Uno stralcio da un romanzo dello scrittore veneto, ‘Interprete’. C'è qui un Cristo che esce dal mito per dare una interpretazione vivace del suo mito stesso, interpolato con quello della Madonna, il mito dell'amore. Nel Cristo di Saviane è lo scoccare della massima contraddizione, l'individuo che, raggiunto il suo acme, capisce che l'avventura ricomincia. In queste pagine l'io narrante passa da Cristo a Cortés: i due “ chiamati narrativamente” hanno un dialogo drammatico.

 

SAVIANE GIORGIO (1916)

 

‘Interprete’

Non era bontà la mia. La bontà è una sorta di lacrimevole intesa a livello istintivo e non ha niente a che vedere con il mio aprire sugli altri. il viaggio autoritario dell'io, non mi sarebbe bastata come Alessandro la conquista dei territori e delle nazioni: volevo entrare nei corpi, setacciarli. Cominciai da mia madre: non voglio, le dicevo, che ti allontani per un pensiero che è soltanto tuo, il pensiero geloso che vorrebbe che io fossi una cosa tua: tu mi hai dato la vita, io però vivo, ed è solo quando sono io che in fondo tu dai a un altro. Se sono solo tuo figlio il tuo amore è naturale senza innesti più vivi.

Anch'io ho lottato con i fantasmi sospettosi della mia infanzia: contro i fratelli che temevo amati più di me, contro i compagni di scuola che sentivo preferiti, contro i ricchi che avevano ciò che io desideravo, contro il competere in corsa che ad ogni istante insidiava il mio voler arrivare primo, contro i colori: tu hai affievolito queste mie irragionevoli ansie restituendomi quanto gli altri mi toglievano.

È così difficile l'amore, sembra un atto naturale e lo è, ma è immediatamente il suo opposto: frenati gli incubi dell'io che vuole possedere, la gioia pulsa, si libera dalla gola e pare attorcigliarsi nell'aria. L'aria è il tuo corpo quando sorridi, e quando mi manca, l'aria mi manca e tu; diventa un peso vivere quasi una colpa, serpi si levano. Ma io non ti voglio una cosa, tu che mi hai dato la figurazione di questo amore ingeloso che è l'amore.

Perciò ti ho rimproverata quando sei venuta a cercarmi nel tempio a Gerusalemme, eppure se non fossi venuta mi avresti deluso e io non sarei diventato il Cristo che infiamma gli uomini di ciò che tuttavia non capiscono. L'amore è complicato, tuttora genera sospetto: noi due, la tua esistenza di adesso, il tuo essere madre e compagna. Quando tu perdoni alla mia solitudine una violenza mi spinge verso il tuo grembo non più per cogliere gli istanti di carne ma per dimettere l'angoscia e la paura. Allora capisco perché sono saltato dal mare sui lidi accesi, le armi ci hanno dilaniato e non conta, la promessa del tuo amore il dono del tuo amore è amore, capace di estendersi al di là della nostra cellula per corrompere i giganteschi laboratori atomici: io e tu io e tu io e tu non è un dialogo esclusivo.

La felicità oblitera la follia che si alza dalle case percosse dalle trivelle, quando ti guardo: perché, mi dico, ho questo dono vistoso? cerco il significato ogni volta e ogni volta ne trovo un diverso e sei di nuovo tu, e al di là tu, e ancora tu, tu, tu, tu: fino a che capisco che tu non sei un fatto privato ma il dimettere della paura che. cerca protezione nell'altro: e tu sei comparsa, e tu ci sei, e tu e tu sei tutti, sei perfino gli odiati movitori delle macchine e il tuo corpo diventa il mondo.

Ora capisco le piccole vittorie della sopraffazione, le piccole sconfitte e le grandi, capisco le guerre, mi chiarisci attraverso il premio di te stessa che l'unione contamina fino a guarire il delirio concentrico dell'io: perciò resto, perciò le eliche degli ulivi non mi sottraggono al mostro di cemento: attendo te che ci sei e che tornerai, sei gli uomini alti e piccoli che incontro sui marciapiedi e alla guida delle automobili: tu, il significato più dolce e insieme più razionale.

Questo orribile fracassio comune, questa minaccia di ogni secondo, questo incedere dell'umano contro se stesso: ma tu e il premio dell'amore: tu limpida dai sospetti dai rancori dagli agguati: tu: l'io dialettica attraverso il quale anch'io divento tu. Tu e io fieri contro i tabù che non potevano nulla. La tua risata nasceva nella fronte, tentavi di trattenerla forzando sopra il naso acuto quattro segni duri, cortissimi, e già vibravi del tuo ventre trasparente, scoppiava il bianco dei denti. Ricordi quella sera, sull'autostrada, eravamo rimasti senza benzina, ci eravamo detti le uniche cose feroci della nostra vita, per la prima volta ti eri chiusa nel breve cerchio di pensiero che ti sformava la bocca: ma quando vennero i militi della stradale opponesti loro e a me il sorriso che ci rendeva felici.

Sperai incautamente: che cosa? che cosa potevo sperare dal tuo sorriso di carne se ormai ci dividevano i tabù di pezza, di latta, le leggi, i costumi, noi? Noi giustizieri di noi stessi. La nostra esistenza divenne subito piccola. La piega dei tuoi capelli conteneva il beneficio del caso che dava a me perché poi la perdessi la rappresentazione non frustata dell'esistenza. Perdemmo insieme il coraggio di esistere contro la morale, esausti dal sacrilegio come i profana tori di tombe, i ladri del fuoco. Gesù Cristo ha resistito. Perciò è sorta la leggenda che fossi dio, figlio di dio: mentre sono un uomo, figlio dell'uomo.

Nell'orto di Ghetsemane avvenne il capovolgimento dell'io. Improvvisamente - solo improvvisamente e casualmente accadono le cose - fui tutti: tutti nella realtà, nei passi degli ebrei e dei gentili in Gerusalemme, in quelli dei negri dell'Africa e in quelli dei greci e già dei romani nelle loro opulente città e dei primitivi dell'America e dell'Australia e dei buddisti e degli induisti e dei persiani di Zoroastro, fui tutti e il premio di questo dilagare superava il modesto dolore della morte, la minaccia della croce divenne la promessa della croce per un masochismo che conteneva la cupezza del sangue ma anche la gioia della liberazione.

Più il sangue chiedeva di vivere più sentivo la gioia di sfuggire alle spire concentriche dell'io per essere tutti: il mio egotismo sacro avvilito al punto di frantumarsi come la spina dorsale dell'antenato ritto sulle gambe: anche allora sentii il rompere della vita quale un salto nell'astratto, ma ora provavo la felicità della parola, e non solo della parola pronunciata ma dei fatti che avrebbero generato parole: udivo il discorso della montagna la donna adultera la parabola del samaritano narrati agli uomini poeticamente. Morivo per affermare, trascinato dalla legge cosmica nella quale ero affondato.

Le imbecilli trivelle urlanti mi hanno svalutato a dio quando sono un uomo carico di paura, e nel fuggire dalla paura, dai vecchi che mi vietavano le femmine, dalla fame, dal franare delle montagne, dall'acqua, dall'urlo degli inseguitori, dai cani poliziotto, dal lacerare degli aerei mitragliatori, dalla fornace di Hiroscima non trovo ricovero, e allora ho pensato di darlo.

Ho cacciato dal tempio i mercanti e così avrei sbarrato il cammino a Cortés e ai crociati che in mio nome commettevano genocidi. Fernando Cortés credeva in me - non era malafede la sua - come il banchiere crede nel denaro. Gli ero stato inculcato come la “ verità ” opposta agli altri “ riti sacrileghi ”. L'imperatore azteco del resto parlò al popolo all'arrivo di Cortés nella capitale come dell'avverarsi di una profezia mitica.

Ciò fini di convincerlo di essere l'inviato di Cristo. Neanche lo sfiorò il sospetto di un casuale incrocio di credenze; e fu la fede a dargli il coraggio di sottomettere un impero con soli cinquecento uomini. Di notte ci recammo al palazzo dell'imperatore. Non oppose quasi resistenza. Nei giorni seguenti i fieri guerrieri aztechi portarono la croce in processione per ordine di Montezuma. Ci dette l'oro per riavere la libertà: noi prendemmo l'oro e continuammo a tenerlo prigioniero, non sentivamo il comandamento della lealtà nei confronti di chi sacrificava agli dei i prigionieri di guerra: ripugnava alla nostra moralità (noi li ammazzavamo semplicemente), era invece altamente morale per loro: ciò deduco adesso, richiamato a vivere per un'ipotesi di lavoro, ma allora avevo visto con orrore il pugnale di pietra del sacerdote azteco spaccare il torace al prigioniero per cavarne nelle dita il cuore vivo. Cristo vendicava quelle vittime. Imposi la sospensione dei sacrifici umani e l'abbattimento degli idoli nei templi di cui feci lavare e imbiancare le pareti per porvi i nostri santi.

Gli indigeni non tollerarono la sopraffazione e al mio ritorno da Vera Cruz dovetti affrontare la rivolta: Montezuma fu ucciso dai suoi stessi sudditi e noi cacciati in una notte di sangue. Avevo perso metà dei miei uomini. Ma aiutato dal terrore che incutevano cannoni e cavalli mi impadronii dei villaggi intorno alla capitale. Per assediarla tagliai l'acquedotto. Quando si arresero, comandai il massacro di tutti i sacrileghi abitanti che avevano osato togliere Cristo e i santi dal tempio. Le strade, il lago intorno alla città erano colmi di cadaveri. Sul carnaio pittoresco innalzammo Cristo vittorioso...

Sconfitto, direi.

- Perché?

- Il mio messaggio è l'opposto di ciò che significava la croce su quei morti.

- Perché allora non siete intervenuto?

- Perché ero morto.

- Se eravate dio!

- No.

- Tutti vi adorano come dio.

- Anche tu: e hai ucciso un intero popolo in mio nome.

- Ero in buona fede.

- Questo mi offende, scarica su di me le vostre imposture.

- Se aveste parlato dalla croce rizzata nella distruzione, o prima quando fondai Vera Cruz e piantai il Cristo nella terra conquistata.

- Io non ho ucciso. Sono stato ucciso.

-Ma allora tu Cristo, conti quando parli o quando muori?

- Contano gli aztechi che hai ammazzato, gli schiavi che hai venduto.

- Perdonatemi.

- Lascia questo linguaggio arcaico. Perdonare è del Cristo, non dell'ipotesi di un Cristo vivente: egli impugna la frusta.