prova un uomo in quelle condizioni di sofferenza estrema! Uno sulla croce avrebbe diritto al massimo rispetto anche dal suo peggior nemico!

-dai suoi discepoli che lo mollano, per viltà, ma anche perché vanno in crisi e non capiscono che diavolo stia succedendo: Lui, che ha dominato sui demoni e sui malati, sulle tempeste e sulla morte… ora dalla morte è schiantato!

-Pazzesco ma vero, Gesù in croce non si sente capito neanche da Dio Padre! “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” questo è l’urlo scandaloso che la nostra via Crucis illustra terribilmente!

-L’unica che, inerme e impotente, sembra capirlo è la madre, Maria!

 

L’incomprensione è la croce più condivisa da noi uomini e donne sulla faccia della terra. E’ dovuta ai limiti delle nostre capacità. Non intendo che non sappiamo capire, non sappiamo ascoltare. Sorvoliamo su ciò che un fratello sta vivendo, provando e soffrendo.

Invece, vorrei dirvi: NO. Anziché meravigliarci di non essere capiti, costruiamo con pazienza e umiltà un punto di vista condiviso, mettiamoci anche nei panni dell’altra persona, apprezziamo la sua visuale!

Oppure battiamoci per essere ascoltati, sforziamoci di esprimerci meglio e con maggiore rispetto. Soprattutto dedichiamo tempo e gusto al mondo di un fratello che entra in contatto con noi: è un riassunto di valori e di vita! E’ amato dal Signore e questo basti per apparire prezioso ai nostri occhi!

 

 

Maria

Da tre giorni piangeva.

Piangeva, piangeva.

Come nessuna donna ha mai pianto.

Nessuna donna.

Ecco cosa aveva reso a sua madre.

Mai un ragazzo era costato tante lacrime a sua madre

Mai un ragazzo aveva fatto piangere tanto sua madre

Ecco cosa aveva reso a sua madre.

Da quando aveva cominciato la sua missione. […]

 

Anche lei aveva salito il Calvario.

Che è una montagna scoscesa.

E non sentiva neanche i suoi piedi che la portavano.

Non sentiva le gambe sotto di sé.

Anche lei aveva salito il suo calvario.

Anche lei era salita, salita.

Nella ressa, un po' indietro.

Salita al Golgotha.

Sul Golgotha.

Sulla cima.

Fino alla cima.

Dove egli era adesso crocifisso.

Con le quattro membra inchiodate.

Come un uccello notturno sulla porta d'un granaio.

Lui, il Re di Luce.

Nel luogo chiamato Golgotha.

Cioè il posto del Cranio.

Ecco cosa aveva fatto di sua madre.

Materna.

Una donna in lacrime.

Una poveretta.

Una poveretta di desolazione.

Una poveretta nella desolazione.

Una specie di mendicante di pietà. [...]

 

Quello che è strano è che tutti la rispettavano.

La gente rispetta molto i genitori dei condannati.

Dicevano addirittura: la povera donna.

E intanto picchiavano suo figlio.

Perché l'uomo è fatto così.

L’uomo è cosiffatto.

Gli uomini sono come sono e mai li si potrà cambiare.

Lei non sapeva che al contrario

lui era venuto a cambiare l'uomo.

Che era venuto a cambiare il mondo.

Seguiva, piangeva.

Gli uomini sono così.

Non li si cambierà.

Non li si rifarà.

Non li si rifarà mai.

E lui era venuto per cambiarli.

Per rifarli.

 

Lei seguiva, piangeva.

Tutti la rispettavano.

Tutti la compiangevano.

Si diceva la povera donna.

Perché tutte quelle persone non erano forse cattive.

Non erano cattive in fondo.

 

Compivano le Scritture.

Quello che è strano, è che tutti la rispettavano.

Onoravano, rispettavano, ammiravano il suo dolore.

Non l'allontanavano, non la respingevano che moderatamente.

Con delle attenzioni particolari.

Perché era la madre del condannato.

Pensavano: è la famiglia del condannato.

Lo dicevano anche a voce bassa.

Se lo dicevano, tra di loro,

Con una segreta ammirazione.

E avevano ragione, era tutta la sua famiglia.

La sua famiglia carnale e la sua famiglia eletta.

La sua famiglia sulla terra e la sua famiglia nel cielo.

Lei seguiva, piangeva.

I suoi occhi erano così offuscati che la luce del giorno

non le sarebbe più parsa chiara.

Mai più. [...]

 

Lei piangeva, piangeva, ne era diventata brutta.

Lei, la più grande Beltà del mondo.

La Rosa mistica.

La Torre d'avorio.

Turris ebumea.

La Regina di beltà.

In tre giorni era diventata spaventosa da vedere.

La gente diceva che era invecchiata di dieci anni.

Non se ne intendevano. Era invecchiata più di dieci anni.

 

Lei sapeva, sentiva bene che era invecchiata più di dieci anni.

Era invecchiata della sua vita.

Che imbecilli.

Di tutta la sua vita.

Era invecchiata della sua vita intera

e più che della sua vita, più di una vita.

Perché era invecchiata di una eternità.

Era invecchiata della sua eternità.

 

Che è la prima eternità dopo l'eternità di Dio.

Perché era invecchiata della sua eternità.

Era diventata Regina.

Era diventata la Regina dei Sette Dolori. [...]

 

Gli occhi le ardevano, le bruciavano.

Mai si era pianto tanto.

Eppure piangere le era di sollievo.

La pelle le ardeva, le bruciava.

E lui intanto sulla croce le Cinque Piaghe gli bruciavano.

E lui aveva la febbre.

E lei aveva la febbre.

Ed era associata così alla sua Passione. [...]

 

Piangeva. Si scioglieva. Il suo cuore si scioglieva.

Il suo corpo si scioglieva.

Si scioglieva di bontà.

Di carità. [...]

Non ce l'aveva più con nessuno.

Si scioglieva in bontà.

In carità. [...]

Era una disgrazia troppo grande.

Il suo dolore era troppo grande.

Era un dolore troppo grande.

Non si può avercela col mondo per una disgrazia che oltrepassa il mondo. [...]

Fino a quel giorno era stata la Regina di Beltà.

E non sarebbe più stata, non sarebbe più ridiventata

La Regina di Bellezza che in cielo.

Il giorno della sua morte e della sua assunzione.

Dopo il giorno della sua morte e della sua assunzione.

Eternamente.

Ma oggi diveniva la Regina di Misericordia.

Come sarà nei secoli dei secoli. […]

Lei sapeva quanto soffriva.

Lei sentiva bene quanto male aveva.

Lei aveva male alla sua testa e al suo fianco e alle sue Quattro Piaghe.

E lui in se stesso diceva: Ecco mia madre.

Che cosa ne ho fatto. Ecco cosa ho fatto di mia madre.

Quella povera vecchia. […]

Le aveva fatto fare la sua via crucis, a sua madre.

Da lontano, da vicino.

Lei aveva seguito.

Una via crucis molto più dolorosa della sua.

Perché è molto più doloroso veder soffrire il proprio figlio.

Che soffrire noi stessi.

È molto più doloroso veder morire il proprio figlio.

Che morire noi stessi.

 

Péguy, I Misteri, passim

 

La Via Crucis di SAVERIO GAETA - VITA PASTORALE N. 4/2005

La Via crucis è un rito antico, che affonda le radici nel cammino di preghiera che già nel IV secolo veniva compiuto a Gerusalemme dalla comunità cristiana. Secondo la monaca Eteria, che in quel tempo fece un pellegrinaggio in Terra Santa di cui ci ha lasciato un interessante diario, all'alba del Venerdì santo i fedeli partivano dal Getsemani e arrivavano sino al Calvario, dove venivano letti i passi del Vangelo riguardanti la passione e la morte del Salvatore.

Il Direttorio su pietà popolare e liturgia descrive la Via Crucis come la sintesi di varie devozioni sorte fin dall'alto Medioevo:

- il pellegrinaggio in Terra Santa, durante il quale i fedeli visitano devotamente i luoghi della Passione del Signore;

- la devozione alle "cadute di Cristo" sotto il peso della croce;

- la devozione ai "cammini dolorosi di Cristo", che consiste nell'incedere processionale da una chiesa all'altra in memoria dei percorsi compiuti da Cristo durante la sua Passione;

- la devozione alle "stazioni di Cristo", cioè ai momenti in cui Gesù si ferma lungo il cammino verso il Calvario o perché costretto dai carnefici, o perché stremato dalla fatica, o perché, mosso dall'amore, cerca di stabilire un dialogo con gli uomini e le donne che assistono alla sua Passione.

Le prime informazioni sulla commemorazione delle tappe della "via dolorosa" percorsa da Gesù sono attribuite al domenicano Ricoldus de Monte Crucis e risalgono al 1294.

Nel corso del tempo le scene della Via crucis hanno subìto numerose aggiunte e modifiche. Il 3 aprile 1731 papa Clemente XII determinò, con il documento Monita ad recte ordinandum devotum exercitium Viae crucis, la sequenza delle quattordici stazioni, a ciascuna delle quali è tradizionalmente associato un significativo momento del cammino di Cristo verso la croce:

I: Gesù è condannato a morte. II: Gesù prende la croce. III: Gesù cade per la prima volta. IV: Gesù incontra sua madre. V: Il Cireneo aiuta Gesù a portare la croce. VI: La Veronica asciuga il volto di Gesù. VII: Gesù cade per la seconda volta. VIII: Gesù incontra alcune donne piangenti. IX: Gesù cade per la terza volta. X: Gesù viene spogliato delle vesti. XI: Gesù è inchiodato sulla croce. XII: Gesù muore dopo tre ore di agonia. XIII: Gesù viene deposto dalla croce. XIV: Gesù viene deposto nel sepolcro.

La Via crucis al Colosseo

Durante il Giubileo romano del 1750 si cominciò a svolgere il rito nella scenografica cornice del Colosseo, che intanto aveva visto crescere la propria notorietà come luogo del martirio dei primi cristiani. La cerimonia fu promossa e organizzata dal francescano Leonardo da Porto Maurizio, che considerava questo pio esercizio un vero e proprio pellegrinaggio, o meglio, come amava dire, «una scala del paradiso». Ma la devozione ebbe sin dagli inizi anche vari oppositori, soprattutto nell'ambiente giansenista (l'austero movimento teologico maldisposto nei riguardi dei cerimoniali romani), tanto da spingere il benedettino Giuseppe Maria Pujati a pubblicare, nel 1782, uno studio nel quale dimostrava l'estraneità ai testi del Vangelo di almeno la metà delle stazioni della Via crucis.

Ciò nonostante, agli inizi dell'Ottocento, come ha sottolineato lo studioso Pietro Zovatto, il pio esercizio infine «si diffonde ovunque, anche nelle piccole pievi di montagna», con l'esplicito appoggio dei pontefici che poi, in particolare con Paolo VI e Giovanni Paolo II, hanno cominciato a presiederla ogni anno no, nell'ormai consueto appuntamento della serata del Venerdì santo. Questa pratica della Via crucis durante il Venerdì santo è certamente una delle devozioni più seguite dal popolo cristiano, essenzialmente per venerare la Passione di Gesù, ma anche in preparazione alla gioia pasquale. Il Manuale delle indulgenze concede l'indulgenza plenaria al fedele che - oltre alle consuete condizioni della confessione, comunione e preghiera secondo le intenzioni del Sommo Pontefice - partecipa al rito o vi si unisce devotamente mentre esso è compiuto dal Papa e viene trasmesso per mezzo della televisione o della radio.

Il desiderio di una maggiore fedeltà al Vangelo, in conseguenza delle sollecitazioni del concilio Vaticano lI, ha fatto proporre una nuova scansione delle stazioni, utilizzata per la prima volta da Giovanni Paolo II nella Via crucis al Colosseo del 1991 : I: Gesù nell'Orto degli ulivi. II: Gesù, tradito da Giuda, è arrestato. III: Gesù è condannato dal sinedrio. IV: Gesù è rinnegato da Pietro. V: Gesù è giudicato da Pilato. VI: Gesù è flagellato e coronato di spine. VII: Gesù è caricato della croce. VIII: Gesù è aiutato dal Cireneo a portare la croce. IX: Gesù incontra le donne di Gerusalemme. X: Gesù è crocifisso. XI: Gesù promette il suo regno al buon ladrone. XII: Gesù in croce, la madre e il discepolo. XIII: Gesù muore sulla croce. XIV: Gesù è deposto nel sepolcro.

Prima e dopo ogni stazione si recitano, rispettivamente, le invocazioni «ti adoriamo, o Cristo, e ti benediciamo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo» e «santa Madre, deh! Voi fate che le piaghe del Signore siano impresse nel mio cuore». Un auspicio espresso dal Direttorio è che la Via crucis «si concluda in modo tale che i fedeli si aprano all'attesa, piena di fede e di speranza, della risurrezione», aggiungendo cioè una XV stazione «con la memoria della risurrezione del Signore».

Nella sola Italia, sono un centinaio le più importanti manifestazioni di fede e folklore che, fra la domenica delle Palme e quella di Pasqua, caratterizzano le tradizioni popolari della Settimana Santa. In particolare il Venerdì santo è la giornata in cui si esprime la coralità del popolo, che si riunisce lungo la strada della Passione di Cristo e ai piedi della croce per vivere comunitariamente il momento del dolore più profondo e della più accesa speranza.

Le sacre rappresentazioni

Perciò la Via crucis è il cuore di decine di sacre rappresentazioni, più o meno elaborate. A Sordevolo, in Piemonte, si svolge quella forse più scenografica, anche perché ha luogo ogni cinque anni, a motivo dell'enorme lavoro di preparazione che richiede. Anche in altre regioni settentrionali hanno luogo manifestazioni tradizionali, che comunemente assumono però forme meno appariscenti rispetto a quelle del Sud. 

-La Sicilia in particolare è ricchissima di riti. La più nota processione dei misteri è quella di Trapani, cui prendono parte migliaia di persone, al seguito di una ventina di gruppi statuari, raffiguranti le diverse scene della Passione, che vengono condotti per le strade cittadine fino a tarda notte.

-In Puglia è spettacolare l'evento di Taranto, dove sono centinaia i membri delle confraternite che portano sulle spalle le statue (alcune delle quali risalgono al Settecento), o che accompagnano a piedi nudi la processione percuotendo il selciato con i bastoni: la processione dura per una giornata intera, fino all'alba del Sabato santo.

-In Campania, notevoli processioni si svolgono a Sorrento, dove il Cristo viene portato in processione, accompagnato dai fedeli che tengono in mano ceri e fiaccole, mentre l'Addolorata viene condotta a visitare gli altari della reposizione allestiti nelle Chiese cittadine, e a Procida, che vede all'alba la congrega dei Bianchi portare a spalla i misteri e il Cristo morto.

Sul modello della Via crucis è stata elaborata la Via Matris, approvata da papa Leone XIII nel 1884. Le stazioni sono sette: I: La profezia di Simeone. II: La fuga in Egitto. III: Lo smarrimento di Gesù. IV: L'incontro con Gesù. V: La crocifissione di Gesù. VI: La deposizione dalla croce. VII: La sepoltura di Gesù. Dopo ogni stazione si recitano la preghiera: «Ave Maria, piena di dolori, Gesù crocifisso è con te, tu sei degna di compassione fra tutte le donne e degno di compassione è il frutto del tuo seno, Gesù. Santa Maria, Madre di Gesù crocifisso, ottieni a noi, crocifissori del Figlio tuo, lacrime di sincero pentimento, adesso e nell'ora della nostra morte. Amen» e la giaculatoria: «Maria addolorata, dolce mio bene, stampa nel mio cuore le tue pene».

La Via Lucis

Più recentemente un nuovo pio esercizio, chiamato Via Lucis, si è proposto come seguito e culmine della Via crucis. Dopo la proclamazione di ciascuna stazione, chi presiede dice: «Ti adoriamo, Gesù risorto, e ti benediciamo», cui i presenti rispondono: «Perché con la tua Pasqua hai dato la vita al mondo». Le stazioni sono quattordici: I: Gesù risorge da morte. II: I discepoli trovano il sepolcro vuoto. III: Gesù risorto si manifesta alla Maddalena. IV: Gesù risorto sulla strada di Emmaus. V: Gesù risorto spezza e dona il pane. VI: Gesù risorto si mostra vivo ai discepoli. VII: Gesù risorto dà il potere di rimettere i peccati. VIII: Gesù risorto conferma la fede di Tommaso. IX: Gesù risorto si manifesta sul lago di Tiberiade. X: Gesù risorto conferisce il primato a Pietro. XI: Gesù risorto invia i discepoli nel mondo. XII: Gesù risorto ascende al cielo. XIII: Con Maria, in attesa dello Spirito Santo. XIV: Gesù risorto manda lo Spirito promesso.

A san Bemardo, fu Gesù Cristo in persona a indicare una devozione che desiderava in memoria della Passione. L'abate di Chiaravalle gli aveva domandato nella preghiera quale fosse stata la sua più atroce sofferenza, e si sentì rispondere: «Ebbi sulla spalla una piaga profonda tre dita e tre ossa scoperte per portare la croce. Questa piaga mi ha dato maggior pena e dolore di tutte le altre e dagli uomini non è conosciuta. Ma tu rivelala ai fedeli cristiani e sappi che qualunque grazia mi chiederanno in virtù di questa piaga verrà loro concessa; e a tutti quelli che per amore di essa mi onoreranno con tre Padre nostro, Ave Maria e Gloria al Padre al giorno perdonerò i peccati veniali, non ricorderò più i mortali e non moriranno di morte subitanea, e in punto di morte saranno visitati dalla Beata Vergine, e conseguiranno ancora la grazia e la misericordia». Per accompagnare i tre Padre, Ave e Gloria, san Bernardo compose questa orazione: «Dilettissimo Signore Gesù Cristo, mansuetissimo Agnello di Dio. lo, povero peccatore, adoro e venero la santissima piaga prodotta sulla tua spalla dal portare la pesantissima croce al Calvario, nella quale restarono scoperte tre sacratissime ossa. Per questa piaga sopportasti un immenso dolore. Ti supplico, in virtù e per i meriti di questa piaga, di avere misericordia verso di me, di perdonarmi tutti i miei peccati mortali e veniali, di assistermi nell' ora della morte e di condurmi nel tuo regno beato. Amen». Intervista con don Sabino Palumbieri
QUEL PERENNE INTRECCIO TRA SOFFERENZA E SPERANZA

Don Sabino Palumbieri, docente di antropologia nella Pontificia università salesiana, è il fondatore del movimento laicale "Testimoni del Risorto", con cui ha promosso diverse installazioni della Via Lucis, in particolare a Colle Don Bosco e nelle catacombe romane di San Callisto.

Quale attualità hanno le devozioni popolari relative alla Passione di Gesù?

«Le devozioni hanno a mio parere il grande obiettivo che le verità di fede divengano realmente "del popolo", mediante l'identificazione personale con il Mistero che si celebra: esse aiutano la mentalità del credente a radicarsi nella fede e stimolano il non credente a interrogarsi. Il tempo pasquale permette alla coscienza del popolo cristiano di guardare a Cristo schiacciato dal dolore e dalla morte, alla luce della certezza nella risurrezione. Perciò la Via crucis - che si potrebbe descrivere come lo specchio doloroso dei calvari senza fine del mondo - è tuttora essenziale; in quanto spinge i fedeli a identificarsi con l' "uomo dei dolori" e a vivere così la dimensione della sofferenza e della speranza».

In che modo la Via Lucis offre un nuovo contributo a questo processo di crescita nella fede?

«Mai come in questi tempi la gente, alla ricerca del senso vero dell'esistenza, ha bisogno di speranza. La Via Lucis si pone in questa traiettoria, come specchio delle speranze del mondo e specialmente dei suoi più autentici titolari, i poveri. La nuova evangelizzazione sollecitata da Giovanni Paolo Il è la proposta del "perennemente nuovo" che è rappresentato dalla risurrezione da ogni tipo di morte, spirituale e materiale. In questo senso la Via Lucis è una forma giovane dell'esperienza di fede, che invita alla speranza e stimola al coraggio e all'operosità; è un'espressione orante del perenne intreccio fra dolore e gioia».

 

 

Tre meditazioni sul Sabato santo di Joseph Ratzinger
L'angoscia di una assenza. Meditazioni sul Sabato Santo

del cardinal Joseph Ratzinger

PRIMA MEDITAZIONE

 

Con sempre maggior insistenza si sente parlare nel nostro tempo della morte di Dio. Per la prima volta, in Jean Paul, si tratta solo di un sogno da incubo: Gesù morto annuncia ai morti, dal tetto del mondo, che nel suo viaggio nell’aldilà non ha trovato nulla, né cielo, né Dio misericordioso, ma solo il nulla infinito, il silenzio del vuoto spalancato. Si tratta ancora di un sogno orribile che viene messo da parte, gemendo nel risveglio, come un sogno appunto, anche se non si riuscirà mai a cancellare l’angoscia subita, che stava sempre in agguato, cupa, nel fondo dell’anima. Un secolo dopo, in Nietzsche, è una serietà mortale che si esprime in un grido stridulo di terrore: «Dio è morto! Dio rimane morto! E noi lo abbiamo ucciso!».  Cinquant’anni dopo, se ne parla con distacco accademico e ci si prepara a una “teologia dopo la morte di Dio”, ci si guarda intorno per vedere come poter continuare e si incoraggiano gli uomini a prepararsi a prendere il posto di Dio. Il mistero terribile del Sabato santo, il suo abisso di silenzio, ha acquistato quindi nel nostro tempo una realtà schiacciante. Giacché questo è il Sabato santo: giorno del nascondimento di Dio, giorno di quel paradosso inaudito che noi esprimiamo nel Credo con le parole «disceso agli inferi», disceso dentro il mistero della morte. Il Venerdì santo potevamo ancora guardare il trafitto. Il Sabato santo è vuoto, la pesante pietra del sepolcro nuovo copre il defunto, tutto è passato, la fede sembra essere definitivamente smascherata come fanatismo. Nessun Dio ha salvato questo Gesù che si atteggiava a Figlio suo. Si può essere tranquilli: i prudenti che prima avevano un po’ titubato nel loro intimo se forse potesse essere diverso, hanno avuto invece ragione.

Sabato santo: giorno della sepoltura di Dio; non è questo in maniera impressionante il nostro giorno? Non comincia il nostro secolo a essere un grande Sabato santo, giorno dell’assenza di Dio, nel quale anche i discepoli hanno un vuoto agghiacciante nel cuore che si allarga sempre di più, e per questo motivo si preparano pieni di vergogna e angoscia al ritorno a casa e si avviano cupi e distrutti nella loro disperazione verso Emmaus, non accorgendosi affatto che colui che era creduto morto è in mezzo a loro?

Dio è morto e noi lo abbiamo ucciso: ci siamo propriamente accorti che questa frase è presa quasi alla lettera dalla tradizione cristiana e che noi spesso nelle nostre viae crucis abbiamo ripetuto qualcosa di simile senza accorgerci della gravità tremenda di quanto dicevamo? Noi lo abbiamo ucciso, rinchiudendolo nel guscio stantio dei pensieri abitudinari, esiliandolo in una forma di pietà senza contenuto di realtà e perduta nel giro di frasi fatte o di preziosità archeologiche; noi lo abbiamo ucciso attraverso l’ambiguità della nostra vita che ha steso un velo di oscurità anche su di lui: infatti che cosa avrebbe potuto rendere più problematico in questo mondo Dio se non la problematicità della fede e dell’amore dei suoi credenti?

L’oscurità divina di questo giorno, di questo secolo che diventa in misura sempre maggiore un Sabato santo, parla alla nostra coscienza. Anche noi abbiamo a che fare con essa. Ma nonostante tutto essa ha in sé qualcosa di consolante. La morte di Dio in Gesù Cristo è nello stesso tempo espressione della sua radicale solidarietà con noi. Il mistero più oscuro della fede è nello stesso tempo il segno più chiaro di una speranza che non ha confini. E ancora una cosa: solo attraverso il fallimento del Venerdì santo, solo attraverso il silenzio di morte del Sabato santo, i discepoli poterono essere portati alla comprensione di ciò che era veramente Gesù e di ciò che il suo messaggio stava a significare in realtà. Dio doveva morire per essi perché potesse realmente vivere in essi. L’immagine che si erano formata di Dio, nella quale avevano tentato di costringerlo, doveva essere distrutta perché essi attraverso le macerie della casa diroccata potessero vedere il cielo, lui stesso, che rimane sempre l’infinitamente più grande. Noi abbiamo bisogno del silenzio di Dio per sperimentare nuovamente l’abisso della sua grandezza e l’abisso del nostro nulla che verrebbe a spalancarsi se non ci fosse lui.

C’è una scena nel Vangelo che anticipa in maniera straordinaria il silenzio del Sabato santo e appare quindi ancora una volta come il ritratto del nostro momento storico. Cristo dorme in una barca che, sbattuta dalla tempesta, sta per affondare. Il profeta Elia aveva una volta irriso i preti di Baal, che inutilmente invocavano a gran voce il loro dio perché volesse far discendere il fuoco sul sacrificio, esortandoli a gridare più forte, caso mai il loro dio stesse a dormire. Ma Dio non dorme realmente? Lo scherno del profeta non tocca alla fin fine anche i credenti del Dio di Israele che viaggiano con lui in una barca che sta per affondare? Dio sta a dormire mentre le sue cose stanno per affondare, non è questa l’esperienza della nostra vita? La Chiesa, la fe­de, non assomigliano a una piccola barca che sta per affondare, che lotta inutilmente contro le onde e il vento, mentre Dio è assente? I discepoli gridano nella disperazione estrema e scuotono il Signore per svegliarlo, ma egli si mostra meravigliato e rimprovera la loro poca fede. Ma è diversamente per noi? Quando la tempesta sarà passata, ci accorgeremo di quanto la nostra poca fede fosse carica di stoltezza. E tuttavia, o Signore, non possiamo fare a meno di scuotere te, Dio che stai in silenzio e dormi, e gridarti: svegliati, non vedi  che affondiamo? Destati, non lasciar durare in eterno l’oscurità del Sabato santo, lascia cadere un raggio di Pasqua anche sui nostri giorni, accompàgnati a noi quando ci avviamo disperati verso Emmaus perché il nostro cuore possa accendersi alla tua vicinanza. Tu che hai guidato in maniera nascosta le vie di Israele per essere finalmente uomo con gli uomini, non ci lasciare nel buio, non permettere che la tua parola si perda nel gran sciupio di parole di questi tempi. Signore, dacci il tuo aiuto, perché senza di te affonderemo.

Amen.

SECONDA MEDITAZIONE

 

Il nascondimento di Dio in questo mondo costituisce il vero mistero del Sabato santo, mistero accennato già nelle parole enigmatiche secondo cui Gesù è «disceso all’inferno». Nello stesso tempo l’esperienza del nostro tempo ci ha offerto un approccio completamente nuovo al Sabato santo, giacché il nascondimento di Dio nel mondo che gli appartiene e che dovrebbe con mille lingue annunciare il suo nome, l’esperienza dell’impotenza di Dio che è tuttavia l’onnipotente – questa è l’esperienza e la miseria del nostro tempo.

Ma anche se il Sabato santo in tal modo ci si è avvicinato profondamente, anche se noi comprendiamo il Dio del Sabato santo più della manifestazione potente di Dio in mezzo ai tuoni e ai lampi, di cui parla il Vecchio Testamento, rimane tuttavia insoluta la questione di sapere che cosa si intende veramente quando si dice in maniera misteriosa che Gesù «è disceso all’inferno». Diciamolo con tutta chiarezza: nessuno è in grado di spiegarlo veramente. Né diventa più chiaro dicendo che qui inferno è una cattiva traduzione della parola ebraica shêol, che sta a indicare semplicemente tutto il regno dei morti, e quindi la formula vorrebbe originariamente dire soltanto che Gesù è disceso nella profondità della morte, è realmente morto e ha partecipato all’abisso del nostro destino di morte. Infatti sorge allora la domanda: che cos’è realmente la morte e che cosa accade effettivamente quando si scende nella profondità della morte? Dobbiamo qui porre attenzione al fatto che la morte non è più la stessa cosa dopo che Cristo l’ha subita, dopo che egli l’ha accettata e penetrata, così come la vita, l’essere umano, non sono più la stessa cosa dopo che in Cristo la natura umana poté ve­nire a contatto, e di fatto venne, con l’essere proprio di Dio. Prima la morte era soltanto morte, separazione dal paese dei viventi e, anche se con diversa profondità, qualcosa come “inferno”, lato notturno dell’esistere, buio impenetrabile. Adesso però la morte è anche vita e quando noi oltrepassiamo la glaciale solitudine della soglia della morte, ci incontriamo sempre nuovamente con colui che è la vita, che è voluto divenire il compagno della nostra solitudine ultima e che, nella solitudine mortale della sua angoscia nell’orto degli ulivi e del suo grido sulla croce «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», è divenuto partecipe delle nostre solitudini. Se un bambino si dovesse avventurare da solo nella notte buia attraverso un bosco, avrebbe paura anche se gli si dimostrasse centinaia di volte che non c’è alcun pericolo. Egli non ha paura di qualcosa di determinato, a cui si può dare un nome, ma nel buio sperimenta l’insicurezza, la condizione di orfano, il carattere sinistro dell’esistenza in sé. Solo una voce umana potrebbe consolarlo; solo la mano di una persona cara potrebbe cacciare via come un brutto sogno l’angoscia. C’è un’angoscia – quella vera, annidata nella profondità delle nostre solitudini – che non può essere superata mediante la ragione, ma solo con la presenza di una persona che ci ama. Quest’angoscia infatti non ha un oggetto a cui si possa dare un nome, ma è solo l’espressione terribile della nostra solitudine ultima. Chi non ha sentito la sensazione spaventosa di questa condizione di abbandono? Chi non avvertirebbe il miracolo santo e consolatore suscitato in questi frangenti da una parola di affetto? Laddove però si ha una solitudine tale che non può essere più raggiunta dalla parola trasformatrice dell’amore, allora noi parliamo di inferno. E noi sappiamo che non pochi uomini del nostro tempo, apparentemente così ottimistico, sono dell’avviso che ogni incontro rimane in superficie, che nessun uomo ha accesso all’ultima e vera profondità dell’altro e che quindi nel fondo ultimo di ogni esistenza giace la disperazione, anzi l’inferno. Jean-Paul Sartre ha espresso questo poeticamente in un suo dramma e nello stesso tempo ha esposto il nucleo della sua dottrina sull’uomo. Una cosa è certa: c’è una notte nel cui buio abbandono non penetra alcuna parola di conforto, una porta che noi dobbiamo oltrepassare in solitudine assoluta: la porta della morte. Tutta l’angoscia di questo mondo è in ultima analisi l’angoscia provocata da questa solitudine. Per questo motivo nel Vecchio Testamento il termine per indicare il regno dei morti era identico a quello con cui si indicava l’inferno: shêol. La morte infatti è solitudine assoluta. Ma quella solitudine che non può essere più illuminata dall’amore, che è talmente profonda che l’amore non può più accedere a essa, è l’inferno.

«Disceso all’inferno»: questa confessione del Sabato santo sta a significare che Cristo ha oltrepassato la porta della solitudine, che è disceso nel fondo irraggiungibile e insuperabile della nostra condizione di solitudine. Questo sta a significare però che anche nella notte estrema nella quale non penetra alcuna parola, nella quale noi tutti siamo come bambini cacciati via, piangenti, si dà una voce che ci chiama, una mano che ci prende e ci conduce. La solitudine insuperabile dell’uomo è stata superata dal momento che Egli si è trovato in essa. L’inferno è stato vinto dal momento in cui l’amore è anche entrato nella regione della morte e la terra di nessuno della solitudine è stata abitata da lui. Nella sua profondità l’uomo non vive di pane, ma nell’autenticità del suo essere egli vive per il fatto che è amato e gli è permesso di amare. A partire dal momento in cui nello spazio della morte si dà la presenza dell’amore, allora nella morte penetra la vita: ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata – prega la Chiesa nella liturgia funebre.

Nessuno può misurare in ultima analisi la portata di queste parole: «disceso all’inferno». Ma se una volta ci è dato di avvicinarci all’ora della nostra solitudine ultima, ci sarà permesso di comprendere qualcosa della grande chiarezza di questo mistero buio. Nella certa speranza che in quell’ora di estrema solitudine non saremo soli, possiamo già adesso presagire qualcosa di quello che avverrà. E in mezzo alla nostra protesta contro il buio della morte di Dio cominciamo a diventare grati per la luce che viene a noi proprio da questo buio.

TERZA MEDITAZIONE

Nel breviario romano la liturgia del triduo sacro è strutturata con una cura particolare; la Chiesa nella sua preghiera vuole per così dire trasferirci nella realtà della passione del Signore e, al di là delle parole, nel centro spirituale di ciò che è accaduto. Se si volesse tentare di contrassegnare in poche battute la liturgia orante del Sabato santo, allora bisognerebbe soprattutto parlare dell’effetto di pace profonda che traspira da essa. Cristo è penetrato nel nascondimento (Verborgenheit), ma nello stesso tempo, proprio nel cuore del buio impenetrabile, egli è penetrato nella sicurezza (Geborgenheit), anzi egli è diventato la sicurezza ultima. Ormai è diventata vera la parola ardita del salmista: e anche se mi volessi nascondere nell’inferno, anche là sei tu. E quanto più si percorre questa liturgia, tanto più si scorgono brillare in essa, come un’aurora del mattino, le prime luci della Pasqua. Se il Venerdì santo ci pone davanti agli occhi la figura sfigurata del trafitto, la liturgia del Sabato santo si rifà piuttosto all’immagine della croce cara alla Chiesa antica: alla croce circondata da raggi luminosi, segno, allo stesso modo, della morte e della risurrezione.

Il Sabato santo ci rimanda così a un aspetto della pietà cristiana che forse è stato smarrito nel corso dei tempi. Quando noi nella preghiera guardiamo alla croce, vediamo spesso in essa soltanto un segno della passione storica del Signore sul Golgota. L’origine della devozione alla croce è però diversa: i cristiani pregavano rivolti a Oriente per esprimere la loro speranza che Cristo, il sole vero, sarebbe sorto sulla storia, per esprimere quindi la loro fede nel ritorno del Signore. La croce è in un primo tempo legata strettamente con questo orientamento della preghiera, essa viene rappresentata per così dire come un’insegna che il re inalbererà nella sua venuta; nell’immagine della croce la punta avanzata del corteo è già arrivata in mezzo a coloro che pregano. Per il cristianesimo antico la croce è quindi soprattutto segno della speranza. Essa non implica tanto un riferimento al Signore passato, quanto al Signore che sta per venire. Certo era impossibile sottrarsi alla necessità intrinseca che, con il passare del tempo, lo sguardo si rivolgesse anche all’evento accaduto: contro ogni fuga nello spirituale, contro ogni misconoscimento dell’incarnazione di Dio, occorreva che fosse difesa la prodigalità inimmaginabile dell’amore di Dio che, per amore della misera creatura umana, è diventato egli stesso un uomo, e quale uomo! Occorreva difendere la santa stoltezza dell’amore di Dio che non ha scelto di pronunciare una parola di potenza, ma di percorrere la via dell’impotenza per mettere alla gogna il nostro sogno di potenza e vincerlo dall’interno.

Ma così non abbiamo dimenticato un po’ troppo la connessione tra croce e speranza, l’unità tra l’Oriente e la direzione della croce, tra passato e futuro esistente nel cristianesimo? Lo spirito della speranza che alita sulle preghiere del Sabato santo dovrebbe nuovamente penetrare tutto il nostro essere cristiani. Il cristianesimo non è soltanto una religione del passato, ma, in misura non minore, del futuro; la sua fede è nello stesso tempo speranza, giacché Cristo non è soltanto il morto e il risorto ma anche colui che sta per venire.

O Signore, illumina le nostre anime con questo mistero della speranza perché riconosciamo la luce che è irraggiata dalla tua croce, concedici che come cristiani procediamo protesi al futuro, incontro al giorno della tua venuta.

Amen.

 

PREGHIERA

Signore Gesù Cristo, nell’oscurità della morte Tu hai fatto luce; nell’abisso della solitudine più profonda abita ormai per sempre la protezione potente del Tuo amore; in mezzo al Tuo nascondimento possiamo ormai cantare l’alleluia dei salvati. Concedici l’umile semplicità della fede, che non si lascia fuorviare quando Tu ci chiami nelle ore del buio, dell’abbandono, quando tutto sembra apparire problematico; concedici, in questo tempo nel quale attorno a Te si combatte una lotta mortale, luce sufficiente per non perderti; luce sufficiente perché noi possiamo darne a quanti ne hanno ancora più bisogno. Fai brillare il mistero della Tua gioia pasquale, come aurora del mattino, nei nostri giorni; concedici di poter essere veramente uomini pasquali in mezzo al Sabato santo della storia. Concedici che attraverso i giorni luminosi e oscuri di questo tempo possiamo sempre con animo lieto trovarci in cammino verso la Tua gloria futura.

Amen.

 

 

Padre, perdonali! George Bernanos

Ho sete! Paul Claudel

Cervo alla fonte. Miguel de Unamuno

Il buon ladrone, Francois Mauriac

Il buon ladrone, Paul Claudel

SETTE PAROLE

Gesù diceva: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).

Persino sulla Croce, mentre compiva nell'angoscia la perfezione della sua Santa Umanità, Nostro Signore non si afferma vittima dell'ingiustizia: Non sciunt quod faciunt. Parole intelligibili dai bambini più piccoli, parole che si potrebbero dire infantili, ma che i demòni debbono ripetersi, dopo d'allora, senza comprenderle, con spavento crescente. Mentre si aspettavano la folgore, è come se una mano innocente avesse chiuso su loro i pozzi dell'abisso.

Bernanos, Diario di un curato di campagna, pp. 238-239

Ho sete

Ho sete! Dio ha sete. In mezzo al mondo ch'egli ha fatto, alla creazione che ha ricevuto da lui tutto quanto essa ha di esistenza, e di cui egli costituisce il fine e la ragion d'essere. Egli fa scorrere il suo sguardo e constata, non con una considerazione generale e filosofica ma nella stretta più dolorosa della necessità più immediata e più urgente, che non c'è niente per lui.

Egli ha creato il mondo, e il mondo gli rifiuta una goccia d'acqua. Un po' d'acqua, la sola cosa al mondo che sia gratuita, ciò che non si rifiuterebbe ad un animale ferito, a un cane ammalato, l'umanità incredula o impotente la rifiuta al suo autore e salvatore. 

Claudel, Credo in Dio, p. 142

Cervo

Dagli uomini ferito, come cervo

che al natìo bosco corre per morire,

Ti rifugiasti in vetta del Calvario,

moribondo di sete e dissanguato,

percorrendo le vie dell'amarezza,

dell'amore alla polla sempiterna.

«Ho sete!». Tu gemevi. E noi, fratelli

tuoi, ma crudeli cacciatori, pure

morti di sete, in cerca della fonte

del vino tuo, corremmo sopra l'orme

cruente, d'amarezza nella valle.

Noi sete abbiam della bianchezza eterna

di codesto tuo cor, polla perenne

d'acqua di vita che giammai si secca.

Se di Cana alle nozze Tu mutasti

in vino l'acqua, della tua passione

nel cruento martirio, il rosso vino

festi acqua viva di Sicar, che smorza

in eterno la sete. Il sangue desti,

mistico cambio, con amore immenso

all'alme nostre, le samaritane

dai sei mariti, folli concubine

del sapere che inebbria e mai non sazia.

Ed il cuore, smarrito pei sentieri

del mondo sì intricati, giunge infine

alla vena del pozzo del tuo cuore

e ne fa suo rifugio e si ristora

della tua bocca al soffio che dà vita.

Unamuno, Il Cristo di Velazquez, pp. 67-68

Il buon ladrone

Coloro ch'egli ama, si accalcano, montano la guardia intorno al suo corpo esposto, ricoprendo, velando col loro amore la sua nudità, troppo sanguinante, troppo dolorosa per offendere qualsiasi sguardo. A traverso il sangue e il pus, egli vede la propria pena riflessa sui volti cari: quelli di Maria sua madre, di Maria Maddalena, d'una delle sue zie, moglie di Cleofa. Giovanni ha forse gli occhi chiusi.

Ed ecco l'episodio sublime, l'ultima invenzione dell'Amore, innocente e crocifisso, che Luca solo riporta: L’uno dei malfattori appiccati lo ingiuria dicendo: Se tu sei il Cristo, salva te stesso e noi. - Ma l'altro lo riprendeva dicendo: Non hai tu timore di Dio, che sei nel medesimo supplizio? Per noi è giustizia, perché riceviamo la pena degna dei nostri misfatti: ma costui non ha commesso nulla di male.

E tosto che ha parlato, una grazia immensa gli piove in cuore: quella di credere che quel suppliziato, quel miserevole rifiuto che i cani schiferebbero, è il Cristo, il Figlio di Dio, l'Autore della vita, il Re del cielo. E dice a Gesù:

«Signore, ricòrdati di me, quando sarai entrato nel tuo regno».

«Oggi stesso tu sarai con me in paradiso».

Un solo moto di puro amore, e un'intera vita criminale è cancellata. Buon ladrone, santo operaio dell'ultima ora, inebbriaci di speranza.

Mauriac, Vita di Gesù, pp. 149-150

Il buon ladrone

«Signore, ricordati di me quando sarai arrivato nel tuo regno». L’occupante di sinistra, invece, persevera virilmente nel suo atteggiamento energico che gli vale la simpatia degli «spiriti forti». Non importa! perché dall'altra parte, come un vaso aperto che trabocca d'improvviso, quel cortigiano dell'annientamento e dell'agonia, quello spudorato profittatore - il crocifisso di destra - si sente colmato della prodigiosa promessa: «Oggi, sarai con me in Paradiso».

Oggi! D'un sol colpo, non solo è assolto, ma santificato! In un solo istante, su quel disgustoso cadavere, la Grazia ha approfittato di tutte le deficienze della virtù. Su quella forca infame non c'è più uno scellerato che espia, ma un martire in funzione d'ostia che brilla. L’assassino, l'impudico, il ladro, il forzato, il bandito professionale è diventato un santo... È bastata quell'accettazione alla base. È bastato quell'impercettibile spostamento, quella lieve fessura nell'ermetico recipiente del nostro egoismo. È bastato uno sguardo tra le sue palpebre sanguinanti per scatenare nell'invitato di destra quel cataclisma penitenziale, quella risurrezione mista all'agonia, quell'irresistibile esplosione dell'Eternità.

Claudel, Credo in Dio, pp. 142-143

 

 

Gesù dubita del Padre? Turoldo

La bilancia che pesa il bene e il male è stata rizzata per sempre. Claudel

Sentir volle tuo Padre sentire che cosa è Morte. Unamuno.

Il Clamore del Giusto. Péguy

La disperazione di non riuscire a salvare Giuda! Péguy

Creder in Lui e dubitare

di Lui, dire a tutti che ti ama,

e consumarti di amore, e sentire

che sei abbandonato.

«Padre, Abbà, papà!...».

Ora invece appena: «Dio»;

sia pure «tuo Dio»!

Alla fine, dunque, non più padre?

O, perfino, che non esista?

Ma come poi

avresti potuto dire:

«Nelle tue mani rimetto lo spirito»?

Avresti vinto per un atto di fede

senza speranza?

Pur perduto dentro l'abisso del Nulla

ancora credevi?

v

Sappiamo, sappiamo che fosti

«esaudito per la tua pietà»:

Risurrezione, non altro

è la risposta.

Ma Tu non sapevi!

Come noi non sappiamo. E compatta

ancora sale sul mondo

la Notte.

Turoldo, O sensi miei..., pp. 606-608

Nelle tue mani, Signore, rimetto il mio Spirito: lo Spirito che non è soltanto Suo, ma è lo Spirito di ogni vivificazione, lo Spirito ch'Egli attinse alla bocca del Padre ed ora bocca contro bocca Gli restituisce. Egli trae tutto a Sé e spiega al Padre gli esseri e le cose tutte che accadono soltanto in relazione a Lui, Figlio. […]

 

Fa comunicare il Padre e con Sé e con l'umanità tutta e con il mondo tutto e con tutta la successione del mondo e dell'umanità e con tutti i momenti e tutti i particolari di ciascuno di noi e con tutta la nostra immensa e solidale responsabilità. Tutto ciò non ristà di passar con. Lui attraverso la croce, non ristà di morir con Lui sulla croce, di giungere ad un fine, ad una dichiarazione, ad un giudizio, ad una mozione. La bilancia che pesa il bene ed il male è stata ormai rizzata per sempre.

Gesù sulla croce non si limita a morir la nostra vita, a presentarla al Padre come espiazione, a trasformar ciascuno dei nostri peccati in sofferenza redentrice; non si limita Lui, crocifisso e Dio, a soddisfar la giustizia di Dio, a scriver sotto lo sguardo di Dio, parola per parola, riga per riga, la sentenza con cui è giudicato il mondo. Gesù ama. Non solo muore la nostra vita, ma ama la nostra vita.

Non dico che l'ama per se stessa, come si direbbe, mettiamo, amare una donna o amare il vino, ma che la trasforma in amore, che scevera in ciascun atto nostro ciò che è nutrimento alla volontà di Dio e ciò che è nostro sostanziale rifiuto alla Sua fame. Egli attua pienamente nella propria persona il grande Comandamento, il Comandamento unico in cui gli altri s'assommano: Amerai il Signore Dio tuo con tutta l'anima, con tutto il cuore, con tutte le tue forze ed amerai il tuo prossimo come te stesso.

Claudel, La rosa e il rosario, pp. 137-138

 

Gridasti: «È consumato!» col ruggito di mille cateratte,

con tonante voce, come d'esercito in battaglia. […]

È consumato! Alfin morì la Morte!

Solo restasti con tuo Padre – solo

nel tuo cospetto - e i guardi Voi mischiaste –

degli occhi tuoi l'azzurro e quel dei cieli -, e all'immenso singulto del suo seno

tremò il mar senza sponde e senza fondo

dello Spirito, e Dio incarnato in uomo

gustò la solitudine divina

del morire. Sentir volle tuo Padre

che cosa è Morte, e per un solo istante

spoglio si vide del Creato intero,

quando, chinando il capo, a Dio rendesti

l'estremo soffio del tuo petto umano.

All'ultimo tuo gemito rispose

sola, da lungi, la pietà del mare!

Unamuno, Il Cristo di Velazquez, pp. 72-73

Gridò più di un dannato la spaventosa angoscia,

Clamore che stonò come bestemmia divina, È che il Figlio di Dio sapeva.

Ci si domanda perché avrebbe gettato quel grido

spaventoso. Altrimenti ci si domanda.

Tutti i testi sono formali,

gettò in quel momento un grido spaventoso.

Allora ci si domanda perché avrebbe gettato,

in quel momento, quel grido spaventoso.

Era il contrario. Doveva essere contento.

Era finita.

Era fatta.

Tutto era consumato. [...]

Aveva compiuto il suo tempo d'umanità;

Lasciava la prigione per il luogo della gloria;

Tornava nella casa di suo padre.

Come un viaggiatore la sera del viaggio,

Egli aveva compiuto il viaggio di terra;

Aveva compiuto il suo viaggio di Gerusalemme.

Come un viaggiatore stanco la sera del suo viaggio,

Egli vedeva la casa.

E come un mietitore la sera della sua giornata,

Nelle due mani di suo padre versava il suo salario;

Come un mietitore stanco la sera della sua messe,

Nelle due mani di suo padre versava il suo salario,

Le anime dei giusti che aveva riscattate,

Il salario che aveva sì duramente guadagnato.

Le anime dei santi che aveva santificate.

Le anime dei giusti che aveva giustificate.

E le anime dei peccatori che aveva giustificato con

l'una e con l'altra mano.

Che aveva raccolto come una spiga caduta.

Che aveva giustificato con i suoi meriti. [...]

Clamore che ancora risuona in ogni umanità;

Clamore che fece vacillare la Chiesa militante;

In cui anche la sofferente conobbe il suo proprio spavento;

Per cui la trionfante provò il suo trionfo;

Clamore che risuona nel cuore di ogni umanità;

Clamore che risuona nel cuore di ogni cristianità;

O clamore culminante, eterno e valevole.

Grido come se Dio stesso avesse peccato come noi;

Come se perfino Dio si fosse disperato;

O clamore culminante, eterno e valevole.

Come se anche Dio avesse peccato come noi.

E del più grande peccato.

Che è quello di disperare.

Il peccato della disperazione.

Più dei due ladroni appesi ai suoi lati;

Che urlavano alla morte come dei cani magri.

I ladroni non urlavano che un urlo umano;

I ladroni non urlavano che un grido di morte umana;

E così non sbavavano che una bava umana:

Il Giusto solo emise il clamore eterno.

Ma perché? Che aveva?

I ladroni non gridavano che un clamore umano;

Perché non conoscevano che una desolazione umana;

Non avevano provato che una desolazione umana.

Lui solo poteva gridare il clamore sovrumano;

Lui solo conobbe allora quella sovrumana desolazione.

Così i ladroni non gettarono che un grido

che si spense nella notte.

E lui gettò il grido che risuonerà sempre,

Eternamente sempre, il grido che non si spegnerà mai,

eternamente.

In nessuna notte. In nessuna notte del tempo e dell'eternità. [...]

Péguy, I Misteri, pp. 72-74, 78-79

Non aveva gridato sotto la faccia spergiura; [...]

Non aveva gridato sotto le facce d'ingiuria;

Non aveva gridato sotto le facce dei carnefici romani.

Allora perché gridò; .davanti a cosa gridò.

Essendo il Figlio di Dio, Gesù sapeva tutto,

 il Salvatore sapeva che Giuda, l'amato,

Non lo salvava, dandosi interamente.

Ed è allora che seppe la sofferenza infinita,

allora che conobbe, è allora ch'egli apprese,

È allora che sentì l'infinita agonia,

E gridò come un folle la spaventosa angoscia,

Clamore che fece vacillare Maria ancora in piedi,

E per pietà del Padre ebbe la sua morte umana.

Péguy, I Misteri, pp. 80, 122

 

Nel Sepolcro, l'ultima culla. Péguy

Maria al sepolcro. Claudel

E' Dio stesso che viene a interrogare il nulla. Claudel

La folla dei riscattati. Claudel

a Misericordia divina gioca tiri alla sua Giustizia!. Claudel

Silenzio. Unamuno

Nel Sepolcro

Prevedeva il grande sepolcro del suo corpo morto,

L’ultima culla di ogni uomo,

Dove bisogna che ogni uomo si sdrai.

Per dormire.

Presumibilmente.

Apparentemente.

Per riposare infine.

Per marcire.

Il tuo corpo.

Tra quattro assi.

Attendendo la risurrezione dei corpi.

Fino alla risurrezione dei corpi.

E beato quando le anime non marciscono.

Ed egli era uomo;

Doveva subire la sorte comune;

Sdraiarvisi come tutti quanti;

Doveva passarci come tutti quanti;

Vi sarebbe passato.

Come gli altri.

Come tutti.

Come tanti altri.

 

Il suo corpo sarebbe stato deposto per l'ultima volta.

Ma non vi sarebbe restato che due giorni, tre giorni;

A causa della risurrezIone.

Perché sarebbe risorto il terzo giorno.

A causa della sua risurrezione particolare e della sua ascensione.

La sua.

Che fece col suo proprio corpo, col medesimo corpo.

Péguy, I Misteri, pp. 80-81

Gesù messo nella tomba

La soglia spalancata della distruzione, che un tempo inghiottì l'amico di Gesù, e davanti alla quale la sacra carne non può trattenere un soprassalto (infremuit spiritu), ecco che ora si è chiusa sul Figlio dell'Uomo: ed anche a sua Madre non è permesso superarla. Adjudicatus morti dice il Deuteronomio. E non possiamo forse pensare che nel momento stesso in cui la pietra fu fatta rotolare e adattata all'orificio e «sigillata con l'anello del re», anche Maria abbia trasalito fino al fondo dello spirito, ed abbia ripetuto la stessa esclamazione che poco prima aveva sentito sulla croce: «Eli, Eli (il Signore Iddio chiamato col suo nome essenziale), perché mi hai abbandonata?» .

Claudel, Credo in Dio, pp. 151-152

È [...] in questa regione "all'ombra della morte" che Gesù Cristo ha portato di colpo la sua presenza, la sua forza superiore, la sua accattivante dolcezza, la sua severa e soave maestà, la sua invincibile ed irresistibile luce, crudele e desiderabile ad un tempo! Una prima volta, poco fa, era stata violata la porta del sepolcro, ed al comando di quel grido sconvolgente e di quella destra formidabile, si era visto alzarsi fuori dalla tomba un Lazzaro divorato per metà!

Ma ora non è più la morte che viene a mettere a confronto Dio e a presentargli a faccia a faccia ciò ch'egli non ha fatto: è Dio stesso in persona del suo secondo potere, che scende verso la morte e il peccato, approfittando di questa apertura, e che viene ad interrogare il nulla.

Claudel, Credo in Dio, pp. 161-162

La folla dei riscattati

Quando Gesù passava per la piazza pubblica di Cafarnao, oppure quando, scendendo dalla sinagoga, trovava tutto quel bailamme di ciechi, di paralitici, di convulsionari, di crostosi che la gente del paese si prendeva cura di portargli da ogni parte e cacciargli tra le gambe, fin i souks e le retrobotteghe risuonavano del clamore di tutta quella confusione, ancora un po' incerta ma già rafforzata e risanata, che si metteva in marcia dietro di Lui.

Ma qui non si tratta più di qualche decina di disgraziati, di un piccolo numero nell'immenso brulicare di miseria d'una città orientale: sono tutti gli occhi che si aprono nello stesso tempo, miriadi d'un sol colpo, non so neppur io quante generazioni l'una sull'altra ch'Egli penetra e vivifica come il sole che, apparendo alla porta dell'Oriente, illumina d'un sol colpo un continente, una fiumana di umanità, tutta la vasta sacca di tenebre che evacua la sua popolazione! Tutti si ritrovano e fanno conoscenza, la vasta famiglia dell'umanità si costituisce nello sguardo di Dio...

Claudel, Credo in Dio, pp. 162-163

Misericordia del Buon Pastore

I peccatori non hanno commesso solo del male. Hanno fatto anche del bene, e spesso il bene col male. Un bene che sovente ha prolungamenti immensi ed infiniti.

Tra eletti e condannati, può esserci un rapporto di giustizia, di debito, di favore, tale da creare un'obbligazione. E Dio rifiuterà ai suoi figli questa sorta di potere, questo privilegio di far del bene a coloro che ce ne hanno fatto? Lo so benissimo, che c'è il chaos magnum. Ma d'altra parte, neque altitudo, neque profundum...

La Scrittura ci fa vedere ovunque la misericordia divina in agguato, si potrebbe dire, a tutti gli spiragli per giocar qualche tiro alla sua Giustizia.

Claudel, Credo in Dio, pp. 165-166

Silenzio

Splende nella maestà del tuo martirio

d'una perfetta dedizion la luce;

rassegnazione - libertà assoluta -,

con «La tua volontà. sia fatta!» veste

d'uno splendente velo il tuo patire.

Silenzio, nudità, riposo, notte

T'avvolgono, Gesù, come vegliando

la morte tua; nudo si tace Iddio

e muto nella tenebra. Il fedele

silenzio solo s'ode del tuo Padre:

s'ode il richiamo dell'amor che invita

con un sussurro al dolce nostro nido,

nido ch'è fatto delle braccia tue

distese sulle tenebre, ove il sole

sorge ad illuminar la nostra vita! 

 

Unamuno, Il Cristo di Velazquez, p. 68

 

Sei la vita

per gli uomini e la luce: al tuo morire

nel buio son piombati. Ma l'estremo

sospiro tuo fu oscurità d'incendio,

fu tenebra d'amore fiammeggiante

ove la luce di risurrezione

già palpitava. E fu degna corona

il tuo disincarnarti, e compimento

dell'obbedienza che ti fece Uomo.

 

Unamuno, Il Cristo di Velazquez, p. 84

 

A stento il nulla. Turoldo

Dio stesso ha temuto la morte? Péguy

La Madonna del Sabato santo. Mauriac

Le donne al mattino di Pasqua. Claudel

Incontri. Mauriac

Emmaus. Mauriac

Base della nostra fede. Claudel

Campane. Péguy

Per il mattino di Pasqua. Turoldo

Mio prefazio di Pasqua. Turoldo

PASQUA

A stento il Nulla

No, credere a Pasqua non è giusta fede:

troppo bello sei a Pasqua!

 

Fede vera

è al venerdì santo quando Tu non c'eri lassù!

Quando non una eco risponde

al tuo alto grido

e a stento il Nulla dà forma

alla tua assenza.

Turoldo, Canti ultimi, p. 103

Dio stesso ha temuto la morte? Voialtri, con l'interesse che vi spinge, l'egoismo che vi tira, il calendario che vi aiuta, e la storia e il catechismo (perché questi tre libretti, pressappoco dello stesso ordine, e dello stesso valore, l'almanacco, la storia, il catechismo, hanno congiurato a questo scopo, si sono coalizzati per questo solo e medesimo scopo; la storia a rendere quest'avvenimento passato [quando è dappertutto presente]; dunque abituale; il catechismo a renderlo rituale; dunque abituale; e il calendario non ha potuto fare altro che metterlo in primavera, nel cuore della stagione in cui la natura ha l'illusione di una rinascita eterna; il calendario non ha potuto fare altro che situarlo in questa Settimana santa, che noi chiamiamo, che noi chiameremmo alla gioia nonostante tutti i testi, che confondiamo compiacentemente, volentieri, con la settimana di Pasqua, perché essa è come la settimana di Pasqua nella primavera intorno a Pasqua; è serrata tra Pasqua e domenica delle Palme, e come un impiegato troppo [a lungo] tenuto legato, la gioia fa il ponte da una Pasqua all'altra; e anche noi, da una domenica all'altra, facciamo il ponte di questa gioia. Perché siamo tutti degli impiegati). E le campane delle Palme prolungano le loro vibrazioni fino alla domenica di Pasqua, ed è solo per i bambini piccoli che per il Giovedì o il Venerdì santo le campane sono volate a Roma.

Péguy, Getsemani, pp. 41-42

La Madonna del Sabato santo

Dove s'erano acquattati gli amici del vinto? Che cosa sopravviveva della loro fede? Il Figlio dell'uomo era entrato nella morte, e per quale porta! La sua memoria non sarebbe soltanto abominevole ai Giudei, ma ignobile. E la sua eredità, della quale egli aveva tanto parlato? Un segno di abiezione. La sua vittoria sul mondo? Quelli che l'odiavano, l'avevano calpestato, schiacciato, convinto d'impotenza, e dunque d'impostura, davanti al popolo tutto. No: null'altro rimaneva ai suoi amici che nascondersi, celar le loro lacrime, la loro vergogna: serbare il silenzio, e aspettare.

Poiché essi aspettavano tuttavia, rammemorando certe parole e aggrappandovisi: la loro fede vacillava, ma non il loro amore. Alcuni cuori, forse, bruciavano tra essi, immersi in una folle fiducia, ch'era già la follìa della croce. Massime le donne, tutte quelle Marie... Quanto alla madre di Gesù, non occorreva aver fiducia: ella sapeva. Ma la Passione si continuava in lei. I colpi non finivano di piovere, né gli sputacchi di insozzare il volto adorato. L’effusione del divino sangue ella non poteva fermarla nel suo cuore. Ogni grido vi ritrovava una vibrazione, e il minimo sospiro sfuggito alle sue labbra esangui. La Vergine non era più che l'eco indefinitamente prolungata della Passione. Ella cercava sulla propria fronte la traccia delle spine. Baciava le palme delle sue mani... A meno che non dovesse vegliare su Giovanni annichilito.. .

Mauriac, Vita di Gesù, pp. 152-153

Le donne al mattino di Pasqua. Claudel

Il giorno di Pasqua

Restiamocene . tranquilli, a occhi chiusi, un istante prima che si levi l'alba del giorno della Risurrezione. È ancora notte fonda, ma già in due o tre case di Gerusalemme c'è qualcuno in movimento. Lumi che si accendono, donne frettolose che si pettinano e vestono. Il Sabato è finito, ed una stella incomparabile, approfittando di tutto quel firmamento che sta abdicando attorno a lei, irradia il volto della nostra prima domenica. Il gallo del calzolaio si prepara ad accettare la sfida che gli è stata lanciata dal compagno dell'altra sponda del Cedron.

Non è più la Pasqua degli Ebrei: è la Pasqua dei cristiani! Guardate, ascoltate! Nel silenzio ebraico, all'incrocio di tre strade, avviene un incontro di donne velate che si interrogano sottovoce: «Chi toglierà per noi la pietra dal sepolcro?». Chi la toglierà? Il profumo che esse portano con loro si incarica di rispondere! E così la speranza irresistibile che è nel loro cuore, e l'emanazione di ingredienti mistici nel cuor della notte, preparati dalle mani stesse dell'aurora. Secoli riuniti, santa composizione, la cui dilatazione progressiva come ha poco fa vinto il sonno, così ora si mette in marcia per trionfare della morte! Degli altri avvenimenti di quell'immensa mattina, l'eco smarrita e incoerente dei quattro Vangeli fa ancora risuonare, ad ogni nuova primavera, tutte le chiese della cristianità.

Claudel, Credo in Dio, p. 175

Maria

Ma nessuno dei Quattro fa motto di Maria in questa circostanza. Per me, son d'idea che, o col pensiero o in altro modo, Maria accompagnasse il Figlio nella discesa agli inferi: non era forse giusto presentare alle generazioni sepolte colei ch'era consumazione del loro voto e strumento della loro liberazione? Non era forse giusto ch'Egli le rimettesse solennemente le chiavi di quel luogo di penitenza, di cui la costituiva amministratrice? Non era forse tempo che il piede della Donna si posasse effettivamente sul capo del Drago?

E come son certo che Maria morì vivente col Cristo, anche son certo che col Cristo risorse. Come sul sentiero della croce ella non solo seguì il Figlio, ma lo precedette, come sul Calvario tese le braccia per vietargli d'andar più lontano, così son certo che entro il primo tabernacolo Maria era presente a vivere insieme con gli Angeli quel momento, a cui non fu dato ad occhio umano d'esser testimone. La Chiesa stava lì, in piedi, ad attendere. Come in piedi stette sul Calvario a prescrivergli il sacrificio, così in piedi nel sepolcro a prescrivergli la risurrezione.

E noi pure, che per fede sappiamo d'essere creati indistruttibili, immortali (Sap 2,23), noi pure attende Maria, per insegnarci quel che convenga fare per risorgere.

Claudel, La rosa e il rosario, pp. 139-140

Incontri

Non v'è incontro del Cristo risuscitato con uno dei suoi, che non rammenti al cristiano qualche fatto della propria vita.

- Maria Maddalena fuori del sepolcro piange perché hanno tolto il suo Signore ed ella non sa dove l'abbiano posto. Avendo detto quelle parole, ella si voltò e vide Gesù in piedi; e non sapeva che era Gesù. Gesù le disse: O donna, perché piangi? Che cerchi? Ella, pensando che fosse l'ortolano, gli disse: «Signore, se sei tu che l'hai portato via, dimmi dove l'hai posto, e andrò a prenderlo». Gesù le disse: «Maria!» e gli occhi della santa donna si apersero; ella disse: «Rabboni!».

- E noi pure l'abbiamo qualche volta riconosciuto. Perché non confessarlo? Nei suoi sacerdoti, assai spesso. Diciamo tanto male dei sacerdoti! E nondimeno, al cristiano che ha l'abitudine (forse cattiva) di inginocchiarsi a caso nei confessionali, è accaduto più d'una volta di udire la parola inaspettata, folgorante; di ricevere all'improvviso da uno sconosciuto dolce e umile di cuore, prigioniero di quella bara ingraticolata, il dono d'una tenerezza divina, una consolazione che non era dell'uomo.

- L’invocazione di Tomaso detto Didimo, quante volte non è venuta alle nostre labbra, quando anche noi, con gli occhi della fede, con mani brancolanti di cieco, abbiamo visto e toccato le stigmate del Signore! Dominus meus et Deus meus... Mio Signore e mio Dio. Egli è possessione di tutti, dato e rimesso a ciascuno di noi in particolare.

- Una prima volta Gesù era entrato nella camera dove i discepoli stavano serrati per tema dei Giudei. Aveva mostrato loro le sue piaghe; li aveva inondati della sua pace e della sua gioia, e aveva comunicato loro quella potestà di rimettere i peccati. (Oh certezza d'essere perdonato! Mano del sacerdote sulla nostra fronte, parola di assoluzione che discende sul nostro cuore e sulla nostra carne, come l'acqua e il sangue dal fianco aperto dalla lancia!) .

Mauriac, Vita di Gesù, pp. 154-155

Emmaus

A chi di noi l'albergo d'Emmaus non è familiare? Chi non ha camminato su quella strada, una sera che tutto pareva perduto? Il Cristo era morto in noi. Ce l'avevano preso: il mondo, i filosofi e gli scienziati, nostra passione. Non esisteva più nessun Gesù per noi sulla terra. Noi seguivamo una strada, e qualcuno ci veniva a lato. Eravamo soli e non soli. Era la sera. Ecco una porta aperta, l'oscurità d'una sala ove la fiamma del caminetto non rischiara che il suolo e fa tremolare delle ombre. O pane spezzato! O porzione del pane consumata malgrado tanta miseria! «Rimani con noi, poiché il giorno declina...».

Il giorno declina, la vita finisce. L’infanzia sembra più lontana che il principio del mondo; e della giovinezza perduta non sentiamo più altro che l'ultimo mormorìo degli alberi morti del parco irriconoscibile.

Quando furono presso il villaggio ov'erano indirizzati, egli fece vista di voler andare più lontano. Ma essi gli fecero forza dicendo: «Rimani con noi, perché si fa tardi e il giorno declina». Egli entrò nel villaggio per rimaner con loro. Ed essendosi messo a tavola con loro, prese il pane, e dopo aver reso grazie, lo ruppe e lo distribuì loro. Allora i loro occhi si aprirono e lo riconobbero; ma egli sparì da loro. Ed essi dissero l'uno all'altro: «Non bruciava il nostro cuore mentre egli ci parlava per la via e ci spiegava le Scritture?».

Mauriac, Vita di Gesù, p. 156

Base della nostra fede

Quest'uomo che, solo fra tutti gli esseri creati, ha osato dirsi Figlio di Dio, lo vediamo morire nelle condizioni più basse, più crudeli, più umilianti, nell'abbandono più completo. Non è forse manifesto che la sua dottrina non poteva resistere sotto il colpo d'una penosa sconfitta del suo autore, d'una smentita così totale delle sue affermazioni?

Perché, a differenza delle altre religioni, essa consisteva - piuttosto che in un corpo di affermazioni che si imponevano di per se stesse - nella personalità dell'uomo che era venuto a portarle. Era dunque necessaria una rivincita. È stata necessaria una qualsiasi prova che quell'uomo che si diceva Figlio di Dio non era stato vinto. Effettivamente, noi non vediamo che la morte del Cristo sia stata seguita da alcuno sfaldamento in mezzo ai suoi discepoli. Non ci sono state interpretazioni, né spiegazioni tirate per i capelli, né consolazioni sofisticate. Non ci sono stati né quei disaccordi, né quei conflitti, né quegli scismi che sarebbero stati la conseguenza inevitabile d'una menzogna.

La morte del Cristo appare subito, invece, come una conferma luminosa e trionfante del suo insegnamento. Tra i suoi discepoli regna uno spirito completamente nuovo e assolutamente unanime di esaltazione, di gioia trabocchevole, di indomabile fiducia, di iniziativa in tutte le direzioni. Qual è stato questo fatto nuovo, questa rivincita che ha immediatamente seguito la catastrofe del Calvario? San Paolo ci dice che è stata la Risurrezione, miracolo formidabile al quale è avvinto tutto il cristianesimo.

Claudel, Credo in Dio, pp. 176-177

Campane

E come noi suoniamo a distesa la nostra Pasqua,

A gran distesa,

Nelle nostre povere, nelle nostre trionfanti chiese.

Nel sole e nel bel tempo del giorno di Pasqua,

Così Dio per ogni anima che si salva

Suona a gran distesa una Pasqua eterna.

E dice: Ah, non m'ero sbagliato.

Avevo ragione d'aver fiducia in quel ragazzo.

Era una buona natura. Era di buona razza.

Figlio di una buona madre. Era un francese.

Ho avuto ragione di dargli fiducia.

E noi abbiamo le nostre domeniche,

La nostra bella domenica, la domenica di Pasqua,

E il lunedì di Pasqua,

E perfino il martedì di Pasqua, che è festa anch'esso,

Talmente la festa è grande.

(È la festa di san Lupo).

Ma anche Dio ha le sue domeniche nel cielo.

La sua domenica di Pasqua.

E ha anche delle campane, quando vuole.

Péguy, I Misteri, pp. 234-235

Per il mattino di Pasqua

I

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

Andrò in giro per le strade zuffolando, così,

fino a che gli altri dicano: è pazzo!

E mi fermerò soprattutto coi bambini

a giocare in periferia,

e poi lascerò un fiore

ad ogni finestra dei poveri

e saluterò chiunque incontrerò per via

inchinandomi fino a terra.

E poi suonerò con le mie mani

le campane sulla torre

a più riprese

finché non sarò esausto.

E a chiunque venga

- anche al ricco - dirò:

siedi pure alla mia mensa

(anche il ricco è un povero uomo).

E dirò a tutti:

avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso.

 

II

lo vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

Tutto è suo dono

eccetto il nostro peccato.

Ecco, gli darò un'icona

dove lui - bambino - guarda

agli occhi di sua madre:

così dimenticherà ogni cosa.

Gli raccoglierò dal prato

una goccia di rugiada

- è già primavera

ancora primavera

una cosa insperata

non meritata

una cosa che non ha parole;

e poi gli dirò d'indovinare

se sia una lacrima

o una perla di sole

o mia goccia di rugiada.

E dirò alla gente:

avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso.

 

III

Io vorrei donare una cosa al Signore

ma non so che cosa.

Non credo più neppure alle mie lacrime,

e queste gioie sono tutte povere:

metterò un garofano rosso sul balcone

canterò una canzone

tutta per lui solo.

Andrò nel bosco questa notte

e abbraccerò gli alberi

e starò in ascolto dell'usignolo,

quell'usignolo che canta sempre solo

da mezzanotte all'alba.

E poi andrò a lavarmi nel fiume

e all'alba passerò sulle porte

di tutti i miei fratelli

e dirò a ogni casa: «pace!»

e poi cospargerò la terra

d'acqua benedetta in direzione

dei quattro punti dell'universo,

poi non lascerò mai morire

la lampada dell'altare

e ogni domenica mi vestirò di bianco.

 

IV

Io vorrei donare una cosa al Signore,

ma non so che cosa.

E non piangerò più

non piangerò più inutilmente;

dirò solo: avete visto il Signore?

Ma lo dirò in silenzio

e solo con un sorriso

poi non dirò più niente. 

 

Turoldo, O sensi miei..., pp. 364-31

Mio prefazio a Pasqua

 

Io voglio sapere

se Cristo è mai stato creduto,

se l'evento è reale e presente,

se è venuto, e viene e verrà;

o sia appena un'invenzione

per un irreale giorno del Signore

di contro al cupo

giorno dell'uomo.

 

Io voglio sapere

se veramente qualcuno crede

e come è possibile credere:

se almeno i fanciulli

- avanti ogni cultura

vedono ancora la faccia del Padre.

 

Io voglio sapere

se l'uomo è una fiera

ancora alle soglie della foresta:

se la ragione è una rovina

se i fatti hanno una ragione

se la ragione è ancora utile.

 

Io voglio sapere

se ci sono ancora gli assoluti

o se io sono sacerdote

di colpevoli illusioni,

se è vero che saremo

finalmente liberi

se saremo ancora liberi

se saremo mai liberi.

 

Io voglio sapere

se cantare è ancora possibile

se da ricchi canteremo ancora

se dipingere è ancora possibile

se la bellezza esisterà sempre,

se possibile sarà ancora contemplare.

 

Io voglio sapere

quale sarà l'intelligenza

di un abitante della futura megapoli

quale il potere spirituale di resistere

se sopravviverà ancora l'amore,

se pure è mai esistito.

 

Io voglio sapere

se resiste ancora Cristo,

perché io mi ammazzo.

 

Io voglio sapere

se la vita è solo meretricio

se il vostro vivere è appena una difesa

contro la vita degli altri:

se qualcuno, almeno qualcuno

crede che tutti gli uomini

sono una sola umanità.

 

Io voglio sapere

se l'uomo cresce

se c'è un altro avvenire

se la scienza non sia la morte

e la sua macchina non sia la nostra

bara di acciaio.

 

Io voglio sapere

se esiste una forza liberatrice:

se almeno la chiesa non sia

la tomba di Dio,

l'ultima sconfitta dell'uomo.

 

Io voglio sapere

se la pace è possibile

se giustizia è possibile

se l'Idea è più forte della forza:

quest'uomo bianco,

il più feroce animale

sempre all'assalto

contro ogni altro uomo

o maledetta Europa.

 

Io voglio sapere

se Cristo ha ancora un senso

chi ha fede ancora in un futuro.

 

Io voglio sapere

se Cristo è veramente risorto

se la chiesa ha mai creduto

che sia veramente risorto.

Perché allora è una potenza,

schiava come ogni potenza?

Perché non batter le strade

come una follia di sole,

a dire: Cristo è risorto, è risorto?

 

Perché non si libera dalla ragione

e non rinuncia alle ricchezze

per questa sola ricchezza di gioia?

 

Perché non dà fuoco alle cattedrali,

non abbraccia ogni uomo sulla strada

chiunque egli sia,

per dirgli solo: è risorto!

E piangere insieme,

piangere di gioia?

Perché non fa solo questo

e dire che tutto il resto è vano?

Ma dirlo con la vita

con mani candide

e occhi di fanciulli.

 

Come l'angelo dal sepolcro vuoto

con la veste bianca di neve nel sole,

a dire: «non cercate tra i morti

colui che vive!».

 

Mia chiesa amata e infedele,

mia amarezza di ogni domenica,

chiesa che vorrei impazzita di gioia

perché è veramente risorto.

 

E noi grondare luce

perché vive di noi:

noi questa sola umanità bianca

a ogni festa

in questo mondo del nulla e della morte.

Amen.

Turoldo, O sensi miei..., pp. 385-388

 

Omelia tenuta nella Chiesa Sacra Famiglia di Cinisello Balsamo la notte di Pasqua 27.03.05 Cattaneo Armando

Veglia di Pasqua 2005 Buona Pasqua! Cioè “buon passaggio!”.

Non parliamo di calcio e il “passaggio” non è quello raffinato di Totti o di Del Piero!

1. Gesù ha compiuto il suo passaggio. E’ stato un passaggio duro. Come nei film d’avventura c’è sempre un passaggio pericolosissimo, estremo, dove l’eroe si gioca tutto attraversando un fiume o il fuoco o un burrone vertiginoso; estremo come il passaggio nel vuoto tra i tetti di due grattacieli altissimi, così la Pasqua è il passaggio di Gesù attraverso nientemeno che le zanne della morte. Se si parlasse di alpinismo si dovrebbe dire “un passaggio di sesto grado superiore”: massimo livello di difficoltà.

- Siccome invece si parla di amore, allora Gesù ha superato ogni prova e può onestamente dire a ciascuno di noi: “Tu sei la mia vita! Io ho dato la vita per te!”.

- Siccome si parla di salvezza, Gesù ha messo al sicuro, in un luogo irraggiungibile per il diavolo, la nostra salvezza; l’ha blindata e nessuno più gliela strapperà. “Chi strapperà la preda all’uomo forte?” si chiede il Salmista. L’uomo forte è Gesù e la sua preda siamo noi: nelle sue mani siamo salvi, lui non permetterà a nessuno di strapparci fuori dalle sue mani: per noi ha lottato, per noi ha vinto! Ha superato tutti i “passaggi” più difficili! Ha rischiato tutto e ha vinto! Questo vuol dire “Ha fatto pasqua”.

2. Ora tocca a noi affrontare il nostro passaggio. Solo così faremo pure noi “Pasqua”. E’ il passaggio della vita, tra gli scogli del quotidiano. Ognuno di noi sta arrischiando il suo passaggio. Volentieri o controvoglia tutti stiamo facendo “pasqua”, perché il solo fatto di vivere è “compiere un passaggio”. Si. La Festa di Pasqua spiega una realtà che fa parte dell’esistenza ed è quindi comune a tutti! Carissimi cristiani, con noi, questa notte, a fare pasqua, ci sono tutti. Non siamo solo noi, qui presenti in chiesa: stanno facendo pasqua (e cioè lottano per superare i passaggi stretti della vita) anche quelli che non lo sanno e che non vengono qui con noi. Stanotte vogliamo sentirci uniti nei problemi della vita a tutti i nostri parrocchiani. Quanti saranno? Forse 14.000? Li conosceremo mai? Non lo so. Non importa. Noi siamo qui anche per loro.

Stiamo festeggiando chi ce l’ha fatta a compiere il passaggio, e cioè Gesù, e lo festeggiamo anche a nome loro. Alleluia, Signore! Alleluia anche per il mio vicino di casa che per Pasqua si è concesso un giretto alle Seychelles.
Alleluia anche per l’altro mio vicino che non è qui per un motivo più proletario: “Sgobbo tutti i giorni e a Pasqua voglio dormire”! Anche dormire e anche bere e anche drogarsi, in fondo, è un tentativo di “passare” tra i guai della vita. Allora vedi, fratello caro, che anche loro, stanno facendo Pasqua con noi?!

3. L’unica differenza è che noi seguiamo la Guida - Gesù... e sui ghiacciai della vita, pieni di crepacci, la guida fa la differenza! Certo noi facciamo la nostra parte, ma lei, la Guida, il Maestro, ci carica pure sulle spalle quando siamo stanchi e addirittura attribuisce a noi la sua vittoria!

4. A noi tocca fare però un passaggio obbligato, che nessuno può fare al posto nostro: cambiare mentalità. Dire “Cristo Signore è Risorto!” è un fatto molto laico; è dare una notizia, in sé non è un fatto religioso. Potrebbe essere un puro fatto giornalistico: dò una semplice notizia, vera, e anche bella. Eppure questa notizia sconquassa il mondo e costringe a rivedere tutte le idee correnti. Vuol dire, che:
· Tutti quelli che sono contro la vita sono vecchi, superati, battuti! Chi è a favore dell’aborto è battuto, chi vuol togliere la vita con la pena di morte o con l’eutanasia è vecchio! Chi vuol avere un bambino ma da un embrione selezionato tra molti (fecondazione assistita) è superato. Cristo è vita per tutti, non solo per i selezionati! Non è più oggetto di discussione, da quando la Vita ha vinto e Cristo è Risorto. La Pasqua fa di colpo vecchi, superati e di fatto antiprogressisti proprio quelli che si piccano di essere progressisti e giudicano vecchia e sorpassata la morale cristiana!

· Tutti i pessimisti, i catastrofisti, tutti i profeti di sventure sono storicamente demodé, perché con la Pasqua di Cristo la vita vince e vincerà sempre di più. Tra la vita e la morte ormai non c’è più gioco, la partita è già vinta: Gesù fa la differenza: da quando è sceso in campo lui non c’è più partita davvero!
· Tutti gli egoisti, i seguaci più accaniti dell’ego nelle sue forme più varie (donne, denari e potere) sono patetici. Si sa già che ha vinto l’amore, cioè l’opposto dell’egoismo. Se loro non lo sanno andateglielo a dire. Ma è così.

A tutta questa gente bisogna solo aprire gli occhi! Occorre che qualcuno e sempre ricominci a fare quello che facevano gli Apostoli dopo che avevano visto Gesù Risorto: correvano per il mondo intero come dei pazzi a dirlo a tutti: “Ho conosciuto uno che è risorto: Gesù di Nazaret!”. Troppa gente non lo sa ancora!

Occorre dire al mondo ”Duemila anni fa, anzi stanotte, Uno è risorto. Io lo conosco e Lui mi conosce. Lui conosce anche te. Ha sofferto perché ti vuole bene.” Adesso è urgente cambiare vita, fare un Buon Passaggio. “Buon Passaggio!” Crediamoci e diciamolo a tutti. Allora sarà Buona Pasqua! Non saremo noi pure come quel papà che manda il bimbo a scuola dalle suore e che a Pasqua si lamenta: gli hanno spiegato così bene che Gesù è risorto che adesso lui ci crede davvero!

 

 

Su Giuda. Primo Mazzolari

Croci e burocrazie. Umberto Vivarelli

Ci aiuti la Madre. Giovanni Moioli

Guardando la croce. Teresa di Calcutta

Litanie al Crocifisso. Ignoto

 

Come mai siamo così poco spontanei nel capire gli altri? Come mai sentiamo solo il peso della nostra croce e mai ci chiediamo se quella degli altri non sia forse più pesante? Quando vicino ci passa un uomo fiaccato dal dolore, schiacciato dall'ingiustizia, premuto dalla cattiveria umana, perché non ci chiediamo come faccia quell'uomo a portare la sua croce?

Il Cireneo non ha avuto tempo per questi ragionamenti, perché lo hanno costretto a portare la croce di Gesù. E così nella storia e nella vita degli uomini: invece della spontaneità, della generosità, della intuizione amorosa, si è inventata un' organizzazione. Ma se non c'è cuore, non si può portare la croce degli altri. Si mette un dito, dove si domanda un cuore: si mette una scartoffia, dove si chiede una vita. Il Cireneo non lo si fa per forza, ma soltanto per amore e per vocazione.

Bisogna sentire che le proprie spalle, se sanno portare, devono portare la croce degli altri. Altrimenti, a forza di moltiplicare le assistenze sociali, si svuoterà il cuore dell'uomo; volendo riparare il male degli uomini, soltanto attraverso l'organizzazione, noi non lo fermeremo, ma lo renderemo più avido e cinico. Ciò che invece importa è soffrire negli altri la loro stessa croce: imparare a vedere nel volto degli altri il loro star male, anche se una maschera qualsiasi lo nasconde. (Umberto Vivarelli)

«Ci aiuti la Madre del Signore: colei che" stava" presso la croce del Figlio suo. Ci aiuti a muoverci incontro alla croce, a restare con lei ai piedi della croce: imparando a vivere il dolore come un aspetto dell'annuncio del Vangelo: perché non diventi né rivolta né disperazione, ma abbandono e accoglimento. Ci aiuti ora: mentre siamo in cammino. E ci aiuti nell' ora della nostra morte» (don Giovanni Moioli)

«Guardando la croce, vedrete che Gesù ha le braccia aperte, perché vuole abbracciarvi; ha il capo piegato, perché vuole baciarvi; ha il cuore sanguinante, perché vuole accogliervi. Quindi, quando vi sentite soli e spiritualmente poveri, guardate la croce: il dolore, la sofferenza, l'umiliazione, il dispiacere, la solitudine, altro non sono che occasioni per essere solidali con chi, come voi, si sente solo, sofferente o abbandonato» (beata Teresa di Calcutta)

1. Cristo crocifisso, amore del Padre: nel tuo regno, ricordati di noi!

2. Cristo crocifisso, sorgente dello Spirito: nel tuo regno, ricordati di noi!

3. Cristo crocifisso, agnello e pastore: nel tuo regno, ricordati di noi!

4. Cristo crocifisso, riscatto della colpa: nel tuo regno, ricordati di noi!

S. Cristo crocifisso, perfetta espiazione: nel tuo regno, ricordati di noi!

6. Cristo crocifisso, nostra riconciliazione: nel tuo regno, ricordati di noi!

7. Cristo crocifisso, fonte della pace: nel tuo regno, ricordati di noi!

8. Cristo crocifisso, nuova alleanza: nel tuo regno, ricordati di noi!

9. Cristo crocifisso, abbraccio universale: nel tuo regno, ricordati di noi!

10. Cristo crocifisso, benedizione del mondo: nel tuo regno, ricordati di noi!

11. Cristo crocifisso, luce agli smarriti: nel tuo regno, ricordati di noi!

12. Cristo crocifisso, conforto degli afflitti: nel tuo regno, ricordati di noi!

13. Cristo crocifisso, medico dei deboli: nel tuo regno, ricordati di noi!

14. Cristo crocifisso, tesoro degli apostoli: nel tuo regno, ricordati di noi!

15. Cristo crocifisso, sposo dei vergini: nel tuo regno, ricordati di noi!

16. Cristo crocifisso, dignità dei sacerdoti: nel tuo regno, ricordati di noi!

17. Cristo crocifisso, cuore della Chiesa: nel tuo regno, ricordati di noi!

18. Cristo crocifisso, centro dell’unità: nel tuo regno, ricordati di noi!

19. Cristo crocifisso, albero di vita: nel tuo regno, ricordati di noi!

20. Cristo crocifisso, roveto sempre ardente: nel tuo regno, ricordati di noi!

21. Cristo crocifisso, ultima parola: nel tuo regno, ricordati di noi!

22. Cristo crocifisso, lampada del cielo: nel tuo regno, ricordati di noi!

 

Da chi altri andremo, Signore? Turoldo

Questo affamato, sono Io. Mauriac

 

Da chi altri andremo, Signore?

 

«Da chi altri andremo, Signore?

Solo Tu hai parole di vita»,

eppur sempre la strada ci porta

a fuggire dal monte del sangue.

 

Il sepolcro ha pesante la pietra

e il tuo fianco è squarciato per sempre:

come dunque possiamo capire

il mistero, se tu non lo sveli?

 

Mentre il sole già volge al declino,

sii ancora il viandante che spiega

le Scritture e ci dona il ristoro

con il pane spezzato in silenzio.

 

Cuore e mente illumina ancora

perché vedano sempre il tuo volto

e comprendano come il tuo amore

ci raggiunge e ci spinge più al largo.

 

A te, Cristo, risorto e vivente,

dolce amico che mai abbandoni

con il Padre e lo Spirito santo

noi cantiamo la gloria per sempre.

 

Turoldo, Neanche Dio può stare solo, pp. 107-108

 

Questo affamato, sono Io

È di fede, per i cristiani, che Gesù risorto non ha più lasciato il mondo. Paolo non è più l'ultimo che l'abbia visto. Egli s'è manifestato nel corso dei secoli a molti santi e sante, a semplici fedeli e perfino a dei non-battezzati, come nel caso di Simone Weil.