(J. Maritain, Della grazia e dell’umanità di Gesù, tr. it. di Claudia Tosana, Brescia, Morcelliana, 1971, pp. 126-131).

 

Jacques MARITAIN (1882-1973)

 

La morte di Gesù

 

Della quinta tappa, Agonia e Passione, ho già fatto qualche accenno. Allora Gesù nella sua orazione non poteva più penetrare con la sua coscienza nel paradiso sovraconscio della sua anima; qualsiasi esperienza, attraverso le sue facoltà coscienti, di quel paradiso e del suo splendore, gli era negata, era la notte dello spirito al suo grado estremo, nel momento dell' Agonia e in quello della quarta Parola sulla Croce: Ut quid dereliquisti me?

E durante l'agonia nell'Orto e il sudore di sangue, la sua volontà umana desiderava ardentemente - non dico “voleva” con un atto di libera decisione, un atto di scelta, Dio me ne guardi! - dico desiderava [...] con tutto il peso della sua natura una cosa diversa da ciò che voleva la volontà di Dio. E il calice che chiedeva venisse allontanato, se possibile, non era solo la morte crudele e i tormenti della Passione e l'orrore del sacrificio, ma tutto il male del genere umano, male di peccato o di offesa a Dio e male di sofferenza, tutto quel male che egli vedeva riunito e che doveva assumersi per riscattarci, ma che sarebbe continuato fino alla fine dei tempi e del quale con tutto lo slancio più profondo dei suoi desideri di natura egli non voleva l'esistenza [...].

Comunque sia, durante l'agonia nell'Orto questa volontà umana, che secondo tutta la forza delle sue tendenze e desideri dì natura differiva da quella del Padre, si è, per libera disposizione, interamente e perfettamente sottomessa alla volontà del Padre, di Dio. La Tua volontà sia fatta, non la mia. Era l'obbedienza al sommo grado di perfezione. Per quanto riguarda, infine, la morte sulla Croce, vorrei insistere un po' sul momento - mi pare che ciò costituisca un unico momento, un ultimo tempo, un solo ultimum tempus - della sesta Parola: “tutto è consumato” e della settima Parola: “Padre, nelle Tue mani rimetto il mio spirito”.

Allora Cristo non vuole soltanto che sia fatta la volontà del Padre e non la sua; è invece la sua propria volontà che egli compie, volontà assolutamente una con quella del Padre nell'amore al più alto grado concepibile, nell'amore che consuma e trascende l'obbedienza, e in un atto di propria volontà ch'egli compie, volontà di supremo sacrificio e di suprema libertà.

Cristo, il Verbo divino che agisce mediante la sua volontà umana vuole il sacrificio, vuoI dare fino alla fine la sua vita (umana) per i suoi amici, vuole deporre questa vita, morire per soddisfare secondo giustizia a tutti i peccati del genere umano e redimere tutti gli uomini. In altri termini, egli vuole che siano separate l'una dall'altra, con la rottura più totale e più terribile che possa subire la natura umana, quella carne e quell'anima la cui unione sostanziale costituisce la sua vita, la vita umana che ha assunto.

Questo olocausto, Cristo lo vuole per amore, per amore verso il Padre e per amore degli uomini. Non c'è amore più grande. In quel momento la carità di Cristo, che è ancora viator, oltrepassa l'abisso che separa il finito dall'infinito, è portata al grado di perfezione suprema e insuperabile in cui si trova la carità di Cristo comprehensor, essa diventa infinita nel suo ordine, è l'amore al massimo grado concepibile in una natura creata - al culmine dell'unione mistica in cui, secondo l'espressione di san Giovanni della Croce, l'uomo e Dio sono un solo spirito d'amore. In altre parole, Cristo è morto sulla Croce per un'estasi d'amore, al culmine della libertà del volere, ed ha rimesso la sua anima nelle mani del Padre [...].

Dobbiamo qui ricordare la verità fondamentale che in ogni azione e passione è sempre il suppositum o la “persona” che agisce e soffre: tutto quanto Cristo faceva e soffriva, lo faceva e soffriva la Persona del Verbo, attraverso la strumentalità della natura umana.

Dobbiamo allora dire che allo stesso modo in cui Maria, essendo madre di Cristo, è Madre di Dio, così la morte di Cristo è stata la morte di Dio? Sì, lo si deve dire, per quanto rischi di essere terribilmente frainteso. Hegel non era imbarazzato a dirlo, quando voleva tradurre nella sua dialettica da falsario ciò che è accaduto il Venerdì Santo. E dopo Hegel, Nietzsche doveva riprendere questa espressione in un senso che, invece di pretendere di essere ancora cristiano, bestemmiava il cristianesimo, per annunciare puramente e semplicemente la morte di Dio, sostituito dal superuomo.

Resta tuttavia vero [...] che il Venerdì Santo “una Persona divina è morta” di una morte umana, il Verbo incarnato è morto, morto d'amore e volontariamente [...]. Unus de Trinitate mortuus est, è la formula usata dal secondo Concilio di Costantinopoli. Ecco lo scandalo della Croce. E alla Resurrezione è questo stesso Unus de Trinitate, è il Verbo Incarnato che riprende la sua vita umana, [...] che comunica alla sua anima umana il potere di riunirsi, per un atto della sua libera volontà, al suo corpo [...], Gesù è morto di una suprema estasi d'amore [...]. Non c'è stata agonia sulla Croce, ma soltanto il dolore e, alla fine, la morte inflitta dalla violenza e insieme volontaria...

Gesù è morto prima di quanto i carnefici si aspettassero: [...] ciò che ha realmente fatto morire Gesù è stato il suo supremo atto d'amore che offriva il suo “tutto”, il suo stesso essere di uomo, per la salvezza del mondo e per il compimento dei di segni del Padre [...].Se, in ragione dell'atroce crudeltà della Croce la morte di Cristo, dalla corona di spine e dal trasporto della Croce fino all'ora nona, è stata una morte immaginabilmente dolorosa, che dire tuttavia dell'ultimo momento in cui proprio prima della fine la sua coscienza di viator si è aperta sulla scienza infusa infinita e sulla visione dell'essenza divina e sulla suprema infinita carità racchiuse fino allora nel cielo sovracosciente della sua anima? Erano la visione beatifica e l'amore beatifico al loro grado supremo, e di conseguenza questo momento ultimo non è stato un momento di beatitudine? Sì, bisogna dire che l'ultimo istante in cui Gesù ha rimesso la sua anima nelle mani del Padre è stato una morte infinitamente beata...

E non si può dire anche che, a una distanza infinita da questa morte del Figlio di Dio, ma pure in una certa analogia con essa, quelli di noi che muoiono nel Signore […] si affacciano, all'ultimo istante della loro vita terrena, su quella vita eterna che il Redentore ha meritato per loro? [...] Non è raro vedere sul volto di quelli che amiamo e che ci hanno appena lasciato! un sorriso di una squisita dolcezza. Non si sorride quando si è entrati nella morte, ma quando si vive ancora, nel momento in cui si sta per entrarvi. Questo sorriso divino è il segno terreno, su quello che gli uomini chiamano un morto o una morta, di una beatitudine e di una vita che sono iniziate quando stava per finire l'esistenza terrena e che non avranno fine. Enumerando le ragioni per le quali Cristo ha voluto morire (era venuto per questo), San Tommaso ci dice che oltre alla ragione principale, che era quella di soddisfare per noi, un’altra era di “liberarci morendo dalla paura della morte”.