La Parabola dei Talenti (Mt 25,13-30)

 

La parabola è inserita redazionalmente nel più ampio discorso escatologico narrato da Matteo, ai capitoli 24 e 25.

Tre parabole narrano simbolicamente il tempo dell’avvento del Regno e sono la Parabola delle Dieci vergini (Mt 25,1-13) in cui l’evangelista fa appello alla vigilanza per il Regno ed alla sua imprevedibilità; la Parabola dei Talenti (Mt 25,14-30) che si riferisce alla crescita del Regno e all’assunzione delle responsabilità per esso; la Parabola del Giudizio finale (Mt 25,31-46) che presenta i requisiti per entrare nel Regno, misurati sull’accoglienza dei “piccoli” del Regno.

 

La Parabola dei Talenti presenta innanzitutto alcune sospensioni narrative che provocano l’effetto suspance nel lettore: Perché il padrone si allontana per molto tempo? Perché distribuisce il suo denaro? Come finirà il racconto?

Il padrone chiama il suoi douloi, ovvero i suoi servi personali e ad essi consegna i suoi possedimenti, distribuendoli kata ten idian dynami, ovvero secondo la “potenza personale” di ciascuno di essi. I servi non ricevono pertanto la equa distribuzione del capitale ma ciascuno ne riceve secondo quanto ha la capacità di gestire.

La distribuzione avviene in talenti, dove il talanton non era la coniatura reale di una moneta ma una enorme cifra indicativa, pari circa a 34 Kg di oro. Il padrone distribuisce pertanto un valore altissimo a ciascun servo, che richiedeva, data la sua entità, di essere investito per portare interesse.

 

Il ritorno del padrone e l’invito al rendiconto riferito ai servi, segue per i primi due uno schema parallelo in cui in seguito all’interesse maturato, il padrone premia il “servo buono e fedele” con la ricompensa della gioia di condividere i suoi stessi beni.  

Differente è il caso del terzo servo il quale si è fatto un’idea sbagliata del padrone. La parabola infatti non lo ha presentato come un duro spietato ma questo servo trova facile scusa nella presunta spietatezza del padrone per giustificare la sua inettitudine all’investimento del talento ricevuto.

Matteo scrive per i cristiani provenienti dal Giudaismo ed intende qui attaccare il limite dell’osservanza legalistica dei farisei, i quali in nome della legge spengono le capacità umane. In Mt 5,20-48 Gesù invitava i suoi discepoli ad essere superiori al formalismo farisaico nell’osservanza della legge e a vivere una giustizia superiore ad essi, in ordine alla generosità nell’accogliere i valori della Legge di Dio, mostrando un’eccedenza di osservanza che qualifica il cristiano.

Il terzo servo si è lasciato prendere dalla paura che uccide la libertà e spegne il coraggio che apre al fascino della sfida del rischio. Il mancato investimento del suo talento ha bloccato la sua crescita di fiducia agli occhi del padrone.

 

La risposta data dal padrone è squisitamente ironica e con l’espressione “tu sapevi che…” si attiene all’immagine sbagliata che il servo si è fatto di lui. In questo modo lo accusa di incoerenza: se infatti il servo temeva il padrone duro, avrebbe dovuto, a maggior ragione, trovare un modo per investire il suo capitale.

La sentenza del padrone è immediata e non si appoggia alla mancata rendita sul talento affidato ma sulla  inutilità e la paura che hanno paralizzato il servo. È pertanto la stessa idea sbagliata che questi si è fatto del suo padrone ad essersi rivoltata contro di lui, causandogli la condanna.

 

I talenti del padrone sono i beni del Regno, affidati da Dio a ciascun cristiano, secondo le proprie capacità e questi ha la responsabilità di investirli allo scopo di far crescere la comunità stessa a cui appartiene, quindi la Chiesa di Dio. Ogni cristiano riceve la capacità di amare, commisurata alle proprie forze e quando questa non viene utilizzata è la comunità stessa a subirne la penalizzazione.   

Nella parabola non c'è differenza tra coloro che ricevono di più e coloro che ricevono di meno e ciò che essa intende insegnare non consiste nell’efficientismo produttivo ma nel modo in cui vivere la relazione con Dio. Mentre i primi due servi infatti investono per il padrone e pur avendo ottenuto diversità di ricchezza, ottengono tuttavia la stessa ricompensa del “potere su molto”, il terzo si comporta in conformità alle norme dell'antica legge: agisce in modo corretto, mantenendosi nelle esigenze stabilite e non perdendo nulla ma in questo modo senza guadagno per la crescita del Regno di Dio, nella cui logica chi non investe perde.

La condanna della paura di rischiare, come attaccamento alle sicurezze umane è sancita da Gesù, ancora nel Vangelo di Matteo: “Chi avrà tenuto per sé la propria vita la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 10,39).

 

di Ferrario Fabio