(Da F. Rosenzweig, La stella della redenzione, a c. di Gianfranco Bonola, Casale Monferrato, Marietti, 1985, pp. 371-377).

Franz ROSENZWEIG (1886-1929)

L’essenza del cristianesimo

Espansione verso l'esterno, ma non già soltanto fin dov'è possibile, bensì, che sia possibile o impossibile, espansione verso tutto, assolutamente tutto ciò che è esterno, e che perciò, nel presente di volta in volta attuale, può essere al massimo un ancora-esterno. Se questa espansione è intesa in modo così incondizionato, così illimitato, allora vale evidentemente anche per essa quanto valeva per il radicamento giudaico nel proprio intimo: nulla può più rimanere esterno ad essa come un che di opposto. Anche qui, anzi, tutti gli opposti devono in qualche modo essere fatti rientrare nei propri confini. Ma dei confini, simili a quelli che possedeva il proprio “sé” radicato in se stesso, sono totalmente estranei a questa espansione all'esterno, anzi sono per essa inconcepibili: L’illimitato che fa'sempre esplodere ogni confine, dove mai avrà confini? Certo non può averne lei stessa, l'espansione. Quanto a quell'esterno in cui l'espansione avviene, potrà forse avere confini, i confini del Tutto. Ma questi confini non vengono raggiunti nel presente e neppure in alcun presente futuro; infatti l'eternità può irrompere oggi e domani, ma non posdomani, ed il futuro è sempre soltanto posdomani.

Così anche il modo in cui gli opposti sono viventi, qui, dev'essere diverso che nell'immersione nel sé. Là essi entravano subito in tensione attraverso le interne figure di Dio, mondo, uomo; le tre figure erano vive come in un costante alternarsi di corrente tra quei poli. Qui invece gli opposti devono trovarsi già nel modo dell'espansione; solo in questo caso essi sono operanti ad ogni istante e in modo completo. L'espansione deve sempre avvenire lungo due vie distinte, anzi opposte. Sotto i passi della cristianità nelle tre regioni, Dio, mondo e uomo devono ogni volta fiorire necessariamente due tipi di fiori diversi, anzi questi stessi passi devono portare nel tempo in direzioni divergenti e ogni volta due forme di cristianesimo devono percorrere ciascuna la propria strada attraverso quelle tre regioni, in attesa di ricongiungersi un giorno, ma non nel tempo. Nel tempo esse procedono divise e solo procedendo divise sono certe di coprire in tutta la sua estensione l'intero Tutto e ciò nonostante di non perdersi in esso.

Solo in questo modo il giudaismo aveva potuto essere il popolo unico ed il popolo eterno, solo portando già in se stesso tutte le grandi opposizioni, mentre per i popoli del mondo quelle opposizioni compaiono solo là dove essi si separano l'uno dagli altri. Anche la cristianità, se davvero vuol'essere onninclusiva, deve allo stesso modo custodire in sé quelle opposizioni attraverso le quali altre forme di associazione, già nel loro nome e nel loro scopo, si delimitano ciascuna nei confronti di tutte le altre; soltanto così facendo essa si caratterizza come la forma di associazione che abbraccia tutto e tuttavia rimane unica nel suo genere. Dio, mondo, uomo possono diventare il Dio cristiano, il mondo cristiano, l'uomo cristiano solo secernendo dal proprio interno le opposizioni in cui la vita si muove e percorrendole fino in fondo ciascuno per conto proprio. Altrimenti la cristianità sarebbe soltanto un'associazione tra le altre, giustificata forse per il suo scopo particolare e nel suo ambito particolare ma senza la pretesa di espandersi fino ai confini del mondo. Ed inoltre se cercasse di espandersi al di là di quel. le opposizioni, certo la sua via non dovrebbe necessariamente dividersi ma non sarebbe neppure la via attraverso il mondo, la via lungo il fiu. me del tempo, bensì sarebbe una via nel mare impervio dell'aria, là dove il Tutto è esente da confini e da opposizioni ma è anche privo di contenuto. E non là, ma dentro al Tutto vivo che ci circonda, dentro al Tutto della vita, il Tutto costituito da Dio, uomo, mondo, deve condurre la via della cristianità.

La via della cristianità nella regione Dio si divide dunque in due strade; una dualità che è assolutamente inconcepibile per gli ebrei, ma sulla quale nondimeno si basa la vita cristiana. Per noi essa è inconcepibile, infatti l'opposizione che anche noi conosciamo in Dio è la compresenza in lui di giustizia ed amore, di creazione e rivelazione, proprio nella sua relazione incessante con se stesso. Tra gli attributi di Dio passa una corrente alternata; non si può dire che egli sia l'una o l'altra cosa; egli è Uno proprio nella costante compensazione tra gli “attributi” apparentemente contrapposti.

Per i cristiani al contrario la separazione in “Padre” e “Figlio” significa molto di più che una sem. plice scissione tra la severità divina ed il divino amore. Il Figlio è anche il giudice del mondo, il Padre ha “così amato” il mondo da donare totalmente anche suo Figlio; così severità ed amore non sono propriamente suddivisi tra le due persone della divinità. E neppure vanno divisi, poniamo, secondo creazione e rivelazione. Infatti né il Figlio è inattivo nella creazione, né il Padre lo è nella rivelazione. Peraltro la religiosità cristiana percorre vie diverse a seconda che si rivolga al Padre o al Figlio. Soltanto al Figlio il cristiano si avvicina con quella famigliarità che a noi è così naturale nei riguardi di Dio da farci apparire quasi impensabile che ci siano uomini che non osano condividere questa fiduciosa confidenza. Il cristiano osa comparire davanti al Padre soltanto tenendo la mano del Figlio: solo attraverso il Figlio, egli crede di poter venire al Padre. Se il Figlio non fosse uomo, non sarebbe di alcuna utilità per il cristiano.

Egli non può immaginare che Dio stesso, il Dio santo, possa abbassarsi fino a lui come egli richiede le non diventando uomo a sua volta. Qui affiora la componente pagana presente ineliminabilmente al fondo di ogni cristiano. Il pagano vuol essere attorniato da dèi umani, non gli basta essere lui uomo, anche Dio dev'essere uomo. La vitalità, che anche il vero Dio ha in comune con gli idoli dei pagani, diviene credibile al cristiano solo se diviene carne in un'autonoma persona umano-divina. Ma per mano di questo Dio divenuto uomo egli procede allora attraverso la vita, fiducioso come noi, ma, diversamente da noi, pieno di forza conquistatrice; infatti carne e sangue si lasciano sottomettere soltanto dai suoi pari. da carne e sangue, e proprio quel “paganesimo” del cristiano lo rende capace di convertire i pagani.

Ma al tempo stesso egli percorre anche un'altra via, la via che percorre direttamente con il Padre. Come nel Figlio egli ha direttamente assunto Dio nella prossimità fraterna del proprio “io”, così davanti al Padre può spogliarsi nuovamente di tutto ciò che gli è proprio. In prossimità di Dio egli cessa di essere un “io”. Qui sa di essere nell’ambito di una verità che si beffa di ogni “io”. Il suo bisogno della vicinanza di Dio è soddisfatto nel Figlio; nel Padre egli possiede la verità divina, Qui egli attinge la pura distanza e la fredda oggettività del conoscere e dell'agire che, in apparente contraddizione con la calda intimitàdell'amore, contraddistinguono l'altra via del cristianesimo attraverso il mondo.

Sotto il segno di Dio padre la vita si dispone sia al sapere che all'azione in ordinamenti solidi e stabili. Anche su questa via il cristiano sente lo sguardo di Dio diretto su di sé, e proprio lo sguardo del Padre, non del Figlio. Non è cristiano confondere l'una con l'altra queste due vie a Dio. È una questione di “tatto” tenerle distinte l'una dall'altra e sapere quando è il caso di percorrere l'una e quando l'altra. Quegli inattesi, fulminei spostamenti dalla coscienza dell'amore divino alla coscienza della giustizia divina e viceversa, così essenziali alla vita giudaica, sono sconosciuti al cristiano; il suo procedere verso Dio rimane duplice, e se l'essere costretto a questa duplice via lo dilacera, così gli è però consentito decidere per una delle due e dedicarsi completamente ad essa, piuttosto che oscillare qua e là nella zona di indistinto crepuscolo tra le due. Alla compensazione provvederanno poi il mondo e gli altri cristiani. Infatti, a ciò che qui in Dio si palesa come una separazione tra le persone divine, nel mondo cristiano corrisponde una duplicità di strutture e nell'uomo cristiano una dualità di forme di vita.

L'uomo, che come uomo giudaico vive in tutto l'incomponibile contrasto tra il suo essere amato da Dio e il suo amore di Dio, tra la sua giudaicità e la sua umanità, patriarca e messia, e che però in tutte qu:. ste opposizioni resta un uomo intero e proprio in esse è un uomo vivo, questo uomo nella cristianità si scinde in due figure. Non però due figure che necessariamente si escludano o entrino in contrasto. Ma due figure che percorrono vie separate e sono ancora divise persino quando, come può sempre accadere, si presentano insieme nello stesso uomo.

E di nuovo queste strade separate conducono attraverso tutta la vasta terra dell'umanità, nelle cui contrade forma e libertà sembrano in conflitto incessante. Ed è proprio questa contrapposizione che si può dispiegare interamente dentro la cristianità nelle due figure del prete e del santo. E ancora una volta non è che il prete sia soltanto l'uomo che diviene ricettacolo della rivelazione, mentre il santo sarebbe soltanto colui il cui calore amoroso fa maturare il frutto della redenzione. Il prete non è semplicemente l'uomo nel quale la parola della bocca divina risveglia con un bacio l'anima dormiente, bensì è l'uomo redento così da essere immagine e somiglianza di Dio, e preparatosi a divenire il ricettacolo della rivelazione.

E solo sul fondamento della rivelazione che gli è appena, e sempre appena giunta. e solo nella vicinanza del suo Signore che gli si è fatta sempre nuovamente gustabile e visibile, solo così il santo può, amando, redimere il mondo. Egli non può affatto agire come se non ci fosse un Dio che gli pone direttamente nel cuore ciò che deve fare; proprio come sarebbe impossibile al prete portare l'abito sacerdotale se non gli fosse già concesso di appropriarsi della redenzione nelle forme visibili della chiesa e con ciò, mentre esercita il suo ministero, di appropriarsi della prerogativa di essere ad immagine e somiglianza di Dio. Un elemento di arbitrarietà ereticale si nasconde nella coscienza dell'ispirazione divina Da che il santo nutre dentro di sé, mentre vi è un elemento di autodeificazione da Grande Inquisitore in quell'appropriazione dell'essere ad immagine e somiglianza di Dio che la veste sacerdotale comporta. Solenne autodeificazione sovrapersonale, momentanea arbirarietà personale, l'imperatore di Bisanzio che la pompa fastosissima ella più rigorosa etichetta innalza ben al di sopra di quanto è terreno e casuale, ed il rivoluzionario che scaglia la fiaccola incendiaria della sua pretesa istantanea / di colpo d'occhio [augen-blicklichen] sopra edifici vecchi di millenni, sono i limiti estremi di forma e libertà tra i quali si estende la vasta regione dell'anima; la via bipartita della cristianità l'attraversa totalmente.

Il mondo, che per l'ebreo è pieno di fluidi trapassi da “questo” mondo al mondo “futuro” e viceversa, per il cristiano si articola nel grande duplice ordinamento di stato e chiesa. Del mondo pagano si è detto, non erroneamente, che non conosceva né l'uno né l'altra. Per i suoi cittadini la pólis era stato e chiesa a un tempo, ancora senza alcuna contrapposizione. Nel mondo cristiano stato e chiesa si divisero fin dall'inizio. Nel mantenimento di questa separazione si viene compiendo, da allora, la storia del mondo cristiano. E non che la chiesa soltanto sia cristiana e lo stato non lo sia.

Il “Date a Cesare ciò che è di Cesare” nel corso dei secoli non ha pesato di meno della seconda metà del detto evangelico. Infatti da Cesare proveniva il diritto a cui i a, la creazione. Già l'imperatore, cui si doveva dare ciò che era suo, aveva dominato su un mondo unificato per quanto concerne il diritto. La chiesa stessa ne trasmise il ricordo e la nostalgia di una sua ricostituzione in una età futura. Fu il papa a cingere la fronte di Carlo re dei Franchi con la corona dei Cesari. Essa è rimasta sul capo dei suoi successori per un millennio, in dura lotta con la chiesa stessa, la quale, contro la pretesa universalistica del diritto imperiale, peraltro da lei stessa alim-entata, ergeva e difendeva il suo privilegio ed il suo diritto autonomo. Nella lotta tra i due diritti parimenti universali per il dominio sul mondo crebbero nuove formazioni, “stati”, i quali al contrario dell'impero, non pretendevano di conquistarsi il diritto sul mondo, ma di conquistare il proprio diritto.

Questi stati erano sorti dunque come ribelli contro l'unità giuridica, sottoposta alla tutela dell'imperatore, di un mondo creato da un'unica potenza creatrice. E nell'istante stesso in cui essi poterono credere di aver trovato un saldo fondamento nella creazione, nell'istante in cui lo stato ebbe trovato il suo nido nella nazione costituita dalla natura, la corona venne definitivamente strappata dal capo dell'imperatore romano e assunta dall'imperatore nazionale, novello re dei Franchi. A lui seguirono altri, rappresentanti delle proprie nazioni, ma insieme al nome di imperatore parve che anche la volontà di costituire l'impero fosse passata ai popoli; i popoli stessi divennero ora i portatori della volontà sovranazionale indirizzata al mondo intero. E se nei popoli questa volontà d'impero è stata ora ridotta in polvere dalle lotte incrociate, essa verrà presto ad assumere una nuova figura, Infatti nel suo duplice ancorarsi sia al divino creatore del mondo, di cui rispecchia la potenza, sia all'ispirazione del mondo alla redenzione, al cui servizio si trova, essa apre l'unica necessaria via della cristianità in questa parte del Tutto che è il mondo.

L'altra via passa attraverso la chiesa. Anch'essa si trova nel mondo.

Così non può far a meno di venire a conflitto con lo stato. Non può rinunciare a costituirsi in un ordinamento giuridico. Essa è appunto un ordinamento visibile, ma non tale che lo stato la possa tollerare, cose, ad esempio, si limitasse ad un ambito determinato, bensì è un ordinamento che non intende essere meno universale dello stato. Anche il suo diritto, e non solo quello imperiale, viene a toccare prima o poi ogni uomo. Essa si accaparra gli uomini per l'opera della redenzione ed assegna a quest'opera un posto nel mondo creato; pietre devono essere portate giù dai monti ed alberi devono essere abbattuti nei boschi, perché venga eretta la casa in cui l'uomo possa servire Dio. Poiché dunque è nel mondo, visibile e dotata di un proprio diritto universale, la chiesa non è affatto il regno di Dio così come non lo è neppure l'impero. Essa cresce nella sua storia secolare, mondana, attraverso i secoli incontro al regno, frammento di mondo e di vita anch'essa, e resa eterna solo se vivificata dall'atto d'amore dell'uomo. La storia della chiesa non è storia del regno di Dio, come non lo è la storia degli imperatori. Infatti in senso stretto non si dà storia del regno di Dio. L'eterno non ha storia, ma tutt'al più preistoria. I secoli ed i millenni della storia della chiesa sono soltanto la forma terrena, mutevole attraverso i tempi, intorno alla quale solo l'anno liturgico tesse l'aureola dell'eternità.