PRIME FORME MUSICALI: AMBROGIO, IL GREGORIANO, LA LITURGIA DIVINA D'ORIENTE

Naturalmente i fedeli hanno cantato Cristo sin dai primordi della liturgia. 

Ambrogio da Milano (seconda metà del IV secolo) faceva cantare ai suoi fedeli inni cristologici da lui stesso composti e musicati per attrezzarli contro il contagio dell'eresia ariana. Del modo in cui si cantava, non sappiamo nulla, se non che era assai variato - fino al VI secolo, quando nacque a Roma il gregoriano, una forma musicale volta a ottenere l'uniformità. 

Soprattutto in epoca carolingia, il canto gregoriano ebbe una grande diffusione in tutta l'Europa occidentale. In Oriente, la "liturgia divina" seguì dal punto di vista musicale la propria strada, non da ultimo grazie a un fortissimo apporto slavo.

 

DAL SEC. X A BACH

I più antichi canti dedicati a Gesù in Occidente risalgono ai secoli X (Christ keinado) e XII (Christus ist erstanden, “Cristo è risorto”). 

Nel XIV si formarono, in gran parte su melodie gregoriane e collegati alle rappresentazioni dei misteri, nuovi inni destinati al popolo. Ildegarda di Bingen (metà del XII secolo) scrisse e musicò nuovi canti; verso il 1450, Heinrich van Laufenberg da Strasburgo tradusse per il popolo i vecchi inni.

L'esperienza di Gesù della Riforma fu intensamente diffusa e approfondita attraverso il nuovo canto ecclesiastico da Lutero in poi, e toccò uno dei suoi vertici nella musica di Johann Sebastian Bach, che creò una sintesi del gregoriano e di tutte le precedenti tradizioni musicali della Chiesa e del mondo.

 

LA MUSICA POLIFONICA: PIER LUIGI DA PALESTRINA, MONTEVERDI

La musica polifonica ecclesiastica nacque nei secoli XV-XVI nei Paesi Bassi, per svilupparsi nei secoli XVI-XVII in Italia nella polifonia classica, con nomi di grandi compositori quali Giovanni Pierluigi da Palestrina Improperia, dal 1573, e Lamentationes, dal 1575, per la liturgia della passione; l'inno Ecce sacerdos magnus, tanto spesso cantato, è dedicato non al vescovo ma a Gesù), Orlando di Lasso (mottetto Domine Jesu Christe, 1575), Vittoria (Officium hebdomadae sanctae, per la liturgia della settimana santa, 1585) e Claudio Monteverdi (Selva morale e spirituale, 1640). Tutti questi musicisti composero numerose e imponenti messe: musica incentrata su Gesù e sulla Trinità nella celebrazione eucaristica.

 

MONTEVERDI. LA SUA EREDITÀ

L’intensità della Settimana Santa nelle arie del ‘600 cantate dalla Kiehr

di Andrea Milanesi

Momento privilegiato di penitenza e di preghiera, la Settimana Santa è sicuramente il periodo dell'anno liturgico che si è trovato al centro del maggior numero di composizioni musicali sacre, chiamate secolo dopo secolo ad accompagnare e commentare il precipitare degli eventi che, nel giro di poche ore, videro Gesù entrare trionfalmente in Gerusalemme e poi morire crocifisso sul Monte Golgota. 

Per la settimana santa è appunto il titolo della splendida edizione discografica (recentemente ripubblicata da Ricercar e distribuita da Jupiter) che l'ensemble francese La Fenice e il suo direttore Jean Tubéry hanno dedicato ad alcuni lavori nati intorno ai primi decenni del Seicento nell'Italia settentrionale e, in particolare, in ambito veneziano (la collana a cui appartiene l'album si chiama infatti “L'eredità di Monteverdi”). 

Un progetto che si afferma innanzitutto per l'alto valore delle scelte musicali: tra madrigali spirituali e mottetti, compianti e lamenti, dialoghi e salmi, toccate per organo e passacaglie per liuto, il talento creativo di Biagio Marini e Claudio Monteverdi, Adriano Banchieri e Maurizio Cazzati rivela una straordinaria carica spirituale e un'insospettabile impronta di modernità. 

Ma è la prova del soprano Maria Cristina Kiehr a offrire le sorprese più piacevoli: la passione, il trasporto e la totale immedesimazione con cui la cantante argentina affronta queste partiture innalzano a rango di capolavori assoluti pagine poco frequentate come lo Stabat Mater di Giovanni Felice Sances e La Maddalena ricorre alle lagrime di Domenico Mazzocchi. 

Due gemme incastonate nel prezioso diadema di una delle più felici stagioni dell'arte sacra della nostra penisola, colta nell'apice della sua spinta di invenzione e di sperimentazione; a ribadire la naturale inclinazione della musica liturgica a far proprie le forme e gli stili di quella profana, portando all'interno delle chiese e degli oratori un vero e proprio "teatro dello spirito" . E quasi per osmosi i sentimenti di dolore e commozione che provengono dalla trasfigurata umanità della Vergine e della Maddalena investono e rapiscono l'ascoltatore, invitato a partecipare e a compatire il dramma delle due donne gementi ai piedi della Croce.

 

MOZART WOLFANG AMADEUS

W.A. MOZART (1756-1791): UN COMPOSITORE CATTOLICO 

di Rosario F. Esposito

Gli elogi all'opera di Wolfgang Amadeus Mozart qualche volta sorprendono per la loro enfasi, ma, confrontati con la realtà, non risultano esagerati. Rossini disse: «Mozart non è un musicista, è la musica». E Wagner: «Il prodigiosissimo genio lo innalzò al di sopra di tutti i maestri di tutte le arti e di tutti i secoli». Il cardinale Hans Urs von Balthasar scrisse: «Tutto confluisce nel brivido del Requiem, misterioso frammento nel quale la voce giubila, tanto da spezzarsi... Su Mozart non s'è posato nemmeno un granellino di polvere».

Nato a Salisburgo il 27 gennaio 1756, morì a Vienna il 5 dicembre 1791, prima di compiere i trentasei anni. La sua fede fu spiccatamente cattolica. Ne parlò soprattutto nelle lettere al padre Leopold, anch'egli musicista. Riprendo le testimonianze più importanti dal mio lavoro su WA. Mozart. Autobiografia dalle lettere e da documenti contemporanei (Paoline, 1960, pp. 519). 

Il 25 ottobre 1777 da Vienna scriveva: «Papà può vivere tranquillo, io ho sempre Diò dinanzi agli occhi. Confesso la sua onnipotenza, temo la sua ira, ma riconosco pure il suo amore, la sua compassione, la sua misericordia nei confronti delle creature. Egli non abbandonerà mai i suoi servi. 
Tutto ciò che è conforme alla sua volontà piace anche a me, perciò nulla può mancarmi, e così vivo felice e contento».

In un'altra lettera lo rassicurava circa l'osservanza dell'astinenza e sulla messa frequentata nei giorni di precetto e spesso anche nei giorni feriali. Gli domandò il consenso per sposare Constanze von Weber, anche se non ne accettò il responso negativo, fondato sulla riconosciuta immaturità della giovane. L'anno dopo gli narrava l'inizio della vita coniugale accentuando l'osservanza sacramentale: «Mai ho pregato tanto intensamente, mai mi sono accostato alla confessione e alla comunione come quando l'ho fatto a fianco a lei, ed ella mi ha confidato la stessa cosa.
Insomma siamo fatti l'uno per l'altra e Iddio, che dispone ogni cosa, non ci abbandonerà».

Leopold era rigido e non sopportava nel figlio certe manifestazioni di un'allegria incontenibile che spesso scadeva nell'equivoco e nella volgarità. Amadeus il 2° dicembre 1777 cercò di giustificarsi: «Certo, mi piace assai l'allegria, ma si tranquillizzi perché nonostante questo, quando occorre so anche essere serio. La prego ancora una volta umilissimamente di voler avere una migliore opinione di me». Sul punto di partire per Parigi, lo rassicurava a proposito dei compagni di viaggio. 

Ne elenca alcuni e conclude: «Non ho il coraggio di mettermi in viaggio con loro, non avrei un'ora piacevole, non saprei di cosa parlare, insomma non ho fiducia in loro. Amici che non hanno religione, non sono amici stabili». A Parigi il3 luglio 1778 morì la madre, Anna Maria Petti, che lo aveva seguito in quella trasferta. Non ebbe il coraggio di scrivere direttamente al padre, ma indirizzò una lettera di tramite all'amico Ab. Joseph Bullinger: «Poniamo la nostra fiducia in Dio e lasciamo che questo pensiero ci dia consolazione: tutto va bene quando si fa la volontà di Dio, perché egli sa meglio di qualsiasi altro che cosa è più utile e giovevole alla nostra felicità e salute temporale ed eterna».

Un Requiem scritto per sé stesso

La salute del padre nel 1787 peggiorò irreparabilmente. Per confortarlo il 4 aprile Amadeus gli scrisse una lettera che può essere annoverata tra i testi classici dell'ascetica cristiana: «La morte, per essere veramente precisi, è il vero scopo finale della nostra vita. Per questo da un paio d'anni me la sono fatta amica, la considero la migliore amica dell'uomo, tanto che la sua figura per me non ha più nulla di ripugnante, ma ha un aspetto rasserenante e consolante. E ringrazio il mio Dio per avermi concesso la fortuna d'imparare a considerarla come la chiave d'ingresso alla nostra vera beatitudine. Non mi metto mai a letto senza riflettere che l'indomani, benché sia ancora così giovane, potrei anche non esserci più».

Qualche mese prima della morte, trovandosi nei giardini del Prater con Constanze, improvvisamente scoppiò in pianto; in novembre nella taverna del Serpente d'Argento apparve talmente pallido ed emaciato che tutti se ne allarmarono. Nel mese di luglio si era verificato il fatto più impressionante: gli si presentò un signore vestito di nero, di cui solo in seguito si conobbe l'identità, che gli ordinò il Requiem e lo pagò in anticipo. 

Si mise al lavoro, ma si persuase che in realtà lo componeva per il proprio funerale. Nell'ultima lettera al librettista preferito, Lorenzo da Ponte (7 settembre 1791), scriveva in italiano: «Sento che l'ora suona, sono in procinto di spirare, ho finito prima di aver goduto del mio talento. La vita era pur sì bella, ma non si può cangiar il proprio destino. Nessuno misura i propri giorni, bisogna rassegnarsi, sarà quel che piacerà alla Provvidenza. Termino, ecco il mio canto funebre, ma devo lasciarlo imperfetto». 

Vi lavorò fino all'ultimo respiro, che sopravvenne mentre, assistito dagli amici più intimi, perfezionava e concertava il Lacrymosa dies illa. Lo completò e ordinò, sulle sue carte, il discepolo Franz X. Süssmayer. 
Sulla sua fede non sono mai sorti dubbi, ma bisogna dare il giusto peso a una circostanza molto importante: il 14 dicembre 1784 si iscrisse alla Loggia massonica viennese Zur Wohltätigkeit, cioè Alla beneficenza. Ne era affascinato e indusse all'iscrizione suo padre e il compositore Franz Joseph Haydn, entrambi cattolici ferventi. 

Compose diverse opere che ne celebravano ì momenti più significativi, e nel Flauto magico (K 620), musicato sul libretto del "fratello" Emanuel Schikaneder, rappresentò scenicamente le fasi dell'iniziazione. La biografia di Abert-Jahn sintetizza in questi termini la questione: «La Chiesa da sola non lo soddisfaceva più, benché tanto prima che dopo l'iscrizione, egli sia rimasto un suo figlio fedele». 

Lo storico Alfred Einstein scrive che «se mai un grande musicista fu anche un compositore cattolico, questi fu Mozart»; in lui le due istituzioni sono come due sfere concentriche che non si escludono vicendevolmente, ma «si sublimano nella comune ricerca del perfezionamento personale e del lavoro per il bene dell'umanità».

I "bigliettini con musica"

Questa tesi è stata contestata da alcuni scrittori cattolici. È noto che per oltre due secoli il comportamento dell'associazione provocò la condanna ecclesiastica: la prima scomunica fu emanata da Clemente XII nel 1738. La Congregazione per la dottrina della fede nella Dichiarazione del 26 novembre 1983 ha riconfermo l'incompatibilità' cattolico-massonica. Oggettivamente Mozart incorse nella scomunica. Oggi la diffidenza cattolica nei confronti della massoneria si è attenuata e non si può dimenticare che essa nei Paesi anglosassoni non ha condiviso l'anticlericalismo presente invece nei Paesi latino-cattolici. 

Certamente Mozart non volle mai essere "nemico" della Chiesa, ma i fatti devono essere registrati con accuratezza e giudicati con equanimità. 
Nel catalogo redatto da Ludwig von Köchel sono elencate 626 opere di Mozart. Una corposa appendice ne elenca altre 294 di cui 109 sono andate perdute, 164 sono composizioni adattate o revisionate e le altre sono dubbie o attribuite al Maestro, per un complesso di 910 titoli. 

Nessun musicista ha fatto tanto in così breve tempo: scriveva capolavori al ristorante, in sala d'aspetto, durante le danze. La moglie Constanze attestò che anche nelle traballanti carrozze, nei viaggi brevi o lunghi, scarabocchiava Zettelchen mit Musik, cioè quei "bigliettini con musica", che costituivano il nucleo dei futuri capolavori. La sua vita era una "composizione continua". La ricchezza dell'inventiva e la sua serenità apollinea riscuotono esaltazioni unanimi. 

Karl Barth immagina che gli angeli in cielo eseguano i suoi spartiti e afferma che «anche lì in primo luogo mi informerei su Mozart, e solo dopo, su Agostino e Tommaso, quindi su Lutero, Calvino e Schleiermacher. Io trovo in lui l'arte del gioco eccellente come in nessun altro. Essa mi rallegra e incoraggia». È considerato un sommo in tutti i generi nei quali ha scritto, eseguito, diretto: musica da camera, lirica, concerti, sinfonie, danza. 
È un genio anche nella musica sacra. Hans Küng l'ha analizzata sotto l'aspetto teologico. 

Mozart compose 149 opere, di cui 83 compiute, con una ventina di Messe, tra le quali emergono la Credo-Messe (K 257) e la Missa solemnis (K 337), numerosi offertori, canoni, graduali, due litanie di cui una composta dopo una visita al santuario di Loreto (K 195), quattro Regina coeli (K 108, 127, 276, A 118) due Salve regina (K 92, 198), due vespri (K 321,339), vari salmi, una dozzina di Kyrie, il mottetto Ave verum (K 618), che i musicologi considerano la più pura espressione dell'abbandono filiale in Dio.

La devozione mariana ha un monumento d'incantevole e geniale delicatezza nella Messa dell'incoronazione (Krönungsmesse K 317) scritta quando l'icona del vicino santuario di Maria Plain fu incoronata. Egli vi si recava spesso in pellegrinaggio. 
Nella lettera al padre del 12 aprile 1783 confutava la tesi del barone Gottfried van Swieten e del maestro di cappella di corte Joseph Starzer, che propendevano per un eccessivo cambiamento di gusto e di tecnica rispetto al passato: «Da ciò deriva che la vera musica viene a trovarsi in soffitta, come in preda ai vermi. Quando, come spero, nel mese di luglio verrò a Salisburgo, parleremo di queste cose». 

Criticò il gusto italiano in materia, perché indulgeva alle fiorettature, lungaggini, teatralità. Nel corso di una discussione a Lipsia, dove nella Thomaskirche si era esibito splendidamente sull'organo di Bach, impostò una riflessione apologetica sulla musica sacra cattolica e su quella protestante: «Voi non percepite nessun sentimento quando si dice Agnus Dei qui tollis peccata mundi. Ma quando dalla prima infanzia si è stati introdotti nella mistica santità della nostra religione, quando si è stati a tal punto felici da ricevere la comunione inginocchiati mentre l'Agnus Dei veniva eseguito, allora è tutt'altra cosa; quelle parole udite mille volte, e tutto il contesto, commuovono nuovamente l'anima».

Un Maestro al servizio della liturgia

La collaborazione di Mozart con la Chiesa fu costante e cordiale, gratificando sia i committenti che il compositore. Le sue opere hanno sempre goduto la piena cittadinanza nella liturgia e nella pietà cattolica; i protestanti hanno seguito un cammino analogo. In passato nella pubblicistica cattolica più impegnata non si parlava volentieri della sua presenza liturgica, a causa della sua appartenenza massonica, poi il ghiaccio gradatamente si è sciolto. 

In questo senso meritano un'attenzione specialissima due avvenimenti verificatisi sotto i nostri occhi e irradiati in mondovisione. Già nei pontificati di Pio XII e Paolo VI si erano registrati riconoscimenti elogiativi, ma con Giovanni Paolo II si toccano le vette dell'ammirazione e si constata il proposito del Papa di rendere pubblicamente un "atto dovuto" nei confronti del Maestro. 

La Messa che il Papa celebrò in San Pietro il 29 giugno 1985, per le parti invariabili, fu accompagnata dalla già ricordata Messa dell’incoronazione. Era diretta da Herbert von Karajan ed eseguita dai Berliner Philarmoniker. Il direttore non volle che si erigesse un podio: per evidenziare la sua condivisione spirituale e la sua umiltà dinanzi all'altare, volle mettersi allo stesso livello degli orchestrali e dei fedeli, per "pregare" insieme a loro. 

L’Osservatore Romano (1-2 luglio) annunciò in prima pagina l'evento. Vi si leggeva: «La celebrazione è stata caratterizzata da una profonda religiosità che ha raggiunto i suoi momenti centrali nella liturgia. Di particolare intensità spirituale, il momento dell'Agnus Dei, quando la solista Katleen Battle ha eseguito il canto con voce sensibilissima, che ha consentito ai presenti di entrare in profondità nel clima della preghiera che precede l'incontro personale col Cristo eucaristico».

La seconda manifestazione ebbe luogo nel 1991. La Rai offrì al Pontefice un concerto diretto da Carlo M. Giulini, a conclusione del Sinodo dei vescovi per l'Europa, e in concomitanza col bicentenario della scomparsa di Mozart. Fu eseguito il Requiem (K 626). Giovanni Paolo II pronunciò un'omelia di largo respiro, pubblicata dall’Osservatore Romano il 7 dicembre di quell'anno (p. 9). Quest’opera, disse il Papa, «esprime forse, per un singolare presagio di cui si parlò subito dai contemporanei, la sua più sofferta e sublime meditazione sul mistero della morte». Tracciava poi una panoramica dell'opera mozartiana: «Tutti noi abbiamo provato un senso di profonda pietà, quando, ascoltando la musica del Salva me, fons pietatis, vi abbiamo notato l'invocazione piena di tremore e di speranza, mentre, ricordando le ultime note scritte dal grande Maestro, abbiamo raccolto gli accenti dolorosi del Lacrymosa dies illa, avvertendo poi nel crescendo delle parole Qua resurget l'affermata certezza della potenza del Creatore, autore della vita e della risurrezione. 

La Chiesa non poteva non rendere omaggio al genio salisburghese, riconoscendo che egli dedicò all'espressione religiosa tante pagine sublimi. Vorrei aggiungere che, man mano che procedeva nella creazione artistica, egli attinse le più alte vette della musica religiosa, come attesta sia il Requiem ora ascoltato, sia la sorprendente, anche se incompiuta Messa in Do minore, sia l'incomparabile mottetto Ave verum».
Annette Kolb, nel descrivere la sua morte, dopo aver concertato con amici e discepoli l'orchestrazione e l'esecuzione del Requiem, conclude: «Così morì questa gloria del cattolicesimo». Nel 1956, ricorrendo il secondo centenario della nascita del Maestro, Alfred Orel raccolse in un volume pubblicato a Salisburgo alcune tra le più eloquenti testimonianze della sua personalità e della sua opera. Lo intitolò Mozart, gloria mundi. Era difficile scegliere una formula più felice, nella lingua latina che egli coltivò e predilesse, e che onora tutta l'umanità.

 

L'ORATORIO E LE PASSIONI: HAENDEL, WEBBER-RICE

Nei secoli XVII-XVIII nacque l'oratorio, elaborazione musicale di un testo religioso per solisti, coro e orchestra. La forma risale al dramma liturgico e all'uso che ne faceva la congregazione di san Filippo Neri (seconda metà del XVI secolo), l'Oratorio. 

Verso il 1660, Schùtz combina la forma dell'oratorio con la corale della Riforma, e da questa sintesi evolve la musica delle Passioni. Oratori dedicati a Gesù furono composti da Porpora (Il Verbo incarnato, 1734), Haendel (Messia, 1742), Paisiello (1794), Emiel Neumann (Christus der Friedesbode, "Cristo messaggero di pace", nell'anno delle rivoluzioni 1848), Lesli(Immanuel, 1853), Liszt (1862-67), dall'ungherese Kòsa (1897), da Bernhardt (trilogia, 1900 circa), dal canadese Pelletier(Rédemption, 1910 circa) e da Rohwer (1963). 

Opere simili sono le cantate di Johann Simon Das allerschònste Jesus-Bild in geistreichen Cantaten fùr die gewòhnliche Sonn-und Festtagsevangelia, 1737-38, 90 cantate) e Pie Jesu di Hanssen (1825 circa), le elaborazioni musicali dei canti di Jan Luyken ad opera di Van den Sigtenhorst Meyer (1932-37), l'inno Al Corazòn de Jesu Christo (1945 circa) di Ippisch, l'opera corale Glory Alleluia di Lleopold-Kerkhove (1970) e Christus rex di Jean Rivier (1966). 

Rubinstein-Bulthaupt (1875 circa) e Van de Sloten (1896) scrivono opere su Gesù, Webber-Rice l'opera rock Jesus Christ Superstar (1970); Lioncourt compone il dramma liturgico Le Mystère de l'Emmanuel (1924) e Jean Leopold il mistero Jesus People 2000 (1978). Un'opera per coro e orchestra di Samuel risale al 1894 e l’ “inno sinfonico" Les Mystères du Christ di Van Hemel è del 1958. 

Il belga Robert Herberigs (Lamgodsspel, "Dramma dell'agnello di Dio", 1948) e il catalano Josep Soler (Visione dell'agnello di Dio, 1970) si ispirano a questo appellativo apocalittico di Gesù.

 

LA STORIA MUSICALE DELLA PASSIONE

La storia musicale della passione comincia nel V secolo, con l'uso di recitare in forma solenne, durante la liturgia della settimana santa, la pericope della passione: la domenica delle palme secondo Matteo, e il martedì, il giovedì e il venerdì santo, rispettivamente secondo Marco, Luca e Giovanni, sottolineando alcune parole e momenti con un commento musicale.

A partire dal X secolo, la recitazione divenne più vivace; nel XIV, i ruoli di più cantanti erano ormai codificati. Nel XVI secolo si aggiunse l'accompagnamento strumentale (Orlando di Lasso, 1594; Byrd, 1600 circa) e l'intera storia della passione venne musicata per i servizi solenni sia cattolici che protestanti, nella passione a mottetti (Longueval - o Obrecht? -,1538; Daser, 1560 circa; Machold, 1593). 

Dalla Mattheuspassion di Walter (prima del 1530) in poi, nella passione corale luterana i fedeli cantavano testi meditativi in lingua volgare su semplici melodie a quattro voci ancora molto vicine al vecchio gregoriano. Schùtz (1623) inaugura la tradizione degli oratori della passione. Sebastiani (1672), Kuhnau (1721) e altri aggiunsero arie riflessive e testi meditativi per il popolo, creando suoni realistici. Il XVIII secolo si svincolò dal testo evangelico in favore di libretti non sempre altrettanto edificanti. Il pio testo di Brockes (1712) fu utilizzato spesso negli oratori della passione. 

Johann Sebastian Bach musicò la Passione secondo Matteo (1729) e la Passione secondo Marco su testi di Puander, laPassione secondo Giovanni (1724) su testi propri ripresi da Brockes.

Nacquero anche interpretazioni più libere della forma dell'oratorio: Joseph Haydn (Die sieben letzten Worte des Erlòsers am Kreuze, "Le ultime sette parole del Redentore sulla croce", 1795), Spohr (Des Heilands letzte Stunde "L’ultima ora del Salvatore", 1835), Benoit (Drama Christi, 1897), Disiler (Jesus, deine Passion, "Gesù, la tua passione", 1933), Ahrens (1951), E Martin (composizioni per coro e Polyptique, six images de la Passion du Christ, 1945-48-72) e Penderecki (Passio et mors Domini nostri Jesu Christi, 1962-65).

 

MOMENTI E PERSONAGGI DELLA PASSIONE

Si prestavano all'elaborazione musicale e letteraria anche momenti e personaggi della passione. Il Getsemani fu più volte soggetto di oratori: Ernst Wolf (1789), Rosetti (1790), Beethoven (1803), Dupuis (1929), e di un poema sinfonico: De Sabata (1925). L'agonia di Gesù costituisce lo sfondo del romanzo religioso dello svedese Falkberget Fjerde nattevakt ("Quarta veglia", 1923). 

Anche Pilato, Barnaha, Disma, Giuseppe di Arimatea e Nicodemo hanno una propria vicenda artistica. Tutti i protagonisti della passione sono oggetto di descrizione e riflessione in Figuras de la passion del Senor Jesu-Cristo, di Mirò y Ferrer (1916-17). 

Il mito della discesa all'inferno, che compare già nel II secolo nel XVII canto delle Odi di Salomone, fu ripreso spesso nelle sacre rappresentazioni medievali (rappresentazioni pasquali del XIII secolo di Passau e Klosterneuburg, da Muri 1250 circa; della Turingia orientale, 1350 circa; di Innsbruck e Vienna; seconda metà del XIV secolo). 

Dopo l'Auto de moralidade de emharcaçao do Inferno di Vicente (1517), il dramma di Vetranovic’ Cavcic’, Befreiung der Vàter aus der Vorhòlle ("Liberazione dei padri dal limbo", XVI secolo), e il dramma gesuitico polacco L'annientamento dell'inferno(prima metà del XVII secolo), il tema fu ripreso da Stephen Phillips nel poema Christ in Hades. A Phantasy (1896) e ancora una volta narrato magistralmente da Van der Meer in Paasmorgen ("Mattina di Pasqua", 1959).

 

PASQUA E PASSIONE

Le grandi sacre rappresentazioni medievali della passione e di Pasqua, collegate tra loro, nascono dalla drammatizzazione del canto liturgico (tropi e sequenze). Dopo una passione in francese antico della fine del X secolo, De Passione Christi del XII (Benediktbeuern), le sacre rappresentazioni di Vienna (1300 circa), Francoforte (Baldemar da Petersweil, 1350 circa, segno di riconciliazione dopo la strage di ebrei commessa in quella località nel 1349), Maastricht (fine del XIV secolo), Eger (XV secolo), Valenciennes (1547; si è conservato il disegno della scenografia) e un Mystère de la Passion del 1452 circa di Arnoul Gréban (36400 versi, 224 personaggi, durata della rappresentazione 4 giorni), esaurita la carica critica dell'Illuminismo, la tradizione di rappresentare la redenzione in forma drammatica sopravvive in alcune località fino ai giorni nostri (dal 1643 a Oberammergau: il testo di Daisenberger del 1860, giustamente criticato per il suo antisemitismo, è stato riscritto; musica di Dedler, 1815) o è stata introdotta (nei Paesi Bassi, per esempio, a Tegelen, dopo la seconda guerra mondiale). 

La passione è descritta in toni fortemente drammatici nella terza parte dell' Abecedario espiritual di De Osuna (1528, Siviglia; si pensi alla drammatica processione del venerdì santo che si svolge in quella città), nel poema epico di HojadaLa Cristìada (1611), popolato di angeli e diavoli, e nei Trabalhos de Iesu dell'eremita agostiniano portoghese Frei Tomé de Jesus (1580 circa); attraverso le traduzioni, quest'ultima opera esercitò una profonda influenza sulla spiritualità europea del Seicento. 

In questa tradizione realistica rientra ancora la poetessa cilena Gabriela Mistral, con Desolacion (1922-23). Un buon esempio della partecipazione alla passione di Gesù durante l'autunno del Medioevo è l'anonimo quattrocentesco nederlandese Baghijnken van Parijs ("Baghijnken di Parigi"). De la Ceppède scrive nel 1610-21 due serie di sonetti sulla passione e la resurrezione, che la critica degli ultimi decenni è tornata ad apprezzare. Lo svedese Stagnelis dà una veste mitologica alla storia della passione (Bacchanterna, "Le Baccanti", 1821). 

Ammirata in passato, ma oggi respinta dalla critica per la mancanza di senso della realtà e per le idee sorpassate, è l'elaborazione delle visioni della passione di Anna Katharina Emmerick ad opera di Brentano (1833). In Tenebre di Gerhart Hauptmann (1937; pubblicato nel 1947), in un dialogo che si svolge durante il banchetto funebre in onore di un amico ebreo morto, la passione di Gesù viene paragonata alle sofferenze del popolo ebreo. 

Nel romanzo "O Christòs xanastavronete"("Cristo di nuovo crocifisso", 1948; riduzione cinematografica 1957), molto letto soprattutto al di fuori della Grecia, Kazantzakis proietta la passione di Gesù negli avvenimenti che si svolgono in un villaggio greco durante la preparazione di una sacra rappresentazione. 
La croce sulla quale Gesù mori è oggetto di visioni nell'anonimo Dream of the Rood (VIII secolo); di riflessioni, negli inni di Rabano Mauro (prima metà del IX secolo), nell'opera teatrale di Calderòn de la Barca sulla conversione di un peccatore La devocion de la cruz (1624) e in un romanzo di Zorilla y Moral intitolato A buen juez mejor testigo ("A buon giudice miglior testimone", 1943), in cui un crocifisso testimonia in una questione legale. Nel 1702 Predieri compone l'oratorio Il trionfo della croce.

 

IL MISTERO DELLA RISURREZIONE

Le rappresentazioni pasquali ricordate sopra e altre ancora del Medioevo esprimono in forma visibile il mistero della resurrezione. 

Il Ludus pascalis del XII secolo proveniente da Origny-Sainte-Benoite è la più antica; la sua origine liturgica riecheggia nell'alternanza del francese antico e del latino. L'ultima è costituita da un oratorio narrativo di Klaj del 1644. Il mistero anonimo Ordinalia (1300 circa) della Cornovaglia scandisce la storia della rivelazione in tre parti: 
Origo mundi, Passio Domini e Resurrectio Domini. Nel romanzo Resurrezione (1899), in cui un principe russo tenta di estinguere la colpa di un'amica d'infanzia accusata ingiustamente, Tolstoj esprime la propria visione laica della festa religiosa della resurrezione. 

Orff scrive nel 1956 una Comoedia sulla resurrezione. Oratori di Pasqua sono stati composti da Schùtz (1623), Strungk (1688), Schulze (1886), Hàndel (1708), Ernst Wolf (1781), Benda (Die Jùnger am Grabe des Auferstandenen, "I discepoli al sepolcro del risorto", 1792), Holland (1800 circa), Neukomm (1841), Thomas (1930), Keldorfer (1936), Van Dessei (1943), Naylor (1965), Graap (1966) e Stout (Dialogo per la Pasqua, 1970). 

Monnikendam scrisse nel 1965 la composizione per coro Paasspel ("Dramma di Pasqua"), Alfano nel 1904 un'opera intitolata Resurrezione.

 

SINGOLI AVVENIMENTI DELLA VITA DI GESÙ

I singoli avvenimenti della vita di Gesù hanno ispirato nel corso del tempo una ricca produzione letteraria e musicale. Ciò vale soprattutto per quanto riguarda la natività, la passione e la resurrezione, il Giudizio universale, ma anche, più raramente, la tentazione (composizione per orchestra di Fano, 1919, e per coro di Gùnter Raffael, 1934), le nozze di Cana (opere teatrali di Rebbun e Schmeltzl, 1538 e 1543), il dialogo con la samaritana (opera teatrale di Rostand, 1902 e cantata di Bennet, 1867), il discorso della montagna (poema sinfonico di César Franck, 1846), la trasfigurazione (cantata di Segond, 1948, e composizione per coro e orchestra di Messiaen, 1969) e l'ultima cena (mistero del 1575 a Olmùtz; Vondel,Altaergeheimenissen, "Misteri dell'altare", 1645; Padre Hartmann, oratorio, 1904). 

Importanti trasposizioni musicali dell'opera redentrice di Gesù si incontrano nel Credo della Hohe Messe ("Messa solenne") di Bach (1738; soprattutto "Et incarnatus est" e "Passus et sepultus est. Et resurrexit") e in molte cantate (Nun komm' der Heiden Heiland, 1724; Ich habe genug, 1727, e Christus lag in Todesbanden, 1707-08).

 

NATALE 

I fedeli del Medioevo celebravano la natività con una vena inesauribile di canti e melodie. Il mistero francescano di Orvieto (1370-80), il poema del fiammingo Jan Praet (1350 circa), in cui Gesù stesso racconta la propria nascita e infanzia, e i tardiviPastorel di Stalpaert van der Wielen (1635; dialogo tra i pastori Kloris e Jaep) e Harderslied di Jacob Revius ("Canto del pastore", 1630 circa) sono solo alcuni tra le centinaia di esempi (si veda l'antologia di Van Duinkerken Kerstlyriek, 1941). 

Punti massimi della storia della musica sono Die Gehurt unseres Herren Jesu Christi di Schùtz ("La nascita di Nostro Signore Gesù Cristo", 1623) e l'Oratorio di Natale di Johann Sebastian Bach (1734). Esempi moderni sono, nel teatro, il mistero di Tomé (1891), nella letteratura le poesie di Engelman (Pastorale; 1930 circa) e Péguy (La créche, l'ane et le boeuf,settembre 1914, pochi giorni prima che l'autore morisse in battaglia) e, in musica: L'enfance du Christ di Berlioz (1850-54),Schlafendes Jesuskind di Hugo Wolf su testo di Mòrike ("Il bambino Gesù addormentato", 1888), cantate e oratori di Van Hulse (tra il 1940 e il 1950) e Une cantate de Noel di Honegger (1953).

 

MIRACOLI E PARABOLE

I miracoli di Gesù non incontrarono il favore di drammaturghi, letterati e musicisti: il cieco dalla nascita (Grerser, 1584; Schmeltzl, 1543) la donna cananea (Vicente, 1534: con l'intervento del diavolo) ispirano solo sporadiche opere teatrali. 

La figlia di Giairo (Marie Reiset, 1880 circa; Meulemans, 1925) e la tempesta sedata (Zipp, 1972) vengono scelte come soggetto per alcune composizioni di musica vocale. La péche miraculeuse (1937), romanzo di Pourtalès ambientato a Ginevra, è ispirato alla tavola ginevrina di Konrad Witz del 1444 con lo stesso titolo e descrive la frustrazione dei protagonisti per l'impossibilità di diventare pescatori di uomini (Mt 4,19). 

Le parabole prese in considerazione sono tre. La prima è quella del povero Lazzaro, soggetto di una sacra rappresentazione spagnola del XIII secolo e di rappresentazioni di Krùginger (1543), Kyrmezer (1550 circa), Bartholomeus Braun (1657 circa) e di autori anonimi: una moralità francese del primo Cinquecento e opere teatrali composte a Dòle e a Zurigo (1585 e 1529). 

Soprattutto il figliol prodigo ha offerto materiale per opere drammatiche: Murner (Schelmenzunft, "La congrega delle canaglie", 1512) e l'umanistico Acolastus, de filio prodigo, il cui influsso risentono Hooft (Den Hedendaegsche verloren soon, "Il figliol prodigo dei giorni nostri ", 1630) e De Bie (Den verlooren Soone Osias, "Il figliol prodigo Osias", 1678). 

Dal genere del dramma moraleggiante gesuitico (tra gli altri, l'anonimo Cosmophilus da Linz, 1633) derivano oratori (Cesarini-Hall, 1715) e opere: Auber (1850) e Serrao (1868). Più importante del dramma di Grau del 1877 è Il ritorno del figliuol prodigo di Gide (1907), in cui il figlio lotta per la sua libertà interiore. Il soggetto ha avuto elaborazioni e interpretazioni diverse: Ackermann (1536) attribuisce una grande influenza alla madre del ragazzo, Hollonius (1603) e i suoi contemporanei introducono grandiose scene di gozzoviglie, Voltaire (1736) fa del figlio maggiore un eroe positivo. 

Il motivo del contrasto tra i fratelli riecheggia ne I masnadieri di Schiller (1781-82), il rapporto tra la madre e il figlio nel Peer Gynt di Ibsen (1867). Nel 1884 Debussy compone sul tema un'opera per coro e orchestra, e nel 1968 Britten unachurch parable. Jooss (1933), Elsa Darciel-Dewette (1937) e Lichine (pseudonimo di David Lichtenstein, 1938) allestiscono balletti ispirati all'episodio (il secondo su musiche di Prokofijev).

L'opera più antica in cui compaiono le vergini savie e le vergini stolte è il Simposio sulla verginità di Metodio di Olimpo (III secolo). Il primo esempio di allestimento teatrale di questa parabola è Sponsus o Mystère de l'Epoux dei primi del XII secolo, della zona a sud-est di Angoumois, in cui si alternano latino e francese antico. 

La sacra rappresentazione di Mùlhausen (1350-70 circa, Eisenach), assai più ampia, ha in comune con lo Sponsusl'attenzione, soprattutto da un punto di vista didascalico, per il comportamento delle vergini stolte. Più semplice, ma anche più realistica, è la sacra rappresentazione in medio nederlandese del 1500 circa, in cui le vergini savie pregano e le stolte cuociono biscotti e fanno festa fino a quando i diavoli non vengono a prenderle. Nel 1929, il coreografo Bòrlin crea un balletto sulle vergini stolte; nel 1924, Galliera dedica una coreografia a tutta la parabola. Nel 1940, Walton compone la musica per il balletto The Wise Virgins.

 

L'ASCENSIONE E PENTECOSTE

Ispirati all'ascensione sono gli oratori di Lortzing (1828) e Neukomm (1842) e la seconda delle Cantiones mysticae di Ridout (1962). Messiaen compose nel 1933 un brano per organo sull'ascensione. Alla pentecoste sono dedicate cantate di Neukomm (1846) e Gallotti (1923), la Messe de la Pentecoste di Messiaen (1950) e il Triptychon zum Heiligen Pfinggstfestper voci sole, coro e orchestra di Hartig ("Trittico per la santa pentecoste", 1960). 

Il più antico documento letterario sul Giudizio universale è il poema dell'inizio del IX secolo Muspilli ("L'incendio del mondo"), di cui si conservano frammenti. Abbiamo già ricordato l'opera di Frau Ava del 1120, che contiene un'ampia descrizione della fine del mondo. 

Lucidarius (1190-95), dialogo didascalico anonimo, e Von Gotes Zukunft ("La venuta di Dio", 1300 circa), poema edificante scritto dal medico viennese Heinrich von Neustadt, hanno come argomento il futuro e descrivono con abbondanza di particolari avvenimenti escatologici. 

In una predizione dell'avvento dell'Anticristo e della fine del mondo anteriore al 1340 intitolata Raisonnement d'Avinyò("Ragionamento di Avignone"), Arnau de Vilanova critica i vertici della Chiesa e della società. Un'importante descrizione medievale del Giudizio universale forma il nucleo del sogno lungo tredici giorni fatto dai protagonisti del Draumvaedet ("Canto del sogno"), del XIII secolo ma redatto soltanto nel XVIII.

Di un "giudizio individuale" parla il fabliau comico del XIII secolo Du Vilain qui conquist paradis par plait, in cui un contadino convince san Pietro ad accoglierlo in paradiso.

 

RAPPRESENTAZIONI DEL GIUDIZIO UNIVERSALE

Nel Medioevo, sono tre le tipologie drammatiche che hanno come argomento il Giudizio universale: le rappresentazioni sulla fine del mondo, sull’Anticristo e sulla parabole della vergini savie e le vergini stolte. Il frammentario Giudizio universale di Amburgo (prima metà del XII secolo) è uno degli esempi più antichi. 

Vi sono poi rappresentazioni di ogni parte d'Europa: dei secoli XIV (manoscritti di Donaueschingen-Rheinau, Chester, Perugia) e XV (159) (di Chur e Lucerna; una rappresentazione di Rouerge e una di Belcari, 1445 e 1490), fino al XVI (Sachs, 1558, Agricola, 1573 e Krùger, 1580). Venivano allestiti grandiosi scenari affollati di diavoli, espedienti meccanici suggerivano catastrofi cosmiche, scene di massa provocavano momenti di isteria tra gli spettatori. 

Il gesuita Gretser mette in scena il Giudizio universale descritto in una leggenda del XII secolo sulla punizione di un vescovo peccatore: Dialogus de Udone Archiepiscopo (1587). I Suenos y Discursos de Verdades ("Sogni e discorsi sulle verità", 1627) di Quevedo y Villegas, pieni di riflessioni e descrizioni escatologiche, si aprono con una presentazione satirica del Giudizio universale. 

Nel racconto di Fontane Grete Minde (1879), la feroce vendetta della protagonista è scatenata da una rappresentazione del Giudizio universale alla quale aveva partecipato. Der Jùngste Tag ("L'ultimo giorno"), romanzo di Lulu von Strauss und Torney, affronta l'attesa della fine del mondo e la delusione degli anabattisti di Mùnster nel XVI secolo.

Nella storia della musica, la descrizione del Giudizio universale compare soprattutto nella macabra sequenza del Dies Irae(metà del XIII secolo, Italia) cantata nelle messe da requiem del giorno dei morti (2 novembre; Dufay, Ockeghem, Pierre de la Rue) e nel concerto da requiem, che ne è una derivazione (Mozart, Berlioz, Verdi, Fauré).

 

ARVO PÄRT INTERVISTATO DA ENZO BIANCHI PRIORE DI BOSE

Arvo Pärt               intervistato da Enzo Bianchi priore di Bose

Lo spartito della Sindone

Il grande compositore estone, 70 anni, faccia a faccia con l'amico monaco Enzo Bianchi, racconta come ha deciso di dedicare un brano proprio al sacro lino: perché l'immagine di quel sofferente dice al mondo lacerato la compassione, la misericordia di Dio e non il giudizio assoluto.

Come vorrebbe che s'ascoltasse la sua musica?

«La mia musica è fatta per essere ascoltata al mattino presto, quando le cose escono dal buio, dal silenzio... E’ quasi un mattutino monastico».

 

Si può definire preghiera?

«No, forse è un ponte tra me e La preghiera».

 

Qual è l'ostacolo più  difficile per la vita spirituale, o, in un artista, per l'attività creativa?

«Il successo allontana dalla purezza, è inevitabile. Dobbiamo essere pronti alla Lotta spirituale».

 

Che cosa significa la vocazione di musicista?

«A casa mia c'era un pianoforte: forse da quello è nato tutto, ma la verità è che noi non sappiamo qual è la nostra vocazione... Per me è stata un'obbedienza, La vivo come un lavoro manuale. Ciascuno di voi nel suo Lavoro si comporta allo stesso modo. Per quanto sia serio e difficile, anche il lavoro con la musica si fa soltanto con il tempo, richiede tempo».

 

La preghiera conduce l'orante al silenzio. A volte silenzio di Dio, deserto in cui ci si sente sospesi sull'abisso; ma a volte anche quel silenzio trattenuto in cui Dio parla, parla sottovoce..: C'è un'analogia tra questa esperienza di silenzio e l'uso che lei fa del silenzio, della pausa?

«Una corrispondenza, forse. Di questo si è scritto molto, ma chi ne scrive non sa che dentro di me non c’è la quiete, ma il rumore... Io e la mia musica siamo due cose diverse: può darsi che in questa musica ci sia un codice segreto che io stesso non conosco. Voi vi avvicinate a questa musica con la fede in Gesù Cristo, lui è onnipotente e può usare anche lo sporco per sanare: forse è questo che può riscaldare il vostro cuore... Un proverbio russo dice: "Quando manca la pelliccia, anche il caffettano scalda". E così possiamo consolarci gli uni gli altri».

 

E’ la parola che guida la musica, o è la musica che cerca la parola?

. .«Che cosa era "in principio", La musica o la parola? "E la Parola era presso Dio e la Parola era Dio": è una parola che per noi è irraggiungibile, perché è Tutto, essa nutre ogni cosa, è La prima fonte di ogni cosa. lo faccio fatica a scrivere musica, ed è tanto più difficile quanto più mi allontano dalla Parola; a volte. mi sembra meglio cantare su una sola nota per salvare le parole e non cadere nella volontà propria. Bisogna stare attenti ai rivolgimenti. E’ come una chiave: una

sola voce, un solo Dio, e tutto è chiaro...».

 

Perché un brano sulla Sindone?

«Ci sono molte implicazioni, molti significati. Sono un cristiano, un semplice credente, e mi sembra bello che in questi giorni in cui tutto il mondo guarda a Torino per le Olimpiadi, si guardi anche al suo tesoro più prezioso, custodito in questa città,

ogni giorno».

 

Che cosa ha cercato di dire con quest'opera?

 «L'ho accostata con timore, con coscienza della mia insufficienza... Ci sono contemplazioni molto più alte di questo mio piccolo pezzo... Ho cercato di sottolineare solo alcune note, alcune impressioni, attraverso il linguaggio della musica che tenta di balbettare L'ineffabile».

            .

La Sindone, l'immagine di un sofferente: che cosa può dire al nostro mondo cosi lacerato spesso proprio per le sofferenze che gli uomini infliggono ad altri uomini?

«La compassione, la misericordia, il non giudizio assoluto... Ognuno cerca di svolgere il modesto compito che gli è assegnato (almeno così penso di me). Dobbiamo portarci gli uni gli altri e comprenderci, senza giudicarci. Solo più tardi apparirà chiaro, nella luce di Dio, se quanto abbiamo fatto è stato giusto o ingiusto...».

 

BOB DYLAN 

“Avvenire” 10 agosto 2003

di Franco Cardini

«Well, the last thing I remember before I stripped and kneeled 
Was that trainload of fools bogged down in a magnetic field 
A gypsy with a brocken flag and a flashing ring
Said: "Son, this ain't a dream no more, it’s the real thing"».

«Beh, l'ultima cosa che ricordo prima di essermi spogliato e inginocchiato
È il carro dei folli impantanato in un campo magnetico
Una zingara con una bandiera spezzata e un anello lucente
Diceva: "figliolo, non è più un sogno, è la realtà"».
«Un treno alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, 
una sosta forzata, caldo e polvere; 
e un vecchio che si avvicina al finestrino, il volto riflesso nel vetro...»

Il contesto da cui sono tratti questi quattro versi è il racconto d'un viaggio: forse un'esperienza reale, forse immaginaria, forse il ricordo trasfigurato dal sogno. Un treno alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, una sosta forzata, caldo e polvere; e un vecchio che si avvicina al finestrino e il cui volto non viene visto direttamente, bensì riflesso nel vetro. Forse qualcuno che chiede, smarrito, un'informazione; forse un mendicante; forse un pazzo uscito dal carro dei folli inchiodato sul binario. 

Ha gli occhi sanguigni, arrossati dalla polvere, dall'età, forse dalla malattia; oppure non è davvero un vecchio, e i suoi occhi rossi sono quelli. Di un messaggero dell'Altro Mondo. Tales of yankee power non è forse tra le più famose canzoni di Robert Zimmerman, conosciuto come Bob Dylan. Certo è una fra le più belle; quanto meno, una fra quelle che a me piacciono di più. 

Fu composta nel 1978, appena prima che l'artista si convertisse da un ebraismo mai praticato a un sentito e tormentato cristianesimo, che lo avrebbe spinto anche a incidere due dischi gospel: cioè Slow train coming e Saved. Non so se Tale of yankee power segni in qualche modo il quasi concluso cammino di conversione. Il titolo con il quale essa è meglio conosciuta è 'Señor': l'argomento, appunto, un viaggio di frontiera tra Stati Uniti e Messico. Che tuttavia potrebbe essere anche il passaggio tra la vita e la morte, l'esperienza liminale, il descensus ad Inferos, la Nekya. La bandiera strappata, l'anello lucente: e il vecchio messicano, un povero che appartiene a un paese e a un popolo da mezzo secolo calpestato, umiliato e sconfitto, che chiede "dove siamo": che domanda il perché di quel che accade, di quel ch'è successo finora, di questa follia che ci ha condotti su un binario morto, inchiodati a un campo magnetico.

Il lucente anello del potere. Un grumo simbolico forte vi sta avviluppato attorno. 
L’anello della vera fede della medievale Favola delle tre anella, raccontata anche dal Boccaccio e divenuta, da allora e poi più tardi con il Nathan der Weise di Lessing, il simbolo per noi occidentali, della tolleranza religiosa. Ma anche e soprattutto l'anello del Potere: quello divenuto celebre in seguito al capolavoro di John Ronald Reuel Tolkien; l'archetipo di quegli anelli universitari quasi vescovili nell'aspetto, di materiale in genere semiprezioso ma dall'apparenza kitsch sontuoso, che servono a mostrare l'appartenenza a una scuola famosa e servono a riconoscersi per tutta la vita come membri d'un gruppo d’élite, di una confraternita di happy fews. 

Ma la bandiera strappata, proprio perché è tale, è simbolo della gloria conquistata in combattimento; e l'anello resta lucente. Giunti sul limite (del confine messicano? Della vita?), quando vivi l'istante fatale in cui tutto ti si ripresenta davanti in un soffio, e ti senti come fuori da esso, e la realtà ti sembra un sogno eppure avverti che, al contrario, è il sogno della vita che sta svanendo e non c'è più tempo per un altro domani, e bisogna fare i conti, allora forse finisci anche per comprendere il significato di quella bandiera a brandelli, di quell'anello che nonostante tutto è rimasto lucente. 

Era quello, l’indossar quell'anello, tener alta quella bandiera strappata, il tuo Manifesto Destino. Tales of yankee power uscì nel 1978 in un disco intitolato Street legal. Non ricordo più, a dire il vero, se il disco fosse già in circolazione durante l'estate: ma la canzone circolava già alla fine del giugno, quando misi piede per fa prima volta, già trentottenne - e allora trentott'anni mi sembravan tanti - sul libero suolo dei liberi States. 

Fu un' estate piena, vissuta in un New England assolato e ricco di laghi e di foreste, tra New York e l'università del Vermont nella quale lavoravo. 
La "mia" America era quella di John Lennon e di Joan Baez, quella di 'We shall overcome' e dell'inutile macello vietnamita, quella che si risvegliava dal lungo sonno della sua provincia profonda e delle sue maggioranze silenziose.

Ora, con i colleghi e gli studenti della mia università, incontravo non un'America "diversa", non un'" altra" America: e tanto meno la "vera" America. Mi capitava semplicemente d'incontrarmi con un pezzo, una sfaccettatura di quel mondo straordinariamente ricco, pieno di contraddizioni, zeppo di demoni e di meraviglie che è l'America. Di riscontrare dal vivo cose che in teoria già sapevo per averne letto, visto al cinema e in tv, sentito parlare a lungo. È incredibile come l'esperienza diretta ti "sveli" le cose che già credevi di sapere, e che magari in effetti avevi capito benissimo, e se davvero le avevi capite te le confermi, ma costringendoti da allora in poi a viverle in tutt'altro modo. 

Conobbi l'America di Jimmy Carter, quella che si leccava le ferite del Vietnam e che stava affrontando un forte calo del dollaro, addirittura un pericolo d'inflazione (con mia grande rabbia: era la prima volta in vita mia che mi pagavano in dollari, e guarda un po'...).
Ai miei studenti di quell'anno, parlando di testi medievali, dovetti affrontare il tema (dantesco, fra l'altro) delle visioni dell'Aldilà. Mi trovai così dinanzi a quella canzone di Bob Dylan, al suo confine tra il Messico e l'Altro mondo, alla sua crisi religiosa, alla sua prossima conversione al cristianesimo. 

Nei testi di Dylan - sarà la sua ebraicità originaria? - trovavo densi e continui riferimenti alla Bibbia; e mi commuoveva la conoscenza della Sacra Scrittura da parte di alcuni miei studenti, quelli soprattutto che venivano dalla deep America e che appartenevano a congregazioni protestanti dell'esistenza delle quali non avrei mai neppure sospettato. Che rispondevano al mio entusiasmo per Dylan con stupita, quasi grata ammirazione. E veniva fuori un altro aspetto dell'America: che non è la vera America, ma è America anche quella. La venerazione per la "vecchia" Europa, il sentirsi di molti americani - specie del New England - profondamente europei. Avrei più tardi imparato che a quell'atteggiamento corrispondono filoni precisi, e venerabili, della cultura accademica americana, come ne esistono altri che sono, al contrario, pesantemente e ferocemente antieuropei.

Debbo questo ampliamento delle mie conoscenze, questa caduta di vecchi schemi ottusi all'interno di un modo di giudicare un intero mondo, anche a Joan Baez e a Bob Dylan. Sono solo canzonette, come direbbe il nostro Edoardo Bennato. il fatto è che le canzonette sono una cosa seria. Ecco qua. Alcuni mesi or sono, in seguito a qualche mia uscita contro la guerra in Iraq, mi sono buscato dell'antiamericano viscerale. Ora qualcuno, leggendo queste righe, dirà che sono un fanatico dell’America. La verità è sempre talmente complessa...

 

BONO DEGLI U2: CHI È PER ME GESÙ

Bono degli U2: il rock? 

Meglio la fede cristiana (e la lotta contro la fame)

«In ogni uomo arriva il periodo di vita

in cui inizia

a riflettere

su se stesso, sul fatto che un terzo

della popolazione soffre la fame

- e che tu sei

un cantante

superpagato. Ma sono

queste contraddizioni che generano nuova vita. E mi affido

a Dio. Se cerchi Dio, cercalo tra i più poveri, lì lo troverai.

Sono credente

e voglio portare

un po' di Paradiso

su questa terra»

A Dublino, in Earl Street North, c'è un negozio di articoli acustici: il Bonavox Hearing Aid Store. Un giorno, Derek Hanvey detto "Guggi" del gruppo punckettaro The Villane e Paul Hewson, voce solista degli Hype, passarono di fronte alla piccola vetrina in cui erano esposti cornetti acustici. Guggi guardò l’insegna ed ebbe una folgorazione: ricordando che bona vox in latino significa "bella voce" scelse di affibbiare questo soprannome al suo amico Paul. Il giovane Paul Hewson, gradì il nomignolo abbreviandolo in Bono, pseudonimo con cui di li a pochi anni, diverrà famoso in tutto il mondo.

Pochi mesi dopo La passeggiata in Earl Street North, il cantante dei Radiators, Steve Rapid propose agli Hype di cambiare il nome del loro gruppo, scegliendo un nuovo sostantivo dal doppio significato: U2. U2 sono gli aerei spia americani utilizzati nella Seconda guerra mondiale, ma la fonetica inglese, "iu tu" può essere interpretata anche come "you too", "anche tu".

Anche tu sei partecipe di tutto quello che sta accadendo, anche tu porti le responsabilità delle catastrofi che attanagliano il mondo, anche tu hai la possibilità e il dovere di combattere per un mondo più giusto e dignitoso, anche tu non ti devi tirare indietro... Il binomio U2-Bono è oramai consolidato sia nel mondo musicale che in quello dell'impegno

umanitario.

 

Abbiamo incontrato Bono durante una pausa nella tournée mondiale dell'ultimo album pubblicato, How To Dismantle An Atomic Bomb.

 

Lei si dice contrario al mondo delle corporazioni, delle multinazionali, ma il suo gruppo nel 2004 ha sponsorizzato l'uscita dell’iPod della Apple. Non c’è una contraddizione di fondo?

 

«La musica deve andare al passo con la tecnologia e non può rimanere al palo, pena la sua sclerotizzazione. Inoltre noi non sponsorizziamo l'iPod in se stesso, ma l'U2iPod, che è anche un nostro prodotto perché contiene le nostre canzoni».

 

Cosa rappresenta la musica per lei?

 

«La musica è il mio modo di parlare

al mondo, ai giovani. Non dimenticherò mai le mie origini: il buco in cui a 17-18 anni

suonavamo, il fatto che al di là degli stadi, del mondo in cui vivo ora, c'è un altro mondo fatto di povertà, miseria, disperazione».

 

Lei è ricco, famoso, ma al tempo stesso non ha mai dimenticato le sue umili origini. Chi vuole rappresentare?

 

«Rappresento quei Paesi che per pagare gli interessi dei loro debiti non possono finanziare scuole, ospedali, istituti di ricerca. Rappresento quei milioni di

persone che sono malate di Aids e che muoiono di fame».

 

Perché secondo lei gli Stati Uniti e gli stati più ricchi dovrebbero finanziare la ricerca sul vaccino dell'Aids e appoggiare le aziende farmaceutiche che producono farmaci inibitori del virus a prezzo inferiore?

 

«Perché è una questione di sicurezza mondiale e perché combattendo questa battaglia che, a differenza di altre può essere vinta, l'immagine dell’Occidente può venire riabilitata agli occhi del Terzo Mondo.

Viviamo in un mondo dove ogni giorno 6.500 africani muoiono a causa di una malattia che potrebbe essere debellata. Riportare un minimo di giustizia: è questo il risultato che mi

prefiggo di ottenere».

 

Ha fiducia nei politici?

 

«Sono cresciuto in un mondo che odiava e che non aveva fiducia nei politici. Quando cresci in una famiglia povera, in un quartiere emarginato e dimenticato, non credi più alla politica. Vorresti distruggere tutto. Ma oggi ho in loro maggiore fiducia perché la facilità delle

comunicazioni, i mass media meno ossequiosi, costringono i politici a mostrare i fatti, oltre che le parole».

 

Questa è la sua opinione, quella dell'opinione pubblica forse è meno ottimistica...

 

«Ed è qui che dobbiamo lavorare: la gente non ti darà un centesimo se non è sicura che i soldi che elargirà vadano a buon fine. Oppure te li darà una volta, ma poi chiuderà la sua borsa... La gente sa che la corruzione è un grande problema in Africa. E per questo che non chiediamo soldi alla gente se non siamo sicuri dove questi soldi vadano a finire. Io sono sicuro che la gente è generosa. Prendiamo gli esempi di interventi che hanno avuto successo, come in Senegal, in Mozambico, Tanzania. Qui i governi hanno accolto con favore le richieste di aiuto e si sono prodigati per creare servizi utili alla popolazione».

 

Eppure molti governi africani, come quello etiope, sudanese, ugandese, ruandese, non dimostrano certo di voler ripristinare la democrazia o combattere la corruzione.

 

«Il governo britannico ha bloccato ogni aiuto ad alcuni di questi governi. Ma sono anche dell'opinione che gli aiuti umanitari non debbano essere subordinati allo stabilimento delle regole democratiche in uno Stato. Chi è in difficoltà deve avere la possibilità di essere salvato e questo è il nostro compito».

In che modo il suo impegno umanitario si è radicato in lei divenendo la sua filosofia di vita?

 

«È la disperazione di un padre etiope che mi ha supplicato di prendere con me la sua bambina di pochi mesi affinché sopravvivesse alla carestia, che mi ha convinto di

dedicarmi alla causa umanitaria. In lui ho visto Gesù Cristo».

 

Chi pensa sia Gesù?

 

«Penso che sia il figlio di Dio. Lo penso, per strano che possa sembrare».

 

Come si sviluppa il suo rapporto con la religione?

 

«In ogni uomo arriva il periodo di vita in cui inizia a riflettere su sé stesso, sul fatto che un terzo della popolazione soffre la fame e che tu sei un cantante di un gruppo superpagato. Sono contraddizioni, come forse lo è la nostra sponsorizzazione all'U2iPod o la mia amicizia con Soros o Bill Gates. Ma sono queste contraddizioni che generano nuova vita. E allora mi affido a Dio. Penso che Dio non è definibile dall'uomo. È più grande,

più vasto, più profondo di qualunque pensiero l'uomo possa avere su di lui. Se cerchi Dio, cercalo tra i più poveri, lì lo troverai. Sono credente e voglio portare un po' di Paradiso su questa terra».

 

Lei ha incontrato Giovanni Paolo II. Cosa ricorda di quell'incontro?

 

«Grande uomo, grande religioso. Quando ci siamo visti abbiamo parlato dell'impegno umanitario, del debito pubblico, della guerra in Iraq e in Afganistan. Lui si è fatto fotografare con i miei occhiali che gli ho regalato ed io porto la copia del suo rosario; quella originale l'ha voluta tenere mia moglie Ali. Mi ha anche fatto i complimenti per i nomi dei miei figli, tutti nomi biblici: Eve, Jordan, Elijah e John [Eva, Giordano, Elia e Giovanni, ndr]».

 

Come le è venuta l'idea di sventolare La bandiera bianca al Live Aid del 1985?

 

«Sono irlandese e nell’Irlanda del Nord si sta combattendo un vero e proprio conflitto che ha causato migliaia di morti. So cosa significa vivere in un Paese diviso e in guerra. La bandiera bianca drenata da ogni colore, simbolo di purezza e di resa, cioè di pace perfetta, mi ha permesso di esprimere ciò che volevo dire con le mie canzoni in altro modo, forse più plateale e visibile a chiunque».


Lei si reputa un politico, un musicista, un operatore umanitario o semplicemente un idealista?

 

«Mi piacerebbe considerarmi un operatore umanitario che fa della musica. A destra mi criticano perché mi considerano di sinistra, viceversa a sinistra mi criticano perché "flirto" con politici di destra come Bush o con i repubblicani americani. Ma io non mi interesso di politica. Mi interessa aiutare chi soffre, gli ultimi, per dirla con parole cristiane. Quello che è accaduto negli anni Ottanta, è stato disastroso perché tutto si muoveva in base alle ideologie, sia di destra che di sinistra. Oggi non hanno più senso. E’ chiaro che il marxismo-leninismo, nato sull’onda della Rivoluzione Industriale dell’Ottocento, non può più essere applicata al mondo odierno, anche se questa idea venisse rivisitata. Ma anche il liberalismo, con l’economia capitalista, è ormai desueta e sorpassata».

 

Allora cosa ci rimane?

 

«La religione. Nella Bibbia ci sono più di 2.100 versetti che parlano della povertà. Le folle che Giovanni Paolo II portava ogni volta che si muoveva erano ben più numerose di quelle che possono mobilitare i concerti degli U2 o di qualsiasi gruppo musicale sulla scena mondiale».

 

Cosa pensa di Bush? Recentemente lui l'ha elogiata dicendo che in lei apprezza il fatto che utilizza la sua celebrità per compiere opere buone...

 

«Ha accettato di aiutare la causa per cui l’organizzazione da me fondata, la Data, si batte, facendo approvare al Congresso americano una legge che stanziava 485 milioni di dollari per la lotta all’Aids. È stato il maggior programma di cura e prevenzione dell’Aids mai lanciato in Africa ed ha avuto uno straordinario successo, ma è solo l’inizio. I governi occidentali non stanziano sufficienti fondi per la lotta a quella che chiamo la nuova lebbra del XXI secolo che è l’Aids o non stanziano fondi per finanziare l’acquisto di zanzariere per evitare il propagarsi della malaria. Tutto questo Dio non l’accetterebbe. E se per combattere l’Aids, la malaria, la fame debbo farmi fotografare con Bush, ebbene, io mi faccio fotografare con Bush».

 

BONO E LA BIBBIA

BONO e gli U2: OLTRE LA MUSICA

di Maurizio Caverzan, pubblicato su Tracce Feb.2001 a cura di Marco Parravicini

Si diceva una volta che il rock era la musica del diavolo. E forse qualcosa di vero c’era. Ma oggi la più grande rockstar del momento scrive prefazioni al libro dei Salmi: lui è un quarantenne dublinese che si fa chiamare Bono ed è il leader degli U2, forse la band di rock & roll più inventiva dell’ultimo ventennio. Non che la loro musica si possa targare, al contrario, "rock di dio". E per fortuna. Ma nel novembre ’99, alla consegna degli Mtv Awards Europe avvenuta a Dublino, si è assistito a un siparietto dai risvolti simbolici. Toccò proprio a Mick Jagger, leggendario leader dei Rolling Stone, consegnare il riconoscimento a Bono Vox. Il quale, davanti al pubblico della sua città, si concesse una battuta significativa: "Questo è il diavolo che premia dio". Niente più che una battuta, appunto. Ma rivelatrice della consapevolezza che la musica degli U2 contiene una carica a suo modo eversiva. Testi, interviste e scritti di Paul David Hewson, questo il vero nome di Bono, documentano la sorprendente testimonianza di uno spirito religioso e anticonformista: "Spiegare la fede è sempre stato difficile. Come si fa a spiegare un amore e una logica nel cuore dell’universo quando il mondo è così pieno di guasti? Spiegare la fede è impossibile... Visione più che visibilità... Istinto più che intelletto".

Domande e intuizioni di cui sono piene anche le canzoni del gruppo di Dublino, città dove la guerriglia tra cattolici e protestanti è andata avanti per decenni e dove la convivenza creativa dei quattro compagni di scuola del liceo Mout Temple ha rappresentato e rappresenta una piccola grande anomalia. Oltre a Bono, anche il batterista Larry Mullen junior è cattolico, mentre il chitarrista, The Edge (Dave Evans), è protestante, più agnostico il bassista Adam Clayton. Paul David ha imparato la tolleranza e la comprensione tra diversi in famiglia. Ecco come ha raccontato la sua infanzia con i genitori, prima che la madre morisse quando lui aveva dieci anni. "Mia madre era protestante, mio padre cattolico, il fatto sarebbe stato irrilevante ovunque, salvo che in Irlanda... Dopo essere andato a messa in cima alla collina di Finglas, nella zona nord di Dublino, mio padre aspettava fuori della piccola cappella della chiesa anglicana d’Irlanda ai piedi della collina, dove mia madre aveva portato i suoi due figli... Io mi tenevo sveglio pensando alla figlia del pastore e lasciavo vagare lo sguardo per il technicolor delle vetrate. Quegli artigiani cristiani avevano inventato il cinema... luce proiettata attraverso il colore per raccontare la loro storia". In quegli anni la famiglia Hewson vive a Ballymon, uno dei quartieri più poveri di Dublino e Paul David frequenta il Mout Temple. Qui incontra Alison che qualche anno più tardi diventerà sua moglie. E sempre in questa scuola, oltre alla famiglia, nascono gli U2, fondati a 17 anni. Un anno dopo il gruppo incide il primo 45 giri, Paul David diventa Bono e, nel 1980 con il primo album (Boy) la popolarità del gruppo varca i confini dell’Irlanda.

Elevation tour
Il 24 marzo prossimo da Miami, salvo problemi di sicurezza, partirà l’"Elevation tour 2001", il tour mondiale del gruppo che dovrebbe arrivare in Italia tra giugno e luglio. Elevation è il terzo brano di All that you can’t leave behind (Tutto quello che non puoi lasciare indietro) l’ultimo album del gruppo che ha venduto quasi sette milioni di copie in tutto il mondo. Il titolo del disco indica la strada del ritorno alle radici, il tentativo di salvare le cose più care, gli amici. Piccolissima e mimetizzata su un lato della cover che ritrae i quattro componenti del gruppo all’aeroporto Charles De Gaulle di Parigi si legge la scritta J 33-3. È una citazione che nasconde il riferimento al versetto 3 del capitolo 33 di Geremia: "Chiedete a me e io risponderò e vi dirò cose grandi e segrete che non avete mai conosciuto". Probabilmente chi andrà ai concerti dell’"Elevation tour" ascolterà Forthy, il brano ispirato al salmo 40 ("Con pazienza ho atteso il mio Signore/ Si è chinato su di me per ascoltare il mio grido/ Mi ha fatto uscire dal pozzo/ Uscire dal fango di questa terra...") che dal 1983, quando incisero War, è il pezzo di chiusura di quasi tutti i loro concerti. "Salmi e inni sono stati il mio primo assaggio di musica ispirata" scrive ancora Bono. "Mi piacevano le parole, ma non ero sicuro delle melodie, con l’eccezione del Salmo 23, Il Signore è il mio pastore. Ricordo che venivano biascicati e cantilenati, più che cantati. Eppure, in uno strano modo, mi hanno preparato all’onestà di John Lennon, alla lingua barocca di Bob Dylan e Leonard Cohen, alla gola spiegata di Al Green e Stevie Wonder. Quando ascolto questi cantanti, mi ricongiungo a una parte di me per la quale non ho spiegazioni... la mia anima, immagino. Parole e musica" continua Bono "hanno fatto per me ciò che solide, addirittura rigorose argomentazioni religiose non sono mai riuscite a fare, mi hanno introdotto a Dio, non alla fede in Dio, piuttosto a un senso tangibile di Dio". Questo è Bono. Non che la faccenda in sé modifichi formule e contenuti dell’universo rock. Anzi. Tra i sacerdoti della materia, critici e intellettualini on the road, il cristianesimo di Bono Vox suscita ironia, disappunto, imbarazzo. Quasi sempre viene espunto dalle recensioni, dalle cronache dei concerti. I testi sono poco considerati, quasi mai citati. La critica passa ai raggi x le sonorità, l’intreccio degli strumenti, le stratificazioni ritmiche curate da Brian Eno e Daniel Lanois, autori di molte canzoni del gruppo irlandese, ma la terza dimensione della rockstar più atipica e anticonformista del momento rimane in penombra.

La strada giusta
Per niente bigotto, moralista o spiritualeggiante, non ha guardie del corpo e non ama farsi scarrozzare in limousine nelle tournée. Per raccogliere l’invito all’ultimo Pavarotti & Friends ha rifiutato il volo privato e si è presentato con The Edge e Brian Eno dopo un lungo viaggio su aerei di linea. "Un tempo l’idea che le Scritture pullulino di ladri, assassini, codardi, adulteri e mercenari mi spaventava, adesso è fonte di grande conforto". Della sua musica dice: "Il pop è fatto per dire alla gente che tutto va bene, il rock afferma il contrario, ma anche che si può cambiare". E basta leggere i testi di Wake up dead man (Svegliati uomo morto), o di Grace, per cogliere il conflitto tra un mondo caotico e la possibilità di ritrovare la strada giusta. E capire anche da dove nasce l’impegno civile di Bono. Anche Alison, sua moglie, ora in attesa del quarto figlio, non è esattamente quella che s’immagina la donna di una grande rockstar. Impegnata nel Chernobil Children Project, va spesso a Chernobil e si dedica all’accoglienza di bambini malati. Nel 1985, sposati da poco, marito e moglie andarono a lavorare in un campo di pronto intervento in Etiopia a contatto diretto con la denutrizione, l’abbandono, la miseria più sconvolgente. "In quei momenti pensi che non dimenticherai mai - dice il cantante - poi invece dimentichi e ritorni a fare l’artista. Per me era inaccettabile".
Per promuovere Jubilee 2000, la campagna per la cancellazione del debito dei Paesi poveri, ha incontrato tutti i potenti della terra, da Rockfeller a Clinton, dal primo ministro inglese Tony Blair al segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan. Quando fu ricevuto da Giovanni Paolo II gli regalò i suoi occhiali da sole e all’uscita dall’udienza confidò: "Abbiamo un Papa molto funky". L’anno scorso di questi tempi al Festival di Sanremo Jovanotti rivolse il suo rap Cancella il debito a D’Alema, scatenando un putiferio. Due giorni dopo arrivò Bono che, prima di cantare The ground beneath her feet (La terra sotto i suoi piedi) scritta con Salman Rushdie, scandì in italiano: "Signor Berlusconi, aiuti il signor D’Alema ad aiutare i Paesi poveri". Tutti zitti e fine delle polemiche.

Quattro ragazzi
Nell’ottobre scorso ha consegnato a Kofi Annan una petizione firmata da 21 milioni di persone in favore dei Paesi poveri. "Ora la salvezza del mondo è nelle mani di gente più qualificata di me" ha detto rispondendo alla provocazione del Times che aveva titolato "Can Bono save the third world?". Qualche giorno più tardi è uscito l’ultimo album. Walk on, il brano numero quattro, è dedicato a San Sun Kyi, la donna leader dell’opposizione al regime militare della Birmania, già premio Nobel per la pace nel 1991. E in Birmania il disco degli U2 è vietato: chi lo ascolta rischia la galera.
Qualche settimana fa il padre di Bono, Bobby, ha compiuto 75 anni e lui ha invitato tutti gli amici a festeggiare il suo vecchio al Clarence hotel di Dublino, un grande albergo di sua proprietà. Ma al mattino, per dargli il buongiorno, gli aveva fatto trovare i muri della città tappezzati da giganteschi manifesti con l’augurio "Buon compleanno, papà".
Questo è Bono, leader degli U2, "una band che ha sempre guardato oltre la musica". Una band che sotto le canzoni nasconde "quattro ragazzi in una stanza piena di malinconia".

Grace
Grace, she takes the blame/ She covers the shame/ Removes the stain/ It could be her name/ Grace, it’s a name for a girl /It’s also a thought that could change the world/ And when she walks on the street/ You can hear the strings/ Grace finds goodness in everythingGrace, she’s got the walk/ Not on a ramp or on chalk/ She’s got the time to talk/ She travels outside of karma, karma/ She travels outside of karma/ When she goes to work you can hear the strings/ Grace finds beauty in everythingGrace, she carries a world on her hips/ No champagne flute for her lips/ No twirls or skips between her fingertips/ She carries a pearl in perfect condition/ What once was hurt, what once was friction/ What left a mark, no longer stings/ Because Grace makes beauty out of ugly things/ Grace finds beauty in everything/ Grace finds goodness in everything.

Grazia
Grazia, lei si prende la colpa/Lei nasconde la vergogna/Lei rimuove l’onta/Potrebbe essere il suo nome. Grazia è il nome per una ragazza/È anche un pensiero che ha cambiato il mondo/E quando lei cammina sulla strada/Ne puoi ascoltare gli archi/La Grazia vede la bontà in ogni cosa/Grazia, lei possiede il cammino/Non in salita o sul gesso/lei ha il tempo per parlare/lei viaggia fuori dal karma/ lei viaggia fuori dal karma/Quando va a lavorare ne puoi ascoltare gli archi/La grazia vede la bontà in ogni cosa/Grazia, tiene il mondo alla propria mercè/Nessun bicchiere da champagne tra le sue labbra/Nessun saltello o roteazione fra le sue dita/Lei custodisce una perla in perfette condizioni/Ciò che un tempo era dolore/ciò che un tempo era disaccordo/Ciò che ha lasciato un segno/Non ferisce più/poichè la grazia fa scaturire la bellezza dalle cose orribili/La grazia vede la bellezza in ogni cosa/La grazia vede la bontà in ogni cosa.

(Traduzione a cura di Tania Pais-Becher)

 

BONO E NICK CAVE SULLA BIBBIA

Anche la Bibbia fa pop

 

Bono scrive la prefazione al Libro dei Salmi, Nick Cave al Vangelo di San Marco. E il bisogno di interiorità continua la sua irresistibile ascesa.

 

di EMANUELA ROSA-CLOT su Panorama

 

«Parole e musica fecero per me ciò che solide, rigorose argomentazioni religiose non riuscirono mai a fare. Mi introdussero a Dio, non alla fede in Dio, piut­tosto a un senso tangibile di Dio».

 

Chi par­la è l'irlandese Paul David Hewson, meglio conosciuto come Bono, leader degli U2. Un nome al di sopra di ogni sospetto di confor­mismo spiritualista da fine millennio. Anche perché nel terzo album, War, dell'83, la rock band di Dublino aveva inciso un brano, 40, ispirato al Salmo 40, quello che dice; «Fino a quando la fame, fino a quando l'odio».

 

Bo­no ricorda queste cose nell'introduzione che ha scritto per il Libro dei Salmi, che sarà pubblicato nel 2000 dalla casa editrice Ei­naudi all'interno del progetto «I libri della Bibbia», ognuno presentato da un autore di­verso. Per restare in campo musicale, Nick Cave, australiano, poeta del rock maledet­to, ha introdotto il Vangelo di San Marco. Il neurobiologo inglese Steven Rose com­menta la «Genesi», lo scrittore israeliano David Grossman l' «Esodo», Sebastiano Vassalli la «Lettera ai Romani».

 

Questo affollarsi di personaggi intorno al testo sacro fondante della cultura occiden­tale indica che la religiosità si conferma sem­pre di più come parola chiave per il Duemi­la. È già in videocassetta un delizioso film, che rappresenterà l'Italia agli Oscar: Fuori dal mondo, dove Margherita Buy è una gio­vane suora. Giovanna d'Arco di Luc Besson è la storia di questa controversa prota­gonista dell'Europa premoderna. Ma va for­te anche la spiritualità in senso lato: dopo il successo di Sesto senso, dove il bimbo pro­tetto da Bruce Willis parla con i morti, il re­gista indiano M. Night Shyamalan è già al lavoro su un nuovo thriller dai toni sopran­naturali.

 

«André Malraux, scrittore francese, diceva che il prossimo secolo sarebbe stato caratterizzato dalla ricerca della spiritualità. Tanto più vero ora che, venute meno le ideologie, l'uomo fa i conti con le proprie profondità» conferma Enzo Bianchi, fondatore e priore della comunità monastica di Bose, in Piemonte, che ha scritto Le parole della spiritualità(Rizzoli), un lessico della vita interiore

rivolto a credenti e non credenti.

 

«Sono convinto che nella società attuale, massificata e tecnicizzata, che ha         superato bisogni primari come quello della casa, del ci­bo e del vesti­to, emerge sempre di più il bisogno spirituale. Per questo ho scritto un libro in reazione al consumismo di spiritualità, new age ed esoterica, che signi­fica disimpegno e orizzonte individuale.

Anche lo stesso Buddismo, qui da noi, è vis­suto in maniera narcisistica, nessuno persegue l'ascesi. lo parlo di una spiritualità che co­struisce l'uomo che si impegna nella storia, che parte dal Cristianesimo ma comprende la cul­tura occidentale europea. Spiri­tualità vuol dire riprendere a impa­rare a pensare, a decidere, a fare di­scernimento delle cose, recuperare autenticità, franchezza e libertà. Il mio libro vorrebbe rispondere a una domanda: ‘Che cosa posso sperare?’».

 

Una bella domanda da inizio millennio.

 

BRIAN 'HEAD' WELCH

La mediatica conversione all'americana del rocker Welch. 

Brian 'Head' Welch 

La mediatica conversione all'americana del rocker Welch. 
Dal "Nu Metal" dei Korn al Vangelo. 'Ero sprofondato nella droga. Con Dio sono rinato' 
Ma ora la sua fede diverrà un reality. 

Da Avvenire del 27 marzo 2005 
Per milioni di giovani è stato, ed è, un'icona. Un'icona se non «maledetta» - come Kurt Cobain o Marilyn Manson -sicuramente negativa ed epocale, estrema, impastata di rock metallico, di ribellione, di birra a fiumi, di droga, di normalità impossibile. Brian "Head" Welch, 35 anni, era chitarrista dei Korn, la band californiana che nel 1994 ha dato inizio a un nuovo genere musicale, il "Nu Metal" (new metaI, nello slang americano): sette album, tra cui un Greatest Hits, milioni di copie vendute, concerti in ogni parte del mondo fra cui uno, oceanico, a Woodstock. 

Insomma una vita da star, quella di Welch. Almeno fino a qualche mese fa, quando la sua strada e quella dei suoi quattro storici compagni si sono inevitabilmente divise. Il 22 febbraio, l'annuncio sul sito ufficiale dei Korn: «Brian ha scelto Cristo come salvatore, e da oggi in poi dedicherà la sua musica al Signore Gesù». Via internet e dagli schermi di Mtv la notizia è dilagata, scioccando i fan del sodalizio e l'ambiente musicale internazionale, che hanno reagito prima con incredulità, poi con palpabile violenza, con una sorta di ostracismo, quasi a espellere un corpo divenuto estraneo, incomprensibile, incompatibile. Ma Welch, cristiano rinato" nella Valley Bible Fellowship di Bakersfield, comunità battista della CaIifornia. appare davvero rinato: un giovane uomo finalmente sereno e desideroso di partecipare a tutti il suo cambiamento. Si è fatto tatuare la scritta "Matteo 11,28" sul collo (riferita ai versetti <>) e la parola ‘Gesù’ sulla mano destra. Il 5 marzo 2005, in Israele ha ricevuto il battesimo nelle acque del Giordano, per mano dell’amico e pastore Ron Vietti. 

Fin qui, la storia di Welch potrebbe sembrare quella di uno dei numerosi" cristiani rinati" dell'America d'oggi, se non fosse che la conversione, per di più al cristianesimo, di una rockstar presenta un che di radicalmente eversivo nel sistema che di fatto egemonizza la cultura giovanile. Fatto sta che domenica 27 febbraio, presentato per la prima volta alla sua comunità e a una folla di 10 mila fans accorsi per ascoltarlo increduli, Welch si è gettato alle spalle tutto un mondo, con un'autoconfessione scolpita nella potente semplicità di parole dette a braccio, che sono la cronaca di un'esistenza riconquistata: «Credevo di avere tutto. Denaro, donne, tutto ciò che pensavo costituisse la vita. Ma non si può comprare la felicità. Ero dipendente dai sonniferi, dall'anfetamina. Avevo anche iniziato con la cocaina. 

Ma credo di aver attraversato tutto ciò per essere qui con voi, ora, a lodare Dio. Tutto accade per una ragione. E’ il Suo piano. Forse, Dio è stanco del modo in cui va il mondo». Parole candide, tipicamente battiste. «Ero impaurito, confinato nell'ombra. Poi ho incominciato a leggere la Bibbia. Poi sono venuto fra voi, e ho capito che Dio è reale, è tutto. Noi dobbiamo solo chiedere allo Spirito Santo. Ho chiesto al Signore: mostrami come smettere con la droga. E ho smesso. Lui è un Padre. Tutto appartiene a Cristo. Lui è la fine di tutte le nostre sofferenze. Ora sono in pace con me stesso e, da oggi, la mia esistenza sarà dedicata alla glorificazione di Dio e a mostrare al mondo quanto è divertente la vita». 

Mostrare al mondo. Ma come come? Con uno show, naturalmente. Anzi, con un reality show. Da buon americano, Welch ragiona pragmaticamente. E ha annunciato che darà vita, da casa sua, a un "grande fratello" in chiave cristiana, per far vedere in presa diretta come vive la propria giornata per Gesù. La trasmissione, ispirata al modello popolarissimo degli Osbourne sarà probabilmente trasmessa da Mtv e avrà per protagonista Welch, il quale sta anche pensando di lanciare una linea di «prodotti cristiani» per giovani (musica nonché t -shirts, cappellini, monili con versetti evangelici e frasi edificanti) insieme a un altro celebre cristiano rinato, una star hollywoodiana: il 39enne attore Stephen Baldwin, il più giovane dei fratelli Baldwin, ex cognatino di Kim Basinger. 

Domenico Montalto

 

BRUCE SPRINGSTEEN

Una spiritualità intensa e avvolgente

I PERCORSI DI LIBERAZIONE DI BRUCE SPRINGSTEEN 

Sa cantare con metafore forti e drammatiche la condizione umana. L'amore è l'elemento di redenzione, il punto di forza della speranza. 

di Antonio Spadaro

Le luci si spengono, l'armonica graffia il palco e l'anima dei fans di Bruce Springsteen accorsi in massa all'inizio di giugno a Bologna, Roma e Milano per i concerti legati all'ultimo suo disco: Devils & Dust (Diavoli e polvere). In un italiano essenziale ma efficace Springsteen chiede di non applaudire, e di non usare il flash durante il concerto: «Ho bisogno di molto silenzio per dare il meglio di me». Vuole un'atmosfera calda, di grande e intensa concentrazione. Da solo, senza la sua band, il Boss - com'è definito dagli appassionati - crea una comunicazione forte col suo pubblico. Ma come "leggere" l'ispirazione di questo grande musicista rock? 

Immaginario religioso

Nell'ottobre del 2002 sulla Civiltà Cattolica pubblicavo un articolo dal titolo "La risurrezione" di Bruce Springsteen, in cui avevo articolato il senso dell'ispirazione biblica del musicista statunitense. Il giornalista Beppe Severgnini lo intervistò per la Rai e il Corriere della sera alla vigilia del suo concerto di Bologna, citando alcune frasi centrali di quel mio articolo. Ecco la sua risposta di conferma: «Io credo che nei primi dodici anni accumuliamo le immagini che ci accompagneranno per tutta la vita. Io frequentavo una scuola cattolica. L'anima non è un'astrazione per un bambino. È molto reale. La prendi alla lettera. E l'immaginario cattolico, così come la Bibbia, è un modo straordinario di esprimere il viaggio dell'uomo, dello spirito umano. Io ritorno a quelle immagini d'istinto».

A proposito del suo disco The Rising, d'altra parte, Springsteen ha affermato in un'intervista alla rivista rock Uncut: «Io penso che le canzoni facciano appello a una sovrapposizione sfumata di queste idee: il religioso e la vita quotidiana devono in certo qual modo fondersi», per cui egli afferma di muoversi «verso un immaginario religioso per spiegare l'esperienza». Qui intendo far notare proprio come l'ispirazione del Boss sia ricca di figure, termini e simboli di significato religioso e con una forte connotazione di liberazione. Il suo immaginario fa frequente riferimento alle immagini, ai simboli della fede cristiana e alle storie della Bibbia, fino alla citazione letterale. Nel 1980, del resto, disse: «Ho letto la Bibbia. Ho provato a leggerla per un po' di tempo un anno fa. Era qualcosa di grande. È affascinante. Grandi storie». L'articolazione dell'immaginario biblico-cristiano è tale che prescindere dalla consapevolezza della sua presenza significa non cogliere appieno il senso della sua produzione musicale. 

Daniel Cavicchi per la Oxford University Press ha pubblicato uno studio accademico sul significato della passione dei fans di Springsteen per il loro "idolo". Giunge, tra l'altro, a questa conclusione: "Esiste un legame stretto tra l'appassionarsi per il Boss e la conversione di tipo religioso. Uno dei motivi per cui ciò accade è che «le canzoni di Springsteen contengono molti riferimenti alla rinascita spirituale e al rinnovamento interiore». Dunque la sua musica sarebbe religiosa in radice e richiamerebbe per sé un'attenzione di tipo religioso. Ma rileggiamo alle parole del Boss. Egli ha affermato di tornare all'immaginario cattolico «d'istinto». Non ci si torna pensandoci. Può essere amato o odiato, non importa. Ci si torna d'istinto e l'istinto non fa distinzioni di questo tipo, tanto meno di tipo ideologico. 

Quando e come queste immagini religiose appaiono più di frequente? Quando si tratta di esprimere un senso di "liberazione", che a volte diviene una vera e propria redemption. Ma liberazione da cosa? In quali termini? Cercherò di fare un piccolo catalogo di queste "liberazioni" in cui è attivo l'immaginario religioso e che possono servire per una lettura attenta della sua produzione. Gli album del Boss ritraggono un mondo reale e crudo, quello di gente stretta tra il sogno americano e il crudo quotidiano della periferia. Il punto di partenza sono le "baracche esistenziali" piantate nella terra d'origine di Springsteen, il New Jersey popolato di ceto medio, e di gente alla deriva. 

In The Wild, the Innocent & the "E" street shuffle, questa gente è qua e là definita come: santi, profeti e anime perse, tutte definizioni di marca religiosa. Il desiderio di liberazione è un perno fondamentale delle sue canzoni. In New York City Serenade, ad esempio, Springsteen canta: «Scrollati allora, scrollati di dosso la tua vita di strada / scrollati di dosso la tua vita di città e afferra il primo treno». 

Così in Born ToRun (1975) egli incastra in modo cinematografico i simboli del mondo da cui proviene: gabbia, ribellione, fuga. La direzione è il Nord-Est, cioè Manhattan (Meeting Across The River e Jungleland), che diviene culla di sbandati e derelitti. La tensione espressa nella potenza dell'auto, nella magia della notte e nella direzione infinita della strada si muove verso una liberazione espressa facendo ricorso al vocabolario religioso. Springsteen infatti usa parole come faith (fede), redemption (redenzione), promised land (terra promessa), fino a invocare un saviour: che da queste strade si levi un salvatore. Ecco dunque lo spazio della dialettica tra realtà scura e terra promessa. È all'interno di questo spazio che si sviluppano le tensioni dei testi, generando un movimento di liberazione. 

Nel 1978 esce Darkness On The Edge Of Town. Nella canzone Adam Raised A Cain Springsteen canta il suo rapporto con il padre parlando di un peccato ereditato e del venire al mondo «pagando / per i peccati del passato di qualcun altro». Il mondo dei personaggi del Boss è cupo: ogni forma di grazia possibile si trova solo in badlands (bassifondi) e darkness (oscurità), per usare due delle tante metafore. La luce brilla soltanto se ci sono tenebre. Darkness On The Edge Of Town lascia l'uomo inchiodato alla propria condizione radicale, il peccato, ma la tensione, seppure orizzontale, è verso una redenzione: «Correremo / fino al mare / e laveremo questi peccati dalle nostre mani» (Racing in the street). «Sono un uomo», afferma ancora in The promised land, «e credo in una terra promessa».

Nel 1982, nell'album Nebraska, Springsteen sviluppa in termini simbolici un'implicita poetica del peccato, che egli accetta più facilmente della promessa del paradiso. Qui la presenza dei temi della scrittrice Flannery O'Connor, da lui molto amata, si fa decisiva. Scrive il Boss: «Le sue storie mi facevano pensare all'inconoscibilità di Dio e suggerivano una spiritualità tenebrosa che, a quel tempo, trovava risonanza con i miei sentimenti». La canzone My Father's House dice il ritorno di un figlio alla casa del padre e il modello implicito è quello del figlio prodigo. Ma la conclusione è amara: il padre si è trasferito o non c'è più e la casa resta «fredda e isolata / splendendo al di là di questa scura autostrada dove i nostri peccati / giacciono non espiati».

Una ragione in cui credere 

Il Boss sembra escludere un intervento dall'alto, perché l'unica direzione possibile è quella orizzontale, della strada: l'unico "perimetro" in cui all'uomo è dato vivere. Dopo tragedie della follia, immagini di vuoto, desolazione, galera ed esecuzioni, l'ultima preghiera è un urlo secco e acuto o, forse, solo un sibilo: «Liberami dal "nulla"» (State Trooper). Cos'è questo nowhere? Nel testo di Nebraska prende il nome di great void, grande vuoto; nel testo di Open all night invece ritorna alla lettera con in sottofondo una radio da cui si «sentono le stazioni gospel che si sovrappongono / anime perse che invocano da molto lontano la loro salvezza». Al "nulla" (che non è parola astratta, ma concreta: indica un non luogo) si affianca la domanda: «Che senso ha tutto questo?» (Tell us what does it mean?). 

La domanda sul senso, i termini "grande vuoto" e "nulla" si stagliano con potenza nella desolazione dei paesaggi e delle storie con la loro forza metafisica e insieme esistenziale. Il nowhere è una vita che non ha nulla su cui fondarsi. È la desolazione della noia, di una vita senza senso e ragioni. Nel 1984, nel disco Born In The Usa, il "nulla" diventerà «nessun posto dove andare» (nowhere to go), una stanza buia e un letto vuoto (Downbound train) e «noiose storie di giorni di gloria» (boring stories of glory days, Glory days). Nebraska riesce a fatica a distillare anche parole di compassione (cf Highway Patrolman) e speranza, come nelle lunghe strofe di Reason To Believe. Alla fine, nonostante le tragedie quotidiane, c'è sempre quella cieca, incomprensibile speranza che porta i personaggi a credere che «alla fine di ogni giorno guadagnato duramente c'è una ragione in cui credere».

Nel doppio album The River (1980), uscito tra Darkness e Nebraska, si avvertono brusche contrapposizioni di stati d'animo tra la mancanza di un centro e il desiderio di fuga tra strade e fiumi. I sogni prendono la forma di un'inquietudine inesauribile come in Hungry Heart. Il cuore non può essere «di pietra, svuotato, duro, freddo», come si legge in Two Hearts, che fa sentire il forte eco delle pagine del profeta Ezechiele, lì dove si parla del cuore di pietra e del cuore di carne. Springsteen alla fine strappa a sé stesso un desiderio: «E vorrei che Dio mi mandasse una parola / qualcosa da aver paura di perdere» (Drive all night). 

In Tunnel of love (1987) il "grande vuoto" prende le forme di una strada buia e della solitudine. L'immagine drammatica si trasforma in un'invocazione: «Stanotte il nostro letto è freddo / mi sono perso nell'oscurità del nostro amore / Dio abbia pietà dell'uomo che dubita di ciò di cui è sicuro (Brilliant Disguise). Più aperta è la canzone - racconto Cautious Man, il cui protagonista, Bill Horton, ha tatuata sulla mano destra la parola "amore" (love) e sulla sinistra la parola "timore" (fear) e «non fu mai chiaro in quale mano egli reggesse il suo destino». Leggiamo nella Prima lettera di Giovanni (4,18): «L'amore perfetto scaccia il timore». Un incubo notturno di fuga, frutto del suo cuore irrequieto, lo turba, ma alla fine resta un'immagine di luce: «Ai bordi del letto spostò i capelli del viso di sua / moglie mentre la luna illuminava la sua pelle così bianca / riempiendo la loro stanza con la bellezza della luce di Dio».

Leggiamo sempre nella Prima lettera di Giovanni (2,10): chi ama «dimora nella luce». La stessa immagine di luce appare in Valentine's Day, dove leggiamo che «lo splendore di Dio giungeva a illuminare tutto». L'attraversamento del Tunnel condurrà a un'apertura in Lucky Town (1992). Quella che in Human touch è ancora the gospel's rain, una pioggia che Massimo Cotto traduce con l'aggettivo "biblica", con un possibile riferimento al diluvio, qui è «una pioggia benefica» che lava il cielo (LuckyTown), in qualche modo battesimale. 

Living Proof, infine, è la canzone di Springsteen diventato padre, forse uno degli inni alla paternità più belli mai scritti: «Una notte d'estate in una stanza buia / entrò una minima parte della luce eterna del Signore / urlando come se avesse inghiottito la luna accesa. / Nelle braccia di sua madre c'era tutta la bellezza possibile / come le parole mancanti di una preghiera che non sarei mai riuscito / a inventare / in un mondo così duro e sporco così disonesto e confuso / in cerca di un po' della misericordia di Dio / ho trovato la prova vivente». Il disco successivo, The Gost of Tom Joad del 1995, è un disco acustico come Nebraska e di quell' album condivide i temi e gli accenti drammatici. 

Dal cielo vuoto alla risurrezione

Nell'agosto 2001 esce The Rising, dopo la tragedia dell' 11 settembre, per dire una condizione spirituale e un bisogno di "risurrezione"( la parola chiave è dunque nel titolo). In You're Missing anche «Dio va alla deriva in cielo», come a partecipare anch'egli di questa deriva di abbandono, e il pompiere di Into The Fire vede persino <«Ci dia forza la tua forza / ci dia fede la tua fede / ci dia speranza la tua speranza / ci dia amore il tuo amore». Così anche in My City of Ruins, che si apre con immagini che creano forti contrasti seguite dalla preghiera: «Prego di avere la forza, Signore / con queste mani, con queste mani, / prego di avere la fede, Signore / preghiamo per il tuo amore, Signore». 

In The Rising Springsteen non si ferma a un linguaggio afasico e riesce a infrangere la solitudine del monologo. Ma ha bisogno di un linguaggio differente. Deve spostarsi su un altro piano, quello del simbolo, dell'evocazione o dell'invocazione per rivolgersi a un "tu" scomparso sotto la polvere o a un "Tu" che possa dare qualcosa dall'alto: forza, fede, speranza, amore. Questo movimento linguistico ha permesso a Springsteen di dar vita a un discorso ricco di risonanze: il mistero assume una dimensione fisica e la fisicità assume una direzione spirituale, ulteriore. E la sfumatura è senza soluzione di continuità. E ciò che il teologo David Tracy definisce analogical immagination. 

Con Devils & Dust del 2005 Springsteen torna all'ispirazione di dischi come Nebraska e The Gost of Tom Joad. I materiali di composizione risalgono al 1997, ma l'effetto è più strutturato e potente, e nel tour dei concerti il musicista da solo sul palco lo comunica creando un' atmosfera intima e drammatica. L'immaginario dispiegato è quello della gloria e della disperazione (o della depravazione, come nella contestata e volgare canzone Reno) del suo Paese: dall'Indiana e dall'Ohio alla Pennsylvania e all'Oklahoma e al Texas. I personaggi senza volto e senza nome del disco sono nervi scoperti, poveri diavoli alla ricerca di una via d'uscita dalla polvere. 

La prima canzone, che dà il titolo al disco, vive in uno sfondo di guerra: «Ho il dito sul grilletto / ma non so di chi fidarmi / [...] Sento soffiare uno sporco vento / Diavoli e polvere / [...] La paura è una cosa potente / e, credimi, ti annerisce il cuore / prenderà la tua anima piena di Dio / e la riempirà di diavoli e polvere». La presenza di Dio indica una strada alternativa, una via di fuga, una terra promessa: «Ogni donna e ogni uomo / vuole una vita giusta / trovare l'amore voluto da Dio / con la fede che Lui comanda». Paure, fallimenti e naufragi, come quello dell'ubriaco sul pavimento di un bar, sono il tema di All The Way Home. Ma anche qui resta aperta una possibile strada verso casa. È la stessa strada di Long Time Comin': «Là dove il ruscello si abbassa melmoso / e la luna accarezza le stelle / il vento corre al sommo delle colline attraverso il mesquite / dritto nelle mie braccia. / [...] Il viaggio è duro e ho con me un mazzo di rose / e una mappa che ho appena disegnato». In un «mondo abbandonato da Dio» i toni cupi sembrano trovare una speranza nel ventre della propria donna nel quale egli sente qualcun altro che scalcia. La paternità assume la valenza di una redenzione possibile. 

Il viaggio è anche il tema di Black Cowboys, una splendida poesia. Il protagonista è un ragazzo, Raney: «Faceva i compiti e riponeva i libri / c'era un canale che dava un film western ogni giorno / […] Arrivò l'estate e le giornate si allungavano / Raney ancora non poteva fare a meno dei sorrisi di sua madre / e alla fine di ogni giorno si faceva largo fra i proiettili vaganti / verso il calore delle sue braccia». Ma «venne l'autunno» e la pioggia «cadde forte e scura sulla terra / cadde senza un suono». L'incantesimo si spezza. La madre si invischia con un tipo losco. Raney fugge in treno: «le città lasciarono il campo a prati fangosi / grano e cotone e un nulla senza fine a intervalli / Il sole rosso scivolò sulle colline dell'Oklahoma segnate dalle rotte e se ne andò / Si alzò la luna e scoprì la terra fino alle ossa». La tensione è verso l'alto, «dove l'amore sia l'unico suono / in alto su questa strada piena di ombre e di dubbi» (Leah). 

Una dolce benedizione

Un riscatto è sempre all'orizzonte, dove si trova una casa, un sogno, una donna, una luce: metafore di una sweet salvation (una dolce salvezza), a light that shines (una luce che brilla), a blessing at the riverhead (una benedizione alla fonte del fiume), come in Maria's bed. Oppure è il breve riposo su una strada accidentata e difficile, come in The Ritter, una canzone-film in cui su un sottofondo di chitarra e violini un pugile racconta a sua madre le battaglie perse sul ring e i suoi sogni andati in frantumi, cercando da lei conforto. L'amore è cifra di salvezza, come in Matamoras Banks, una delle composizioni più belle e struggenti del disco: «Sui fiumi di pietra e antichi letti d'oceano / cammino in sandali di corda con la suola di gomma / le tasche piene di polvere, la bocca piena di fredda pietra / La pallida luna apre la terra fino alle ossa / Quanto vorrei un tuo bacio, mia cara, per il tuo dolce amore ringrazio Dio». Senza questo contrasto di light e darkness, di luce e ombre, l'ispirazione di Springsteen non avrebbe spazio di espressione.

In un articolo apparso il 25 aprile 2005 sul New York Times l'intervistatore notava che «pensieri di redenzione, scelte morali e invocazioni a Dio» negli ultimi due dischi si sono fatti più presenti ed espliciti. Il Boss ha risposto: «Era qualcosa che ho allontanato per molto tempo, ma ci ho ripensato molto più tardi. […] Non sono un praticante, ma mi sono reso conto, col passar del tempo, che la mia musica è piena di immaginario cattolico […]" C'era un potente universo capace di sviluppare un forte immaginario (there was a powerful world of potent imagery) che diviene vivo e vitale e vibrante, ed era in grado contemporaneamente di suscitare paura e offrire una promessa di estasi e di paradiso. Era questo incredibile panorama interiore che si creava dentro di te. Crescendo, ho assunto un atteggiamento meno difensivo. Penso di aver ereditato questo particolare panorama e penso di poterlo ricostruire in qualcosa di veramente mio». Così, ecco, alla landa desolata fa da contrasto il «cielo di perla» dove «le stelle brillano», come nella commovente Silver Palomino, nella quale un ragazzo che ha perso la madre, vede tornare il suo spirito in un cavallo argentato che nessun recinto è in grado di imprigionare. La figura materna occupa cinque delle dodici canzoni del disco: si può dire che Devils & Dust sia un disco sui genitori e sui figli, ma in particolare un disco che ha nella figura materna un punto di riferimento centrale per l'ispirazione. 

In Jesus Was An Only Son la figura rappresentata è quella di Maria, madre di Gesù. Qui l'ispirazione religiosa si fa evidente, profondamente coinvolta nell'umanità del Cristo: «Gesù era un figlio unico / mentre saliva al Golgota / Maria, sua madre, gli camminava accanto / lungo il cammino che si tingeva del suo sangue / Gesù era un figlio unico / sulle colline di Nazareth / mentre leggeva i Salmi di David / ai piedi di sua madre. / Una madre prega: "Dormi bene, bambino mio, dormi bene / perché io sarò al tuo fianco / così che nessuna ombra, nessuna oscurità, nessuna campana a morto / possa insinuarsi fra i tuoi sogni questa notte"». Nel figlio di Maria, che sta per morire, Springsteen vede l'umanità dolente protagonista di tutte le sue canzoni. Ascoltando questa canzone viene in mente il film Passion, così come The Ritter ricorda Million Dollar Baby, a conferma dell'intensità non solo musicale, ma anche visiva dei testi di Sprinsteen. 

Devils & Dust vive, come gli altri dischi del Boss, di una dialettica di liberazione, di esodo. Resta una speranza, che però sa di dover combattere con ombre e oscurità. Una differenza rispetto alla sua visione precedente però è evidente: l'uomo è responsabile del proprio destino, non è solo la tragica vittima di peccati non suoi, come invece nel '78 aveva cantato in Adam Raised A Cain. Springsteeen convince perché sa cantare con metafore intense e drammatiche la condizione profonda di uomini che sono, secondo l'espressione di Cechov, «creature di caldo sangue e nervi»: un pugile, una prostituta, emigranti clandestini, un bambino che ha perso la madre, un soldato confuso. 

«Ciò che ho messo in questo disco è il racconto di alcune storie», spiega Springsteen. «Sono tutte canzoni che parlano di persone le cui anime sono in pericolo, e questo pericolo è determinato da dove si trovano nel mondo e dagli eventi che il mondo porta nella loro vita». L'amore, qui più che altrove, è l'elemento di redenzione, il punto di forza della speranza. 

In Matamoras Bank Springsteen parla di things of the earth e di things of heaven: cose della terra e cose del cielo. Un articolo di Connecting with Culture del London Institute for Contemporary Christianity ha affermato che queste "cose del cielo" permeano la Springsteen's big-heart, small-town spirituality. Ed è così: la sua è una spiritualità dal grande cuore che si sprigiona anche negli spazi angusti della periferia dell'impero fatta di campi arati e semi gettati. 

Antonio Spadaro 

USA, si parla di Springsteen e Bibbia

Inserita il 1/9/2005 alle 09:38 nella categoria: Rassegna Stampa

NEW YORK - Una prospettiva marxista su "Darkness on the Edge of Town" o ancora "Il Boss e la Bibbia" sono tra gli interventi accademici che saranno presentati ad un convegno universitario nel New Jersey, interamente dedicato al rocker Bruce Springsteen.

Saranno oltre 150 gli interventi di docenti provenienti da Stati Uniti, Italia, Svezia, Canada e Gran Bretagna per scoprire e analizzare ogni aspetto della leggenda del rock, a partire dal suo patriottismo alle sue idee sulla condizione esistenziale dell'uomo.

Il simposio, intitolato "Giorni di gloria: un simposio su Bruce Springsteen", si terrà all'università Monmouth di West Long Branch, nel New Jersey dal 9 all'11 settembre e sarà aperta al pubblico.

I saggi verranno presentati da un sacerdote luterano, da un teologo cattolico, da un analista di Wall Street ed infine dal preside in un istituto privato di Washington.

Ma perché dedicare un intero convegno proprio a Springsteen?

"Ha sempre mirato a qualcosa di più, allo studio di temi socio-culturali", ha riferito a Reuters Kenneth Womack, organizzatore del convegno e professore di letteratura inglese all'Università statale della Pennsylvania.

Womack, che ha citato i testi di Springsteen inerenti alle classi sociali, alla comunità e ad altri temi chiave dell'attualità americana, ha detto che l'opera del celebre rocker meritano un'analisi approfondita.

Oltre 500 persone sono attese al convegno, che prevede una piccola visita allo Stone Pony, locale in cui Springsteen debuttò.

da: Reuters Italia

E IL VATICANO FA L’ELOGIO DI SPRINGSTEEN
di Orazio La Rocca
La Repubblica, 3 marzo 2008


Bruce Springsteen, il Boss del rock per antonomasia, ma 
anche icona pop dalle profonde radici cattoliche. Lo rivela 
– un po’ a sorpresa – l’Osservatore Romano, il quotidiano 
della Santa Sede, che traccia un entusiastico profilo del 
grande cantautore statunitense elogiandone le “indubbie 
qualità di cantautore”, “lo spessore letterario dei testi delle 
sue canzoni e l’attenzione “ai valori cattolici”. Una “sensibilità” 
che – a parere del giornale – è legata ad una educazione
che Springsteen ha avuto “da una mamma italiana e da un 
papà irlandese”, rivelata cnhe da “America, il settimanale 
dei gesuiti statunitensi”.


L’occasione di parlare in termini così entusiastici di Springsteen 
arriva dalla pubblicazione di uno studio sul cantante americano,
Come un killer sotto il sole. Il grande romanzo americano 
(Sironi Editore) di Leonardo Colombati. L’Osservatore – 
notoriamente restio a “beatificare” gente dello spettacolo 
e, tantomeno, rockstar – con Springsteen va controcorrente. 
Del libro di Colombati – recensito da Stas Gawronski in termini 
lusinghieri – si parla nella pagina della cultura, dove la 
produzione musicale del Boss viene collocata in una cornice 
di “altro valore letterario” e, persino, religioso. Il quotidiano 
pontificio scrive, infatti, che la “matrice cattolica permea tutta 
la produzione del cantautore attraverso tutta la sua storia 
di artista e di cantautore”. In effetti, puntualizza – tra l’altro – 
il giornale della Santa Sede, “Springsteen, figlio di un irlandese 
e di una italiana, è in qualche modo “destinato” ad essere 
cattolico, e, oltre all’educazione familiare, uno dei fattori 
che lo ha maggiormente influenzato è stata la lettura dei 
racconti della scrittrice cattolica Flannery O’Connor 
che parlano di peccato e di redenzione, termini che troviamo 
nei  testi di Springsteen  che,  in 35 anni di carriera 
oscillano tra le “badlands” e le “promised lands”. E come 
“prova” l’Osservatore cita il “profondo senso umano e 
spirituale” che Springsteen ha sempre posto nelle sue canzoni, 
“dal rapporto col padre alle relazioni d’amore, dalla voglia di fuga 
e di riscatto al desiderio di liberazione, fino alla riscoperta della 
paternità e della famiglia”. Il giornale sorvola però sulla sua 
condizione di divorziato.

 

BYRD WILLIAM

William Byrd, note di giubilo per la prima Messa di Pasqua

di Andrea Milanesi

«Se salgo in cielo, là tu sei, e poni su di me la tua mano. Stupenda è per me la tua saggezza. Signore, tu mi scruti e mi conosci: tu sai quando seggo e quando mi alzo. Alleluia». 

È un vero e proprio "levar di tela" l'introito Et resurrexit scritto da William Byrd (ca. 1540-1623) per la prima Messa della Domenica di Pasqua: il canto di giubilo che può finalmente dar voce a quel liberatorio "alleluia" mai risuonato lungo tutto il periodo quaresimale. 
Profondamente coinvolto nelle tristi e alterne vicende religiose che contrassegnarono l'Inghilterra protestante ai tempi della regina Elisabetta I, Byrd non venne comunque mai meno alla propria identità di cattolico devoto e fervente, e le sue opere sacre svolsero, più o meno clandestinamente, la funzione di bandiera confessionale; al punto che tal Charles de Ligny venne addirittura rinchiuso nelle prigioni di Newgate solamente perché trovato in possesso di «certi libretti papistici scritti da William Byrd» (si trattava in realtà di alcune stampe dei suoi mottetti in lingua latina). 

Nel sesto volume dell'edizione completa delle opere del musicista inglese (cd pubblicato da ASV e distribuito da Sound and Music) l'ensemble vocale The Cardinall's Musick diretto da Andrew Carwood ha riunito alcuni tra i suoi più interessanti lavori di carattere spirituale, pubblicati tra il 1605 e il 1607. 

A fianco dell'imponente Passio secundum Johannem, sono proprio le pagine concepite per la Messa di Pasqua a fornire un saggio esemplare della raffinata scrittura compositiva di Byrd; attraverso l'apparente semplicità di un intreccio contrappuntistico sempre cesellato con grazia e plasticità, che si svela nel "suonar di trombe" evocato dalla trama quasi onomatopeica del già citato introitus Et resurrexit, nella drammatica sequenza Victimae paschali laudes (dove va in scena il duello tra la vita e la morte che culmina nella vittoria del Risorto), nell'efficace descrittivismo sonoro dell'offertorio Terra tremuit o nel portato più riflessivo e intimista del canto alla comunione Pascha nostrum. 

Testimonianze musicali di luce e di fede, chiamate a far breccia nel velato clima di terrore che adombrava la protestante Inghilterra elisabettiana: dove aderire alla "Chiesa di Roma" era realmente una questione di vita o di morte.

 

CHRISTIAN ROCK

di Neil Strauss

Canton (Texas).  La Sala della Rivelazione, di fronte al Sonic Drive-in Restaurant sulla Highway 19 è l'unico local in cui si ascolta musica dal vivo in una landa arida. E' aperto solo in sabato. Ingresso 7 dollarti, consumazione (bibita analcolica), 50 cents. Qualche sabato fa sul palco c'erano gli Anberlin, cinque guerrieri di strada dai 16 ai 26 anni, trasandati, sporchi, malnutriti, dalla battuta facile. Una tipica rock band. Ma gli Anberlin non sono proprio una rock band normale. Come tutti i gruppi che si esibiscono qui, i membri della band si definiscono cristiani e i brani rispettano regole precise, solo testi positivi e responsabili. Il sound però, un pwer pop tendente al punk, non stonerebbe in un rock club tradizionale. 

Il chitarrista Joey Milligan tiene a precisare che gli Anberlin non sono una 'christian band, ma siamo tutti cristiani'. Dai tempi degli Stryper, una devota band hair-metal che negli anni 80 bombardava i fan di Bibbie, molti hanno snobbato il Christian rock giudicandolo un astuto sistema di fare proselitismo a suon di chitarre elettriche. Ma è ormai uno stereotipo superato. Le nuove band attive sotto etichette cristiane, a differenza delle sbiadite imitazioni dei gruppi pop di un tempo, producono musica originale, qualitativamente notevole e, più del messaggio, è il loro sound ad attrarre i fan. Dall'underground del Christian rock, oggi è possibile spiccare il volo verso il successo. Abbandonata definitivamente l'immagine soft e conformista  della prima ondata, le band attuali si spingono sui sentieri più alternativi del rock: punk, hardcore, grunge, newmetal e indie-rock.

Dopo l'esibizione nella Sala della Rivelazione, la band è' partita 'alla volta di Arlington; appena fuori Dallas, per una sera­ta al Dreamworld Music Complex. Il centro è anch'esso proprietà di imprenditori cri­stiani, ma vi si esibiscono band di ogni ge­nere. Una sera i Cannibal' Corpse, con i loro testi espliciti e profani, e la sera dopo una pop star come Phil Joel dei 'Newsboys'. "Sono un imprenditore cristiano, ma questo è business; non una messa" spiega uno dei proprietari, John Tunnel. «Le band seguite da un pubblico in prevalenza cristiano han­no difficoltà a fare serate nei locali 'norma­li' non tanto per motivi confessionali, quan­to perché i loro fan non bevono, almeno non quanto si beve in certi posti...

Ma trovare spazi per le serate è 1'ultima del­le preoccupazioni delle Christian band, il ti­more è piuttosto quello di alienarsi l'indu­stria musicale cristiana da una parte e il pubblico delle band tradizionali dall'altra, cercando il successo trasversale. Sulla scena musicale cristiana attuale si tende a rifiutare una band che propone testi giudicati negativi o offensivi. Oggi che i Further Seems Forever ad esempio hanno fatto il gran salto superando l'ambiente esclusiva­mente cristiano non si esibiscono più nei club riservati ai soli fedeli, pur partecipando a volte ancora ai festival.

«Alcune associazioni religiose sono molto rigide, hanno aspettative precise sui musici­sti e idee preconcette sullo spettacolo. Gli inviti sono limitati ai membri, escludendo ragazzi che non fanno parte della chiesa locale. A noi non sta bene» spiega Chad Neptune, bassista dei Further Seems Forever. Anche le band del circuito cristia­no che aspirano al successo trasversale te­mono i pregiudizi del pubblico tradizionale.

Jon Foreman, cantante degli Switchfoot, è preoccupato che «la nostra musica venga giudicata sulla base di preconcetti». Devine, general manager della Colmnbia Records, assicura che il cre­do religioso degli Switchfoot non lo ha preoccupato più di tanto al momento di proporre loro un contratto. "Per alcune di queste band è difficile stabilire differenze ri­spetto ai gruppi della scena 'normale'. Perché pensate che la gente compri gli al­bum dei POD e degli Evanescence? Non certo Perché sono cristiani, ma perché han­no sentito per radio delle bellissime canzo­ni". Il che non significa che i gruppi nati sul­la scena cristiana con il successo si lascino Gesù alle spalle. «Sono stato alla conven­tion annuale di Gospel Music a Nashville, racconta Christian degli Anberlin, e mi sono chiesto se Gesù suonerebbe mai in uno di quei gruppi. Che senso avrebbe? Lui, che di­ceva "A che serve mandare un medico a chi sta bene? Il medico va mandato agli amma­lati", vi garantisco che avrebbe preferito suonare come spalla dei Sex Pistols!".

@New York Times e Musica (Traduzione di  Emilio Benghi)

 

CHRITSMAS ALBUM

Sumi Jo, trecento anni di musica per la Natività

Nel “Chritsmas Album” del soprano coreano un accurato lavoro filologico e religioso 

Sumi Jo, trecento anni di musica per la Natività

di Andrea Milanesi
Nel solco di una tradizione inaugurata da grandi interpreti del repertorio lirico come Beniamino Gigli o Kirsten Flagstadt, Luciano Pavarotti o Renata Tebaldi, anche il soprano coreano Sumi Jo dedica un disco alle celebri melodie del tempo natalizio: il suo Christmas Album (pubblicato da Erato e distribuito da Cgd Warner) non si ferma però alla semplice e allineata sequenza di brani di facile richiamo, ma si sforza di offrire un percorso stilistico ragionato, caratterizzato da una precisa e autonoma dignità artistica. 

Passando al setaccio quasi trecento anni di storia, è infatti un lavoro di ricerca culturale e spirituale, musicale e filologica quello che la cantante ha compiuto al fianco di un prestigioso gruppo di artisti, in cui il recupero del profondo significato della venuta del Salvatore viene affidato ora a immortali capolavori, ora a preziose miniature tutte da scoprire, ora a brani di tradizione popolare che affrontano con trepida e partecipata immedesimazione il tema della nascita di Cristo. 

E‘ proprio quest’ultimo il caso del pezzo che apre il cd, la “carola” I wonder as I wander proveniente dalle terre americane d’Appalacchia, nella quale in splendida solitudine Sumi Jo si fa carico della stupita domanda dell’uomo di fronte al mistero dell’incarnazione. 
Giocando sul filo rosso di una spiccata varietà espressiva nell’album trovano però anche spazio un’esecuzione “da salotto” (con il complice accompagnamento del fortepiano) della celebre O Holy Night di Adolphe Charles Adam e la duplice versione di uno dei canti natalizi per eccellenza, Stille Nacht di Franz Xaver Gruber – in lingua originale per soprano, contralto e orchestra; in inglese (Silent Night) per soprano, volino e fortepiano. 
Se da un lato la cantante viene sostenuta dall’ottimo Vokal Ensenble Koln, in grande evidenza soprattutto nei quattro corali che ricreano mirabilmente il suggestivo clima della pratica devozionale luterana secondo l’arte barocca tedesca – al penultimo corale (Ich steh’an deiner Krippen hier) dell’Oratorio di Natale di Johann Sebastian Bach vengono qui affiancate altre opere vocali di Michael Praetorius Samuel Scheidt e Johann Cruger – dall’altro è la compagine della Cappella Coloniensis diretta da Michael Schneider a fornire il raffinato supporto orchestrale, distinguendosi in particolare nell’”Andante grazioso” della Sinfonia in mi bemolle maggiore K. 132 di Wolfgang Amadeus Mozart (inserito in questa antologia per la velata citazione dell’antico motivo natalizio Resonet in laudibus) e nel Concerto per violino in mi maggiore “Il riposo – per il S. Natale” RV 270 di Antonio Vivaldi (solista Hiro Kurosaki). 
E Mentre l’atmosfera intima e raccolta della splendida cantata natalizia Furchteteuch nicht! di Christoph Bernhard si accompagna al fascino discreto della Cantata pastorale per la nascita di Nostro Signore di Alessandro Scarlatti (che racchiude quel piccolo gioiello che è l’aria “L’autor d’ogni mio bene”), è nello spumeggiante e virtuosistico mottetto mozartiano Exultate, jubilate K. 165 che il soprano coreano libera infine tutta la propria sicurezza interpretativa e la naturale predisposizione al “belcanto”. E con entusiasmante e contagiosa energia Suni Jo suggella il clima festoso di una celebrazione che rinnega la cifra prettamente estetica di un recital da “primadonna” per accordare alla musica e al suo messaggio il ruolo di protagonista assoluto.

 

DE ANDRÉ

De André, il ribelle che cantò il Vangelo 

De André, il ribelle che cantò il Vangelo di Roberto Beretta 

Ha citato Dio 88 volte nelle sue canzoni: in media una volta ogni canzone e mezza. La sua discografia comincia da Preghiera in gennaio e finisce con la Smisurata preghiera. Il suo unico romanzo ha per protagonista un prete (che alla fine si rivela falso, per la verità). Abitava a Villa Paradiso e ha dedicato innumerevoli concerti a predicare La Buona Novella. Infine, di secondo nome faceva Cristiano (e replicò l'appellativo per il primogenito)… 

Serve qualcosa di più per scrivere Il Vangelo secondo De André? Di certo non aiuta il semplice fatto di chiamarsi Ghezzi (come la moglie del cantautore genovese scomparso nel 1999: ma stavolta non c’è alcuna parentela con Dori); perché assumersi il compito di bagnare d'acquasanta la ciocca che velava l'occhio già mezzo ammainato del menestrello Fabrizio è un'impresa coraggiosa assai. La compie per primo in modo sistematico (segnali di religiosità nell'opera del cantante li hanno avvistati già in parecchi) appunto Paolo Ghezzi, direttore del quotidiano «L'Adige» di Trento, il quale dà sfogo al suo personale culto per il poeta di Via del campo con questo Vangelo, appena stampato dalla cattolica Ancora (pagine 176, euro 12,00). 

«Non si è voluto in alcun modo "battezzare" De André», chiarisce subito il consapevole Ghezzi: sarebbe difficile farlo, del resto, per uno che «non credeva nel Dio delle Chiese», anche se «nessun altro autore di canzoni del Novecento italiano ha toccato così profondamente il problema di Dio»; anche se Fabrizio - nella sua fondamentale e poetica anarchia - non si disse mai ateo. 

Piuttosto l'antologia imbastita da Ghezzi è un onesto ragionamento intorno al «Gran Genovese curioso di Dio», partendo direttamente dalle parole delle sue 128 canzoni. Prendiamone una celeberrima: Il Pescatore. Beh, Ghezzi accosta il gesto del vecchio che, incontrato un assassino in fuga, «dischiuse gli occhi al giorno / non si guardò neppure intorno / ma versò il vino, spezzò il pane / a chi diceva: ho sete, ho fame» paro paro al Vangelo secondo Matteo: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare...». 

Ugualmente, nel lunghissimo Testamento di Tito si rifletterebbero alcuni temi della teologia contemporanea, come la debolezza di Dio. Mentre il nano de Un giudice farebbe pensare al detto evangelico «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». Ma sono soltanto alcuni dei «santi peccatori» nella straordinaria galleria di figure anticonvenzionali allestita nelle canzoni di Fabrizio: personaggi che sembrano uscire da un vangelo, appunto, se non altro apocrifo. 

Come quello che De André scelse, in pieno Sessantotto, per far uscire il disco La Buona Novella in cui rilegge la vicenda del Salvatore dal punto di vista del «cattivo ladrone» (e non del buono, come si dice erroneamente nel libro), tradizionalmente chiamato Tito. 
Secondo Ghezzi e a differenza di altri critici, quest’opera – ripresa poi dal cantautore sul finire della vita, e anche postuma da altri – non è «stata una divagazione di percorso, ma la focalizzazione e la condensazione di un filo rosso di interrogativi religiosi». 

De André non vi risulta ateo, semmai anticlericale, anzi: anti-clericalista, cioè schierato contro il clericalismo come forma di potere e di repressione. Il suo potrebbe essere un «anarco-cristianesimo» con una «forte carica anti-idolatrica»; una fede che per certi versi è rimasta all'Antico Testamento e che del Nuovo accetta soprattutto il messaggio di perdono universale, praticamente sconfinato e irrazionale. 

Se dunque il Dio del non credente De André - come egli disse una volta - è (non troppo originalmente) «il Grande Spirito in cui si ricongiungono tutti i minuscoli frammenti di spiritualità dell'universo» o anche «una libertà assoluta, incomprensibile ed estranea alle nostre spiegazioni», è il mistero di Gesù ad apparirgli più consono. Cristo è «un figlio che si sacrifica per gli altri senza una ragione precisa» e «rimane un esempio da imitare»: così l'autore genovese confessò in due interviste. 

Mentre, nelle sue canzoni, il Nazareno viene dipinto come uno che insegna l’amore «nella pietà che non cede al rancore», o anche «perdonando con l'ultima voce / chi lo uccide fra le braccia di una croce». Senza arrivare alla resurrezione, però, della quale De André non parla mai, fermo alla sua religione di misericordia soltanto terrena: «Non posso pensarti figlio di Dio / ma figlio dell’uomo, fratello anche mio».

Gli elementi accumulati forse non bastano per determinare del nostro l’influenza teologica sulla cultura italiana» (quando venne invitato a incontri e convegni ecclesiastici - accadde anche questo dopo La Buona Novella - Fabrizio rifiutò proprio perché: «Cosa ne sapevo di teologia?»). Però De André- come nota Ghezzi - «sicuramente ha influenzato generazioni di cattolici». 

Di quante riunioni, veglie, campi-scuola e persino messe, infatti, hanno costituito la colonna sonora ballate quali La guerra di Piero, il testamento di Tito, Geordie, Spiritual e naturalmente l'Ave Maria? «Che peraltro è un inno alla donna, più che una lode alla Madonna», ammette onestamente Ghezzi: «Ave alle donne come te, Maria / femmine un giorno e poi madri per sempre»...
Ancora una volta: Un infinito e pietoso stupore per l'umano, che però non ha bisogno di trascendenza. Dunque, per paradosso, la scrupolosa analisi di Ghezzi sembra condurre alla conclusione che De André fu religioso, certamente, ma non cristiano; e forse proprio per questo – cioè non per moralismo bensì per rispetto alla sua infaticabile e mai approdata ricerca – bisognerebbe smettere di cantare in chiesa il suo «Vangelo». 

Da “Avvenire” 9 novembre 2003

 

DIO NELLA MUSICA POP

Non c'è confine. Da Gesù a Maometto, passando per Buddha, i più grandi divi della musica leggera riscoprono la spiritualità. E persino un ex diavolo come Mick Jagger adesso canta la gloria del Signore.

Dio nella musica POP

di Alberto Dentice   L'Espresso

Povero diavolo, non fa più scandalo, specie nel suo ambiente, quello del rock e della musica pop, per chi è in odore di zolfo, sono tempi duri.

Oggi fa più notizia un Mick Jagger che canta di Dio e spiritualità che un Marilyn Manson con tutti i suoi ri­tuali satanici. Annoia il secondo. Men­tre il primo ci spiazza. Proprio perché il voltafaccia arriva da uno come Mick Jagger, il leader dei Rolling Stones, ex­ icona della trasgressione. Uno che ne ha

fatte e cantate di tutti i colori, basti pensare a "Simpathy for the Devil". Invece, ­sentite adesso: «Dio mi ha dato tutto: l'ho visto nel sole di mezzanotte, l'ho sentito nella corsa che ho vinto, lo sento

nella tempesta, nell'alba gelida, nel vino che assaggio, nel viso di mio padre...», canta in "God Gave me Everything", scritta con Lenny Kravitz, inserita nel suo disco solista (il quarto),

"Goddes in the Doorway", pieno di rife rimenti religiosi. Mentre in un'altra canzone, "Joy", canta assieme a Bono: «Stavo cercando Buddha, ho visto Gesù...». E ancora: «La mia anima è come un rubino ed io l'ho gettata in terra... Ma adesso guardo il cielo e una luce mi illu­mina il volto, non credevo che avrei tro­vato lo stato di grazia».

 

D'accordo, non sono le confessioni di Sant'Agostino, quasi certamente manca quel radicale ripensamento morale che è frutto di ogni autentica conversione. Perché questa svolta? Solo un abile espediente per acquistare nuova visibi­lità? O è il risultato di un travagliato percorso artistico e intellettuale? «Rag­giungo lo stato di grazia solo quando lo spirito divino si manifesta nella crea­zione», ha confessato Jagger nell'intervista rilasciata a "Hobo", programma di Massimo Cotto su Radiouno (in onda il 16 novembre 2002): «Quando la tua mente e le rivelazioni del creato si trovano sulla stessa lunghezza d'onda, allora riaffer­mi la tua esistenza in Dio».

Hai voglia a dire "Dio è morto", come cantavano quei nietschiani dei Nomadi negli anni '60. Il Dio del pop è più vivo che mai e ha conquistato alla sua causa anche l'ex diavolo Mick Jagger. È vero che gli anni passano. E che il risveglio spirituale che ha investito il cantante de­gli Stones, come altri big sopravvissuti alla stagione d'oro del rock anni '70 (quello che coniugò sesso, droga e dissi­patezze di ogni tipo), sembra dettato più dal nuovo verbo della fitness (inclusa quella spirituale) che non dalla Bibbia. Del resto l'idea di un Mick Jagger folgorato dalla dieta piuttosto che­ dalla fede ci sembrerebbe in linea con il personaggio.

Le Destinity's Child, portabandiera del nuovo pop cattolico americano

E poi il rock è un signore di mezza età che lungo la strada ha in­crociato Dio innumerevoli volte. E i suoi angeli ribelli e convertiti sono stati e sono tuttora testimonial preziosi. Spe­cie di questi tempi segnati dall'incertez­za del futuro e da un bisogno diffuso di spiritualità. ­

La musica pop è una grande chiesa, come diceva Jovanotti, in cui c'è posto per tutti: Gesù, Buddha, Krishna, Mao­metto. E anche Madre Tere­sa. A patto di stare al gioco. E non confondere i cantanti con i santi. Scambiando per fervore religioso l'anelito verso la libertà, il soprannaturale, l'amore universale da parte di artisti spesso genia­li e sempre contraddittori.

 

Restò famosa la battuta di Little Ri­chard, il primo re del R&R, quando giunto in ritardo in sala di incisione si scusò con il produttore di­cendo: «Oggi Dio non vuole che registri». Il Dio del pop riappare negli anni '60, e so­no i Beatles, freschi di un pellegrinaggio in India, a trasferire per primi nelle can­zoni le mistiche sonorità del sitar e l'i­dea di espansione di coscienza attraver­so droghe e meditazione. Sono gli anni in cui George Harrison canta "My Sweet Lord". Più tardi gli risponderà John Lennon, ateo a oltranza, con "God!" (‘Dio è solo un concetto...’).

In quegli anni è nella black music che si incarna con straordinaria forza espressiva il Verbo del Nuovo Testamento, coniugando la spiritualità del gospel e del soul con le rivendicazioni per i diritti civili. Basti pensare al capolavoro ­di Malvin Gaye, ‘What’s Going on’ lanciata in pieno '68, in un paese dilaniato dalla guerra del Vietnam. La musica soul è stata sempre pervasa da un forte anelito religioso.

Sorprende invece quando è una star dell' hip hop come Mary J. Blidge, la "Madonna nera" famosa per le sue trasgressioni, a parlare di fede e di Dio, - come ha fatto nel suo ultimo album, "No More Drama", dedicato «a Colui che fi­nalmente mi ha donato quell'autoconsapevolezza, quell'amore incondizionato per tutti gli aspetti della mia personalità che cercavo da sempre».

 

È il caso anche del redivivo Terence Trent d'Arby, che a 13 anni da ‘Introducing the Hardline...’, oggi descrive chi parte per cercare una religione e trova invece qualcos'altro. Ho cercato di essere divertente. Se fossi stato troppo serio, la gente avrebbe spento l'attenzione. Così ho mescolato legge­rezza e rivelazione».

L'autore dell'album giudicato a suo tempo un ca­polavoro dallo stesso Miles Davis, torna con "Wild Card", un nuovo disco di mor­bido, ispiratissimo funk, firmandosi Sa­nanda Maitreya, nome dalle mistiche ri­sonanze orientali. «Non sono diventato Sananda», ha spiegato l'artista newyor­kese: «Semplicemente mi sono ricorda­to che lo ero. Oggi sono una persona li­bera, che vive nella grazia di ogni istan­te. Il nocciolo della questione è che biso­gna seguire il proprio cuore e le proprie passioni più profonde».

AUTENTICITÀ, ONESTÀ, autono­mia: lo stesso credo professato da Tina Turner, l'inossidabile tigre del rhythm'n'blues, da an­ni convinta buddista. Oppure da Sting, un altro attratto dal soprannaturale fin dai tempi dei Police ("Synchronicity"), come del resto molte altre pop star, prima fra tutte Madonna, abituate a frequentare i salotti New Age.

Ma a fa­re scandalo, anche nel rock, sono le ve­re conversioni. Famoso il caso di Yusuf  Islam, meglio conosciuto al popolo del rock come Cat Stevens, prima che si convertisse alla religione di Maometto, 23 anni fa, abbandonando le scene mu­sicali.

Cat Stevens, oggi Yusuf Islam, all'epoca della sua conversione alla religione di Maometto

 

Le sue canzoni ("Wild World", "Father's Son") riascoltate con il senno di poi danno la sensazione che in qual­che mondo anticipassero il percorso spirituale intrapreso in seguito.

 

Analogo scalpore suscitò Bob Dylan, ebreo di nascita, profeta della cultura alternati­va, quando nel '79 annunciò la sua conversione al cristianesimo. Folgorazio­ne a cui seguirono tre album, "Slow Train Coming", "Saved" e "Shot of Lo­ve", intrisi di gospel e zeppi di riferi­menti biblici.

Ma se conversione ci fu, da parte di Dylan fu soprattutto a livello di lin­guaggio.

E’ LA GRANDE LEZIONE DI BONO, che infatti canta assieme a Jagger la canzone.

‘Anche noi siamo stati duri e puri’, raccontava il leader degli U2, ‘ma non puoi essere così per sempre. Il rock non è sacro. Per respira­re devi essere libero. Per questo siamo dovuti venir fuori dal rigore degli anni '80 e imparare a prenderci gioco, con ironia, del nostro mito’.

A quanto pare anche Sinéad O' Connor, la sacerdotes­sa del pop irlandese che nel '92 stracciòin diretta tv una foto del papa, ha impa­rato la lezione. Nel suo ultimo album, ‘Faith and Courage’, l'ex suora della Chiesa Latina Tridentina e lesbica di­chiarata, ha unito tradizione musicale irlandese con il reggae: «Dopo aver vis­suto e cantato per anni cose serie volevo fare finalmente un disco pop».

 

Del resto anche la Chiesa è ormai pron­ta a glorificare le diverse anime pop. Ba­sta ricordare gli artisti che hanno canta­to per il papa: da Lucio Dalla all'eretico Bob Dylan, da Franco Battiato, da sem­pre attratto dall’Islam, al super cattolico Adriano Celentano.

Santo Elvis, proteggi i tuoi fans

 

Nei gironi della pop music può capitare che un idolo, più che di­ventare un testimoniai del trascendente, finisca per incarnarlo.

Il caso-monstre è Elvis. Non il Presley dell'irresistibile ascesa al trono del rock'n'roll, allorché a colpi di sensualità promulgò il verbo della prima musica fatta per i giovani. E neppure l'Elvis decadente degli ultimi giorni, quando stanco e grasso impersonava la caducità della bellezza. No: l'Elvis post-mortem, il Presley defunto ma tutt'altro che morto nell'immaginario del suoi fans. A questo tema è dedicata una pietra miliare della critica rock, "Dead Elvis", saggio dello specialista Greil Marcus, ancora inedito in Italia. Il libro analizza proprio l'ossessione culturale che circonda i supremi idoli dell'immaginario po­polare allorché muoiono e i modi attra­verso i quali la loro conservazione di­viene totale appannaggio dei fans. Con

un ricco materiale iconografico, frugando tra psicoanalisi, fiction e roto­calchi, Marcus stende un originale filo del discorso: la popstar, una volta eclis­satasi dal mondo reale, assume una natura paragonabile a quella delle di­vinità del mondo classico. Ovvero con­tinua a vivere e si adegua ai cambia­menti.

 

Lasciate che i rocker vengano a noi

 

 

COLLOQUIO CON MONSIGNOR ERNESTO VECCHI, vescovo ausiliare di Bologna

 

Come vede la Chiesa cattolica la "conversione" di un musicista come Mick Jagger, che per 40 anni ha fatto del ‘sex, drugs and r&r’ la sua bandiera?

 

Monsignor Ernesto Vecchi, vescovo ausiliare di Bologna, responsabile nell'97, della kermesse pop - eucaristica in onore del papa, in cui cantò anche Bob Dylan non ha dubbi:

‘La Chiesa è madre e vede sempre nell'uomo una per­sona esemplata su Cristo. Condanna il peccato, non il peccatore. Il discorso vale anche per il rock: la Chiesa è portata ad accogliere tutto ciò che di bello, di vero, di buono c'è in questa musica. Si tratta di un'espressione artistica e l'arte, quando è vera arte, è un luogo in cui si può riconosce­re la manifestazione dello spirito divino. Chi guarda la musica pop con un occhio evangelizza­tore, deve cercare questi appigli».

 

Mick Jagger non è il primo della lista. Nella sua storia il Rock ha già incontrato il divino molte volte.

 

È dell'uomo riflettere sulla propria vita quando arriva il tramonto. Si fa un bilancio e si sen­te che qualcosa scricchiola, che i valori che hai propagato non ti sostengono più. Non mi mera­viglio che ci sia questa voglia di Dio in personaggi che per tutta la vita hanno trasgredito. La tra­sgressione in fondo è la nostalgia del tutto, solo perseguita attraverso strade sbagliate.

 

A Bologna, durante il ‘concerto eucaristico’ di qualche anno fa (1997 n.d.r.), ebbe occasione di incontrare nume­rosi musicisti pop. Che impressioni ha tratto da questa esperienza?

 

Li ho incontrati quasi tutti: Dalla, Bocelli, Celentano... A parte Jovanotti che non ha accettato l'invito forse per paura di perdere la sua identità. Mi colpì invece Gianni Morandi, un altro che si è avvicinato alla fede abbastanza tardi. Mi sembrava titubante. Gli ho spiegato che non si chiedevano conversioni, ma solo la partecipazione a un progetto che intendeva dare ai giova­ni, un messaggio positivo attraverso la musica.

«Non chiediamo la conversione di nessuno», disse monsi­gnor Ernesto Vecchi in occasione del meeting eucaristico di Bologna in cui cantò Bob Dylan: «Siamo pronti ad accogliere tutta la musica che dà voce a un bisogno di spiritualità universale».

 

E chissà che la prossima mossa non sia quella di invita­re un diavolo pentito come Mick Jagger al concerto di Na­tale in Vaticano.

 

DIO NELLA MUSICA ROCK

Già il blues era un canto di lamento in qualche verso ispi­rato a «Qualcuno», ma sono i gospel, i primi canti cristiani ad avere una va­lenza importantissima, perché fondendosi nei tar­di anni '50 con il pop e il rhythm'n'blues danno vita alla moderna musica nera, spesso «profana» e con contenuti opposti al canto d'origine, e testimoniano la prima presenza di Dio nel pop. E questo è il primo passo: ma Dio è entrato nella musica di oggi in maniera controversa ed incisiva sempre.

 

Negli anni '60 il tema fu trattato con risvolti con­traddittori, nel senso che il movimento pacifista ten­deva a liberarsi dei condi­zionamenti religiosi d'oc­cidente, e allora ecco al­bum come «Aqualung» dei Jethro Tull, il cui retro del­la copertina riportava la scritta: «E all'inizio l'uomo creò Dio...», oppure era proteso verso le religioni orientali, ma era fortemen­te presente l'esaltazione della forma divina.

Ricordo due episodi, il con­certo per il Bangladesh de­gli anni '70 organizzato da George Harrison, già fre­quentatore di guru ma sen­za abbandonare la spiri­tualità di provenienza, (con la partecipazione di Bob Dylan, Ravi Shankar ed Eric Clapton, fra gli altri), un concerto, ebbene, ebbro di una forte carica umani­taria non solo perché si lot­tava per una causa, la ca­restia e le terribili condizio­ni di vita nel subcontinen­te indiano, ma per lo spiri­to magico ed altamente esta­tico che animò l'intera ma­nifestazione.

 

L’altra forte dimostrazione della presenza di Dio nella musica rock fu il musical, dapprima, e poi la versio­ne cinematografica succes­sivamente, di «Jesus Christ Superstar», un colossal in chiave rock, dove se da una parte viene esaltata la figu­ra umana del Nazareno, una versione in chiave un po' hippie, dall'altra se ne rispetta ampiamente il Ver­bo. Lo stesso Bob Dylan, convertito ad una delle tan­te sette americane più o meno «cristiane», diede alle stampe agli inizi degli anni '70 un album intitola­to «Saved» «Salvato», in cui la spiritualità di una anima rinata, (questo tra­smettevano musica e testi), risplendeva in maniera superlativa.

 

Gli anni '80 hanno un po' snobbato l'argomento, im­mersi come erano a guar­darsi dentro, a rintanarsi nel privato, come se questo fosse staccato dal sociale e dallo spirituale. Dio è stato maltrattato dal rock in al­tri vari modi, come testi­moniano la «Sympathy For The Devil» di «rollingsto­niana» memoria, o gli ec­cessi di certi atteggiamenti nella heavy music (dal «sa­tanismo» dei Black Sabba­th e di Ozzy Osbourne, i giochi con il pitone in car­ne ed ossa lungo cinque metri di Alice Cooper; o il più recente «ateismo inte­riore» di gruppi come Mar­lyn Manson) a cui però fa da contrafforte il nuovo di­sco di uno che ne ha com­binate di tutti i colori, Mick Jagger; ma al quale Dio ha dato la gioia e per certi ver­si la punizione di avere cin­que figlie femmine. Ciò lo ha così cambiato, che nel suo disco, inti­tolato «Goddes In The Do­orway» canta «Vision of Paradise», «Joy» e «God Gave Me Everything».

 

E GESÙ INTONÒ L'ALLELUIA

di ROBERTO BERETTA  Avvenire 27. 11. 05

 

Gesù forse non rideva (come asserì una corrente teologica antica), però cantava. Lo ha scritto don Luigi Garbini, 38 anni, incaricato per i con­certi nelle chiese della dio­cesi di Milano e direttore del Laboratorio di musica am­brosiana al servizio della li­turgia (LmcsL), nella sua dotta Breve storia della mu­sica sacra che esce il 1°  di­cembre da Il Saggiatore (pp. 512, euro 26).

Dunque, don Garbini, Gesù cantava. Ne ha le prove?

Beh, non sappiamo se era intonato o no... Però il rotolo di Isaia nella sinagoga di Na­zareth quasi sicuramente Cristo non lo ha letto bensì "cantillato", come aveva im­parato a fare da buon ebreo e come era normale nel mondo orientale antico; con una linea melodica più vicina al parlato e al canto tradizionale yemenita o poline­siano che alla salmo­dia oggi usata nella liturgia delle ore. Du­rante la Passione ci sono poi riferimenti al canto dell' hallel   e la citazione del salmo 22 ("Dio mio, perché mi hai abbandona­to"), quello dei mo­renti; anche se non mi spingerei a dire che Gesù in croce l'abbia cantato».

E la musica dei primi cristiani?

«Difficile ricostruirla. Se vale la tri­partizione di "inni, salmi e cantici spirituali" citata da san Paolo, dob­biamo pensare che si usassero sia salmi biblici, sia canti di nuovo co­nio ma rifatti su quel modello. Quanto agli stili corali, semplifican­do ne rinveniamo due: la ripetizione della formula proposta da un solista oppure l'alternanza di due gruppi che si rispondono a vicenda. La rit­mica non esisteva, il canto era sem­plice. Ma spesso vi si aggiungeva lo ju­bilus, cioe il vocalizzo o melisma di un solista che si lascia­va andare a una sor­ta di grido sonoro, quasi presenza stru­mentale sulla vocale finale; uno spazio li­bero del suono sulla paroIa>>.

Lei nel libro non ci­ta il famoso detto di sant' Agostino: «Chi canta prega due volte». Come mai?

«Perché come slo­gan è poco scientifico, non so nem­meno se sia di Agostino, il cui pro­blema era semmai l'ambivalenza della musica: egli ne sentiva fascino e potenzialità, però era preoccupato di organizzarne il metro per dare preminenza e intelleggibilità alla pa­roIa>.

Qui fu aiutato da sant'Ambrogio, che inventò gli inni. «Copiandoli» però dall'Oriente, lei insinua...

<<Ambrogio pesca da Efrem il Siro e dalla scuoIa di Edessa (ambiente sci­smatico dove recupera un'innodia adatta a far fronte proprio agli ereti­ci...). Però a questa fonte si mischia­no variabili occidentali, come Dario di Poitiers ed Eusebio di Vercelli. Di sicuro, comunque, con la presenza del metro - versi uguali nel numero di sillabe e con un ritmo identico nelle strofe -la musica sacra guada­gna un altro modo di organizzarsi e uno spazio più vicino alla nostra sensibilità».  

Ambrogio però è contestato da san GeroIamo, perché porta musica <<moderna» in chiesa.

<<C'è polemica tra i due e l'inno am­brosiano rimane fuori dagli ambien­ti romani a lungo: è un'innovazione troppo radicale. Nello stesso tempo, però, sappiamo quanto fu prezioso

per forgiare una partecipazione tra le comunità cristiane. Era un modulo che funzionava>>.

Lei presenta il gregoriano quale strumento di Carlo Magno per uni­ficare l'Europa. Quindi non canto monastico, ma «romano»...

«Questo non per la sua origine - che scaturisce dalla fusione tra varie tra­dizioni (gallicane, romane...) e da un reticolo monastico che diffonde an­damenti differenti - ma per l'attri­buzione a Gregorio Magno. Il richia­mo al papa servì infatti da autorità per legittimare la revisione e la sintesi di un repertorio sviluppatosi in vari centri europei, nel momento in cui l'impero carolingio cercava fusione e ordine».

Il gregoriano è un canto a voce nuda. Come mai tanta av­versione agli stru­menti musicali (le percussioni, il flauto...) in chiesa? Si arriva persino agli anatemi di certi Pa­dri della Chiesa...

«Perché, nonostante il riferimento ideale alla liturgia del Tempio di Salomone (dotata di corredo strumentale), in pratica la stru­mentazione era simbolo di pagane­simo».

Pure l'organo però - lo dice lei - non era affatto «sacro».

«È vero, infatti accompagnava feste molto pagane. Però ha potenzialità più vicine alla voce umana e questo gli ha permesso di restare nel mon­do liturgico.  L’entrata in pompa magna dell'organo tra le navate avviene intorno al Duecento, a Parigi, men­tre la sua riforma risale all'I­talia ottocentesca, quando lo strumento s'arricchisce di registri sempre più vicini ai timbri orchestrali con po­tenzialità incredibili: l'orga­no diventa il "teatro dell' opera" per i poveri>>.

Prima va citato Pierluigi da Palestrina, che lei lega alla Controriforma come «e­spressione di sacralità  tradizionale». Il Borromeo del­la musica sacra...

<<Semplificando, si può dirIo. II concilio di Trento cercava di ridimensionare la musica per rendere i testi più com­prensibili, visto che la com­plessità della polifonia or­mai complicava l'udibilità delle formule della fede. La mitologia dice che Palestri­na convinse i padri concilia­ri a trovare una via moderata per unire contrappunto e ri­spetto dei dogmi. La sua opera ha deter­minato, direttamente o no, i maestri della musica sacra seguente e in momenti di crisi il richiamo a lui equivale ad aggrapparsi a qualcosa di sicuro. Ma attri­buire al solo Palestri­na la salvezza della polifonia non corri­sponde al vero: c'era Orlando di Lasso, poi ci fu Monteverdi».

Lei definisce Perosi l’ultimo giardi­niere della musica sacra. Cioè?

<<Perosi è stato l'ultimo a riuscire a vivere il suo tempo - tra Wagner e il modernismo - con la professionalità necessaria per produrre una lettera­tura di successo popolare duraturo. Dopo di lui non ce ne sono stati al­tri, anche perché nel post-concilio i liturgisti hanno chiuso le porte a qualsiasi dialogo con la musica colta contemporanea e ciò ha prodotto canti molto poveri>.

Anche per lei il Concilio ha provo­cato una crisi della musica sacra.

<<La recezione dei documenti del Vaticano II si è di fatto liberata da una tradizione musicale bimillenaria. In teoria il gregoriano non è stato an­nullato, anzi sarebbe il canto pro­prio della liturgia; però nella pratica è stato estromesso e non esiste più se non in alcuni conventi o nei con­certi. La benedetta conversione del­la liturgia nelle lingue nazionali è stata cosi estremizzata che il reper­torio classico non viene più canta­to».

D'altra parte, come riproporre gregoriano e polifonia alla parteci­pazione popolare, oggi?

<<lo prendo atto che un repertorio, generato nella Chiesa, paradossal­mente non viene più tenuto in con­siderazione se non in minima parte. Mentre il canto con la chitarra non dialoga con nessuno, nemmeno col mondo della musica pop, ormai va­riegatissimo. Cosi oggi. il canto cri­stiano, in pratica, semplicemente non esiste».

 

GIULINI CARLO MARIA, DIRETTORE D'ORCHESTRA

Carlo Maria Giulini è uno dei più grandi musicisti che l’Italia abbia mai avuto. Dopo una vita sul podio delle maggiori orchestre del mondo, il Maestro, oggi novantenne, parla di un argomento che ha affrontato di rado: la sua fede. 

E’ stato direttore stabile del Teatro alla Scala e dell’Orchestra sinfonica della Rai, principal guest conductor della Chicago Simphony Orchestra, direttore principale dei Wiener Philharmoniker, direttore stabile della Los Angeles Philharmonic, l’Orchestre de Paris, la Philarmonia di Londra Lo incontriamo nel suo studio milanese nel quale spiccano il pianoforte e, incorniciata, la benedizione apostolica ricevuta da papa Giovanni Paolo II in occasione del Giubileo. Con il maestro Giulini parliamo del suo cammino di fede. Quando lo descrive, dall’alto dei suoi novant’anni, richiama alla mente l’immagine evangelica dell’uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Sono venuti i venti e la pioggia ad abbattersi su quella casa, ma essa non è caduta. Vi è una solidità tranquilla nel maestro, unita ad una profonda gratitudine verso il Signore e alla semplicità essenziale di chi per tutta la vita si è affidato al Signore. 

I miei genitori ‘erano una coppia profondamente unita nella fede e nell’amore. Gesù l’ho incontrato per la prima volta in famiglia. I bambini assorbono questo amore giorno per giorno, senza rendersene conto’. 

Cosa rappresenta la preghiera nella sua vita?
‘Ho imparato a pregare da mabino e confesso che ho continuato a farlo ogni giorno, per tutta la vita. Il colloquio con Dio mi accompagna sempre. Potermi rivolgere a Lui è una grande gioia e una profonda consolazione’. 

Qual è il passo dei Vangeli che preferisce, che le torna in mente con più frequenza?
Amo ogni parola di Gesù, ma il passo che prediligo è il secondo comandamento, quello dell’amore per il prossimo. E’ bello desiderare il bene vero dell’altro, agire e pregare affinché ogni uomo sia pienamente se stesso e scopra l’amore di Dio che permette di affrontare anche i momenti difficili. A volte penso alle persone che non hanno fede…Qual è il senso che danno all’esistenza? La fede permette di rispondere ai grandi interrogativi: chi sono, da dove vengo, dove vado. Ma chi non accoglie il dono di Dio che risposte dà? Può riempire le giornate con tante attività, ma quando viene la notte, con il suo carico di domande decisive… Soffro quando penso a queste persone. E mi consola sapere che molti uomini e donne di fede pregano per quanti non hanno questo dono’. 

Che cosa rappresenta la Messa nella sua vita?
E’ fondamentale. E’ la comunione, questo mistero… Dio che si dona all’uomo… e’ davvero un mistero grande. Sono sempre molto felice quando vado a Messa e vedo la chiesa piena di fedeli, e lo sono ancora di più quando vedo che tantissime persone fanno la comunione. 

E, permetta, maestro: cosa pensa dei canti che vengono eseguiti durante le celebrazioni liturgiche?
Aspetto che finiscano. 

Il suo è stato un matrimonio lungo e felice…
Amore, fede e preghiera sono stati il cemento del mio matrimonio. Crescere insieme nella fede, sentire la presenza del Signore che aiuta, guida, sorregge anche nelle inevitabili difficoltà e incomprensioni, è un’esperienza bellissima. Purtroppo so che oggi tante unioni si rompono e mi dispiace molto. Mi chiedo con dolore e preoccupazione che ne sarà di quei bambini che vedono i genitori litigare e poi separarsi…

 

JOHN DEBNEY THE PASSION SYMPHONY IN SETTE MOVIMENTI

"Vi farò sentire la Passione di Gibson"

Il personaggio

Eclettico autore di colonne sonore, John Debney ha scritto le musiche di «The Passion», da cui ha tratto una sinfonia inedita. Racconta la sua esperienza di cattolico, parte di un grande progetto.

 

«Ho attraversato momenti di difficoltà e di fatica: la fede mi ha sorretto e mi ha aiutato. Ho pregato per riuscire sempre a fare del mio meglio».

 

di ELENA NIEDDU

 

Per John Debney, Maria è una madre che canta una ninna nanna; mentre suo figlio sale sul Golgota e cade tre volte sotto il peso della Croce! Gli parla come se fosse un bambino piccolo: «Don't cry my little one (non piangere, mio piccino), if you should fall my hands will radle you (se cadrai, le mie mani ti cullerarmo).

John Debney è l'autore della colonna sonora del film The Passion di Mel Gibson: 39 anni, californiano, cattolico, figlio di un produttore di serie televisive e uno dei più prolifici compositori di musica ­da film: sue le note che accompagnano fior fior di commedie, film d'azione e cartoni animati (da Spiderman 2 e Corsari, a Scorpion king e Le follie dell'imperatore). E poi, di punto in bianco, gli è capitato di far parte di un progetto che ha dato una sferzata alla sua vita, umana e professionale.The Passion, appunto. I1 6 luglio a Roma per l'apertura della stagione estiva dell' accademia nazionale di Santa Cecilia presenterà in prima mondiale The Passion Symphony: sette movimenti, eseguiti dal coro, dalla vocalist Lisbeth Scott, dall'orchestra tradizionale, dal solista Pedro Eustache per i «fiati». E da strumenti etnici, scoperti attraverso lo studio della musica ebraica antica e dell'area mediorientale: tamburi Taiko e tom tom, chitarre Oud di origine turca, flauti duduk. I sette movimenti che Debney dirigerà a Roma racchiudono tutti i temi principali del film, da Raising the Cross a Jesus iscarried down, fino all' aulica Resurrection. Tra questi, anche Mary goes to Jesus, dedicato al rapporto tra Maria e ­suo figlio.

 

Debney, come mai ha scelto di ritrarre Maria con una ninna nanna?

È stato uno dei temi più difficili da scrivere, non riuscivo a trovare la chiave giusta. Poi, una mattina, mi sono svegliato con una melodia in testa, ed era una ninna nanna. La voce di una  madre che parla con un figlio divino, ma che è comunque stato il suo bambino. E parte di quel bimbo è ancora in lui, mentre affronta la tortura e la morte.

 

Le parole di Maria sono tran­quillizzanti, ma anche in lei c'è l’aspetto del sacrificio...

L'idea del sacrificio è meraviglio­sa. Anch'io, nell'affrontare un la­voro così impegnativo, ho attra­versato momenti di difficoltà, di fatica, durante i quali la fede mi ha sorretto e mi ha aiutato. Ho pregato sempre per riuscire a fa­re del mio meglio.

 

Come ha vissuto, da credente, la responsabilità di diffondere il messaggio di «The Passion»?

La mia fede è cresciuta ed è di­ventata molto più forte. Quello che con Mel Gibson stavamo tentando di fare era raccontare la storia fisica della Passione. Con un intento preciso, mostrare a tutti che esistono delle possibi­lità, è questione di scelte.

 

Mel Gibson ha detto che la sua musica ha migliorato di dieci volte il film, elevando al sublime lo spirito proprio mentre le sce­ne comunicavano il dolore ter­reno di un uomo. Com'è stato la­vorare con Gibson?

Molto impegnativo. In ogni mo­mento dovevo essere perfetto, tutto doveva essere perfetto. Ho provato tutte le emozioni possi­bili: mi sono sentito a tratti af­franto, in altri momenti il mio spirito invece si sollevava. Perché c’erano in gioco significati profondi, sotto la storia che sta­vamo raccontando: il peccato, la pietà, il perdono.

 

Concetti che quasi si materializ­zano. Com'è stato invece torna­re, dopo un paio d'anni, a scrive­re musica per un film ben più prosaico e ultraviolento come «Sin City», trionfo dell'immagi­ne?

Non sono esperienze paragona­bili. «Sin City» è tratto da un libro di fumetti, è un film fatto per di­vertimento, è una rappresenta­zione eccessiva dell'irrealtà, va interpretato come evasione. «The Passion» è fede, è la mia fede.

 

Ora, se dovesse girare un altro film ad argomento religioso, quale figura sceglierebbe?

Sono affascinato dagli uomini e dalle donne che vivono intensamente il loro credo. Dai Santi. Mi piacerebbe raccontare la storia di Santa Caterina da Siena, una donna che si è affidata a Dio. Op­pure, la vicenda della profetessa Deborah. Sarebbe per me un o­nore, e lo farei trattando la storia con molto rispetto.

 

Magari lavorerebbe di nuovo con Mel Gibson, nella sua nuova produzione...

Non corriamo, mi piacerebbe es­sere di nuovo con lui per il suo prossimo film, ma per ora non ci sono stati contatti. Lui ha ricevu­to la mia disponibilità, sa che mi può chiamare e ne sarei felice.

 

Torniamo al presente, lei diri­gerà «The Passion Symphony» per l'accademia di Santa Cecilia. Qual è il suo messaggio per chi verrà ad ascoltarla?

Il mio scopo è uno, toccare il cuore della gente. Di chi ha visto il film, di chi non l'ha visto, di chi crede e di chi non crede. Spero che la musica sia un invito a ri­cercare qualcosa nel profondo.

Credo che ogni peccatore sia, in fondo, un credente. E in fondo il mio sogno è questo, suonare melodie e cambiare qualcosa. Prima di tutto, nell'animo di ognuno.

 

IL CONCERTO

Prima mondiale il 6 luglio 2005 a Roma «The Passion Symphony», sinfonia per coro e orchestra di John Debney, sarà eseguita in prima mondiale nella Cavea dell' Auditorium del Parco della Musica di Roma mercoledì prossimo (6 luglio) alle 21. Sul podio, lo stesso John Debney che non è nuovo alla direzione d'orchestra: sue infatti le nuove registrazioni di colonne sonore storiche, come «Superman» di John Williams. Debney dirigerà il coro e l'orchestra dell'Accademia nei sette movimenti che compongono la suite dalla colonna . sonora di «The Passion». Alle loro spalle, saranno proiettate le immagini della Passione nella storia dell'arte di tutti i tempi: da Giotto a Tintoretto, da Beato Angelico a Mantegna e Blake. .

 

JUBILMUSIC, LA FEDE CANTATA

ubilmusic, la fede cantata

DAL NOSTRO INVIATO A SANREMO ANGELA CALVINI

Avvenire 19 novembre 2006

Il palco è sempre quello del Fe­stival di Sanremo, ma il tifo è de­gno di San Siro. Duemila ragaz­zi si sono scatenati tra cori, applau­si e «ole» al Teatro Ariston sulle no­te delle star della musica cristiana di tutto il mondo radunate in rivie­ra per l'International Festival of Ch­ristian Music, condotto da Arianna Ciampoli e Marco Federici, che verrà trasmesso da Rai Uno il 26 dicembre in seconda serata.

Anche quest'anno è stata un successo la serata finale di Jubilmusic, l'iniziativa ideata otto anni fa dalla diocesi di Ventimiglia - Sanremo per avvicinare i giovani ai grandi temi dello spirito, attraverso la musica. Ancora una volta i cantanti invitati sul palco dell' Ariston dal direttore artistico Marco Brusati, hanno di­mostrato di unire la qualità artisti­ca alla profondità del messaggio spi­rituale. Come Bob Halligan, can­tautore cattolico in testa alle classi­fiche della Christian music ameri­cana e al ventesimo posto nella hit parade generale. D'altronde Halli­gan arriva dal rock commerciale, a­vendo scritto negli anni '70 e '80 al­cuni dei più grandi successi dei Kìss, Judas Priest, Cher e Michael Bolton. «Quelle canzoni sono state vendu­te in 30 milioni di dischi - ci racconta -. Mi piaceva guadagnare bene, poi in me è maturata una consapevo­lezza superiore. Sono felice della mia famiglia e di poter cantare le meraviglie della vita che ci ha dato Dio».

Ogni artista ha una storia particola­re alle spalle, come il francese di o­rigini camerunensi Manou, rapper 25enne passato dalla violenza delle banlieue alla missione di pastore protestante, il tutto sempre a ritmo ai rap. «Gli amici con cui sono cre­sciuto sono per la maggior parte in carcere - ci racconta -. Anch'io ero animato da una ribellione che mi faceva cantare contro tutto e tutti. Poi un giorno ho chiesto a Dio: "Se ci sei, dammi un segno subito". Ho sentito improvvisamente una gran­de pace nel cuore, ho cominciato a studiare la Bibbia ed ora sono pa­store. Torno ancora nelle banlieue, ma ai ragazzi ora canto l'amore di Gesù Cristo».

Colpisce pure la svol­ta spirituale di un figlio d'arte, Geor­ge Reyes, 31enne erede del leader dei famosissimi Gipsy Kings. «In Cri­sto ho trovato la pace e la forza quand' ero difficoltà - ci spiega - e o­ra cerco di ringraziarlo con la mia musica».

Tra le tante altre star sul palco sanremese è arrivata anche la potente voce di Linda, terza classi­ficata al festival di Sanremo 2004. «Questo palco mi ha portato fortu­na - racconta-. Subito dopo mi han­no invitata a cantare per Giovanni Paolo II all'incontro coi giovani in piazza San Pietro nel 2005».

Una bel­la testimonianza di speranza e di dialogo la dà infine l'algerino Sidh, giovane talento del gnawa, genere di musica spirituale del Maghreb. «La mia adolescenza l'ho vissuta nel mezzo delle violenze sui civili in Al­geria - racconta con occhi malin­conici -. Lo scopo della mia musica è uno solo: la pace. Io sono musul­mano credente, vivo a Roma, suono con degli italiani e adoro il gospel. Tutti possiamo vivere insieme, ba­sta il rispetto».

Mons. Bagnasco: «Musica utile per trovare Cristo»

«Abbiamo un grande bisogno di speranza, di fiducia, di credere nel domani ed è significativo che siano i giovani a ricordarlo agli adulti». Così l'arcivescovo di Genova, mons. Angelo Bagnasco ha salutato venerdì sera al Palafiori di Sanremo i ragazzi e i finalisti del concorso nazionale ‘Jovani per Jubilmusic’. Il tema della manifestazione di quest'anno era «Cantare la speranza» e il metropolita della Liguria ha sottolineato anche «l'importanza della musica nella ricerca della vera speranza che è Cristo». Sono stati coinvolti dall'entusiasmo dei ragazzi partecipanti a Jubilmusic 2006, i promotori dell'evento, il vescovo di Ventimiglia-Sanremo Alberto Maria Careggio e il vicario generale mons. Vittorio Lupi presidente dell'Associazione Sanremo Soul Music oltre a mons. Paolo Giulietti, direttore del Servizio nazionale per la Pastorale giovanile della Cei che collabora alla kermesse.

 

KRZYSZTOF PENDERECKI 

Compositore polacco nato il 23 novembre 1935

E' un autore che interpreta il Cattolicesimo in modo tumultuoso e problematico come appare bene nel suo affresco della PASSIO ET MORS DOMINI NOSTRI e pure nell'agghiacciante TRENODIA ALLE VITTIME DI HIROSHIMA, per 52 archi. Il titolo riprende evidentemente il termine greco Threnos nel suo significato di elegia, commemorazione funebre. 
Con la bacchetta impugnata nella mano sinistra, il 'mancino' Penderecki fa vibrare la sua musica già in sè carica di una grondante e barocca emotività. "Dalla fine del secolo scorso a oggi, molti compositori sono saliti sul podio - ha detto una volta in un incontro - e anche nel mio caso la vicinanza con la materia musicale mi ha indotto a usare una scrittura meno astratta". 
Come un drammaturgo può essere un pessimo attore, non è detto che un compositore famoso sia anche un ottimo direttore d'orchestra.

 

LA STORIA DI NATALE DI HEINRICH SCHUTZ

La Fiaccola, dicembre 2007

 

Nella lunga e stupefacente storia della poetica musicale cristiana si può trovare un autore come Heinrich Schutz (1585­-1672) che, educato alla scuola venezia­na di Giovanni Gabrieli (1555ca-1612) e mai dimentico dell'amato maestro e dei suoi insegnamenti, non teme di applica­re la francescana semplicità dello "stile recitativo italiano" alla lingua tedesca per raccontare, così nella titolatura comple­ta dell' opera, ‘La storia della nascita pie­na di gioia e di misericordia di Gesù Cri­sto, figlio di Dio e di Maria, il nostro so­/o Mediatore, Redentore e Salvatore’. Dopo aver trascorso più di 40 anni a Dre­sda come maestro di cappella al servizio dell'Elettore di Sassonia (di fede lutera­na), Schutz ottiene di potersi dedicare con più libertà alla propria ricerca reli­giosa e musicale e, tra il 1657 e il 1660, ormai in età da pensione, mette in musica (sono le prime parole musicate ) ‘La nascita di nostro Signore Gesù Cristo, co­sì come è stata scritta per noi dai santi evangelisti’.

 

L’uso delle voci e degli strumenti scolpisce le scene del racconto biblico

L’opera, eseguita per la prima volta alla corte di Dresda nel giorno di Natale del 1660, introduceva nella tradizione tede­sca una novità, che avrebbe portato i suoi frutti più maturi nella produzione di Johann Sebastian Bach (1685-1750). Il racconto dell'evangelista, infatti, non at­tinge più alla modulazione del canto gre­goriano, ma si dispiega secondo uno sti­le recitativo nuovo o italiano, da alcuni chiamato anche "monodia drammatica", grazie al quale ogni frase acquista colo­re e rilievo specifico.

Scrive Paul McCreesh, uno dei più stimati esecutori attuali di Schutz: «Il recitativo dell'evan­gelista, è sottile, pieno di detta­gli raffinati, capace di una me­ravigliosa fluidità».

Anche l'uso delle voci e degli strumenti, sobrio e raffinato, en­tra in campo in modo più crea­tivo e originale per scolpire le varie scene del racconto biblico e, soprattutto, l'intervento di al­cuni personaggi: la voce del­l'angelo è sempre accompagnata dal suono di due viole; il coro degli angeli è rappresentato mu­sicalmente da sei voci accom­pagnate dai violini e dalla dulciana (strumento antenato del fagotto); i re magi cantano co­me tenori bassi; Erode è dipin­to dalle trombe reali o dai corni; i sommi sacerdoti e gli scribi sono ca­ratterizzati dalla combinazione inusuale di quattro voci di basso e due tromboni. La struttura dell' opera segue passo pas­so la narrazione della storia del Natale secondo i due vangeli dell'infanzia.

 

SEGUENDO l'EVANGELISTA LUCA

 

Dopo l'introduzione citata, che musical­mente è ricostruita per coro, flauti e stru­menti a corda, a partire dall'unica voce rimasta (il basso), il racconto dell'evento natalizio è affidato all'evangelista Luca (Luca 2,1-21). Esso è suddiviso in quat­tro quadri da tre brevi e intensi intermezzi musicali: la nascita a Betlemme; l'an­nuncio dell' angelo ai pastori nei campi; il canto della moltitudine celeste; la visi­ta e l'adorazione dei pastori.

Alla bellezza del recitativo dell'evangeli­sta si accompagna il fascino sospeso dei brevi interludi strumentali e in sequenza: il canto dell'angelo che invita i pastori a non avere timore (dopo il primo inter­mezzo); la cascata sonora e la gioia irrefrenabile del coro degli angeli che risuo­na sopra la grotta di Betlemme (dopo il secondo intermezzo); le voci in tumulto dei pastori che si rincorrono e si intrec­ciano, quasi forma sonora della corsa a Betlemme "per vedere ciò che è acca­duto, ciò che il Signore ha fatto cono­scere".

 

L'ADORAZIONE DEI MAGI SECONDO MATTEO

 

Il racconto di Luca si interrompe all' e­vocazione della circoncisione di Gesù e lascia il campo alla narrazione matteana(Matteo 2,1-23) dell'adorazione dei ma­gi. Cinque brevi intermezzi musicali scan­discono sei quadri: la notizia dei magi; la domanda dei magi a Erode; la consulta­zione dei sommi sacerdoti e degli scribi; la subdola consegna di Erode ai Magi e la loro gioiosa adorazione; l'angelo in so­gno a Giuseppe per indicargli la via dell'Egitto; l'angelo in sogno a Giuseppe per indicargli la via del ritorno in Israele alla morte di Erode.

Resta inciso nella memoria lo struggente e incalzante canto dei magi alla ricer­ca del luogo di nascita del re dei Giudei, canto che si fa sereno e disteso nel di­chiarare l'intento ultimo del loro lungo pellegrinare, cioè la sua adorazione. Risuona nella mente e nel cuore dell'a­scoltatore anche il canto dell'antica pro­fezia di Michea che, preceduto e accom­pagnato dal possente suono dei trom­boni, è posto sulla bocca dei sommi sa­cerdoti e degli scribi.

 

Un'ultima parola è affidata all'evangeli­sta, ed è quella relativa alla crescita del bambino Gesù "in forza, spirito e sag­gezza"(Le 2, 40). Seguono la sigla di chiusura (Conclusione della nascita del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo) e la preghiera finale: "Rendiamo grazie al nostro Dio, al nostro Signore Gesù Cri­sto, che con la sua nascita ci ha illumi­nati e redenti e con il suo sangue ci ha strappati dal potere del diavolo. Noi lo preghiamo con tutti i suoi angeli, in mu­sica, cantando: Gloria a Dio nel più alto dei cieli".

 

Mentre sfumano le ultime note, ci si ac­corge di essere entrati più profondamente nel mistero santo del Natale, guidati da una ricerca musicale che ha fatto dell'a­derenza alla Parola, insieme testo scritto e Verbo fatto carne, la sua più intima ra­gion d'essere.

Non risulti un ostacolo troppo arduo la lingua tedesca dei testi. Le due edizioni discografiche che ho consultato [ed. Hy­perion 1990, esecutori The King's Con­sort, direttore Robert King; ed. Archiv 1999, esecutori Gabrieli Consort & Players, direttore Paul McCreesh] ripor­tano la traduzione inglese e francese. Se nessuna di queste lingue è conosciuta, si può prendere il testo del Vangelo in ita­liano e accompagnare la lettura all'ascolto.

 

Mons. Claudio Magnoli

 

LAURA PAUSINI CONFIDA

Laura Pausini confida: «Nel circolo Anspi di Solarolo ho imparato a cantare e a pregare Maria»

 

«Avevo appena cinque anni quando ho iniziato a cantare nel coro parrocchiale del circolo Anspi di Solarolo, il mio paese natale in Romagna. Il mio caro parroco, don Antonio Gamberini aveva capito fin d'allora che la mia voce poteva trascinare le altre. Così mi voleva sempre capocoro. In oratorio organizzai varie feste, con gare di canzoni. Nel coro ho imparato non solo a cantare ma anche e soprattutto le regole della vita personale e dello stare insieme con gli altri.

L'oratorio è stato il luogo della prima preghiera alla Madonna della Salute, la cui immagine tengo appesa sopra il mio letto a Roma. E ora, quando giro per il mondo e vedo che io sono tanto fortunata e molta gente sfortunata, mi ricordo delle preghiere imparate e le rivolgo al Signore».

 

LIGABUE

“Noi artisti non possiamo cambiare il mondo, ma soltanto raccontarlo”

INTERVISTA A LIGABUE 

“Noi artisti non possiamo cambiare il mondo, ma soltanto raccontarlo” 

“Il rock deve dare speranza” 

Di Gigio Rancilio 

Adesso che Capo d’Orlando gli ha dedicato un pezzo del lungomare, la sua Correggio deve come minimo fargli un monumento equestre, con tanto di chitarra a tracolla. Nessun’altra rockstar, infatti, è legata alla sua città natale come Ligabue. La racconta nei suoi film, nelle interviste e nei libri. E ai primi di novembre, per la riapertura dopo dieci anni del Teatro Comunale Bonifazi Vaioli (“L’ultimo concerto che è stato fatto era mio”) si esibirà per ben quattro sere, donando l’incasso in beneficenza ad associazioni locali. 

Una mossa tattica, direte voi. Visto che dopo 17 concerti in stadi e arene davanti a 400 mila persone, la vittoria al Festivalbar e 400 mila copie vendute del suo album ‘Fuori come va?’, Ligabue ripartirà a metà novembre 2003 con ben due spettacoli, nei teatri e nei palasport. Può darsi, ma a memoria d’uomo nessuno ricorda un concerto (famoso) di Vasco a Zocca. Il vero doppio tour di Ligabue comunque durerà sino a primavera. Partirà il 14 novembre dal Teatro Regio di Torino. E il giorno dopo toccherà il Palastampa, sempre a Torino. 

Ligabue, ma così rischia di trovarsi la prima sera i vip e la seconda i fans veri. 
“Il rischio c’è, ma spero che i concerti nei teatri non si trasformano in occasioni mondane. Non saranno concerti acustici. Semmai cercheremo di far convivere elementi moderni come i campionatori (sorta di computer in grado di “suonare” anche rumori o porzioni di suoni) con strumenti della tradizione popolare”. 

Userà questi concerti per preparare le atmosfere del suo nuovo disco? 
“E’ difficile dirlo. Io non riesco a progettare se non a breve termine. E poi non ho così voglia di cambiare una strada sonora come il rock in cui mi sento bene”. 

A proposito di rock. Perché, secondo lei, solo Bruce Springsteen ha avuto il coraggio di fare un disco, come “The Rising”, sul dopo 11 settembre? 
“Quello di Springsteen è un disco stupendo: erano anni che un suo cd non mi piaceva così tanto. Credo che Bruce abbia un modo, che ho sempre molto ammirato, di affrontare d’impatto le emozioni che vuole raccontare, infischiandosene del rischio di apparire retorico. Il suo lavoro dice cose chiare con un linguaggio popolare. Come d’altronde devono fare le grandi canzoni. 

D’accordo, ma perché solo lui si è espresso in maniera così netta? 
Perché da americano del New Jersey, ha sentito quella tragedia sulla sua pelle”. 

E lei? 
“La mia risposta a questi drammi la suono in ogni mio concerto”. 

Con la pacifista “il mio nome è mai più”? 
“No, con ‘Metti in circolo il tuo amore’. Perché credo sia questa l’unica vera strategia per fermare la violenza”. 

Però all’ultimo concerto di Verona un suo commento sull’11 settembre ha suscitato reazioni diverse nella platea… 
“Già, quando ho detto che non dobbiamo dimenticare che in Italia e nel mondo ci sono stati e ci sono ancora tanti piccoli 11 settembre mi sono accorto di aver messo in imbarazzo parte del pubblico. Ma io non rinuncio alle mie idee: sono da sempre di sinistra e il fatto che sia pacifista non vuol dire che debba far finta di niente su quello che succede nel mondo”. 

Eppure secondo Jackson Browne, Peter Gabriel e David Gilmour dei Pink Floyd “la musica impegnata ha perso: non può cambiare il mondo”. 
“Crescendo ti accorgi che siamo manovrati da enormi interessi economici impossibili da contrastare cantando. Però si può fare altro…” 

Per esempio? 
“Usare le canzoni per raccontare un punto di vista diverso, ma soprattutto per portare sollievo e speranza. Certo, così non si cambia il mondo, ma magari si muta l’approccio di alcune persone ai fatti della vita. E poi i cantanti devono avere anche la responsabilità che si possono permettere. La mia è di dare speranza col rock”.

 

LUIS BACALOV: ‘IO, MUSICISTA EBREO AFFASCINATO DA CRISTO’

Il compositore argentino è l'autore della «Misa Tango». ‘Con la musica sacra voglio avvicinare le religioni attingendo al repertorio etnico e urbano. La trascendenza? Chiama anche l'agnostico’.



Luis Bacalov: ‘Io, musicista ebreo affascinato da Cristo’

 

Di GIOVANNI RUGGIERO

 

Ci voleva un musicista argentino per sottolineare il «Credo» col bando­neon. Luis Bacalov è musicista, è na­to in Argentina, e lo ha fatto nella Misa Tan­go.

 

Sorpreso, maestro, di dirigere questa sua Messa in un' occasione così ufficiale?

 

Un po' sì - risponde -. Per cominciare è

cantata in spagnolo, non in italiano o in latino, poi perché non è un pezzo strettamente liturgico. Ho utilizzato solo alcuni brani dell' Ordinario. Per questa mia libertà fui criticato da un sacerdote e volli chiede­re il conforto di un esperto, il teologo Bru­no Forte, prima che divenisse arcivescovo. Non ci vide nulla di male. Insieme consul­tammo anche il cardinale Jorge Maria Meja.

Nessuno, mi dissero, mi avrebbe criticato

per questa mia scelta. Volevo, da un lato,

misurarmi con la dimensione sacra della musica, ma dall'altro ero perturbato, es­sendo nato in una famiglia di ebrei. Corre­vo il rischio che anche gli ebrei mi criticas­sero. Ma sapevo come rispondere.

 

Come avrebbe risposto?

 

Guardate che anche Gesù era ebreo! Io ho un grande rispetto per la figura di Gesù, c'è qualcosa che mi sconvolge nel suo mes­saggio. Non rinnego di essere ebreo – non me la sento di rinnegare mia madre -, ma

sono anche uno spirito libero e non mi la­scio condizionare da massimalismi, né cri­stiani né ebrei né musulmani. Questo la­voro, se ha un pregio, è di voler essere un granello di sabbia per l’avvicinamento delle fedi. C'è un unico Dio, ed è terribile che ci siano ancora divisioni e odi tra le fedi. Per fortuna la Chiesa cattolica attraverso il Con­cilio, attraverso le ultime parole di Giovan­ni Paolo II e le prime di Benedetto XVI, va verso la riconciliazione.

 

Pare che oggi i compositori abbiano ab­bandonato il sacro.

 

Come mai il liberalismo e l’illuminismo con il forte

anticlericalismo hanno interrotto la tradi­zione. Vedo però un ritorno alla composi­zione sacra, forse perché si sono smussati gli angoli. Le posizioni si sono molto avvi­cinate, non solo rispetto alle idee, ma ri­spetto agli atti che delle volte sono più im­portanti dei pensieri. Personalmente, in questo 2005 ho altri due progetti che han­no a che vedere con il trascendente

 

Come è nata questa «Misa Tango»?

 

Anche il più convinto degli agnostici, a un certo punto, si deve confrontare con la tra­scendenza e con il cosmo, ha un bisogno inconscio di fare qualcosa che riguarda il di­vino. Ricordo il romanzo di un rabbino a­mericano su una famiglia di ebrei

newyorkesi: il figlio diventa pittore e dipin­ge una Crocifissione. Si può immaginare lo scandalo; lo fa senza rinnegare il proprio ebraismo. Il suo gesto provoca un terribile strappo nella comunità, ma egli sente di far­lo. E’ un caso limite, certo, ma l'arte occi­dentale è così impregnata di sacro che non fare i conti con la trascendenza diventa im­possibile. Nel mio caso c'è una ragione pre­cisa: nella mia vita ho sentito il bisogno di

entrare attraverso la musica in contatto col divino, e l'ho fatto. Semplicemente.

 

Lei è conosciuto dal grande pubblico per colonne sonore come quella del «Postino», per la quale ha avuto l'Oscar: un musicista a quali note deve ricorrere per scrivere u­na «colonna sonora» della fede?

 

Ho fatto un' operazione chiara, ma non di­co che gli altri debbano fare allo stesso mo­do. Credo che il recupero della musica et­nica e urbana sia un elemento da mettere in conto, perciò ho usato il ‘bandoneon’ nel­la ‘Misa Tango’ che ha tutti i colori necessa­ri per esprimere la fede. Mi stupisco, sem­mai, che i musicisti italiani non abbiano pensato a una Messa a partire dal materia­le pugliese, siciliano, sardo o d'altre cultu­re dove la musica etnica è importante e for­te. Mi sento italianissimo: vuol dire che ci penserò io».

 

MOZART: TEOLOGI, TUTTI PAZZI PER LUI. INTERVISTA CON PIERANGELO SEQUERI, TEOLOGO E MUSICISTA

Pierangelo Sequeri: Teologi, tutti pazzi per Mozart     da Avvenire  06. 01. 2006

Intervista di Roberto Beretta a Pierangelo Sequeri, teologo e musicista

 

«È un classico che ci fa intendere quale sia il senso dell' accordo

tra ragione e Grazia. Già illuminista ma non ancora ateo, ha saputo incarnare un punto di equilibrio irripetibile»

La battuta di Karl Barth è abu­sata: «Quando gli angeli si ri­volgono a Dio, cantano Bach; quando si divertono tra loro, suonano Mozart:». Ma adesso sappia­mo pure che è "di parte", anzi qua­si "di lobby": il sublime Wolfgang Amadeus,l'enfant prodige di tanti

capolavori sacri e profani, figura infatti come il prediletto assoluto di una schiera di teologi insigni, ­tra cui Barth -, si direbbe quasi per la crème della teologia del Nove­cento. Lo rivela un curioso libro in uscita in questi giorni per la picco­la editrice Glossa e scritto da Pie­rangelo Sequeri: teologo col "vizio " della musica (ha composto anche noti inni per la liturgia). 'Eccetto Mozart. Una passione teologica' in­daga dunque sullo strano fenome­no che vede accomunati - nella schiera dei fan del genio salisbur­ghese -protestanti e cattolici, 'or­todossi' ed 'eretici'. Un Papa e un (quasi) scomunicato.

Dunque, don Sequeri, comincia­mo proprio dal protestante Barth. La sua battuta è attestata?

«Sì, la frase è vera ed esprime in forma paradossale la sorpresa che nella musica di Mozart ci sia qual­cosa d'eccezionalmente vicino allo spirito non solo religioso, ma addi­nttura liturgico; una realtà che, se appare scontata in Bach, non lo è affatto nell' autore del Don Giovan­ni. Peraltro Barth, nei suoi eleganti scritti su Mozart, non trascura di i­ronizzare affettuosamente sul cat­tolicesimo di Amadeus, suggeren­do implicitamente che la sua musi­ca è così in assoluto 'cristiana' che sarebbe fuori luogo ridurla a un'e­sperienza cattolica... Ed è curioso che gli replichi proprio il collega più eterodosso, ovvero Hans Kung, rivendicando la cattolicità del compositore pur in un'interpreta­zione largamente umanistica della musica di Mozart: la cui perfezione non sarebbe stata possibile senza la mediazione cattolica, come è di­mostrato dalla sua assuefazione al tema dell'incarnazione, che i catto­lici gli hanno insegnato a trattare con una certa confidenza».

Del resto -lei scrive - Mozart piace anche al dottrinalmente inattac­cabile Hans Urs von Balthasar...


«Il quale, se in teologia è stato me­ritoriamente custode di una certa intransigenza della parola cristiana intorno alla Passione, per Mozart fa un' eccezione; e sostiene che nella sua musica risuona la Grazia della creazione, così come doveva essere all' origine e come dovrà essere alla fine dei tempi. Insomma von Balthasar - così attento al valore della "gloria" ottenuta però attra­verso la sofferenza, l'espiazione ­per una volta concede alla musica mozartiana di parlare puramente della Grazia senza passare attraver­so il sacrificio. In Beethoven si sen­te il lavoro dell'uomo che deve conquistarsi la salvezza; in Bach ci sono lo sforzo e l'imponenza di ciò che deve essere fatto per Dio; in Mozart risuona la semplice traspa­renza di qualcosa che non dev' es­sere cercato né edificato, ma è semplicemente donato».

Pericolosamente vicino alla teoria protestante della salvezza per 'so­la grazia', no?

«È vero, ma l'elemento cattolico viene recuperato nel forte con­giungimento tra Creazione e Giu­dizio finale, nonché nella scarsa esasperazione del senso della perdi­zione e del peccato (come invece succede nella Riforma) per un'accezione più felice e misericordiosa della paternità di Dio».

 

E comunque, se Mozart piace a questo Papa, ogni rilievo di 'eresia' nei suoi confronti è destinato ad essere troncato sul nascere...

«In effetti Ratzinger ha detto che Mo­zart è il suo preferi­to anche alla tastie­ra e - da cardinale ­ha caldeggiato 1'e­secuzione di una sua messa in una vera celebrazione in Vaticano: cosa significativa, se consideriamo da un lato la competenza liturgica di Benedetto XVI e dall'altro la fama del povero Amadeus come inizia­tore del degrado della musica sacra proprio grazie alle sue "messe da teatro"... C'è invece un passo in cui Ratzinger sostiene con nonchalan­ce che Il Logos della creazione ri­suona in modo speciale nella litur­gia cristiana e che ascoltiamo in­tatto in Palestrina e Mozart. Da un altro punto di vista, Mozart è un classico cui ricorrere quando si vuol intendere quale sia il senso dell'accordo tra ragione e Grazia. Tutti i teologi succitati dichiarano che il loro attaccamento a Mozart è dovuto a un prolungato ascolto do­mestico e soprattutto delle partitu­re 'laiche': von Balthasar lo com­mentava la sera con gli studenti, Ratzinger se lo suona, Kung ne ha una lunga confidenza privata. Mo­zart - tutto, non soltanto le messe- ­possiede una curiosa capacità di suggestionare il teologo. La sua musica non è propriamente liturgi­ca, però gli esperti sono unanimi nel sostenere che in essa risuona lo spirito della liturgia cristiana».

 

Amadeus dunque più "religioso" di Bach? Di Beethoven?

«Più religioso non direi. L’origina­lità che sorprende una mente teo­logica è semmai che Mozart è già l'inizio di una musica 'antropocentrica', eppure conserva ancora tutto l'incanto dell'antica teologia musicale della creazione. E' già illu­minista ma non ancora ateo, incar­nando un punto di equilibrio irri­petibile. Bisogna risalire alla me­dievale Hildegarda di Bingen per trovare qualcosa del genere. Bach e Palestrina celebrano il cristianesi­mo e la Chiesa che lo contiene. In Mozart il contenitore è più 'laico' eppure, nella scena del mondo, la musica fa percepire nella sua pu­rezza assoluta il senso della Grazia che ci trascende, l'ordine del mon­do che viene da Dio e al quale aspi­rano come a una conciliazione tut­te le vicende umane: persino le Nozze di Figaro, ad esempio».

 

Eppure qualcuno ha scritto che per Mozart, cattolico di tradizione familiare e compositore sacro per mestiere, «la chiesa come edificio era, più che un luogo di culto, un posto dove si trovava l'organo»...

«È una tesi semplificatoria. Mozart ha avuto la sua convenzionale formazione catechistica, ha assimila­to sinceramente i concetti della fe­de e si è polemicamente trovato in contrasto con molte prese di posi­zione della Chiesa dei suoi tempi. Ma mantenne sino alla morte precoce un senso molto religioso della provvidenza di Dio, cui si appoggiò in. tutti gli eventi felici o infelici del­la vita. Certo Mozart faceva il musi­cista professionista, anche in chie­sa; tuttavia alla radice del suo com­porre per la Chiesa, magari su

commissione, stanno una reale sintonia e un attaccamento affetti­vo al principio cattolico della verità del sacramento celebrato».

 

Infine la domanda che tutti s'a­spettano: Mozart era massone?

«Bisognerebbe allora chiedere ai teologi sopra nominati (tra cui un Papa) perché si sono appassionati così a un massone... Ma io vorrei chiarire che all'epoca del composi­tore la massoneria era una sorta di club umanistico e Mozart - stretto nel legame istituzionale tra assolu­tismo e religione civile - non pote­va vedere di cattivo occhio un fer­mento che rivendicasse la libertà del pensiero senza negare un senso al mistero. La massoneria di Mo­zart non era ideologica e non aveva obiettivi segreti; era come aderire al Rotary oggi... E comunque non risulta documentato che abbia cor­roso il suo spirito cristiano».

 

Ma per lei, teologo e compositore, Mozart infine è 'spirituale'? Religioso? Cristiano? Cattolico?

«È tutte queste cose. Però il suo simbolo musicale sta nell'ispira­zione profonda che il mistero della vita creata da Dio è bello, è felice. Tale spirito religioso della creazio­ne viene restituito dalla sua musica in un modo cristallino in cui i suo­ni ispirano speranza alla vicenda umana. La sua è dunque una teo­logia musicale della speranza, della fede che ogni cosa vissuta e tutti gli affetti in cerca d'armonia non lo fanno invano. Questa è la cifra spi­rituale, religiosa, cristiana e anche cattolica di Mozart».

 

CONTROCORRENTE

Ma per Kierkegaard sotto la spiritualità la sua musica era «eros»

 

Allora Wolfgang Amadeus mette d'accordo ''Proprio tutti? A quanto pare tra la  teologia –cattolica e protestante senza distinzioni- e il compositore salisburghese si registra una sorta di affinità elettiva, sorprendente perché meno «scontata» di quelle, per esempio, con Bach o Beethoven. Una consacrazione assoluta quindi. Ma almeno un teologo «no Mozart» c'è: Soren Kierkegaard. Pierangelo Sequeri puntualizza che il filosofo danese «sostenne che in Mozart si evidenzia la radicale ambiguità della musica, che in Occidente è sempre eros pur se è tanto abile da simulare un'altissima spiritualità.        

Il ‘Don Giovanni' è emblematico perché, sullo spartito di Wolgang Amadeus, un cavaliere libertino finisce per diventare una specie di paladino dell'assoluto».

 

NICK CAVE I SALMI, CANZONI D'AMORE

Nick Cave il cupo. Nick Cave l’inafferrabile. Nick Cave il violento. A giudicare dal suo passato turbolento e dalla sua musica, da sempre votata ad indagare i lati più oscuri del lato umano e il rapporto spesso non facile tra uomo e Dio, è facile pensare ad un personaggio scontroso. Invece, alla conferenza stampa di premiazione del Tenco alla fine dello scorso mese di Ottobre (2002 n.d.r.), è emerso un nuovo lato del personaggio: cordiale, attaccato alla propria famiglia, disponibile a rispondere ad ogni domanda e scherzare. Ecco il resoconto dell’incontro con la stampa al Teatro Ariston.

Sei notoriamente il tipo che non ama essere premiato. Ma cosa sai di questa manifestazione?
Non so un granché del Premio Tenco. Mi hanno spedito un po’ di materiale quest’anno. Nel passato non ho mai voluto ricevere premi, ma quando ho visto la lista dei vincitori di questo premio, ho capito che non si trattava di una gara, di una competizione, ed ho deciso di accettare.

Nelle tue canzoni c’è la presenza costante di Dio. Cito la canzone di John Lennon “God”: “God is a concept by which we measure our plans”, “Dio è un concetto tramite il quale misuriamo i nostri progetti”. Condividi il pensiero di Lennon?
Credo che la canzone di Lennon dica una cosa interessante. Quando hai citato quel verso ho pensato: “forse l’ho detto io”…. Dio cambia sempre nei miei testi e nel modo in cui lo vedo. E' un concetto multiforme. Ho appena registrato il mio ultimo album, sono stato in studio per due mesi notte e giorno: ho lavorato sempre con i “Bad seeds”, un gruppo fantastico, è stata un’esperienza importante, un privilegio. Nel gruppo ci sono persone molto particolari, decise, ma abbiamo lavorato molto bene assieme. E, vedrete, nel disco cerco di scoprire altre facce di Dio.

La tua musica è sempre stata a cavallo tra peccato e redenzione. Nel nuovo album ti proponi come un peccatore o come un peccatore sulla via della redenzione?
Ho sempre vissuto cercando di stare sulla linea di divisione: da un lato il peccatore e dall’altro il santo… Ma non voglio dire molto di più, per il momento…

La tua fascinazione per le Sacre Scritture è sottolineata da un’introduzione al Vangelo di San Marco, pubblicata in Italia da Einaudi. Le stesse cose che scrivi in questa introduzione, si ritrovano nella tua musica. Perché hai scelto proprio il Vangelo di San Marco?
Ho molta familiarità con questo Vangelo, lo conosco fin da ragazzino. Mi è sempre piaciuto, soprattutto perché è breve, immediato, scritto in modo molto suggestivo. In particolare mi interessa la visione tragica di Cristo che ne emerge. La pensavo così quando ero giovane e la penso così anche oggi.

 

Pier Vittorio Tondelli lo aveva celebrato come uno dei massimi poeti del rock, quando scriveva: "I poeti ufficiali si nascondono dietro le loro scrivanie e i loro libri. Hai la sensazione che oltre la capacità combinatoria, oltre la perfezione formale, non esista un'anima. Nei poeti rock, più o meno maledetti che siano, questa anima è eccentricamente viva e pulsante. E non solo nei grandi artisti dei decenni scorsi. Ma anche nell'oggi. E' il caso di Nick Cave". Un nome di culto per la musica punk, un vero artista maledetto che insegue l'inferno e il nulla, nella speranza di una redenzione, quasi gridando a Dio il suo bisogno di salvezza. Tra i suoi punti di riferimento ci sono grandi scrittori come William Faulkner e Flannery O'Connor, che non hanno mai smesso di raccontare la dura lotta dell'uomo in un'ottica biblica, trasformando la desolazione dell'America sudista in una metafora della terra promessa.

 

Fulvio Panzeri

 

Nick Cave, Tutte le canzoni 1978 -2001, Mondadori, 2003  

E la Bibbia è anche uno dei punti di riferimento di Nick Cave: "Intorno ai venti anni, cominciai a leggere la Bibbia, e trovai una infinita fonte di ispirazione nella brutale prosa del Vecchio Testamento, nella sensazione provocata dalle sue parole e dal suo immaginario, specialmente nell'apprezzabile serie di Canzoni d'Amore, poesie note come Salmi". 
E' un ricordo che emerge nel testo di una conferenza sul tema della "Vita segreta delle Canzoni d'Amore", tenuta dall'artista australiano a Londra, nel 1999 e pubblicata come introduzione a Tutte le canzoni 1978 -2001, tradotte da Michele Monina e pubblicate da Mondadori. Non è una semplice conferenza quella tenuta da Nick Cave, ma anche un'appassionata confessione sul suo fare musica, sulla necessità di scrivere canzoni, sul suo rapporto con Dio e con il religioso. La necessità di scrivere canzoni, di iniziare ad articolare le parole nasce dalla perdita del padre: "L'attualizzazione di Dio attraverso il mezzo della Canzone d'Amore rimane la mia prima motivazione come artista. Io ho trovato questo linguaggio che è diventato un toccasana per le ferite provocatemi dalla morte di mio padre. Il linguaggio è diventato un balsamo curativo".

Ha un'idea molto chiara su come deve essere una Canzone d'Amore Nick Cave, segnato nella sua musica dalla lezione di Leonard Cohen. La riferisce ad una definizione del grande Federico Garcia Lorca, vale a dire a quella forma di tristezza, che rende la forza misteriosa che non si riesce a esprimere, chiamata "duende". E dice: "Tutte le Canzoni d'Amore devono contenere "duende" perché la Canzone d'Amore non è mai semplicemente felice. Deve innanzitutto abbracciare il potenziale per il dolore". Nick Cave, nel tempo, ha scritto circa duecento canzoni che per la maggior parte affondano le radici in esperienze personali dirette. Quelle che ritiene la vera espressione della Canzone d'Amore le intuisce come "dei salvagenti lanciati dalle galassie a un uomo che sta affogando". E si definisce "un acchiappa-anime per conto di Dio". E dice: "Eccomi che soffio vita nei corpi e li lascio svolazzare verso le stelle e la cura di Dio".

 

NICK CAVE, ROCKER

Vengono dalla Bibbia le sue visioni «punk» 

Vengono dalla Bibbia le visioni «punk» del rocker Nick Cave 

di Fulvio Panzeri

Pier Vittorio Tondelli lo aveva celebrato come uno dei massimi poeti del rock, quando scriveva: «I poeti ufficiali si nascondono dietro le loro scrivanie e i loro libri. Hai la sensazione che oltre la capacità combinatoria, oltre la perfezione formale, non esista un'anima. Nei poeti rock, più o meno maledetti che siano, questa anima è eccentricamente viva e pulsante. E non solo nei grandi artisti dei decenni scorsi. Ma anche nell'oggi. E’ il caso di Nick Cave». Un nome di culto per la musica punk, un vero artista maledetto che insegue l'inferno e il nulla, nella speranza di una redenzione, quasi gridando a Dio il suo bisogno di salvezza. 

Tra i suoi punti di riferimento ci sono grandi scrittori come William Faulkner e Flannery O'Connor, che non hanno mai smesso di raccontare la dura lotta dell'uomo in un'ottica biblica, trasformando la desolazione dell'America sudista in una metafora della terra promessa. 

E la Bibbia è anche uno dei punti di riferimento di Nick Cave: «Intorno ai venti anni, cominciai a leggere la Bibbia, e trovai una infinita fonte di ispirazione nella brutale prosa del Vecchio Testamento, nella sensazione provocata dalle sue parole e dal suo immaginario, specialmente nell'apprezzabile serie di Canzoni d’amore-poesie note come Salmi». 

E’ un ricordo che emerge nel testo di una conferenza sul tema della«Vita segreta delle Canzoni d'amore», tenuta dall'artista australiano a Londra, nel 1999 e pubblicata come introduzione a Tutte le canzoni 1978-2001, tradotte da Michele Monina e pubblicate da Mondadori (pagine 668, euro18,00). Non è una semplice conferenza quella tenuta da Nick Cave, ma anche un'appassionata confessione sul suo fare musica, sulla necessità di scrivere canzoni, sul suo rapporto con Dio e con il religioso. 

La necessità di scrivere canzoni, di iniziare ad articolare le parole nasce dalla perdita del padre: «L’attualizzazione di Dio attraverso il mezzo della Canzone d'amore rimane la mia prima motivazione come artista. Io ho trovato questo linguaggio che è diventato un toccasana per le ferite provocatemi dalla morte di mio padre. Il linguaggio è diventato un balsamo curativo». Ha un'idea molto chiara su come deve essere una Canzone d'amore Nick Cave, segnato nella sua musica dalla lezione di Leonard Cohen. La riferisce ad una definizione del grande Federico Garcia Lorca, vale a dire a quella forma di tristezza che rende la forza misteriosa che non si riesce a esprimere chiamata “duende”. 

E dice: «Tutte le canzoni d’amore devono contenere “duende” perché la Canzone d’amore non è mai semplicemente felice. Deve innanzitutto abbracciare il potenziale per il dolore.» Nick Cave nel tempo, ha scritto circa 200 canzoni che per la maggior parte affondano le radici in esperienze personali dirette. Quelle che ritiene la vera espressione della Canzone d’amore le intuisce come «dei salvagenti lanciati dalle galassie a un uomo che sta affogando». E si definisce «un acchiappa - anime per conto di Dio». E dice: «Eccomi che soffio vita nei corpi e li lascio svolazzare verso le stelle e la cura di Dio».

 

NOMADI, GRUPPO POP

Una musica che diventa impegno sociale

Una musica che diventa impegno sociale. Un rapporto straordinario con il pubblico. Questi gli ingredienti di un successo durato 40 anni. Oggi i Nomadi hanno all'attivo trenta album, migliaia di dischi venduti, 150 fan club sparsi per l'Italia. E decine di progetti di solidarietà nel mondo. 

di Silvia Pochettino

Ad ascoltarle bene le canzoni dei Nomadi sono un vero insegnamento di vita. Parole di una profondità sconcertante scivolano su note, che non hanno mai rinunciato a fare della vitalità il loro cavallo di battaglia. Pochi contorcimenti intimisti - tanto di moda oggi - il coraggio invece di gridare ancora dei valori, di fare, insomma, politica. 

Irrimediabilmente demodé? Non si direbbe, visto il successo che i loro dischi continuano ad avere: dai primi storici successi di “Dio è morto” e “Io vagabondo”, alle 300 mila copie di “Ma che film la vita” nel '92, le 250 mila di “Le strade, gli amici, il concerto” nel '98, fino al successo di “Liberi di volare” nel 2000 e “Amore che prendi amore che dai” del 2002. Una produzione copiosissima, oltre 27 cd, che attraversano con le loro note quarant'anni di storia. 

Nati nel lontano 1963, dall'iniziativa di due giovani allora sedicenni, Beppe Carletti (tastierista) e Augusto Daoglio (voce e anima del gruppo, improvvisamente mancato nel '92 per una malattia rapida e incurabile), i Nomadi festeggiano oggi quattro decenni di successo. Con una maratona di tre giorni di musica dal 13 al 15 giugno a Riccione, e l'uscita di un nuovo cd doppio "40 anni nomadi" con le 32 canzoni più famose dal '66 fino a oggi e due inediti. 

Racconta Beppe Carletti con l'inconfondibile accento emiliano: «Quello che mi ha spinto quarant'anni fa a iniziare questa avventura? E' quello che spinge tutti i ragazzi che sanno un po' suonare: la passione per la musica, la voglia di praticarla e di farne la tua vita». Ma un successo durato quarant'anni non è cosa da poco. Hanno superato crisi, cambiamenti di generazione, ondate e riflussi. 

Il segreto? «Un vero segreto non c'è se no scriverei un libro e farei successo sul serio - ride Carletti - Forse tutto sta proprio nel non inseguirlo troppo, il successo. Oggi i gruppi giovani sono condizionati dall'idea che se non sei famoso non sei nessuno. Per noi non è mai stato così. Suonavamo per la voglia di suonare, quel che contava era la passione e il rapporto con la gente che ci veniva a sentire». E così fanno ancora oggi. 

Il popolo nomade

«Un concerto dei nomadi non è solo un concerto, è un incontro di amici, un luogo in cui puoi fare delle cose e ti senti protagonista» sintetizza in una frase Daniela Pari, presidentessa di uno dei 150 fan club che, dopo la morte di Augusto, hanno cominciato a nascere e moltiplicarsi in tutta Italia, «perché i Nomadi non sono dei cantanti che stanno sul palco, sono degli amici, delle persone normali». E non è necessario essere in un fan club per cogliere l'atmosfera particolare che si respira a un concerto del gruppo. Immancabile la bancarella di Amnesty International e di Emergency, l'associazione Italia-Cuba e il Ciai. 

E il colore della gente: “pearcing people”, bimbi, vecchi. […] Un fenomeno che ha portato diversi commentari a definire la nascita di un vero popolo “nomade”; migliaia di persone (diecimila all’ultimo raduno a Novellara, paese natale del gruppo) che seguono tutti i loro concerti e in quella musica costruiscono un riferimento di vita e di impegno. 

Con rabbia e con amore

Quasi una filosofia. La vita nomade, come loro la definiscono, è quel misto di esplosiva voglia di vivere, attenzione agli ultimi, rabbia e amore, che ha prodotto negli anni, oltre ai dischi, numerosissime e inconsuete forme di solidarietà. Decine i progetti finanziati in Asia e America Latina (i più recenti una casa di accoglienza per i menomati dalle mine in Cambogia e un centro di assistenza per bambine prostitute in Vietnam), centinaia di concerti di solidarietà, una miriade di iniziative sostenute grazie al lavoro costante e capillare dei fan club. 

Partite del cuore, cene etniche, adozioni a distanza, vendita di gadget, ma soprattutto una rete sotterranea di solidarietà personali. «Quest'anno abbiamo dato i soldi raccolti ai genitori di Siria, una bambina malata di cuore» dice Daniela. 
Insomma una realtà sorprendente quella del Popolo nomade, da far invidia alle più grandi agenzie di cooperazione, ma senza struttura, senza burocrazia, senza personale pagato; tutto, solo, basato sulla spontaneità e la vitalità che lega i fan e i Nomadi. E i Nomadi alla musica. 

L'onda della solidarietà

«Abbiamo iniziato un po' per gioco - racconta Carletti - nel '94, dopo un viaggio a Cuba, lanciando dal palco una raccolta di matite e quaderni per quel paese. La risposta è stata enorme. Poi l'impegno è cresciuto come un'onda. Oggi raccogliamo anche soldi. E controlliamo noi stessi come vengono usati». Infatti Beppe è ritornato da pochi mesi da un viaggio in Cambogia, Vietnam e Thailandia dove ha visitato le iniziative realizzate con il contributo dei fan club. «E' stato bellissimo» racconta «visitare la casa di Battanbang o il lavoro condotto da Ecpat (rete internazionale contro la prostituzione e la pornografia infantili e il traffico di minori a scopo sessuale, ndr) per tog1iere dalla strada le bimbe prostitute. 

Ti viene voglia di fare sempre di più. Sono andato a controllare per rispetto di chi raccoglie i soldi per noi. Ma posso testimoniare che non un centesimo è stato sprecato. Anche i miei viaggi me li pago da solo».
E l'impegno sociale si traspone anche nella musica, ad esempio nel cd “Amore che prendi amore che dai” dove una delle canzoni più belle, “Angelo caduto”, parla proprio di prostituzione minorile, con quella poesia allo stesso tempo delicata e terribile che solo loro sanno fare. «Da tempo cercavo un testo come quello dell'Angelo caduto, ed è arrivato al momento giusto, in concomitanza con l'inizio del nostro impegno in Vietnam» dice Beppe. 

E precisa, con la classica limpidezza nomade: «non è che l'impegno sociale influisca direttamente sulla musica, semplicemente; non puoi vivere certe cose e cantare stupidaggini».

Cantare Dio

Comunque sia, non si tratta solo di cantare rabbia e amore (uno dei loro cd di maggiore successo), i Nomadi sono uno dei pochi gruppi rock che osa anche parlare di Dio. «E' inevitabile, per chi cerca di dare un senso alla vita». Ma come per tutte le altre cose, poca retorica. La dimensione spirituale delle loro canzoni e del loro modo di essere è ampia, senza rigidità. Cultore di questo aspetto e in particolare della spiritualità buddista è Danilo Sacco, nuova voce e chitarra dopo la morte di Augusto, che insieme a Daniele Campani (batteria), Cico Falzone (chitarra), Sergio Reggioli (percussioni e violino) e Massimo Vecchi (voce e basso) hanno dato vita alla nuova formazione del gruppo, rinnovando anche stile e musicalità. 

Ma la memoria storica resta Beppe, che racconta: «Ho avuto quattro incontri con il Dalai Lama, il primo nel '95, ed è stata una cosa veramente emozionante. Una persona con un carisma e un'energia incredibili». Poi, come sempre, sdrammatizza: «Ma non è che abbia cambiato niente nella mia vita, in fondo. Ricordo sempre che mi disse: “Tu non devi diventare un buddista, devi cercare di capire il buddismo per amare di più la tua religione” e questa è la cosa più bella che potesse dirmi». 

Tanti stimoli, tante esperienze che si accumulano dentro e poi esplodono nella musica; una vita vissuta a mille anche nei più piccoli gesti quotidiani. “Tutta una tirata, storia infinita a ritmo serrato, da stare senza fiato…” come in cantano in “Ma che film la vita”. 

La fine del riflusso 
E gli incontri con tante culture diverse hanno portato anche alla nascita di una collana di musica etnica A world of Nomads, un lungo e insolito viaggio tradotto in musica. «Durante i viaggi di questi ultimi anni, in Sud Dakota, India settentrionale, Perù, Messico, Cuba, Marocco, ho lentamente maturato la consapevolezza dell'immenso patrimonio culturale racchiuso nella tradizione musicale di questi paesi». Così le royalties delle vendite di A world of Nomads contribuiranno ad aiutare le associazioni che si occupano di salvaguardare i diritti dei popoli nativi. «Non credo che la carità dei paesi ricchi possa salvare quelli poveri, e del resto non sono certamente in grado di fornire soluzioni a squilibri politici ed economici determinati da secoli di storia. Credo però che un progetto come questo sia un piccolo passo verso la rivalutazione di culture diverse e lontane, un modo per ridare loro quella dignità che i soldi non possono restituirgli». Tutto questo è il mondo nomade, così come la recente mobilitazione contro la guerra in Iraq, le bandiere arcobaleno sotto il palco, la partecipazione degli artisti a manifestazioni e incontri. Perché, si sa, come recita il Paese delle favole, "torna l'onda alla fine del riflusso".

 

PETER GABRIEL INTERVISTA

Intervista concessa a Radio Capital


Lavori con musicisti di cultura araba. Qual è il tuo rapporto con questo tipo di cultura? 

Nel suo complesso credo che sia una cultura molto ricca, e dal punto di vista musicale può fornire molte ispirazioni, c'è una passione tale nella musica araba che sprizza davvero vitalità e mi piacerebbe conoscere sempre di più. Mi piacerebbe vedere più collegamenti tra musicisti musulmani e musicisti cristiani, per esempio, visto che in un certo modo la politica di Bush è diretta più dalla fede e dal pensiero religioso. Un modo di vedere le cose che è responsabile di gran parte dei problemi che dobbiamo fronteggiare adesso, chissà, magari gli artisti potrebbero aiutare a costruire un ponte per dialogare tra le due religioni e culture. Ho degli amici arabi in America che dopo l'11 settembre se la passano davvero male, anche se è vero che i fanatici in questo momento li troviamo dappertutto. 

Hai detto che molto dipende dal pensiero religioso

Credo che sia Bush che Blair, invece che parlare di politica, 'predicano' su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Bush in particolare crede che sia stato Dio a dirgli di fare guerra all'Iraq. 
Questo mi fa davvero paura, perchè una posizione economica o politica si può discutere, ma una decisione religiosa, dettata da fede, un dogma, non è discutibile, non c'è modo di trattare. Questo succede da un lato, quello di Bin Laden, e dall'altro, l'Occidente. 

Di questo ho davvero paura, non sono certo un grande ammiratore della maggior parte delle religioni organizzate, penso che un sacco di gente riesce a coltivare la sua vita spirituale, ma una volta che viene incanalata nel potere arrivano i guai. 
Ti faccio un esempio: la posizione del Vaticano sul controllo delle nascite in Africa, sarà pure portata avanti con buoni propositi, ma in termini di vite umane si paga un prezzo troppo alto."

 

Pubblicato su Stilos n.4 V, suppl. al quotidiano La Sicilia, 28 gennaio 2003

 

TOSCANINI: DIO E BACCHETTA

Amico personale di don Gnocchi, teneva il crocifisso nel frac

Toscanini: Dio e bacchetta

di Roberto Beretta. Avvenire marzo 2007

 

Bestemmiatore incallito. Furioso e implacabile nei frequenti scatti d'ira. ­Donnaiolo impenitente. Assolu­tamente non praticante. Eppure credente... Davvero rischia di di­ventare un ritratto almeno par­zialmente inedito, questo Tosca­nini dolce tiranno che dovrebbe riepilogare «la vita, l’arte, la fede nel racconto delle figlie e degli amici» del grande direttore d’orchestra parmigiano, del quale quest'anno ricorrono il 50° della morte e il 140° di nascita; soprattutto per quel terzo termine - la fede - ­che in effetti risulta sottaciuto dalla maggior parte delle biogra­fie, compreso il recente Toscani­ni di Gustavo Marchesi (Bom­piani).

 

All'impegnativa dimostrazione si è accinto per Ancora (pp. 240, euro 15) Renzo Allegri, giornalista di lunga navigazione, che riepiloga così molti decenni di critica musicale, con relativi incontri e interviste a testimoni toscaniniani, cominciando da un memoriale trascritto negli armi Settanta e personalmente riveduto dalle figlie del maestro, Wally e Wanda Toscanini. Dun­que: non è facile trasformare in un quasi «buon cristiano» un ar­tista del quale sono noti, insieme all'enorme talento, alla leg­gendaria memoria che gli per­metteva - primo al mondo – di dirigere senza spartito, alla ca­pacità di lavoro, al perfezionismo tecnico) gli apocalittici scoppi d'ira, conditi da esplicite offese a Dio: «Tirava bestemmie - attesta un collega - che sem­bravano fulmini». 

Così come so­no risaputi i tradimenti della moglie, compreso un rapporto extraconiugale che gli diede un figlio, e sono note certe lettere che riportano - ammette lo stes­so Allegri - «forti invettive di ti­po anticlericale» (dall'America Toscanini criticò la Chiesa per­ché non aveva preso posizione chiara contro il fascismo: che peraltro lui stesso, agli inizi, ave­va sostenuto...). Né aiutano troppo le osservazioni del bio­grafo sull' educazione cattolica impartita al piccolo Arturo dalla severa madre Paola, e non rassi­cura nemmeno la notizia che ­durante la quasi decennale fre­quenza da convittore interno al conservatorio - il futuro genio della bacchetta fu soggetto per regolamento alle preghiere quo­tidiane e alla messa domenicale (cui «si ribellò una sola volta»...).

 

Semmai colpiscono altri detta­gli, come la visita effettuata in incognito nel 1945 (Toscanini a­veva già 78 anni) alla chiesa del­la sua prima comunione, rien­trando a Parma dall' esilio in A­merica, o ancor più il fatto che il prestigioso direttore tenesse nel­la tasca interna della giacca, dal­la parte del cuore, un crocifisso, e spesso lo cercasse con la mano quando era sul podio: qui «c'è quello che salva tutto», disse u­na volta in una delle sue rarissi­me confidenze "religiose" a un amico fidato, il «Padre Superio­re».

Mentre alla figlia Wally, che gli chiedeva se fosse credente, Toscanini rispose altra volta da inveterato emiliano: «Certo, io credo in Dio. Non credo molto nei preti, a meno che non siano santi come don Gnocchi...». Si tratta comunque di annotazioni relative alla vecchiaia del musi­cista, quando - scrive il biografo - «non è che avesse ritrovato la fede» però «aveva abbassato la guardia della sua spietata riser­vatezza e lasciava intravedere un po' del suo animo in cui la pre­senza viva di Dio non era mai stata cancellata».

 

Forse dunque lo stesso Allegri converrà se, leg­gendo il suo pur appassionato saggio, il lettore verrà convinto del «cattolicesimo» toscaniniano non tanto dalle (poche) manife­stazioni esteriori di fede pazien­temente accumulate, quanto dalla levatura morale e artistica del maestro - quella sì indiscuti­bilmente «religiosa». La durezza anzitutto verso se stesso e poi verso orchestrali e cantanti, per rispetto del suo lavoro e della musica; la disponibilità a met­tersi in gioco senza calcoli e anzi contro il proprio interesse medesimo per cause di passione e di giustizia (vedi il patriottismo che lo porterà a dirigere gratis un'orchestra militare fino a Monte Santo appena conquista­to, fino a Fiume liberata da D'Annunzio, oppure il sostegno dato al rilancio della Scala); la responsabilità verso la famiglia d'origine, da lui mantenuta fin da giovanissimo; lo scrupolo di onestà che non gli permetteva di accettare lo stipendio per i gior­ni in cui non aveva effettiva­mente diretto l'orchestra, né i privilegi che gli erano dovuti per il suo status; persino il senso di colpa che gli derivava dalle infe­deltà coniugali e la cura con cui seguì il figlio illegittimo, grave­mente handicappato: sono que­sti - senza dubbio - gli indizi più caratterizzanti di una fede in To­scanini. 

Che poi essa fosse espli­citamente cattolica, questo è al­tro conto. Lo era culturalmente, però: per il sentimento del dolore e del peccato, per l'assunzione personale di responsabilità e la mai deposta coscienza della propria vocazione. Per l'umiltà di sentirsi al servizio di qualcosa di superiore, la musica: comun­que un dono dall' alto e - chissà, forse - persino dall'Altissimo. Fu «un artista perfettamente sano, completamente onesto e assolu­tamente sincero», ha ricono­sciuto un biografo. «Io gli devo ­- rivela un altro ammiratore - il senso religioso della musica, in­teso come dono divino che si deve meritare e non profanare». E ha completato un critico: «Per questo adoratore del suono, del canto, ogni elemento della mu­sica ha essenziale importanza».


Che avesse dunque ragione don Carlo Gnocchi quando, essendo amico di famiglia, fu invitato dai parenti di Toscanini a recarsi in America per convincere il ve­gliardo a confessarsi almeno da lui e rispose invece: «Non è ne­cessario. Ha fatto tanto bene nella sua vita e non ha bisogno della mia assoluzione»?

 

VASCO ROSSI. TRASCINA LE FOLLE, STA CON GLI ULTIMI

Scarp de’ tenis. Luglio – agosto 2004

Tra le poche rockstar italiane in grado di competere con artisti internazionali, Vasco Rossi, nato nel 1952, è originario di Zocca (Modena).

Cresciuto a Bologna negli anni 70, dal decennio successivo raggiunge il successo come cantautore, dedicando numerosi brani al tema dell'emarginazione, come "Sally" e "Mi si escludeva".

Nato come disc jockey, fonda nel 1975 la prima radio libera in Italia, Punto Radio.

La grande svolta è del 1990, quando in due soli concerti realizza un record di

presenze. Da qui prende inizio la scalata ai vertici delle classifiche, fino all'ultimo successo, "Buoni o cattivi", uscito il 2 aprile 2004.

Vasco ha scelto di presentare l'album a Torino, ad una cena organizzata dal gruppo Abele, con don Luigi Ciotti, il sacerdote degli ultimi.

 

«Noi e Vasco - ha dichiarato don Ciotti­ abbiamo molte cose in comune. Lui si è riconosciuto nel nostro metodo, secondo cui è importante incontrare le persone, piuttosto che affrontare i problemi».

Né coi buoni, né coi cattivi. Vasco Rossi sta con gli ultimi e con chi resta indietro. Sorpresa? Niente affatto, per chi conosce bene "il Blasco". Infatti i temi dell' esclusione e della solitudine si affollano nei brani nell'ultima, splendida fatica del rocker di Zocca, appunto ‘Buoni o cattivi’, presentata nella comunità di don Luigi Ciotti. Suggestioni che peraltro tornano spesso nella disco grafia del Bruce Springsteen italia­no, da ‘Siamo soli’ a ‘Sally’.

Incontriamo Vasco nel camerino dello Stadio di San Siro. È reduce da un' epica performance in uno stracolmo catino, per una volta rubato al calcio. Non si è risparmiato davanti ai 75 mila fan (il doppio, se si sommano le due date milanesi), che hanno cantato con lui, scatenato e ispirato come non mai. Dal mega­palco vecchie e nuove canzoni sono arrivate al cuore di un pubblico che ormai abbraccia quasi tre genera­zioni di aficìonados. Milano è una delle prime tappe del nuovo tour, il primo a impatto zero sull'ambiente (anche se non sono mancate le ac­cuse di inquinamento sonoro): in­fatti le emissioni di anidride car­bonica prodotte dai lavori per alle­stire i concerti sono compensate dalla piantumazione di foreste in Costa Rica. A spese di Vasco.

Al ter­mine della fatica, arrivano in tanti alla corte del vecchio "re leone" per complimentarsi. Prima tra tutti l'amica Fernanda Pivano, scrittrice e traduttrice di Ernest Hemingway e di tanti romanzie­ri americani, che lo abbraccia e lo ringrazia, commos­sa, per le sue "parole d'amore" ai giovani.

Con Vasco parliamo dei più sfortunati, della solitu­dine nel mondo d'oggi, ma anche della sua breve esperienza in carcere, avvenuta vent'anni fa.

 

Vasco, hai presentato l'album "Buoni o cattivi" nella sede del Gruppo Abele, con don Luigi Clotti. In quell'occasione hai ribadito che non si deve giu­dicare, ma rispettare le diversità. Tu da che parte stai, con i buoni o i cattivi?

 

Tra i buoni e i cattivi, io sto dalla parte degli ultimi, dei più sfortunati, dei più disperati e disgraziati. Sto dalla parte di quelli che non ce la fanno. Dico sempre che bisogna considerarli come persone. E che anche per loro ci sia la dignità riservata a tutti gli uomini, anche se fanno errori, anche se non ce la fanno, an­che se sono gli "ultimi" e non i "primi".

In diverse canzoni, per esempio "Mi si escludeva" e "Sally", hai affrontato il tema dell'emarginazio­ne. Chi sono per te le persone che vivono su una strada?

 

Purtroppo sono in tanti a restare ai margini. È fisiolo­gico che non tutti, nella nostra società, riescano a es­sere esattamente come bisogna essere per andare bene in un mondo "straordinariamente splendido e perfetto" (sorride, ndr).C'è gente che non ce la fa, o che non ci vuole stare. Non ci sono buoni o cattivi, magari ci sono persone che hanno bisogno di es­sere aiutate, che sono in difficoltà, che hanno biso­gno di essere capite. Per questo rispetto molto l'im­pegno e le attività di don Luigi Ciotti, soprattutto per­ché le sue comunità di accoglienza non sono coerci­tive. In esse, insomma, non devi essere curato e gua­rito per forza.

Nelle tue canzoni ricorre Il tema della solitudine e della disperazione, che spesso fan­no precipitare le persone ‘nor­mali’ nella vita di strada. Perché l'uomo di oggi è così solo?

 

In realtà siamo soli: siamo entità singole, delle monadi. Entriamo in contatto tra di noi con la sensibi­lità, l'amore o l'odio. Ma restiamo soli. E si è a volte più soli in una coppia, quando non si è più uniti. Credo che si nasca e si muoia soli.

 

Hai cantato una versione struggente di ‘Amico Fragile’ a Genova il 12 marzo del 2000, poi ap­parsa nel doppio cd che celebra Fabrizio De Andrè. Una canzone che per De Andrè era autobiografica. Anche tu oggi ti senti fragile?

 

Molto. Sono fragile nel senso che sono duro come un vetro, ma se mi picchi in un altro modo, potrei crollare.

 

Giusto vent'anni fa sei stato per un breve periodo in carcere a Pesaro per fatti di droga. Tan­ta gente, quando esce con quel marchio, non riesce a reinserir­si nella società. Così finisce sulla strada o torna in galera. Se vuoi parlarne, cosa ti è ri­masto di quell'esperienza?

 

Sono stato sbattuto in galera per possesso di sostanze stupefacenti e ci sono rimasto 22 giorni. Credo che occorra far leva su tutte le esperienze, anche le più dure, spe­cialmente il carcere. Io l'ho fatto, mi sono liberato di tante "mena­te". Ho scoperto che potevo vivere, anche se non bene, in una stanza di quattro metri per tre. Da questa esperienza sono uscito fortificato. Probabilmente, però, se fosse an­data avanti, sarei impazzito... Di­pende da come la vivi.

 

 

Nel 1995 in un concerto a San Siro hai cantato ‘Il Generale’ di De Gregori. Poi l'hai riproposta nel tuo ‘Tracks’ del 2002 e la canzo­ne ha assunto un significato contrario alla guerra in Iraq, quasi un inno del movimento per la pace. Tu sei pacifista?

 

Non sono per le guerre, soprattutto se inutili. Tutti i conflitti sono fatti per soldi, per business, e sono sempre i più poveri a essere mandati a morire per gli interessi delle grandi multinazionali o dei potenti. Credo che le guerre vadano evitate a tutti i costi. Se siamo diventati civili dobbiamo trovare un altro modo di risolvere i problemi.

 

Nel settembre '99 è uscito il singolo ‘La fine del millennio’, dedicato a Massimo Riva, il chitarrista della tua band scomparso prematuramente. I pro­venti sono stati devoluti all'Associazione Massimo Riva per creare una scuola di musica per ragazzi a Zocca, il paese dove sei nato. Cosa può fare la musica per combattere il disagio e la povertà?

 

Non può fare molto per combattere la povertà, ma può aiutare la mentalità delle persone. La musica è una cosa straordinaria, è un altro universo possibile, come la letteratura: a volte molto più bello della realtà, ed è in grado di trasmettere fortissime emo­zioni. In questo senso la musica è un miracolo, e quindi può anche aiutare.



"Voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l'ha /... / Sai che cosa penso / che se non ha un senso domani ar­riverà". Sono parole della tua canzone ‘Un sen­so’, colonna sonora del film di Castellitto ‘Non ti muovere’. Credo che la gente della strada possa identificarcisi. Qual è la speranza di Vasco Rossi?

 

Per i senza dimora, e per chi non ce la fa, la mia spe­ranza è che possano trovare una vita più facile e meno dura. Anche se purtroppo capita che ci sia chi non ce la fa, perché gli si è rotto un meccanismo. Come dice la canzone "Sally", "sono vite in equibrio sopra la follia.

 

VINDEX, GRUPPO DI HEAVY METAL 'CRISTIANO'

Abbiamo contattato Ronnie, il bassita e leader della formazione slovacca dei Vindex, autore nel 2005 di un buonissimo album di heavy metal in stile anni ’80, che non disegna alcuni passaggi di power metal più recente.

Il gruppo, nonostante non sia formato al 100% da musicisti credenti, affronta in diversi testi tematiche cristiane e merita di essere scoperto.

Prima di tutto che ne dici, Ronnie, di raccontarci qualcosa della tua band? Se non sbaglio il vostro primo album, “Power Forge”, è del 2005, ma voi suonate insieme già da alcuni anni…

“Si, la band si è formata fra 2000 e 2001 come un mio progetto da seguire soprattutto in studio per registrare le mie composizioni. Il primo musicista che si è unito a me è un mio amico, il chitarrista Jozef Rigo (primavera del 2002). Quando abbiamo arrangiato le canzoni per due chitarristi abbiamo aggiunto nella line-up anche un chitarrista di talento come Ado Kalaber. All’epoca, per sfortuna, non riuscimmo a trovare un batterista in grado di suonare un sano classico heavy metal e siamo stati costretti ad usare la drum machine. Ludek Struhar, il cantante, è entrato nella band per ultimo. La cosa curiosa è che l’abbiamo conosciuto e siamo entrati in contatto con lui per via del suo lavoro con il tributo ceco degli Accept, i Flashback. Inoltre Ludek è anche conosciuto come batterista per aver fatto parte dei Premiere, una band ora sciolta, con la quale ha venduto veramente molti dischi nella vecchia Cecoslovacchia. 
Con questa line-up abbiamo registrato il nostro unico demo che è intitolato “Rise Up!” nel settttembre del 2003.
Subito dopo ci siamo dati da fare per trovare un batterista ed abbiamo trovato Adrian Ciel, un bravo musicista che si è unito a noi fra marzo ed aprile del 2004. Inoltre Jozef Rigo, che non poteva più suonare con noi per motivi personali è stato sostituito dal chitarrista Marian Micek nel maggio del 2004. Infine si è unito a noi anche il tastierista Jano Tupy, ad ottobre del 2004.” 

C’è molta differenza d’età fra i membri della band? Se non sbaglio il vostro cantante Ludek ha 37 anni… e gli altri? 
“Io ne ho 24, Ado 23, Adrian 26, Maros 28 come del resto Jano. Ludek ha 37 anni, hai ragione, è il più vecchi della band, ma questo non è certo un problema.” 

Parlando ancora di Ludek… ci credo che cantasse in un tributo agli Accept! La sua voce sembra un perfetto mix fra quella di Udo e Chris Boltendahl. Sei d’accordo? 
“Si, ma in certi frangenti assomiglia anche a Graham Bonnet (ex Rainbow, Impellitteri) più che a Boltendahl. Può cantare in molti stili, volendo sa anche sparare acuti come Kiske (Helloween) ma la cosa non gli interessa. A lui piacciono le linee vocali ruvide come quelle di Udo, che è poi il suo cantante preferito.” 

La vostra band è slovacca. Non so molto della vostra scena metal, vuoi parlarcene? 
“A dir la verità siamo l’unica band della Slovacchia ad avere un contratto con una label straniera. Ad essere onesti la scena metal slovacca è molto piccola. Non ci sono molti gruppi qua.” 

Alcune delle vostre canzoni hanno un chiarissimo messaggio cristiano, come la meravigliosa ‘Brighter Than Stars’ o l’altrettanto riuscita ‘Children Of Tomorrow’; possiamo considerarvi come una christian metal band? In genere di cosa trattano i vostri testi? 
“Non direi in modo completo. Io sono cristiano, cattolico; il 75% della popolazione slovacca è cattolica. Però gli altri ragazzi della band non sono credenti, almeno non ancora. D’altro canto la band può essere considerata cristiana, perché mio fratello Tommy, anch’egli cattolico, scrive tutti i nostri testi e spesso le lyrics sono decisamente cristiane.
Mio fratello ama affrontare varie tematiche. Parla di sentimenti umani, di quesiti vitali, tratta tematiche cristiane, ma anche di amore ed alcuni classici anthem in stile heavy metal. E’ difficile comunque spiegare a parole ciò che vuol trasmettere una canzone, secondo me bisogna sentirla.” 

Nella bellissima canzone ‘Brighter Than Stars’ troviamo Victor Smolski (virtuoso chitarrista dei Rage) come ospite per un assolo; come siete riusciti ad ottenere i suo contributo? 
“L’ho contattato io proponendogli di suonare un assolo su ‘Brighter Than Stars’; inizialmente Victor non mi ha accettato subito e mi ha detto che avrebbe voluto prima ascoltare l’intero album perché non avrebbe partecipato se non fosse stato convinto dal lavoro nella sua interezza. A quel punto gli ho spedito una copia di quanto avevamo già pronto in Germania. In breve l’album gli piacque subito e decise di suonare l’assolo di ‘Brighter Than stars’. Victor è una bella persona ed è il miglior chitarrista del mondo. E’ un grande onore averlo come ospite nel nostro disco e siamo molto orgogliosi di questo.” 

Siete soddisfatti del suono e della produzione di “Power Forge”? 
“Domanda astuta ;-)… Penso che il sond sia heavy, che il mix sia stato eseguito bene; il CD ha le palle e “spacca”. D’altro canto posso dirti che se avessimo la possibilità di rimetterci mano qualcosa cambieremmo; in fondo si trattava del nostro album di debutto. Adesso siamo presissimi con il nostro secondo CD a cui stiamo lavorando, che si intitola “Crossroads”; sicuramente per questo album lavorerò con l’esperienza che abbiamo acquisito per “Power Forge.” 

Il vostro primo album è uscito per un’etichetta italiana, la Steelheart. Lavorerete ancora con loro nel futuro? 
“Perché no? Più che altro vedremo di accettare il contratto con la label che ci proporrà le condizioni migliori; se verranno ancora da un’etichetta italiana accetteremo.” 

Uno degli aspetti che ritengo più inteessanti del vostro sound è che il suono del basso emerge con prepotenza e si sente molto bene, è la vera ossatura delle canzoni; sei d’accordo? 
“No, il nostro scopo è quello di far emergere tutti gli strumenti. In realtà noi suoniamo vecchio heavy metal e se tu ascolti classici come i primi album dei Black Sabbath o degli Iron Maiden noterai che lì il basso si sente anche di più ;-).” 

Quali sono le band di christian metal che vi hanno ispirato maggiormente e quali fra le seculari? 
“Considero soprattutto Impellitteri e il grande Rob Rock. Adoro i loro album. Anche gli Hellowen hanno scritto alcune canzoni di christian metal e mi piacciono molto.
Della scena secolare mi piacciono Megadeth, Yngwie Malmsteen, Rainbow, Rage, Led Zeppelin, Grave Digger e molti, molti altri...” 

Ok, saluta pure i lettori di Holy Steel come preferisci! 
“Thank you for reading this interview, check out our latest release and stay tuned, stay heavy !!! 

Chi vuol gustarsi del buon vecchio heavy metal votato alla luce contatti senza indugi i Vintex! 

Intervista raccolta da Leonardo Cammi