Da L. Feuerbach, L'essenza del cristianesimo, a c. di Francesco Tomasoni, Roma.Bari, Laterza, 1997, pp. 70-75).

 

Ludwig FEUERBACH (1804-1872)

 

Il segreto del Dio sofferente

 

La fede nel Dio fattosi uomo - e questo Dio è il centro della religione cristiana - non è altro che la fede nell'amore, tuttavia la fede nell'amore è la fede nella verità e divinità del cuore umano. L'uomo consapevole di sé, l'uomo che pensa, riconosce il cuore come cuore, l'intelletto come intelletto, ambedue nella loro essenzialità e realtà, come potenze divine, assolute. La religione invece, non essendo consapevole di se stessa e fondandosi sulla separazione dell'essenza in sé dall'effettiva realtà dell'essenza umana, giacché concepisce un'essenza diversa rispetto all'uomo vero, individuale, oggettiva anche come essenza diversa, obiettiva e anzi personale, l'essenza del cuore, come quella dell'intelletto.

 

Una determinazione essenziale del Dio incarnato o, in altri termini, del Dio umano, cioè di Cristo, è la passione. L'amore si conferma attraverso la sofferenza. Tutti i pensieri e le sensazioni, legati fin dall'inizio a Cristo, si concentrano nel concetto della sofferenza. Dio in quanto tale è l'insieme di ogni perfezione umana, Cristo l'insieme di ogni miseria umana.

I filosofi pagani esaltavano l'essere in atto, la spontaneità dell'intelligenza come suprema, divina attività; i cristiani consacrarono la sofferenza, la posero perfino in Dio. Se Dio come actus purus è il Dio della filosofia, al contrario Cristo, il Dio dei cristiani, è la passio pura - il supremo pensiero metafisica, l'être suprême del cuore. Infatti che cosa incute più impressione al cuore se non la sofferenza? E, ancor più, la sofferenza di chi in sé è esente dal dolore, di chi è al di sopra di ogni dolore, la sofferenza dell'innocente, del puro, la sofferenza motivata soltanto dal bene degli altri, la sofferenza volontaria, quella del amore, del sacrificio di sé?

Ma proprio per questo, poiché la passione è la storia più toccante per il cuore umano o, in generale, perii cuore - infatti per l'uomo sarebbe ridicola follia pretendere di rappresentarsi un altro cuore rispetto a quello umano -, ne consegue nel modo più inconfutabile che in essa non si esprime, non si oggettiva se non l'essenza del cuore e che essa ha la sua origine non nell'intelletto o nella facoltà poetica, bensì nel cuore umano. Il cristianesimo nella sua parte migliore, purificato dagli elementi contraddittori, caratteristici della coscienza religiosa che considereremo solo in seguito, è un'invenzione del cuore umano.

 

Tuttavia il cuore non inventa come la fantasia libera o l'intelligenza; si comporta in modo passivo, ricettivo; tutto quanto proviene da lui gli appare come dato, gli si impone con violenza, opera con la forza dell'impellente necessità. Il cuore soggioga, domina l'uomo; una volta che uno sia stato da lui afferrato, è preso come dal suo demone, dal suo Dio. Il cuore non conosce altro Dio, nessuna essenza superiore a sé, un Dio il cui nome può essere sì un nome particolare, diverso, ma la cui essenza, sostanza è la sua propria essenza. E dal cuore, dall'impulso interiore a fare il bene, a vivere e morire per gli uomini, dall'istinto divino della beneficenza che vuol gratificare tutti e non esclude nessuno, neppure il più reietto, il più oscuro, dal dovere morale della beneficenza nel suo più nobile significato, quando diventa una necessità interiore, cioè si fa cuore, dunque dall'essenza umana quale si rivela come cuore e attraverso il cuore, è sorta  la pars melior, la parte migliore del cristianesimo.

In verità ciò che la religione rende predicato, dobbiamo pur sempre prenderlo come soggetto e ciò che rende soggetto prenderlo come predicato, quindi dobbiamo rovesciare gli oracoli della religione, intenderli come contre-vérités, così abbiamo la verità. Dio soffre - soffrire è un predicato -, ma soffre per gli uomini, per gli altri, non per sé.

Che cosa significa ciò in tedesco? Nient'altro se non che soffrire per gli altri è divino; chi soffre, muore per gli altri, agisce in modo divino, è Dio per gli uomini. Ma l'amore sofferente, che si sacrifica, è l'essenza suprema del cuore. Dunque il Cristo è il cuore fattosi esso stesso oggettivo - l'impressione e il contenuto della sua passione sono puramente umani. Infatti che Cristo fosse al contempo Dio, Dio nel senso della religione o della dogmatica, è una rappresentazione vaga, vacua, fantastica. L'impressione positiva, reale sulla mente e sul cuore, l'impressione che unicamente esprime il contenuto obiettivo nella sua verità, è questa: egli ha sofferto volontariamente, se non avesse voluto, non avrebbe avuto bisogno di farlo, ha sofferto senza colpa, ha sofferto per gli altri, ha sofferto per puro amore.

Tuttavia un tale amore oltrepassa sì l'uomo comune, ma non l'uomo in sé, il vero uomo. Se, al contrario, unito a questa sofferenza umana, penso il contenuto soprannaturale religioso o dogmatico, se vedo il Cristo sofferente parimenti come Dio, allora si perde tutta la verità, allora egli ha sofferto, per così dire, solo da un lato, non dall'altro - infatti che cosa ha rappresentato la sua sofferenza per lui come Dio, consapevole della sua divinità, della sua eternità e beatitudine celeste? -, allora la sua sofferenza è stata tale per lui solo come uomo, non come Dio, è stata una sofferenza solo apparente, non vera - in breve, una mera commedia.

La sofferenza di Cristo non rappresenta però solo la sofferenza morale, la sofferenza dell'amore, della capacità di offrire se stessi per il bene degli altri: rappresenta anche la sofferenza in quanto tale, la sofferenza in quanto espressione della passibilità in generale. La religione cristiana è tanto poco oltreumana che anzi sanziona la debolezza umana. Se il filosofo pagano, anche alla notizia della morte del proprio figlio, esclama: sapevo di aver generato un mortale; al contrario Cristo versa lacrime sulla morte di Lazzaro - una morte che in verità è solo apparente. Se Socrate con animo imperturbato vuota il calice del veleno, al contrario Cristo esclama: “Se possibile, passi da me questo calice”. Sotto questo aspetto Cristo è la confessione di sé da parte della sensibilità umana. Il cristiano, in netto contrasto col principio pagano, in particolare stoico, caratterizzato dalla rigorosa energia della volontà e dall'indipendenza, assume nella coscienza divina la coscienza della propria suscettibilità e sensibilità; in Dio egli la ritrova non negata, non condannata, purché non sia una debolezza peccaminosa.

Soffrire è il supremo comandamento del cristianesimo - la storia del cristianesimo è appunto la storia della sofferenza dell'umanità. Se presso i pagani si mescolava al culto degli dei il giubilo del piacere sensuale, presso i cristiani, naturalmente gli antichi cristiani, rientrano nel servizio divino i sospiri e le lacrime del cuore sofferente, dell'animo. Come però laddove appartiene al culto il grido della gioia sensuale, è adorato un Dio sensuale, un Dio di vita, della gioia di vivere, anzi come questo grido di gioia è solo una definizione sensibile dell'essenza degli dei, cui è rivolto questo grido: così anche i sospiri dei cristiani provengono dall'anima più intima, dall'essenza più intima del loro Dio.

Il vero Dio dell'uomo è non il Dio della teologia sofistica, ma il Dio del servizio divino, che presso i cristiani è un servizio divino interiore. Tuttavia con le lacrime, con le lacrime del pentimento e dell'anelito, i cristiani, naturalmente gli antichi cristiani, credevano di rendere al loro Dio il massimo onore. Le lacrime sono dunque gli apici sensibili dell'animo religioso cristiano e in essi si riflette l'essenza del loro Dio. Ma un Dio che si compiace delle lacrime non è che l'essenza oggettiva del cuore sofferente - dell'animo. Certamente nella religione cristiana si dice: Cristo ha fatto tutto per noi, ci ha redenti, riconciliati con Dio; e si potrebbe perciò trame la conseguenza: rallegriamoci, perché preoccuparci di come dobbiamo riconciliarci con Dio? Noi lo siamo già.

Tuttavia l'imperfetto della sofferenza suscita un'impressione più forte, più duratura del perfetto della redenzione. La redenzione è solo il risultato della sofferenza; questa in verità è il fondamento, la fonte di quella. La sofferenza si fissa perciò più profondamente nell'animo; essa diventa oggetto di imitazione, la redenzione no. Se Dio stesso ha sofferto per me, come potrei io essere lieto, come potrei concedermi una gioia almeno su questa terra corrotta che è stata lo scenario delle sue sofferenze? Dovrei star meglio di Dio? Non dovrei pertanto appropriarmi delle sue sofferenze? Ciò che Dio, ciò che il mio Signore compie, non costituisce il mio modello? O dovrei io riportarne solo il guadagno, non anche i costi? So forse io unicamente che egli mi ha riconciliato, redento? Non mi è oggetto anche la sua passione? Dovrebbe essere per me solo un oggetto di fredda memoria o addirittura un oggetto di gioia, giacché questa sofferenza mi ha procurato la beatitudine? Ma chi potrebbe pensare così, chi potrebbe esimersi dalle sofferenze del suo Dio, se non il più abietto egoismo religioso?

La religione cristiana è la religione della sofferenza. Le immagini del crocifisso che incontriamo ancor oggi in tutte le chiese, ci presentano non un redentore, ma solo il crocifisso, il sofferente. Perfino le autocrocifissioni fra i cristiani sono conseguenze, psicologicamente ben fondate, della loro concezione religiosa. Come potrebbe non venire, a chi ha sempre in mente l'immagine di un crocifisso, la voglia di crocifiggere se stesso o altri? Almeno noi siamo autorizzati a questa conclusione con la stessa legittimità con cui Agostino e altri Padri della chiesa rimproveravano alla religione pagana di spingere i pagani alla lussuria con le sue immagini religiose oscene.

Tuttavia come la sofferenza contraddice all'animo obiettivo, al cuore dell'uomo naturale o autocosciente, giacché in lui è prevalente l'istinto alla spontaneità, alla manifestazione della propria forza: così al cuore, cioè all'animo soggettivo, rivolto solo all'interno, schivo del mondo, concentrato solo su di sé corrisponde in verità la sofferenza. Questa è negazione di sé, ma una negazione essa stessa soggettiva e benefica all'animo - anche se si prescinde del tutto dal fatto che la sofferenza cristiana, anche quella del martirio, sia identica alla speranza della beatitudine celeste -, l'intuizione di un Dio sofferente è perciò la massima autoaffermazione, la massima delizia del cuore sofferente.

Dio soffre, ma questo non significa altro se non che Dio è cuore. Il cuore è la fonte, l'insieme di tutte le sofferenze. Un ente senza sofferenze è un ente senza cuore. Nell'intelletto siamo spontanei; nel cuore soffriamo, cioè sentiamo. Il segreto del Dio sofferente è perciò il segreto della sensazione. Un Dio che soffre è un Dio che sente, che ha fine sensibilità. Ma ciò che per la religione è solo predicato, in verità è soggetto, è la cosa stessa, l'essenza. L'affermazione secondo cui Dio è un'essenza sensibile è solo la perifrasi religiosa dell'affermazione: la sensazione ha essenza assoluta, divina. La religione non è se non l'autocoscienza dell'uomo resa oggettiva - perciò altrettanto diversa, quanto è diversa l'autocoscienza dell'uomo, cioè l'oggetto di cui l'uomo è cosciente come sua suprema essenza.

L'uomo però ha in sé non solo la coscienza di una fonte di attività, ma anche di una fonte di passione. lo sento; e sento, come appartenente alla mia essenza, la sensazione, non solo il volere, non solo il pensiero, che appunto troppo spesso è in contrasto con me e le mie sensazioni. E benché tale sensazione sia percepita come fonte di tutte le sofferenze e dolori, mi appare al con tempo come una facoltà magnifica, divina. Che cosa sarebbe l'uomo senza sensazione? È la facoltà musicale nell'uomo. In verità che cosa sarebbe l'uomo senza il suono? Come l'uomo sente in sé un istinto musicale, una necessità interiore a sprigionare nel suono, nel canto le sue sensazioni, così necessariamente nei sospiri e nelle lacrime religiose si riversa, come essenza divina oggettiva, l'essenza della sensazione.