Socrate ai giudici che, corrotti, l'hanno condannato a morte: Io vado a morire, voi a vivere. Ma quale sia la strada migliore è ignoto a tutti fuorché a Dio.

 

SOFRI ADRIANO

 

Quei processi a Socrate e Gesù che sono le radici dell’Europa

da “La Repubblica” 1 luglio 2003

Parlerò di Socrate, ma passando per Enzo Tortora. Com'era diverso da me, quando eravamo liberi, Tortora. Liberale, non privo ai miei occhi, al tempo della sua auge televisiva, di un manierato sussiego, nel 1988 era morto da due mesi quando i capricci della geografia carceraria mi portarono nella cella che era stata sua a Bergamo. Leggo certe frasi di Tortora nel corso del suo calvario. Ai suoi giudici di appello disse: “Io sono innocente, spero con tutto il cuore che lo siate anche voi”. La ritrovo fra le lettere a sua figlia Silvia, appena pubblicate da Marsilio: “Lettere per non dimenticare", dice il sottotitolo. Figurarsi. Come fa il paese a ricordarsi una storia simile. Bisogna, guarire, grattarsi la vergogna, andare avanti. Tortora riprese Portobello con quel: “Dove eravamo rimasti?”. Furono gli altri a ricominciare dopo di lui, come se niente fosse. E come fa un paese a ricordarsi del processo di plagio ad Aldo Braibanti? Un cittadino così: primo fra i coetanei negli studi filosofici, impegnato nella Resistenza, torturato dalla banda Carità, una breve milizia di partito abbandonata per fare di meglio, una competenza di mirmecologo, un talento di poeta e artista, una precoce e lungimirante riflessione ecologista. Un “dilettante leonardesco”. Cancellato. Lui e i suoi anni di galera.

Mi è arrivato un volume di conversazioni con Braibanti di Stefano Raffo, editrice piacentina, "Vicolo del Pavone", prefazione di Piergiorgio Bellocchio, uno dalla parte del torto. Braibanti ha 81 anni e pensa cose discutibili, caso mai qualcuno si prendesse la briga di discuterle.

Un robusto impulso a dimenticare viene dalla nozione degli errori giudiziari. E’ un'assoluzione a priori: errare è umano, chi non sbaglia qualche volta? Chiamarli errori per di più, li esorcizza come casi eccentrici: chissà perché. Commettiamo errori su errori - camminare, diceva un riflessivo tedesco, è un cadere da una gamba all'altra- e però facciamo finta che gli errori siano un raro accidente della vicenda umana, e specialmente della giustizia. Strano.

Io ci ho pensato, e non riesco a rinunciare a essere europeo, fosse pure l'ultimo degli europei. Perciò mi sono messo a stilare la mia personale Costituzione europea. Se altri vorranno aderire, bisognerà che accettino il voto all'unanimità. Diffido infatti dell'unanimità, ma ancora di più delle maggioranze. Del resto conto che nessuno voglia aderire. La minoranza di uno è il mio posto nella democrazia. Ho scritto il preambolo, sulle radici della cittadinanza europea. Ho dovuto tagliare corto, Le Costituzioni devono poter stare in un taschino interno. Alle radici della mia Europa stanno quelli che chiamereste un paio di errori giudiziari, due processi finiti con le condanne a morte, quello di Atene nel 399 a.C. contro Socrate, e quello a Gesù. Come vedete, la menzione del cristianesimo è presto risolta nel mio testo. Su Socrate e Gesù, sulla loro parentela intendo, sono stati scritti centomila libri, e io non li ho letti, e se ne ho letto qualcuno l'ho dimenticato. Mi limiterò a segnalare le affinità più evidenti, e poi parlerò di Socrate, Né Socrate, né Gesù hanno mai scritto niente, Gesù faceva scarabocchi per terra, quando voleva distrarre i lapidatori. L'uno lasciò in eredità a Platone, da ultimo dei sapienti, la filosofia, che, come spiegava Giorgio Colli, essendo l'amore per la sapienza, non può che cominciare dove la sapienza finisce. L'altro lasciò in eredità agli evangelisti, e specialmente a San Paolo, il cristianesimo.

La vita filosofica di Socrate e la vita cristiana di Gesù, sono l'origine dell'Europa: cioè, la morte filosofica di Socrate e la morte cristiana di Gesù. Tenevano alla virtù, ma avevano opinioni differenti circa la morale. Socrate pensava che il male coincidesse con l'ignoranza, e che la conoscenza del bene coducesse naturalmente alla scelta del bene. Gesù pensava che il male esistesse, e che succeda che si sappia che cosa è bene. e si preferisca scegliere il male. È singolare che, nonostante queste premesse, Socrate fosse più severo e burbero, e Gesù più buono e tenero. Un'altra differenza importante è che Socrate era brutto e, quando bevve la cicuta, vecchio, aveva settant'anni. In fondo, nei loro processi si annidava un'accusa di plagio. Socrate corrompeva i giovani e mancava di rispetto agli dèi della città; qualcosa del genere anche Gesù. Alla condanna misero mano ingenti maggioranze. La giuria popolare che condannò a morte Socrate – uomo átopos – fuori luogo: uno “spostato”, aveva cinquecento cittadini e sapete della folla che scelse di liberare Barabba. Però la morte di Socrate ebbe una serenità filosofica, appunto, già quasi stoica, senza l’ignominia e la Passione e le donne pietose.

a circostanza è questa: che un programma televisivo dal titolo augurale, “Cominciamo bene”, mi invita a conversare sul tema “Fuggire o restare?”, sembrando evidentemente agli autori che io sia restato. Allora mi sono ricordato di Socrate, e siccome il mio spazio è soffocante, ma fortunato, avevo a portato di mano l’Apologia e il Critone, perché la curatrice, Michela Sassi, è mia amica e me l’aveva mandato, e l’avevo messo via, fra la Bibbia di Gerusalemme e il Mereghetti del film.

Così posso dire ai gentili conduttori televisivi che cosa avrebbe risposto Socrate. Quando Critone, alla vigilia dell'esecuzione, lo scongiura di squagliarsela, Socrate fa parlare le Leggi stesse di Atene, che gli dicono: “Pensi che possa sopravvivere, e non essere sovvertita, una città in cui le sentenze pronunciate non hanno efficacia, e possono essere invalidate e annullate da privati cittadini?... E se te ne andassi altrove, non troverai nessuno a rinfacciarti che vecchio come sei, verosimilmente con poco tempo ancora da vivere, hai spinto il tuo tenace attaccamento alla vita al punto di trasgredire le leggi più importanti?... E’ vero che…patisci un'ingiustizia, ma non da parte di noi leggi bensì degli uomini. Se invece evadi così ignominiosamente, ricambiando offesa con offesa e male con male, trasgredendo i patti e gli accordi stretti con noi e facendo del male a chi meno dovresti (a te stesso, agli amici, alIa patria, a noi), non solo ti attirerai finché vivi la nostra ostilità, ma anche le nostre sorelle laggiù, le leggi dell'Ade, non ti accoglieranno con benevolenza...”. Io leggo con vera consolazione questi pensieri e così il racconto del processo di Gerusalemme di quattro secoli dopo, perché d'improvviso i due cavalli da tortura che oggi squartano chi si guardi dalla derisione delle leggi e dal partito preso dei giudici, si inchinano alla riconoscenza alle leggi e alla libertà della coscienza. Ha un prezzo alto, la vita: mentre l’inconciliazione di oggi va a prezzi di liquidazione.

 

Non è una consolazione, ma una rivelazione decisiva, che la salvezza delle leggi e della libertà si affidi, alle sorgenti della cittadinanza europea, alla coscienza di due condannati a morte. Forse è ora più chiaro perché rilutto all’espressione di errori giudiziari. Non voglio che il Preambolo alla mia Costituzione europea - che prendo terribilmente sul serio - sembri indulgere alla provocazione o al paradosso: “L'anima buona dell'Europa è figlia di un paio di errori giudiziari”. Aggiungo che non mi preoccupo affatto di paragonare cose piccole e anche infime alle grandi e supreme, anzi: in questo caso occorre fare il contrario, e guardare attraverso la filigrana di quei processi capitali la grigia cenere di processi infimi che ogni giorno si celebrano verbo anche lui solenne come una messa lefebvriana.

L'Europa di cui sono solitariamente europeo - e in questo caso prima Italiano e prima toscano di Beccaria – ha ripudiato la pena di morte, e manderebbe oggi Socrate e Gesù a qualche ergastolo: idea che rischia di suonare come una bestemmia peggiore.

Gesù doveva morire, così almeno sono tenuti a credere coloro i quali credono nella sua divinità, Socrate dice senz’altro di preferire la morte alla prigione, e non sta affatto giocando con le parole come fra poco si vedrà. L'unica maledetta tentazione che anche chi aborre la pena di morte come il peggiore degli omicidi può provare, viene dall'idea che giudici consapevoli di decidere della vita o della morte debbano tremare mille volte di più. Illusione: dove la pena di morte è la norma, la si passa come una ricetta di mutuati. Quando un soprassalto invade la coscienza, come nel caso di quel governatore americano alla vigilia della pensione, il clamore è enorme proprio perché rompe un'abitudine distratta.

Così a volte il mio demone mi ha insinuato un'invidia per gli accusati sui quali incombesse la pena capitale, e subito ne ho riso, perché sarebbe costata la stessa sbrigativa disinvoltura di cui ho fatto tanta esperienza. Resta la domanda su che cosa avrei fatto – nella mia condizione è naturale, tanto più se si sta leggendo l'Apologia di Socrate - di fronte all'incombenza della condanna a morte: ma non occorre che vi dica la mia risposta.

Voi non ci crederete, ma Socrate aveva a che fare con l'accusa di mostrarsi "arrogante" e, di più, "antipatico”. Sapeva di non sapere. Andava in giro a esaminare quelli che passavano per sapienti: i politici prima, poi i letterati, i professionisti e i tecnici, e scopriva che non lo erano affatto, e solo volevano sembrarlo, agli altri e a sé. Era disinteressato, si teneva alla larga dalla carriera politica. Aveva una missione speciale: di stare addosso alla città come un tafano addosso a un cavallo di razza un po' pigro e inerte. Non esitava ad avvertire: “Un altro come me non vi capiterà facilmente, cittadini”. Sentiva in sé “qualcosa di divino e di demonico”, “una specie di voce” che non lo incitava mal a fare qualcosa, ma piuttosto a distoglierlo da qualcosa. (Morale decisiva oggi, in tempi di ritirata dalle sorti progressive). Non era, sembra, per l’una o l'altra formula di governo. Gli importava che i governanti, per essere morali, fossero competenti. Diffidava della folla, e glielo diceva: “E non vi irritate, ateniesi, se dico la verità: non c'è uomo che possa salvarsi qualora sì opponga francamente a voi o a qualsiasi altra massa popolare”. Non voleva essere maestro di nessuno, ma conversare e interrogare e rispondere a chiunque, ricco o) povero. Dopo la sua autodifesa, i giurati favorevoli alla condanna crebbero di numero.