(Da E. Bloch, Ateismo nel Cristianesimo, Aut Caesar aut Christus, tr. it. di Francesco Coppellotti, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 168-173)

Ernst BLOCH (1885-1977)

Buona novella come mossa contraria al timore di Dio

Doveva infine giungere qualcuno in grado di rendere curva la retta. Da sempre fu atteso un uomo siffatto prima dall'alto, ma poi, quando non avvenne nulla, dal basso. L'eroe doveva venire dai giudei,ed essere un inviato, ma svolgere meglio il suo incarico di chi lo fa per necessità. Poiché se il mondo non fosse in pessime condizioni non vi sarebbe bisogno di alcun Messia. Molto ha indugiato Gesù prima di presentarsi come tale: egli si considerò dapprima un discepolo del Battista, e ricevette il battesimo, poiché si sentiva impuro.

La storia della tentazione (Mt 4,3-6) mette in luce la convinzione di Gesù che sia proprio del diavolo il volersi chiamare figlio di Dio, e Pietro, il primo che lo chiama Cristo, viene perciò duramente attaccato (Mc 8,33). Sembra che in primo luogo siano state la “trasfigurazione” di sei giorni e la voce udita fuori delle nuvole (Mc 9,1-7) a portare Gesù alla coscienza della missione che tutto sorpassa. E già qui appare chiaro: la missione invero era dolce, ma per nulla intesa come un puro fatto interiore, quale si volle far apparire una volta che fallì. Infatti all'entrata in Gerusalemme Gesù accolse l'osanna che era pur sempre il vecchio grido del re del popolo. Esso era politicamente chiaro, perché si volgeva contro Roma: “Sia lodato il regno del nostro padre Davide” (Mc 11,10), “Osanna a colui che viene nel nome del Signore, il re d'Israele” (Gv 12,13).

Davanti al sommo sacerdote Gesù si professa senza esitare come il Messia non solo in senso spirituale e astratto, ma con tutti i segni di potenza tramandati ed attesi sin dai tempi di Daniele (Mc 14,62). Davanti a Pilato Gesù assume il titolo di re dei giudei; sotto il quale fu crocefisso poiché la croce era la punizione romana per la rivolta. Se fosse giusta l'idea che Gesù non volle essere l'atteso Messia giudeo, allora non si saprebbe come mai egli avesse esitato a dichiararsi il Messia, ed a che scopo avesse superato tale esitazione. Si sarebbe chiamato un uomo buono, un curatore d'anime e, al massimo, un seguace dei vecchi profeti; certo non, sarebbe stata necessaria alcuna allucinazione dal cielo per decidersi a questo rischio: Tu es Christus.

Gli illuministi in primo luogo, poi - con minore innocenza - i teologi liberali antisemiti hanno in tal modo staccato Gesù dal sogno giudeo del Messia, cioè a dire dalla escatologia anche politica. Ciò purtroppo inizia con la Vita di Gesù di Renan, fu scientificamente preparato da Holtzmann, Wellhausen, Harnack, e si concluse con il Cristo della pura interiorità.

Wellhausen ne tratta nel modo più ignobile dicendo a proposito del re dei giudei: “Il regno che egli aveva in mente non era quello in cui i giudei speravano. Egli riempiva la sua speranza e il suo desiderio rivolgendoli ad un altro ideale di ordine più alto. Solo in questo senso può essersi chiamato il Messia: che essi non dovevano aspettare nessun altro; egli non era colui che da loro era desiderato ma era il vero che essi dovevano desiderare. Se dunque si lascia alla parola il significato in cui essa fu generalmente intesa - cosa che realmente va fatta - allora Gesù non è stato il Messia e non ha voluto esserlo.

Il suo regno non era di questo mondo, cioè egli sostituiva qualcosa di totalmente diverso al posto della speranza del Messia” (Israelitische und judische Geschichte [Storia israelitica e giudea], 1895, p. 349). In questo modo viene gettata fuori dagli Evangeli l'escatologia, sebbene essa appartenga alle parti filo logicamente meglio testimoniate, e Gesù avrebbe annunciato un regno di Dio per così dire puramente etico, fuori del tutto dal sogno apocalittico, in cui fin da Daniele tutta la religiosità giudaica viveva.

È merito di Albert Schweitzer (Das Messianitäts- und Leidensgeheimnis [Il segreto della messianità e della passione], 1901) di avere ricollocato anche la teologia liberale nelle sue giuste proporzioni: Gesù ha posto l'etica (intesa come penitenza e preparazione al regno) all'interno dell'escatologia, non l'escatologia all'interno dell'etica. L'escatologico non è invero neppure da Schweitzer còlto nella sua realtà politica terrestre, ma esclusivamente in quella soprannaturale, troppo limitatamente soprannaturale, troppo lontana insieme dal nuovo cielo e dalla nuova terra; comunque è il regno che viene che in Gesù vale come elemento primario, non l'amore.

Il tendere verso l'amore consegue solo dal tendere verso il regno e il regno come evento cosmico catastrofico non è per nulla un evento della psicologia ma un evento del cosmo, che si apre verso la nuova Gerusalernme. Gesù vide in genere che nessun tempo rimaneva per un disfattismo della pura interiorità, poiché egli viveva totalmente ce nel senso migliore secondo l'annuncio pubblico profetico del Battista: “Fate penitenza, il regno dei cieli è giunto presso di voi”. Egli invia (Mt 10) i suoi discepoli a due a due nelle città giudee, perché diffondano la notizia; e li prepara alla calamità messianica imminente in cui essi come gli altri eletti troveranno dura persecuzione e forse la morte.

Egli non si aspetta nemmeno che i superstiti tornino da lui dopo che se ne sono andati, talmente è prossima per lui la fine del mondo, e l'avvento del mondo nuovo: “Voi non farete il giro delle città di Israele prima che venga il figlio dell'uomo” (Mt 10,23). Lo stesso “padre nostro” contiene così un legame immediato con le calamità dell’éschaton incombente; solo una traduzione falsa vi può leggere mera interiorità. “E non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male”: tentazione (peirasmós) non significa qui individuale seduzione al peccato, ma tribolazione, calamità escatologica, persecuzione attraverso l'Anticristo alla fine dei giorni.

Questa persecuzione deve essere eliminata, questo calice deve passare, il nuovo eone deve venire alla luce e la sua irruzione non deve lasciare tempo, troppo lungo tempo, ad una controrivoluzione. La fede di Gesù di essere il portatore del nuovo eone era così certa che lo abbandonò solo sulla croce nell'istante più terribile che mai un uomo abbia vissuto, insieme con il tormento della morte e più forte di esso, nel grido di disperazione tutto concreto: “Mio Dio perché mi hai abbandonato?”. Così può gridare solo chi vede svanita la sua opera che abbisognava di una preparazione concreta; questo non è il grido di un semplice condottiero di anime e di un re celeste del puro sentimento.

L'annuncio agli oppressi ed ai miseri era pieno di un impulso sociale nazireo-profetico e non di brame di morte o di consolazione altamente spirituale. “Egli predicava come uno che ha forza e non come gli scribi” (Mt 7,29) e senz'altro non come il Cristo sublimato che riflette i semplici toni dell'anima, e quindi della spiritualità e dei sentimenti per così dire eterni. Il lógion (Mt 11,25-30) è un grido di giubilo politico e religioso, esso indica nella maniera più inequivocabile l'avvento del Messia-re, e la sua ultima frase è un condono: “Il mio giogo è soave e il mio peso è leggero”. Queste parole non volevano intendere di certo il giogo della croce, il meno soave e il meno leggero di tutti i pesi, che invero non avrebbe mai annunciato la buona novella.
Dal punto di vista soggettivo Gesù si ritenne il Messia nel senso assolutamente tradizionale, così come oggettivamente egli meno che mai appare un imboscato in una interiorità che non si manifesta o il furiere di un regno dei cieli affatto trascendente. Al contrario la salvezza annunciata come Canaan, come il compimento di ciò che era stato promesso ai padri, senza caducità, senza trivialità, senza perdita, un Canaan superato in quintessenza: “Nessuno avrà abbandonato casa, moglie, fratelli, parenti o bambini senza ricevere ben di più in questo tempo, e nell'eone futuro la vita eterna” (Lc 18,29 ss.).

Nella mera attesa del Messia v'era già interiorità a sufficienza, così come nel creduto al di là v'era cielo più che a sufficienza; era la terra che aveva bisogno del salvatore e dell'evangelo. E se ancora vi fosse un dubbio se Gesù - prima della catastrofe della croce - volesse apparire come reale salvatore, questo dubbio sarebbe eliminato dalla stessa parola evangelo. Gesù, che non sdegnò nemmeno di agire come medico taumaturgo, usa la parola evangelo significando una guarigione miracolosa in tutta la terra attraverso il regno di Dio (Mc 1,15). Egli invia al nazireo Giovanni in carcere la seguente definizione per nulla interiore: “I ciechi vedono e gli zoppi camminano, i lebbrosi sono guariti e i sordi sentono, i morti risuscitano e la buona novella è annunciata ai poveri” (Mt 11,5).

Anche se dovesse apparire che alcuni passi - dove Gesù troppo parla dell'evangelo come di un'eredità da raccogliere (Mc 13,10; 14,9) siano stati semplicemente un'interpolazione successiva, nonostante ciò il termine stesso di evangelo non è di tarda formazione e non può apparire come dice John Weiss una “semplice espressione del linguaggio missionario”, post crucem e dunque spirituale. Piuttosto tale espressione fiorì proprio nel tempo di Gesù inequivocabilmente come parola di salvezza politica e religiosa per la fine della concreta miseria, per l'inizio della concreta felicità.

E non solo i giudei oppressi, ma anche i restanti popoli dell'Oriente nutrirono allora una speranza o un sentimento d'avvento in contanti. Persino i sazi romani loro oppressori usarono la parola evangelo come parola di pace, come pubblica parola di felicità di stile sibillino (sullo sfondo della deserta insicurezza nell'ultimo secolo della repubblica); nota rimase la profezia di un divino fanciullo regale in Virgilio, nella quarta egloga, riferita ad Augusto: “Magnus ab integro saeclorum nascitur ordo [...]redeunt Saturnia regna” cioè: gli aurei tempi di Saturno, i Saturnali, ritornano; questo e nessun altro è qui il significato dell'evangelo.

Una pietra d'altare nella Priene dell' Asia Minore celebra la data di nascita di Augusto letteralmente come un inizio degli evangelia per il mondo, come se vigesse l'età dell'oro. Dunque la parola s'introdusse anche in Palestina, in un mondo che più che mai aveva posto per una buona novella, entrandovi come una parola di felicità di carattere politico-sociale non mercanteggiabile con tutto il resto. Si legò senza rotture con l'Olam-ha-Schalom, con il regno della pace del messianismo tradizionale nei profeti. Non avrebbe potuto legarsi con l'interiorità fine a se stessa o con il culto dell'al di là; perciò nel linguaggio della missione si rese proprio necessaria quella generale inversione di significato a cui Gesù non ha mai messo mano. Sì, anche i cristiani delle catacombe che non si erano affatto rifugiati placidamente in un dualismo trascendente e neppure fecero pace con Nerone ed il suo regno: in caso contrario essi non sarebbero stati di certo gettati in pasto alle sue fiere. E questo impulso di Cristo, nient'affatto zoppo, non è stato certo il meno importante fra i motivi che hanno ispirato la guerra dei contadini, una guerra, non a caso, praticamente chiliastica.

Nella sua primitiva autenticità l'evangelo era identico con il senso reale che sovverte: “Il tempo è compiuto, e il regno di Dio è giunto vicino” (Mc 1,15). In summa sia l'evangelo sia il Messia stanno a significare che Gesù non ha inteso addolcire il suo ufficio relegandolo fuori dal mondo.