(Da G. Gentile, La mia religione e altri scritti, Firenze, Le Lettere, 1992, pp. 64-67)

Giovanni GENTILE (1875-1944)

La mia religione

Voglio sperare che tra i miei ascoltatori nessuno voglia accusarmi che la mia religione umanizzi Dio, o divinizzi l'uomo e finisca col ridurre ad uno i due termini essenziali del rapporto. E tanto meno che voglia attribuirmi la matta pretesa dell'uomo creatore di Dio, come amano sentenziare i pavidi adoratori dei feticci; ché, purtroppo, ce ne sono anche nel seno della Chiesa cattolica, che salgono sui pulpiti e fanno inorridire le anime timorate con le storie inverosimili dell'attualismo. Codeste paure ed equivoci derivano dal separare poco cristianamente ciò che Dio ha congiunto: Dio stesso e l'uomo, facendone i due termini opposti di una via rettilinea, in cui non si potranno mai incontrare senza un miracolo che atterri l'intelligenza. Come se l'intelligenza non fosse necessaria anche per la religione a compimento del sentire, per riconoscerlo, pensarlo e confermarlo.

L'uomo e Dio sono certamente distinti; ma non sono separati se non come termini astratti dalla vivente realtà che è sintesi. Sintesi di Dio che si fa uomo, e uomo che la grazia adegua a Dio, facendo della sua la divina volontà (fiat voluntas tua!). Senza l'unità che è la ragione di questa sintesi, non c'è cristianesimo, non c'è religione dello spirito; che, per dir tutto con una formula, è dualità ma dualità che è unità. Il divorzio o antagonismo, che si pretende salvare, è peggio che paganesimo; perché anche il pagano credeva, e perciò confidava, sperando una riconciliazione del naturale e del sovrannaturale, dell'uomo con Dio.

L'uomo che scopre in sé Dio, e in certo modo quindi lo crea, non è l'uomo naturale, ma l'uomo che è spirito, entrato già nel regno dello spirito, ond'è uomo ma è anche Dio. Il quale pertanto viene ad essere creato non dall'uomo, anzi piuttosto da se medesimo. E il Dio che si umanizza è il Cristo; e chi, mercé sua, partecipa della sua divina natura. Di che è possibile che si scandalizzino i cristiani intelligenti? Io credo che il cristianesimo richieda intelligenza; richieda, come tutto ciò che è umano, spirito che ravvivi le parole, non parole che uccidano lo spirito.

E io vorrei si rispettasse un'esperienza che parla a gran voce attraverso tutti i secoli e sotto tutti i cieli. La quale attesta che l'intelligenza si può bandire e negare, ma con un'intelligenza superiore; e dimostra che nessuna psicologia è più acuta e scaltrita, nessuna analisi della vita spirituale più penetrante e più attenta di quella onde i mistici pervengono a quella loro esasperata conclusione, che la luce è nelle tenebre e che, insomma, per veder meglio bisogna cavarsi gli occhi. Né vale opporre che quel che conta nei mistici è non la via, ma la mèta; perché questa mèta è raggiungibile soltanto per quella via; che è esercizio d'intelligenza e imperterrita fiducia nelle sue forze. È teologia, ancorché negativa: cioè, filosofia. L'intelligenza si potrà usar bene, o si potrà usar male; ma chi può parlare di abuso, se non la stessa intelligenza? Contro la quale ogni polemica non potrà mai essere che ingratitudine nera, o scempia semplicità di spirito.

Anch'io, sì, ho sempre parlato di ignoto e di mistero, come dominio della fede religiosa; e affermato che la religione incomincia dove s'arresta il processo critico della ragione che indaga e scopre la verità. A definirlo, Dio è l'astratto oggetto; il quale, astratto che sia dal soggetto, è il Tutto, accanto al quale non rimane più posto al soggetto. Dio tutto, e l'uomo niente: è il motto del mistico, lo spirito più logicamente religioso. Ma ogni logica più rigorosa precipita nell'assurdo. E io ho pur detto tante volte che anche il mistico, malgrado il suo fiero proposito di annichilarsi, adora Dio.

S'inginocchia, si umilia, ma eleva gli altari, edifica i templi e li arricchisce con le fantasie ridenti dell'arte, in cui si riversa e trionfa, a vantaggio della stessa misticità del credente, l'esuberante dovizia della sua misconosciuta soggettività. E però ho avvertito che in concreto l'atto dello spirito non sarà mai né pura arte né pura religione, e che la sola religione che ci sia in atto è quella che si celebra nella effettiva vita dello spirito, dove tutto il suo vigore si spiega nella sintesi del pensiero. Perciò la religione si alimenta e coltiva nell'intelligenza, fuori della quale svapora e svanisce in un fantasma inafferrabile. L'esclusione reciproca degli opposti è tendenza a un limite, il cui raggiungimento sarebbe la caduta di entrambi gli opposti. La religione cresce, si espande, si consolida e vive, dentro la filosofia, che elabora incessantemente il contenuto immediato della religione e lo immette nella vita della storia.

Giacché la religione stricto iure non ha storia. La storia la contamina col suo svolgimento, che la sottrae alla immediatezza in cui il sentimento religioso si pone gelosamente come rigida verità, la cui alterazione è falsificazione, opera umana e non di Dio. Che è il motivo del sospetto in cui fin dalle sue origini la storiografia della religione fu tenuta, come sorgente e fomite di dottrine eterodosse ed eretiche. Ma, volere o no, la religione non può non passare attraverso il fuoco del pensiero per tema di bruciarsi le ali che la sorreggano nel suo volo a Dio. Nel fuoco del pensiero acquista essa il calore della vita e la forza onde tutto si assicura nella vita dello spirito, la forza del pensiero; sottratta alla quale la verità è lo schiavo di cui parla Platone, che, non legato alla sua catena, c'è finché c'è, ma può da un momento all'altro fuggire e dileguarsi.