L’amministratore astuto (Lc 16,1-8)

 

La parabola è narrata da Luca, l’evangelista che presenta Gesù attento agli ultimi, agli emarginati ed ai peccatori. La narrazione è suddivisibile in quattro scene a cui seguono due applicazioni.

 

La prima scena (vv.1-4) presenta il fatto della parabola, il licenziamento dell’amministratore e la soluzione che subito egli riesce ad escogitare.

Il racconto si apre con “c’era un uomo…”, non come nelle fiabe con il classico “c’era una volta…”, questo ad indicare, come nelle altre parabole lucane, l’uomo di tutti i tempi, il ricco e lo sventurato di ieri e di oggi, l’onesto cittadino ed il povero peccatore di sempre che cerca di sopravvivere alla sciagura. Qui si tratta di un manager dei tempi che licenzia il suo oikonomos, il grado più alto di servitù, l’amministratore delegato, a causa di cattiva amministrazione del patrimonio.

È interessante notare che il verbo greco tradotto con “sperperare” è diaskorpizo, lo stesso utilizzato da Luca per descrivere l’attività dispersiva del figlio minore, nella parabola del Padre Misericordioso (Lc 15,13). Il lettore non conosce il motivo del fallimento, non sa se è dovuto a disonestà o a incompetenza, tuttavia, forse inquinato dalla cronaca recente, il lettore contemporaneo deduce con troppa facilità che si tratti di corruzione.

La sentenza del principale è lapidaria e tuttavia magnanima: castiga l’amministratore per la colpa ma non gli infligge la pena, ovvero lo licenzia ma non chiede il risarcimento dei danni.

La scena si chiude brillantemente con la suspence narrativa di un uomo, ormai con le spalle al muro, che analizza le soluzioni possibili di lavoro onesto o di elemosina ma poi scartandole in favore di un piano alternativo.

 

La seconda scena (vv.5-7) raccoglie la suspence lasciata aperta dalla scena precedente e la esplicita nella attuazione del piano risolutore.

Qui appare chiaro il motivo del licenziamento a causa di incompetenza. Infatti, la domanda che l’amministratore rivolge ai debitori del suo principale, in merito all’entità del debito stesso, denota la mancanza di registrazione, lasciando intuire l’assenza di professionalità quale causa della dispersione del capitale.

L’amministratore attiva solo ora, ma a suo favore, la meticolosa registrazione, applicando ai debitori di olio e grano, sconti dal 20% al 50%. In questo modo egli diviene astutamente l’amministratore del proprio futuro, acquistando protezione dai debitori parzialmente condonati. Solo ora il lettore riscuote ragione al proprio pregiudizio iniziale.

 

La terza scena (v.8a) è la conclusione sbalorditiva dell’accaduto. Il lettore si aspetterebbe l’applicazione della giustizia da parte del principale, ricorrendo alla denuncia per furto, unendo le perdite precedenti a quelle recenti causate dall’amministratore. La sua reazione è tuttavia differente, non solo perdona l’inganno ma addirittura loda il suo ex oikonomos non certo a causa dell’ingiusta azione di inganno ma per l’astuzia di sapersela cavare nelle vicende avverse. Non la frode è meritevole di lode, bensì la scaltrezza e ora la professionalità di registrazione che prima non aveva dimostrato.

 

Al termine del racconto Gesù propone una prima applicazione della parabola (v.8b), muovendo dalla considerazione che la scaltrezza dei “figli di questo mondo” è superiore rispetto a quella dei “figli della luce”.

Nel linguaggio semitico il termine “figlio di…” indica l’appartenenza alla stessa sostanza, pertanto i figli del mondo sono fatti di mondanità, mente i figli della luce sono fatti di luminosità. La mondanità tuttavia è maestra della luminosità in quanto è più perspicace nella scaltrezza e qui sta l’insegnamento di Gesù. Egli sottintende un’analogia di contrasto, esortando i suoi discepoli ad essere scaltri nel fare il bene, come lo sono i mondani nella frode e nell’inganno. Gesù non intende certo lodare la frode ma la scaltrezza con cui questa viene compiuta, indicandola ai figli della luce come modello di intraprendenza nel fare il bene e nella buona amministrazione della fede.

 

La seconda applicazione (v.9) è l’invito al buon uso dei beni, considerando che anche la ricchezza può condurre alla salvezza. Gesù non condanna il ricco e neppure la ricchezza, ne condanna tuttavia l’abuso e l’uso esclusivamente egoistico. Egli esorta a cercare amici con la disonesta ricchezza, dove gli amici nella concezione lucana sono i poveri, i quali potranno favorire la salvezza nelle “dimore eterne” a coloro che li hanno aiutati.

I beni dei figli del mondo, i beni mondani, non sono biasimati da Gesù ma sono un’opportunità offerta ai figli della luce quale finanziamento per le opere di bene, per l’onesta amministrazione ed economia della salvezza.

 

di Ferrario Fabio