(Da F.W.J. Schelling, Sämtliche Werke, a c. Di K.F.A. Schelling, 14 voll., Stuttgart- Augsburg, Cotta, 1856-1861 [I-XIV]; Urfassung der Philosophie der Offenbarung, a c. di Walter E. Ehrhardt, Hamburg, Meiner, 1992; Philosophie der Offenbarung 1841/42, a c. di Manfred Frank, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1977)

 

Friedrich Wilhelm Joseph SCHELLING (1775-1854)

 

Il contenuto del cristianesimo è Cristo, il suo essere storico

 

Il contenuto essenziale del cristianesimo è proprio Cristo stesso, non ciò che egli ha detto, ma ciò che egli è, ciò che egli ha fatto [XIII, 196-197].

L'essenziale del cristianesimo è certamente l'elemento storico di esso, non il comunemente storico, per esempio che il fondatore è nato sotto Augusto, morto sotto Tiberio, ma quello storico più alto, sul quale esso propriamente riposa, e che è il contenuto suo proprio; ad esempio l'idea di un Figlio di Dio, che per rigenerare l'umanità divenne uomo. lo lo chiamo un elemento storico superiore, poiché il vero contenuto del cristianesimo è una storia in cui è intrecciato il divino stesso, una storia divina [XIII, 195].

 

Il Dio e il “lógos”

Giovanni fa uso di questa parola solo nel primo verso “en archêi ên ho 1ógos etc.” e nel verso 14 “kaì ho 1ógos sàrx egéneto”. Inoltre si lascia ben intendere perché Giovanni trovasse necessario, all'inizio di questa esposizione dottrinale, esprimersi del tutto astrattamente sulla persona di Gesù, e non trovasse adeguate le altre spiegazioni. Infatti il nome Gesù è il nome dell'incarnato; ma di questo non si può dire: “Egli era nell'inizio”. Non poteva usare nemmeno il nome Cristo, perché con questo sarebbe già pronunciato qualcosa; ma egli non vuole esprimere nulla e vuole rendere comprensibile questa persona del tutto da capo, a priori [Ehrhardt,468].

Nulla lo precede, nemmeno Dio stesso. Perché Dio stesso era nel suo puro essere, dove egli non è Dio [Paulus, 273].

Egli era, prima anche che Dio venisse rivelato come tale, che si mostrasse, - simpliciter. L'en archêi ên ho 1ógos è da prendere nel senso che nulla viene asserito eccetto ên - egli era. Significa anche semplicemente “egli era”, senza che vi venga aggiunta una qualche determinazione, dunque egli era nel puro essere, cioè in quell’actus purissimus dell'essere divino stesso, ma proprio perciò non come potenza particolare o Personalità. Queste parole indicano dunque con tutta precisione il momento in cui noi pensiamo il Lógos dapprima nell'assoluto inizio, ove egli cioè è il puramente essente di Dio. Il discorso, però, da questo momento dell'essere immemorabile passa subito oltre, là dove ciò che era in inizio, dove questo puro essere è già posto ex actu puro, ipostatizzato, potenzializzato, è fatto un essente, è presso Dio - pròs tòn theón [XIV, 104-105].

Ho theós, il Dio chiamato tale determinatamente, con distinzio. ne, presso il quale è il Lógos, è appunto colui nel dominio del qua. le sta l'altro essere distinto dal suo essere eterno, ho theós dunque è colui che nel seguito si chiama il Padre. Il soggetto (ho 1ógos) è presso Dio, anzitutto nella rappresenta. zione di Dio, ancor prima della creazione, ancora come potenza particolare distinta non realmente ma idealmente - cioè nella rappresentazione divina - ma anche nella creazione, ove già esso agisce come particolare (ed invero come potenza demiurgica), e non più semplicemente nella rappresentazione di Dio, ma realmente distinto da Dio, sebbene sia ancora presso di lui (non autonomo). Entrambi questi momenti sono abbracciati nelle parole “il soggetto (il Lógos) era presso Dio” [XIV, 105].

Se l'eternità viene presa in senso totalmente incondizionato,allora essa è quell'assoluto terminus a qua, che si intende se si dice: dall’eternità. Questa eternità, appunto perché pensata come assoluto punto di partenza, è il pensiero assolutamente semplice, il pensiero di una pura, semplice posizione dell'atto puro precedente ogni potenza, che non può accogliere in sé nulla che sia simile ad un succedere, ad un processo. Per questo appunto si trascorre subito oltre di esso, esso è solo momento, solo il pensiero di un attimo, che subito è abbandonato, che viene posto solo per allontanarsi da esso, in cui Dio stesso si trova, solo per allontanarsene senza sostarvi, il che accade in quanto egli vede quell'altro essere semplicemente possibile del quale egli si occupa - come ora diciamo - dall'eternità,da quando egli È [von da an, daß er Ist] [XIV, 106-107].

L'eternità assoluta è solo un pensiero dell'attimo; [...] sarebbe da chiamarsi sovratemporale, eternità che non ha ancora alcun rapporto col tempo, che non è neppure un primo momento, ma è sopra ogni tempo, e che precede solo nel pensiero il primo momento che è dall'eternità. Questa eternità pretemporale, che per se stessa non è ancora tempo, viene posta attraverso la creazione come passato, e con ciò come un tempo. Poiché con la creazione inizia un nuovo tempo (un nuovo eone), il qual nuovo tempo non è che il presente, e così possiamo dire che con la creazione soltanto in generale è posto il tempo; poiché il tempo è posto soltanto se sono posti passato, presente e futuro [XIV, 108].

 

Questa seconda Personalità (il Figlio) si chiama dunque eikòn toû theoû toû aorátou, l’immagine del Dio invisibile (Col 1,15), cioè proprio del Padre, che è invisibile già per il fatto che egli stesso non entra nel processo, come il Figlio però partecipa al processo, mentre il Padre, in quanto causa assoluta, in quanto colui che pone la tensione resta fuori della tensione; ma il Padre è poi anche l'invisibile nel senso particolare che egli nasconde la sua vera volontà, questa vera volontà diventa dunque visibile, cioè rivelata, solo attraverso il Figlio, e in questo senso questi è immagine del Dio invisibile, o, come lo chiama altrove lo stesso apostolo (Eb 1,3), il riflesso, il rispecchiamento (apaúgasma) del Padre, la riproduzione della sua vera essenza [XIII, 326].

La più rigorosa determinazione relativamente alla vera divinità di Cristo è incontestabilmente la seguente: che il Figlio sia così essenzialmente Dio, che il Padre stesso non sarebbe Dio senza il Figlio. Ora è universalmente noto che Dio nella pura, assoluta eternità sia inconoscibile, dunque neanche conoscibile in quanto Dio. Poiché là non verrà conosciuto nient'altro che l'essere necessario. Ma Dio è essenzialmente libertà, ma nella libertà rispetto al suo essere originario (poiché solo in ciò può consistere la sua libertà), nella libertà di essere creatore, egli si vede solo ed è solo in quanto ha il Figlio, che soltanto gli rende possibile la creazione, perché soltanto in lui egli ha ciò attraverso cui può ricondurre anche nuovamente in potenza l'altro essere, il contrario (il preinizio necessario, l'hypokeímenon necessario della creazione) [XIV, 112].

Adesso, poiché egli appare come Persona, adesso è passato il tempo dell'azione non compresa, adesso era venuto il tempo della comprensione e dunque anche della libera accettazione. I pagani non respinsero la luce nella sua azione ancora incompresa, semplicemente naturale, essi soltanto non lo compresero; i giudei però respinsero colui che era divenuto comprensibile, e non lo accolsero. Coloro però che lo accolsero (prosegue l'apostolo, che ora trapassa totalmente nel personale), coloro che lo accolsero, a costoro egli diede potenza (possibilità) di divenire figli di Dio, cioè di restaurare in sé la nascita divina interrotta con la caduta [XIV, 117].

- Questo soggetto [ho 1ógos] divenne carne ed abitò in noi, e noi vedemmo (etheasámetha, qui sta il rilievo maggiore) - dopo che egli era stato prima nascosto e compreso nel venire vedemmo la sua signoria come la signoria dell'unigenito Figlio del Padre (vedemmo in lui quella signoria che deriva dalla sua divinità originaria, dal suo essere uno col Padre; noi vedemmo in lui colui che è uno con il Padre e in cui veramente soltanto è il Padre stesso). La volontà infatti, in virtù della quale egli assume la natura umana, non è la volontà della semplice natura o potenza, è la volontà del vero Figlio, di colui che è nel seno, cioè nella fiducia del Padre, e questo soggetto proveniente dal cielo, cioè dalla stessa Divinità originaria, si rivela appunto come tale solo nell'incarnato [Mensch gewordenen], cosicché appunto per questo chi vede l'incarnato vede il vero Figlio, divino, dunque il Padre stesso. Questa è la fine degna di stupore di quella storia che incomincia con l'inizio delle cose, anzi dello stesso essere, di cui Giovanni nell'inizio del suo Evangelo traccia il disegno con tratti rapidi e delicati, ma tuttavia profondamente penetranti, una storia che arricchisce la nostra interiorità più di ogni altra, [...] e sapere la quale vale più di ogni altro sapere [XIV, 117-118].

 

Anche qui [Ap 19,13] 1ógos significa soltanto soggetto, ho 1ógos toû theoû dunque soggetto di Dio. Poiché di fatto (secondo la nostra concezione) il Figlio è = al primum subjectum divinitatis. Dio non c'è anzitutto se non nella forma del semplicemente esistente; sua essenza è, se posso dire così, solo dopo il suo essere. Ma proprio queIl'actus purus, che precede l'essenza, è poi espresso nella seconda potenza, il Figlio dunque = all'inizio dell'originaria esistenza di Dio. E certamente il nome, se significa questo, poteva essere chiamato misterioso; chi ha infatti presagito questa connessione? Questo è espresso certamente in modo ancor più determinato nella Lettera agli ebrei, dove il Figlio è denominato charaktèr tês hypostáseōs autoû (1,3), expressa imago -l'essenza coniata della sua ipostasi, cioè dell'actus purus, che è certamente ipostasi, il prius della Divinità nel senso prima chiarito [XIV, 96].

L'uomo originario nella Trinità

Quella potentia existendi che il Padre trova in sé, nell'essente in della sua essenza, è soltanto la forza generatrice del Padre. Essa non è il Padre, ma solo la potenza del Padre, anche nel senso che egli, sia nell'inizio che nel procedere del processo, non è ancora Padre effettivo; Padre effettivo egli lo è solo nel e con il Figlio realizzato, questo però è realizzato in quanto tale soltanto nell'essente-fuori-di-sé pienamente superato, ricondotto nel suo in-sé, quindi alla fine del processo. Il Padre e il Figlio giungono quindi alla alizzazione l'uno con l'altro [XIII, 335-336].

Il Figlio realizza il Padre in quanto tale, come il Padre ha dato a lui di realizzare se stesso. Già qui si chiarisce cosa Cristo una volta dice: chi mi ama, amerà anche mio Padre, e noi andremo da lui prenderemo dimora presso di lui, monèn par’ autôi poiésomen - restererno presso di lui, lo abiteremo, in lui riposeremo, in modo che li stesso riposi, non ricada nuovamente vittima del processo [XIII, 336].

L’Incarnazione del Figlio o “kénōsis” di Dio

Senza dubbio la decisione per il sacrificio è un miracolo dell'animo divino, qui il divino spezza il naturale, qui è la più alta rivelazione, e poiché con questo atto è superata insieme totalmente, e non semplicemente per un istante, ma una volta per tutte la tensione,così appunto per questo; questo atto è l'ultimo e quello al quale nessun altro può seguire, quo nil majus fieri potest [XIV, 169].

Se Cristo avesse preso l'essere per sé e per così dire in seguito ad Un patto con quel principio cieco, cosmico, allora l'unità del mondo con Dio sarebbe stata lacerata per sempre, esso non avrebbe avuto più alcun rapporto possibile con Dio. Il singolare legame attraverso cui quel principio (= B) era ancora connesso con Dio, era appunto la Personalità mediatrice. Se questa avesse rinunciato alla sua connessione con il Padre, ci sarebbe veramente stato un !!londo totalmente indipendente da Dio [XIV, 49-50].

Zô dià tòn patéra, vivo attraverso il Padre, [...] vivo solo dal Padre, egli è la sostanza del mio essere, in quanto il mio proprio essere extradivino è mera forma. Il diá indica immanenza, come dice esplicitamente Cristo: il Padre che rimane in me (ho patèr ho en emoì ménōn) - che è continuamente in me la mia vera sostanza questi compie le opere (Gv 14,10) [XIV, 60].

L'umanità di Cristo può venire pensata come sussistente solo attraverso un actus continuus di alienazione [XIV, 192].

Senza il concetto di un Dio umanamente sofferente, comune a tutti i misteri e le religioni spirituali del tempo antico, tutta la storia resta incomprensibile; anche la Scrittura distingue periodi della rivelazione, e pone come un lontano futuro il tempo ove Dio sarà tutto in tutto, cioè dove sarà interamente realizzato [VII, 403-404].

La resurrezione di Gesù Cristo fra storicità ed escatologia

Poiché la potenza mediatrice rinuncia al suo essere fuori-di-lui, anche esso stesso deve rinunciare alla sua esclusione della potenza mediatrice, deve cioè rinunciare a sé come principio del non-volere,poiché esso può sussistere come tale solo nell'esclusione della potenza mediatrice, riconciliatrice, ma poiché questa compie una rinuncia ad ogni tensione con esso sino al punto di sottometterglisi fino alla morte, così appunto con ciò il principio ha perso la sua forza, esso è svigorito, ed è vero alla lettera ciò che dice l'apostolo (Eb 2,14): Cristo è divenuto partecipe della carne e del sangue umano, affinché egli attraverso la morte strappasse la forza a colui che aveva il potere della morte, che è il diavolo. Ciò stesso infatti che da parte di Dio è ciò che è voluto da lui (come punizione), è insieme ciò che si oppone a Dio, nemico a Dio, e che appunto nella necessità (nella maledizione) della morte aveva il suo potere.

Questa vittoria viene rappresentata in altro modo anche come un venire divorato di quel principio. Secondo la traduzione latina il passo di 1Pt 3,22: katapiòn tòn thánaton, ína zōês aiōníou klēronēmoi genēmetha, significa: dopo che egli divorņ la morte, affinché noi divenissimo eredi della vita eterna. B viene divorato da A se B viene spogliato della sua autonomia rispetto ad A. L'esclusione, che da parte del principio della morte era insuperabile, viene superata da parte della potenza mediatrice [XIV, 203-204].

La resurrezione di Cristo è il fatto decisivo di questa intera storia superiore, non comprensibile certamente dal punto di vista comune. Fatti come la resurrezione di Cristo sono come folgori nelle quali la storia superiore, cioè la vera, interiore, penetra facendo breccia in quella meramente esterna [XIV, 219].

Il giorno della resurrezione è tuttavia secondo la convinzione generale dell'apostolo proprio il giorno nel quale il Messia è stato dichiarato, rivelato [erklärt] anche come Figlio di Dio (Rm 1,4) [XIII, 330 n.].

La resurrezione di Cristo fu la prova decisiva della irrevocabilità della sua incarnazione, e del fatto che egli non si riservava della sua divinità null'altro che la disposizione d'animo [Gesinnung] divina, la volontà divina. Attraverso il libero perseverare nell'umanità ano che nella (dopo la) morte - solo attraverso ciò il Figlio ha indotto il Padre ad accettare nuovamente l'essere umano in lui, e con ciò l'essere umano in generale [XIV, 217].

Per il fatto che Cristo è risorto, che cioè egli non è divenuto prima uomo e poi ha cessato di essere uomo, ma che egli è permanentemente ed eternamente uomo, - per questo ci è venuto il dono della giustificazione, i dōreà tês dikaiosýnēs, e dunque anche il nostro presente stato di separazione da Dio è diventato uno stato riconosciuto da Dio, in cui noi serenamente, anzi lietamente possiamo muoverci, lontano da quel cristianesimo triste e autotormentantesi che può solo imporci un totale fraintendimento di ciò che Cristo ha fatto per noi [XIV, 218].

Il Padre era prima, cioè prima di ogni tempo, il Figlio è nel tempo,egli è la Personalità dominatrice durante la creazione presente, lo Spirito sarà dopo il tempo come l'ultimo Dominatore della creazione compiuta, ritornata nel suo Principio, dunque nel Padre: non che allora la Signoria del Padre e del Figlio cessi, ma solo che la Signoria dello Spirito sopravviene a quella del Padre e a quella del figlio. Con questo solo però essa è compiutamente rivelata e realizzata. Ciò che infatti Giovanni dice dell'uomo singolo: che l'inabitazione divina dell'uomo sia compiuta solo se lo Spirito Santo sopraggiunga, ciò vale anche per il Tutto. Il “giorno della Signoria” è il giorno della comune glorificazione del Padre, del Figlio e dello Spirito [XIV, 73].

Fino a che tutto è chiuso nel Padre, come nella creazione e prima del sorgere dell'essere extra divino (posto fuori di Dio), fino ad allora è Hèn tò pân, Uno, cioè il Padre, è tutto; ma qui alla fine viceversa è pân tò Hén, tutto, cioè ognuno, è Uno, ognuno cioè è Dio. Se perciò l'apostolo dice: il Figlio si subordina al Padre affinché Dio sia tutto in tutto, egli lo dice appunto per il fatto che il Figlio in questa subordinazione non cessa o non si dissolve nella sua specificità, perché altrimenti sarebbe di nuovo solo tutto in Uno, non tutto in tutto, cioè in ciascuno. Qui dove l'apostolo dice che Dio alla fine è pánta en pâsi, quei teologi che si fanno un merito di parlare solo sempre di e contro il panteismo, avrebbero la migliore occasione per parlare di un panteismo cristiano o almeno paolino. Propriamente però quest'ultima unità è solo il più elevato, sublime monoteismo [XIV, 65-66].



Finalmente tutto rimesso al Padre. Forse questo dopo, quando l'inferno non è più; e in questi periodi dell'eternità rientra dunque ancora la rigenerazione anche del male, a cui dobbiamo credere. Il peccato non è eterno, dunque neppure le sue conseguenze [VII, 484].

[Il Figlio è] l'unico salvatore e conservatore (questo infatti significa sōtér) della natura umana [XIV, 196]