(Da E. Mounier, Il cristianesimo e la nozione di progresso, in id., Cristianesimo e rivoluzione, a c. di Marco Vannini, Firenze, La Nuova Italia, 1981, pp. 96-97 e 99-100).

Emmanuel MOUNIER (1905-1950)

Cristo, parola definitiva e sempre nuova sulla storia

Nel mondo come nell'individuo, il Dio cristiano è insieme Colui che il mondo non sfiora - noli me tangere - e Colui che gli è più intimo di se stesso - intimius intimo suo -.Non è soltanto un principio immobile cui tutto si volge; è il maestro che “conduce la creatura per gradi di perfezione (de Lubac), e lo fa [...] con una sorta di evoluzionismo sovrannaturale, che coinvolge nella propria azione tutta l'opera della natura. L'incarnazione non ha ritardato che per attendere che l'uomo avesse fatto lunga e molteplice esperienza della miseria umana e sentita l'esigenza di un Redentore ed insieme, attraverso la parola dei Profeti ed anche dei Sapienti, si fosse come “assuefatto alla Divinità”, secondo l'espressione audace di sant'Ireneo, che ancora più audacemente aggiunge che anche il Verbo doveva in qualche sorta assuefarsi ai nostri modi. E vi è ritardo nella Parusia, perché l'uomo dee ve assimilare progressivamente, per così dire, sviluppare il Cristo. [...]

Il Cristo è venuto e ha dato il suo senso alla storia. Il mondo non giuoca ai dadi il proprio avvenire: esso è già salvato, e gli sono state rivelate le condizioni della salvezza. La storia non è eterna, c'è una fine della storia, del mondo, del tempo. Il cristianesimo non è suscettibile di superamento. In altri termini, non è soltanto progressivo, è escatologico. Progressivo ed escatologico: la complessità dell'esegesi storica cristiana sta tutta in questo collegamento. Si ode spesso oggi contrapporre ad una concezione progressista della storia un ritorno al senso apocalittico della fede. Parrebbe che si dovesse optare tra un mondo che procede per gradi verso la perfezione e un mondo che si troverebbe come sospeso in un'eternità più immobile dei suoi movimenti, più minacciosa delle sue speranze, e in cui l'angoscia della fine, imminente ad ogni istante, avrebbe più valore della promessa sempre offerta dei giorni. È questo un rompere l'antinomia vivente, che è appunto il nodo della concezione cristiana d'una storia escatologica [...].

[È] ingiusto ritenere, insieme all'esistenzialismo ateo, che col dare un termine alla storia, il progresso cristiano sopprima quella piena disponibilità verso tutto il possibile, che fa la grandezza tragica dell'avventura umana. Certamente, tutto non è possibile in un universo, il cui destino spirituale è fissato. Ma quando quel destino dipende dalla quarta dimensione di una liberalità infinita, si ha il diritto di pensare che le sue realizzazioni nelle dimensioni dell'esistenza siano anch'esse aperte a possibilità infinite, in seno alloro duplice condizionamento sovrannaturale ed empirico.

L'indefinito del procedere è sostituito, nella visione cristiana, da un indefinito o, con più proprietà, da un infinito di sovrabbondanza, per chi accetti di porsi nelle condizioni della sovrabbondanza. Perciò, che in certo senso tutto si sia compiuto con l'incarnazione del Cristo non distrugge il valore della durata, il suo coefficiente di novità incessante. La trascendenza del Cristo dovrebbe essere una trascendenza pietrificata od avara perché la storia, dopo di Lui, non avesse a portarci più nulla di sostanziale, come sembrano talora asserire le affermazioni di Barth. Egli è venuto perché“ricevessimo la vita e la ricevessimo sovrabbondante”. Quando Egli traccia il campo della storia, non pone limiti, rende liberi, non ferma la vita, feconda.